PRASSI TERAPEUTICA DIALETTICA


Introduzione alla lettura (2003)


Questa è la prima stesura de La prassi terapeutica dialettica, la cui versione definitiva è pubblicata in Opere. Non si tratta di un saggio compiuto: i vari capitoli sono stati scritti in ordine sparso e "assemblati". Il confronto tra le due versioni dà la misura di come la ricerca è evoluta nel corso degli anni. L'intuizione di fondo, maturata al seguito del lavoro svolto in precedenza sulla natura umana, la teoria della personalità, la genesi dei conflitti psicodinamici, le strutture psicopatologiche, per cui i sintomi psichiatrici sono espressivi di una dissociazione e di una "alienazione" dei bisogni fondamentali dovuta all'interazione con l'ambiente, serba a distanza di tempo intatto il suo valore.

Due citazioni, che ancora oggi in gran parte sottoscriverei, attestano tale intuizione:

"L'inconscio, dunque, è il depositario della memoria e dei bisogni fondamentali, sia pure alienati, mentre la coscienza appare strutturata da codici normativi che la rendono astratta e, in una certa misura, chiusa al patrimonio microstorico che la sottende."

"E' attaccando la coscienza nelle sue valenze ideologiche, che comportano, contemporaneamente, una perdita di potere sul mondo esterno e su quello interno, che l'intervento dialettico genera una crisi che la orienta verso la ristoricizzazione e il recupero dei bisogni fondamentali. La crisi è dovuta al fatto che il soggetto giunge a percepire questi bisogni, che affiorano attraverso i sintomi, ma nella configurazione distorta che essi hanno assunto per effetto della rimozione o della repressione. L'ulteriore momento consiste dunque nella disalienazione dei bisogni: nel recuperarli, cioè, nel loro autentico significato evolutivo, superando l'attribuzione ad essi di caratteri repressivi, anarchici e distruttivi. E' a partire da questo recupero che il soggetto può avviare una pratica di vita orientata a soddisfarli, e cioè ad acquisire un potere di relazione col mondo sempre maggiore."

Le due citazioni attestano che, fin dall'epoca, era chiaro: primo, che la "malattia", pur fondandosi su una struttura dell'inconscio dissociata e conflittuale, comporta una prevalente componente cosciente. E' la coscienza, infatti, che non riesce ad interpretare in modo giusto i messaggi significativi dell'inconscio, che attestano la necessità di una maggiore integrazione tra i bisogni fondamentali. Certo, l'errore della coscienza dipende dal fatto che tali messaggi muovono da bisogni che, per effetto della repressione, si sono alienati nel corso del tempo. Ciò non toglie che, al di là dell'alienazione, essi mantengono una loro qualità autentica, tale che solo una loro integrazione a livello di coscienza e di comportamento può permettere di superare la "malattia".

Quest'impostazione teorica, che ha ricevuto la sua sistemazione definitiva nella versione ultima de La prassi terapeutica dialettica, è incorsa, da parte di alcuni colleghi nella critica secondo la quale il modello terapeutico proposto sarebbe sostanzialmente di tipo cognitivista. La lettura dei testi rivela che tale critica non è fondata. In quanto programmati, i bisogni intrinseci - d'appartenenza/integrazione sociale e d'opposizione/individuazione - sono ricchi di valenze emozionali. Le loro vicissitudini, influenzate dall'ambiente, sono esse stesse, particolarmente nei casi in cui si genera un conflitto, espressive di forti emozioni. Il recupero del loro significato autentico, evolutivo, non può avvenire sulla base della razionalità. Esso necessariamente comporta, da parte della coscienza, un'esperienza intensa di tipo emozionale. E' solo giungendo a capire e a sentire come e perché la sua vocazione ad essere, rappresentata dai bisogni, è finita nel vicolo cieco della "malattia" che il soggetto può mobilitarsi verso l'integrazione dei bisogni stessi, in ciò che essi hanno di autentico, nell'organizzazione della sua vita soggettiva e di relazione.

La teoria dei bisogni, messa a fuoco nel corso degli anni precedenti, rappresenta dunque il fondamento essenziale e specifico del modello psicopatologico struttural-dialettico e della pratica terapeutica che da esso discende.

Tutte le imprecisioni presenti nel saggio sono espressione del fatto che all'epoca quella teoria era ormai definita, ma non erano chiare tutte le implicazioni che essa comportava. Un modello scientifico non nasce già fatto. Esso si fonda su intuizioni che solo lentamente rivelano la loro portata.


Indice

Introduzione: Dalla nuova scienza del disagio psichico alla prassi terapeutica dialettica

Coscienza della propria condizione e avvio dell'esperienza dialettica

L'intervento terapeutico nella 'crisi' 1

L'intervento terapeutico nella 'crisi' 2

Coscienza e inconscio nella prassi terapeutica dialettica

Teoria della personalità e prassi terapeutica dialettica

Metodologia dell’intervento terapeutico dialettico.

Psicofarmaci e prassi terapeutica dialettica

Prassi terapeutica dialettica e terapia transazionale 1

Prassi terapeutica dialettica e terapia transazionale 2

Prassi terapeutica dialettica e psicoanalisi

La gaia apocalisse

Della vergogna sociale

Livelli di esperienza nel sistema familiare


Introduzione

Dalla nuova scienza del disagio psichico alla prassi dialettica

"Se le circostanze sono disumane, occorre cambiare le circostanze". La fase antistituzionale della psichiatria alternativa ha assunto questa citazione di Marx come un vangelo. In riferimento al fronte manicomiale sul quale si è avviata la lotta, il carattere disumano delle circostanze ha avuto (e continua ad avere) un'evidenza tale da rendere inconfutabile la necessità di cambiamenti oggettivi. Nel corso della lotta antistituzionale ci si è confrontati, però, con resistenze da parte degli internati almeno in parte inaspettate. Sarebbe stato opportuno analizzare il problema posto da queste resistenze, e prendere atto che le coscienze tendono ad adattarsi alle circostanze in cui vivono, siano pure esse disumane. Tatticamente, ciò non è stato possibile, poiché quelle resistenze avrebbero potuto facilmente essere strumentalizzate da psichiatri tradizionalisti, partiti politici e fasce di opinione pubblica come espressioni del bisogno di una riforma manicomiale secondo il modello del 'buon' manicomio. Il gap è stato colmato con atteggiamenti volontaristici addirittura esasperati e con un abile mascheramento di ciò che non andava. Il confronto con lo 'specifico' psichiatrico è stato rimandato al fronte territoriale: in uno spazio sociale meno strutturato rispetto a quello manicomiale e, di conseguenza, più dinamico e aperto.

Su questo fronte, però, le difficoltà sono addirittura aumentate. Il riferimento alle circostanze oggettivamente disumane ha, infatti, orientato la psichiatria alternativa a farsi carico, volente o nolente, delle situazioni di disagio immediatamente riferibili a condizioni di miseria sociale. Il fantasma della psichiatria povera per i poveri, debellato a livello di lotta all'istituzione, ha preso corpo sul territorio. Esemplare, a questo riguardo, è il quaderno di documentazione del C.N.R. del P.M.M. dedicato all'analisi di un servizio 'forte' di salute mentale e Trieste.

Dalle statistiche riportate si ricava che, su un bacino d'utenza di circa 50.000 abitanti, il servizio, in un anno (1977), ha assistito circa 400 disagiati: di questi, solo il 6% ha tra i 18 e i 25 anni contro il 35% dai 26 ai 45 anni, il 37% dai 46 ai 65 e il 22% oltre i 66 anni! Gli autori commentano en passant: "per i giovani e i giovanissimi il circuito assistenziale del controllo utilizza poli che relegano la psichiatria pubblica a ruoli secondari".

Quanto allo status socioeconomico, il 56% dell'utenza è rappresentato da disoccupati, pensionati, casalinghe, studenti e precari.

Da un punto di vista diagnostico, i casi "non diagnosticati"(22%), presumibilmente perché non di competenza psichiatrica, gli alcolisti (18,5%) e un non meglio specificato 'altro' (8%) rappresentano nel complesso quasi la metà dell'utenza.

Il 34% degli assistiti, infine, hanno ricevuto un sussidio mensile di lire 270.000 per una spesa totale (nel 1982) di circa un miliardo.

I commenti sono quasi superflui: il servizio 'forte' di Trieste funziona nell'impedire che la miseria sociale sia psichiatrizzata, ma non sembra avere alcuna presa sul corpo dell'iceberg del disagio psichico, specie per quanto riguarda il suo manifestarsi giovanile.

Il riferimento alle condizioni oggettive di vita ha prodotto, però, un effetto ancor più negativo. In difetto di una teoria della soggettività che andasse al di là dello schema del 'rispecchiamento' della realtà, la messa tra parentesi dello specifico psichiatrico, fuori dalle mura del manicomio, che la giustificava, è stata istituzionalizzata con una sorta di escamotage ideologico.

L'esistenza nell'organizzazione sociale di meccanismi di repressione, d'emarginazione e d'esclusione del diverso è stata assunta, infatti, come alibi per mantenere quella messa tra parentesi, stante il rischio di cadere nella trappola dello psicologismo. Di fatto, ciò ha significato arrendersi ad un progetto minimale inteso a dimostrare che il disagio psichico, come modo d'essere diverso rispetto alla norma, non è, in sé e per sé, incompatibile con la vita sociale. "Vivere con la malattia" è la formula che sintetizza tale progetto. Rispetto all'esclusione manicomiale, si tratta indubbiamente di una rivoluzione, la cui logica astratta, però, sta nel confondere i bisogni degli ex internati con quelli dei disagiati territoriali: per i primi, disporre di nuovo della libertà di vivere nella società ed essere certi di non subire più una segregazione è un momento terapeutico fondamentale; per i secondi, l'importante è la qualità della vita, e cioè non il sentirsi al riparo da una minaccia di segregazione, bensì la libertà dal disagio stesso. Vivere con la malattia per costoro è un non senso, poiché essi già convivono con essa.

I motivi per cui la psichiatria alternativa si è, di fatto, insabbiata a livello territoriale sono molteplici. Il più grave, senza dubbio, è l'essersi ostinati nel mantenere la messa tra parentesi dello 'specifico' psichiatrico. Non è un caso che tutta la nostra ricerca si sia orientata a rimuovere questa parentesi, e a dimostrare che con lo 'specifico' ci si può confrontare sfuggendo ad ogni ricatto di tipo riduzionistico. Finora, però, il confronto ha riguardato solo la genesi, la dinamica e la struttura del disagio. E' il momento di affrontare il problema cruciale: se e come sia possibile, per una nuova scienza del disagio psichico, operare in concreto sfuggendo al riduzionismo delle tecniche.

Introduciamo subito, dunque il concetto di prassi terapeutica dialettica, che ci seguirà sino alla fine. La locuzione fa riferimento ad un agire (in senso lato) che s'inserisce in un processo storico – l'esperienza dei pazienti intrecciata con quella del gruppo di appartenenza e inserita in un determinato contesto socio-culturale - utilizzando un metodo dialettico, per produrre, come effetto terapeutico, l'aumento del potere reale dei soggetti sul mondo interno ed esterno. Per metodo dialettico non s'intende un metodo solamente discorsivo – il discorso essendo uno degli strumenti del metodo -, bensì un modo di confrontarsi con la realtà che muove dal presupposto che lo stato di cose esistente – in particolare, l'esperienza psicopatogica - contiene in sé le ragioni di un suo possibile cambiamento.

Definire l'obiettivo terapeutico nei termini di un aumento del potere reale dei soggetti sul mondo interno ed esterno significa colmare, senza azzerarlo arbitrariamente, lo scarto tra lo specifico e l'assistenziale. Poniamo ai due poli due figure ipotetiche: il giovane psicotico di famiglia agiata che vive murato nella stanza della villa familiare, e l'anziano pensionato solo che medita quotidianamente il suicidio. Nel primo caso, occorre far sì che il soggetto si riappropri della genesi, della struttura e della dinamica del suo mondo interno perché egli possa aprirsi al mondo esterno e muoversi in esso; nel secondo caso, occorre intervenire sul piano assistenziale per migliorare le condizioni reali di vita per indurre un allentamento della depressione. Tra questi due estremi l'impotenza, per cui un soggetto sperimenta un disagio psichico, riconosce una gamma pressoché indefinita di situazioni, nelle quali le variabili (strutture del mondo interno, condizioni reali di vita) si sommano con cifre le più varie e personali.

In ogni caso, per realizzare l'obiettivo terapeutico, occorre agire. Ma la prassi non s'identifica né con una tecnica standardizzata né con il rifiuto di ogni tecnica. Analizzeremo con cura, successivamente, le differenze fra la prassi terapeutica dialettica e qualsivoglia tecnica. Ora, è più urgente dimostrare che il rifiuto delle tecniche in sé e per sé non accredita nessuna pratica di essere dialettica.

Faremo riferimento al quaderno del CNR già citato, dato che esso testimonia di ciò che avviene in un 'santuario' alternativo. Il clima, e il funzionamento, del servizio sono ricavabili da poche citazioni: "Non esiste un sistema rigido di appuntamenti: dalle 8 alle 20, chiunque voglia, accede al centro e pone, se lo ha, il suo problema… La reception viene fatta indifferentemente da qualsiasi operatore… Il rapporto tra le figure professionali operanti nel servizio è abbastanza nel servizio è elastico e informale… Si sta insieme con gli utenti nel soggiorno, si organizzano insieme delle attività, ci si incontra, insieme con loro, con i visitatori che giungono da ogni parte. Si affrontano i problemi e le sofferenze, si urla a volte, e a volte si canta: si reprime qualcuno che rompe, si risponde al telefono in una situazione di impossibile tranquillità; si tenta di rispondere a cento domande contemporaneamente… Una grossa fetta delle nostre attività comunque si svolge all'esterno: a casa delle persone, in fabbrica, a parlare con gli utenti, i familiari, i datori di lavoro… (Quanto alle prestazioni ambulatoriali individualizzate) quand'anche ci fosse il proposito di allestire un "set" (psicoterapico), ciò viene reso impossibile dall'assoluta mancanza di una cultura del 'rispetto della separazione' per cui c'è sempre qualcuno che entra e pone domande, problemi, il telefono, qualcosa di urgente, tant'è che nella maggior parte dei casi il tentativo è destinato a fallire miseramente".

E' difficile non cogliere in questo clima gli elementi rivoluzionari di novità rispetto ad infiniti servizi asettici, ovattati, rigidamente organizzati e gerarchizzati. Nel contempo, non è difficile capire perché coloro che hanno esperienze psicopatologiche strutturate rifuggono dal rivolgersi al servizio.

Il problema è che una prassi non è dialettica per il semplice fatto di infrangere o di alterare arbitrariamente le regole della cultura dentro la quale si realizza. Lo è nella misura in cui accetta lo stato di cose esistente e muove da esso per far affiorare, in virtù della sua stessa logica e delle sue ragioni, la necessità di un cambiamento. La dialettica non rifiuta il reale in nessuno dei suoi aspetti: lo coglie nella sua determinazione storica perché è a partire da ciò che esso può rivelarsi inadeguato e insoddisfacente in rapporto ai bisogni umani.

Di certo, per adottare nell'ambito dei fenomeni di disagio psichico una metodologia dialettica occorre andare al di là del sociologismo di maniera, che vede l'uomo integro nella struttura della coscienza in lotta con condizioni oggettive che lo opprimono. Ciò è vero per quanto riguarda i bisogni elementari: non si può dubitare che il povero, il pensionato che vive solo, il disoccupato non sappiano ciò di cui hanno immediatamente bisogno. Ma il dramma della psichiatria alternativa, motivato dal suo configurarsi nell'istituzione psichiatrica, è di essere rimasta ancorata ad una teoria dei bisogni troppo elementare.

Al di là dell'impegno di lottare – e i modi sono ormai chiari - contro ogni tentativo di psichiatrizzazione della miseria sociale, c'è il problema di confrontarsi con una gamma di situazioni che non sono immediatamente riconducibili a questa univoca dimensione. Sostenere, come ha fatto Basaglia, che laddove non c'è miseria sociale c'è miseria psicologica è una verità inconfutabile, che, però, non tiene conto del fatto che mentre la prima è oggettiva e quantificabile, la seconda, il più spesso, è impercettibile socialmente: insidiosa, dunque, e difficile da restituire alla coscienza dei soggetti che la veicolano.

Sia detto dunque senza remore. La prassi terapeutica dialettica, come espressione di una nuova scienza del disagio psichico, ha come oggetto lo 'specifico psichiatrico', e, dunque, le esperienze psicopatologiche propriamente dette. La sua natura dialettica è data proprio dall'accettazione di queste esperienze come un dato di fatto realmente esistente, e cioè prodotto storicamente al di fuori dei circuiti di psichiatrizzazione. Ma, nel contempo, quest'accettazione non implica nessun cedimento riduzionista, dato che, da un punto di vista dialettico – e la ripetizione non è casuale - lo stato di cose esistente, in quanto espressione di un processo storico, contiene in sé le ragioni di un possibile cambiamento. Tradurre questa verità in un modello di prassi terapeutica è l'intento di questo seminario, la cui elaborazione seguirà una metodologia diversa rispetto ai precedenti.

Individuati 6 nuclei tematici:

A -"La prassi terapeutica dialettica"

B -"Ideologia e tecniche terapeutiche"

C -"Problemi di prassi terapeutica dialettica. Strumenti e metodi"

D -"Resoconti di esperienze terapeutiche"

E -"Prassi terapeutica dialettica e coscienza sociale"

F -"L'organizzazione di un servizio territoriale alla luce dei principi della prassi terapeutica dialettica"

il materiale verrà elaborato a fogli liberi, note, ecc. in maniera tale che la sua organizzazione avvenga via via che si procede, rimanendo pertanto la struttura aperta ad ulteriori contributi.


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Coscienza della propria condizione e avvio dell'esperienza dialettica

Una prassi terapeutica dialettica teoricamente funziona dal momento in cui il soggetto riconosce il suo modo d'essere – compresa la sintomatologia - come espressione storica della sua vicenda umana nella sua globalità e intuisce la possibilità di riappropriarsi della sua storia, contenendo essa nel contempo le ragioni di quel modo d'essere e del suo possibile cambiamento. Solo raramente l'intervento terapeutico muove da questo livello di coscienza ottimale.

Consideriamo, dunque, in senso lato, le resistenze che s'incontrano nella fase d'avvio della prassi terapeutica, il cui superamento è il presupposto indispensabile all'intervento dialettico.

La prima, la più insidiosa, è la negazione della malattia, implicita nel rifiuto di qualsivoglia aiuto o esplicitata nell'affermazione di non avere di problemi. In questo atteggiamento occorre leggere, sempre, una paura profonda culturalmente determinata: la paura che il riconoscimento della malattia o dei problemi segni l'esclusione dal contesto sociale o la necessità di arrendersi ad una esistenza definitivamente limitata. Contrastare direttamente quest'atteggiamento lascia il tempo che trova. Si danno due circostanze che richiedono due diverse strategie: in una circostanza, la negazione corrisponde ad una situazione d'equilibrio precario ma non ancora compromesso; nell'altra l'equilibrio è già compromesso da sintomi o comportamenti che attestano una destrutturazione in atto. Nel primo caso, si può prendere tempo: prendere tempo significa utilizzare i dati di cui si dispone per operare delle previsioni, tali che, quando esse dovranno avverarsi, il soggetto possa prendere atto dei problemi preesistenti.

A 17 anni, Simona viene 'costretta' dalla madre a farsi visitare. Le preoccupazioni della madre durano già da anni: dall'epoca dello sviluppo, Simona, che non è mai stata particolarmente socievole e di carattere facile, si è chiusa a riccio in se stessa. Non comunica con nessuno dei familiari se non su un registro di manifesta ostilità. Trascorre gran parte del tempo libero nella sua camera, in una situazione di disordine completo cui non si può porre rimedio perché essa impedisce a chiunque di entrare. Frequenta la scuola con un buon profitto, ma risultando antipatica a tutti, compagni e docenti. Le rare volte che esce, lo fa di sera, senza mai dire dove si reca, e rincasando in piena notte. E' vergognosa al punto che alla madre non è mai riuscito di capire quando ha le mestruazioni, ma a volte accenna alla sessualità in maniera tale da far pensare ad un modo di essere libero e sfrenato. E' assillata da una serie incessante di disturbi psicosomatici (mal di testa, capogiri, malori, palpitazioni, nausee e vomiti), che tenta di celare, ma che la costringono ogni tanto a manifestare le sue paure.

Al primo colloquio, nega qualunque difficoltà e stigmatizza la violenza esercitata dalla madre. La rassicuro riguardo alla possibilità che si intraprenda una cura contro la sua volontà. Contemporaneamente, però, le dico che alcuni elementi della sua esperienza attestano rilevanti problemi inerenti la sfera affettiva e sessuale. Può darsi – aggiungo - che col tempo questi problemi giungano spontaneamente e maturazione, come pure che, tentando di affrontarli, essa scopra che sono più seri di quanto ora possano apparirle. Se ciò accadesse, le consiglio di non tirare la corda, e di accettare di metterli in discussione.

Dopo un anno e mezzo, Simona torna da sola. Sei mesi prima, per liberarsi di una verginità angosciosa, si è in pratica fatta violentare da un giovane tedesco volutamente 'adescato' a Piazza di Spagna. Sta con un ragazzo che, all'inizio, quando non si sentiva legata, amava, e, per il quale, da quanto sente di essere legata, non prova più niente. Ha scoperto di essere frigida e di non tollerare nessun tipo di approccio fisico. Ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso è questa: da alcuni giorni, per la strada e in autobus, sente uno strano e disgustoso trasporto erotico per tutti gli uomini, belli, brutti, giovani, vecchi. Non potendo in alcun modo arginare queste fantasie erotiche, sente che sta sfiorando la pazzia. Ammette, finalmente, di avere dei problemi: anzi, di averne sempre avuti, da quando ha l'uso della ragione.

Nell'altra circostanza, il problema è più difficile da affrontare. Non alludo alle crisi acute (delle quali si parlerà a parte), bensì delle situazioni che si vanno destrutturando, e che il soggetto si ostina a minimizzare. In questo caso, la strategia è necessariamente d'attacco: il rischio vale la candela. Occorre drammatizzare ciò che la coscienza minimizza: drammatizzare, però, non significa terrorizzare, bensì restituire in termini dinamici, e potenzialmente evolutivi, ciò che s'intuisce stia accadendo.

Enrico da 8 mesi non dorme che 2-3 ore per notte, dall'alba in poi. Afferma che l'insonnia è serena e non si associa né a pensieri né emozioni: semplicemente non gli viene da dormire. Contemporaneamente il rendimento scolastico (frequenta la 4° ragioneria) tende ad azzerarsi. La stanchezza legata all'insonnia, secondo Enrico, spiega a sufficienza la testa vuota, il difetto di concentrazione, l'assoluta mancanza di memoria. Rispetto ad un periodo precedente, durato a lungo e caratterizzato da incessanti ruminazioni sul senso della vita, sull'amore, sull'esistenza di Dio, associate a emozioni violentissime, Enrico si sente molto meglio. Anzi è certo che tutti i problemi si stanno sistemando spontaneamente.

La sua autonomia è limitatissima: quando esce di casa, tranne che per andare a scuola, le forze repentinamente gli vengono meno e la vista si annebbia. Ma anche questi fenomeni, a suo avviso, sono riconducibili alla stanchezza provocata dall'insonnia.

Gli propongo un'interpretazione strutturale della sua esperienza. I due mondi nei quali spazia la coscienza – il mondo interno, della memoria e dei sogni e il mondo esterno della realtà quotidiana - sembrano configurarsi entrambi come minacciosi. Enrico non può calarsi né nell'uno né nell'altro, né col sonno né uscendo di casa. Egli vive, dunque, dignitosamente, una condizione d'angoscia perpetua, mascherata dall'anestesia sopravvenuta al periodo d'intensa e lacerante vita interiore. Questa condizione non può durare all'infinito: come un fiume sotterraneo l'angoscia affiorerà, entro breve tempo. Essere angosciati fa soffrire, ma può riavviare un processo di elaborazione del senso della vita: vivere come un tronco (la definizione è di Enrico) è orribile. La notte seguente al colloquio Enrico ha una crisi d'angoscia: sente una morsa che lo attanaglia in tutto il corpo, e rischia di stritolarlo. Sul far dell'alba, durante un breve sonno, sogna d'essere uno zombi. La destrutturazione anestetica è stata scongiurata: l'angoscia fluisce e, con essa, la necessità di interpretarla e di elaborarla.

Una resistenza all'intervento terapeutico del tutto opposta a quelle considerate è la paura di impazzire, che fa capo alla convinzione di essere affetto da una malattia dal decorso inesorabile. E' agevole comprendere in che senso questo vissuto possa opporre resistenze all'intervento terapeutico.

Che si tratti di paura o di convinzione, il soggetto teme che un intervento possa precipitare la situazione: porlo, nel primo caso, di fronte alla prova che la sua paura è fondata, nel secondo accelerare l'evoluzione inesorabile della malattia. Il superamento di questa difficoltà è legato alla capacità dialettica di rendere complesso ciò che appare semplice. Cosa intende il soggetto per impazzire? Quali sono le manifestazioni di pazzia che teme? Quali le conseguenze?

Con notevole costanza, affiorano due vissuti: la follia s'identifica o con l'esercizio di una libertà che distruggerebbe i legami sociali che il soggetto intrattiene o con un crollo 'nervoso' che consegnerebbe il soggetto agli altri in una condizione di infermità e di impotenza. In ambedue i casi, la paura finisce nel vicolo cieco della cattura, della reclusione in casa di cura e della perdita completa dei diritti civili, associata alla disintegrazione del proprio ruolo e delle relazioni sociali. La percezione di una libertà repressa che cerca di venir fuori all'impazzata e di un bisogno profondo di affrancarsi da una corazza difensiva che soffoca i bisogni autentici di relazione, di cura e protezione sono i due nuclei che animano la paura di impazzire. Restituirli al soggetto come bisogni la cui realizzazione può avvenire secondo forme che non necessariamente comportano l'esclusione dal contesto sociale è il primo passo da fare: sempre possibile, per quanto affidato ad una capacità dialettica non schematizzabile.

In Anna, sposata e madre di due figli, la paura di impazzire affiora criticamente in virtù di fantasie terrificanti che la indurrebbero ad aggredire ferocemente i figli piccoli e a gettarsi dalla finestra. La mostruosità di queste fantasie è tale che Anna, per alcuni mesi, non ne parla con nessuno, nonostante che esse s'incrementino progressivamente. Quando decide di sottoporsi ad una visita specialistica, il suo intento è univoco: essere rassicurata che esse non si realizzeranno mai.

La rassicurazione non esclude un intervento dialettico. Al di là dei contenuti, le fantasie sembrano alludere, entrambe, alla necessità disperata di liberarsi dai vincoli e dai ruoli familiari. Questa necessità non coincide con il desiderio cosciente di Anna che, senza figli e il marito, si sentirebbe perduta. Ma, al di là degli affetti, non può darsi che essa si sia incastrata in quei ruoli, soffocando in essi un antico desiderio di libertà? In questo caso, il problema non consisterebbe nello scongiurare che le fantasie non si realizzino, bensì recuperare il problema della libertà personale come un dramma in rapporto al quale il rimedio dell'autocostrizione nei ruoli familiari appare peggiore del male.

Il pericolo, da questo punto di vista, non è il finir chiusa in manicomio, bensì il rimanere chiusa dentro una gabbia autocostrittiva, che pone in luce una profonda paura della libertà, e che non è affatto meno opprimente degli affetti che sottendono il legame con i figli e il marito. In breve, depurato da pericoli inesistenti, la paura di impazzire muove da un vissuto claustrofobico alimentato e drammatizzato da una volontà claustrofilica.

Con quest'impostazione dialettica, riesce possibile lanciare, senza pericolo, una sfida ad Anna: tenti di realizzare volontariamente le fantasie terrificanti, e scoprirà che non può farlo. La sola idea la fa star male: non potrei mai - dice - sottopormi ad una cosa del genere. Dunque, quelle fantasie non hanno il significato che essa assegna loro.

Nel vissuto di Francesco, incentrato su una serie di sintomi che lo inducono a sentire quotidianamente di stare lì lì per crollare, di poter perdere l'identità personale e il controllo sui suoi comportamenti, il tema della tara familiare, comprovato da vari episodi, più o meno gravi, di esaurimento sofferti da parenti stretti, è insistente. E' in virtù di questa convinzione – fato, destino e condanna al tempo stesso - che egli si è imposto di fingersi sano e di dedicarsi ossessivamente al lavoro, con l'intento di restaurare le condizioni socioeconomiche e il prestigio della famiglia prima del crollo.

Francesco vive in una dimensione di eroismo solitario: perseguitato dal mostro della pazzia, oppone ad esso quotidianamente uno sforzo di autocontrollo e di normalizzazione estenuante. Come si configura il crollo del vissuto di Francesco? Esso appare legato a due situazioni: quando sta con gli altri, praticamente solo nell'ambiente di lavoro, e particolarmente nel corso di riunioni importanti, la follia consisterebbe nell'esplodere, nel mandare tutti a quel paese e nel fuggire; quando sta da solo, per strada o in casa, crollare, invece, significa provare una crisi di depersonalizzazione che lo indurrebbe a chiedere, smarrito e incapace di intendere e di volere, aiuto a qualcuno. Indipendentemente dalle conseguenze coscienti che induce, vale a dire il terrore, la "tara" ereditaria sembra dotata di un qualche buon senso, poiché essa mira a indurre la consapevolezza dell'eccesso di costrizioni che Francesco si impone nell'ambito lavorativo e il difetto di legami, il vuoto assoluto che caratterizza le sue relazioni con il mondo a livello privato.

Su questo secondo aspetto, che sfugge quasi alla coscienza di Francesco, impegnato nella sua eroica impresa, insisto abbastanza fino al punto di far balenare nuovamente la "saggezza" della follia. Cosa accadrebbe infatti se egli crollasse? Perderebbe il posto e la posizione sociale raggiunta, verrebbe rinchiuso per un periodo in una casa di cura e infine sarebbe affidato ai parenti come un essere incapace di intendere e di volere e da curare. Tornerebbe così nella condizione originaria del bambino impotente e bisognoso di protezione e di cure. Riconoscendo questo bisogno, soffocato da un'organizzazione mostruosa di vita, non potrebbe essere possibile dare ad esso una configurazione meno regressiva e più produttiva: mirare cioè a colmare la totale solitudine interiore producendo dei legami nuovi, e affrontando la paura che essi pongono?

Una serie di multiformi resistenze all'intervento terapeutico si possono raccogliere sotto il termine di oggettivazione, intendendo con ciò il tentativo dei soggetti di spostare il disagio fuori della mente: difesa che comporta l'espropriarsi di ogni potere riguardo ad esso. Considereremo l'oggettivazione nelle due forme più ricorrenti: la medicalizzazione e il determinismo ambientale.

La medicalizzazione consiste nell'attribuire i sintomi del disagio ad una malattia fisica, e nel postulare una diagnosi e una cura medica. L'origine culturale di questa resistenza è fin troppo ovvia: prima dell'avvento dell'ideologia medica positivista, il più spesso venivano invocate influenze sociali negative (per es. il malocchio). In un certo senso, paradossale, riconducendo il disagio ad una relazione conflittuale con qualcuno, le coscienze erano più vicine alla verità. La medicalizzazione oggi si esprime direttamente sotto forma di manifestazioni psicosomatiche e ipocondriache, ma, in senso lato, la si può ritenere presente in misura diversa in tutte le esperienze di disagio. Un numero crescente di esperienze psicotiche, per es., hanno un avvio neurastenico-ipocondriaco. Il problema è che la cultura del corpo e della malattia in senso proprio è cresciuta a dismisura rispetto alle capacità di vivere e capire la realtà umana nella sua globalità. E' quasi inutile aggiungere che questo tipo di resistenze esalta il potere medico, che copre la sua impotenza con un atteggiamento connivente e strumentale, e tende a squalificare qualunque altro tipo di intervento. Affrontarle richiede un bagaglio di conoscenze biologiche non indifferenti. Ma, in ultima analisi, se si adotta una metodologia dialettica, occorre cogliere le contraddizioni al livello in cui si pongono. Nel caso della medicalizzazione, la contraddizione sta nell'adozione, da parte dei soggetti, di un linguaggio metaforico o analogico che viene arbitrariamente assunto come descrittivo o addirittura scientifico. L'importante è restituire loro quest'autoinganno, talora adottando anche strumenti informativi. Con degli esempi, il discorso dovrebbe risultare più chiaro.

Rossella è una donna di 29 anni sposata con un bambino. Ha sofferto durante l'infanzia di crisi asmatiche, che si sono ripresentate a 26 anni, dopo alcuni mesi di matrimonio. Si è sottoposta varie volte a prove allergometriche e alla somministrazione di vaccini, praticamente senza esito. Vive di aerosol, di compresse antiasmatiche, di spray. E' seguita in un centro specialistico privato (per il quale rappresenta una rendita, per quanto minuscola). Le è stato consigliato di farsi visitare da un neurologo per ridurre il modo ansioso in cui vive la condizione asmatica. Rossella parla di asma, ma, costretta a descrivere minuziosamente le crisi, afferma che, nelle ore più varie della giornata, e comunque mai meno di 3-4 volte al giorno, sente repentinamente che l'aria non passa più bene per la gola. Cioè - precisa - passa, ma è come se non bastasse a soddisfare la sua fame d'aria. Dopo alcuni secondi, avverte poi una costrizione dall'esterno - come una mano che la stringe alla gola, sempre di più - per cui ha paura di morire soffocata. Il ricorso ai farmaci allevia solo i sintomi, che si risolvono quando Rossella si arrende a chiedere aiuto a qualcuno. Nonostante abbia detto tutto ai medici, il loro giudizio diagnostico è stato emesso con certezza. Del resto, loro non hanno mai assistito ad una crisi vera. Solo una volta, di domenica, sentendo proprio di stare per morire, ha chiamato la guardia medica: in piena crisi – arrossisce a confessarlo - il medico non ha riscontrato nessun sintomo obiettivo di asma! Si può, dunque, soffocare per altri motivi, e, per analogia, parlare di asma. Rossella ammette che le crisi s'intensificano ogni qualvolta, sentendosi oppressa dal marito, dalla suocera, dal bambino, pensa di far le valigie e di scappare. La vita reale traspare dietro il fantasma della fame d'aria.

Marcello, di 26 anni, convivente con i genitori (la madre è un ex internata in O.P) non comprende cosa possa entrarci la testa con i suoi problemi, che sono ortopedici e riguardano i piedi. Quattro anni prima, avvertendo una profonda debolezza agli arti inferiori, si è fatto visitare per l'appunto da un ortopedico, ed essendogli stata riscontrata un'alterazione dell'arco plantare, ha subito il solito calvario: calzature speciali correttive, costose e torturanti visite di controllo, cambio di calzature, sempre più costose e atrocemente correttive. Anziché attenuarsi, la debolezza agli arti inferiori si è accentuata, fino a tradursi in episodi di totale invalidità (di tipo chiaramente psicogeno). Alla debolezza si sono aggiunti poi fastidiosissimi dolori lombari, sottoposti scrupolosamente a visite ortopediche e fisioterapie. L'effetto delle cure è stato paradossale: Marcello ha cominciato a lamentare repentini blocchi dovuti a colpi della strega. Ha scongiurato un intervento proposto solo in virtù dello spostarsi del sintomo: ahimè, ancora in una regione di interesse ortopedico, quella cervicale, con contratture dolorose violente irradiate alla testa. La debolezza agli arti inferiori è naturalmente persistita, ed è su di essa che Marcello continua ad accentrare la sua attenzione, ossessivamente. Quanto alla testa, i dolori sono scomparsi, anche se Marcello la sente vuota, debole e ormai disinteressata a tutto. E' ovvio, del resto: quando uno soffre fisicamente per quattro anni, senza trovare giovamento dalle cure, come può stare? L'onestà non gi difetta, però. Interrogato con tatto su una debolezza un po' sospetta in un giovane atletico, rivela che il primo cedimento alle gambe lo avvertì quando, quattro anni prima, innamoratosi di una ragazza, troncò di colpo la relazione avendo scoperto di essere impotente. Acqua passata: con tutto quello che è accaduto, a quel problema non ha avuto più tempo di pensare. Non volentieri, riconosce che forse è l'ora di farlo.

Il determinismo ambientale come interpretazione del disagio che assegna al soggetto uno statuto passivo (equivoco – inutile sottolinearlo - rafforzato da tutte le teorie e le tecniche volgarmente sociogenetiche) si presenta in due diverse versioni: la prima rievoca un ambiente del passato (solitamente familiare) che ha prodotto danni psicologici vissuti come irreversibili; la seconda fa riferimento ad un ambiente attuale – familiare, lavorativo, sociale o culturale - strutturato in maniera tale da condizionare il soggetto, facendolo soffrire e, nel contempo, azzerando ogni possibilità di un suo agire rivolto al cambiamento. In entrambi i casi, si tratta di interpretazioni mai riducibili a meri fantasmi: il più spesso esse colgono, più che un frammento, una parte importante di verità che, però, riesce inutile, poiché essa esclude l'altra parte: il modo attivo, sia pure sul piano delle difese, con cui il soggetto ha interagito con l'ambiente, riuscendo a conservare integre delle possibilità di cambiamento. L'intervento, in questo caso, deve mirare a restituire al soggetto queste possibilità, nella fedeltà più piena al principio della prassi dialettica: secondo il quale lo stato di cose esistente contiene in sé le ragioni di un suo possibile cambiamento.

A 22 anni, Paolo sostiene che l'esperienza familiare dalla prima infanzia in poi ha prodotto dei danni irreversibili al cervello. La drammaticità del vissuto è tale che egli confessa che, se non avesse una fede profonda, nulla giustificherebbe il perpetuare un'esistenza fatta solo di paure. E' assalito da sintomi psicosomatici dappertutto, non riesce a portare avanti gli studi, non ha amici né amiche, è isolato in famiglia, si sente estraneo ad un mondo volgare e materialista. Il danno familiare è ricondotto all'aver scoperto, a 6 anni, dopo aver vissuto una sorta di età dell'oro, le enormi contraddizioni morali e comportamentali dei genitori. Da allora si è chiuso in un suo mondo, ispirato al principio della coerenza, e su questo ha strutturato una personalità rigida, ascetica e ossessiva, rinforzata nel tempo dai rari contatti con un mondo privo di valori morali. Ha accettato e subito la vita come un calvario, reso ancora più atroce dalla nascita e dallo sviluppo di 6 fratelli del tutto diversi da lui, scapestrati, anarchici e non sottoposti ad alcuna disciplina. Sente di essere già morto dentro, e pensa che passerà la vita nella rassegnazione e nell'attesa paziente della morte. Rimangono solo due problemi - due contraddizioni, si direbbe - ancora non del tutto risolti: periodicamente, Paolo è attaccato da violente fantasie erotiche che lo 'obbligano' a masturbarsi; altre volte è preda di attacchi di rabbia, che si rivolgono contro i familiari e lo rendono spietato nei giudizi. Forze oscure e ingovernabili, che attestano, nonostante un ascetismo praticato rigidamente, la sopravvivenza del 'fondo bestiale' della natura umana. E se si trattasse, invece di bisogni vitali che oppongono al suo essersi votato all'isolamento e alla morte una resistenza accanita, riproponendogli la necessità di agire per perseguire il piacere di vivere e affrontare i contrasti ambientali? Paolo lo esclude. Ma il dubbio che il danno subito non sia irreversibile, e che dentro di lui, repressi perché considerati bestiali, sopravvivono bisogni vitali, si è insinuato.

Anna Maria, la cui personalità è evoluta in un contesto meridionale altamente repressivo – secondo uno stereotipo, l'adolescenza e la giovinezza sono trascorsi appannando i vetri delle finestre -, sposa a 26 anni un uomo di cui si è innamorata. Scopre poi che è morbosamente geloso e possessivo. Per un certo periodo, sentendosi chiusa in gabbia definitivamente, sviluppa una serie di sintomi psicosomatici che, costringendola a dipendere dal marito (non può, per es., uscire da sola), la pongono al riparo dalla possibilità di sfidare la sua autorità. Poi, però, un sentimento di libertà, ideologizzato coscientemente come 'femminista', la porta ad uscire allo scoperto, e a rivendicare i suoi diritti tradendo. Il marito intuisce ma non ha le prove: morde il freno, pronto però ad esplodere in caso di certezza. Questa situazione, come impaurisce Anna Maria così la rafforza nella motivazione della sfida. La strategia è sottile: il marito deve intuire, ma mai avere la certezza del tradimento.

La condizione di rabbia impotente del marito genera in Anna Maria una sorta di euforia: per la prima volta, dopo tanti anni, si sente libera, sicura, padrona di sé e senza alcun sintomo psicosomatico. Un giorno, però, essa scopre che il marito sa: perito elettronico, ha installato una microspia telefonica e ha registrato tutte le telefonate con l'amante. Sa e, ciononostante, rimane impotente: anzi appare pieno di rancore ma rassegnato. Che significa questo? Ch'egli non è affatto autoritario né morbosamente geloso, bensì un essere dipendente, che, così come ha accettato un tradimento, accetterebbe supinamente tutto. In breve, agli occhi di Anna Maria, un imbelle. La sfida si è risolta tutta a suo favore: ma le conseguenze sono paradossali. Anna Maria non prova più niente per l'altro, e torna ad essere preda, con i sintomi psicosomatici consueti, di tutta una serie di paure che le impediscono di uscire di casa da sola e di muoversi liberamente. Essa – lo riconosce - ha lottato contro un'oppressione inesistente oggettivamente, e, quel che è peggio, ha bisogno di sentirsi oppressa per trovare la forza di affrontare il mondo liberamente. Il determinismo ambientale è, dunque, un alibi. Il problema attuale è come esercitare una libertà che, per realizzarsi, ha bisogno di una minaccia repressiva.

La resistenza più sorprendente, che esprime un processo culturale di vasta portata, il quale si va diffondendo a macchia d'olio, è la psicologizzazione, e cioè l'interpretazione in termini psicologici, fornita spesso dal soggetto o dai familiari, di una vicenda umana che può essere compresa ma non spiegata in quei termini. Questo tipo di resistenza dà l'illusione di un potere smentito dal fatto che il soggetto rimane in una condizione di disagio, nell'impotenza di cambiare. A questo livello, il riferimento ai codici mentali, come schemi determinati storicamente e naturalizzati entro i quali il soggetto interpreta la sua vicenda senza la consapevolezza di adottarli, è di estrema importanza.

Anna, a 32 anni, vive da sola e lavora in banca. Ha trovato da poco il coraggio di separarsi dalla famiglia originaria, ma, dopo qualche tempo, è caduta in una situazione di sconforto. Nel lavoro è brillante e apprezzata: tutti le attribuiscono grandi capacità. Ma Anna, che è laureata in psicologia, sa bene che si tratta di una 'maschera'. In realtà, nel suo intimo, si sente inadeguata, debole e dipendente. Questo è il motivo per cui, fuori dal lavoro, si trincera in una solitudine totale, dedicandosi ossessivamente alle pulizie di casa e, quando non ne ha da fare, fumando, bevendo alcool e mangiando dolci davanti al televisore. Essa riconduce questa condizione d'inadeguatezza alla lunga dipendenza da una famiglia iperprotettiva e invasiva, che ha ostacolato la sua socializzazione, rendendola infine, come lei dice, affettivamente incompetente. Dal suo punto di vista, non c'è altro da fare altro che rassegnarsi a vivere in un ruolo sociale gratificante e in un'intimità solitaria e sterile.

Ad Anna sfuggono alcuni dati importanti. Intanto, che la rivendicazione d'indipendenza, alimentato da un vissuto persecutorio riferito agli estranei, coincide con l'essersi imposta di non aver bisogno di niente e di nessuno, vale a dire con l'autosufficienza. Essa è divenuta indipendente al prezzo di non poter manifestare i suoi bisogni relazionali. Il manifestarli, infatti, è vissuto come esporre il fianco a qualcuno che, inesorabilmente, profitterà di questa debolezza. La solitudine è dovuta meno all'inadeguatezza che non ad una mentalità che non riconosce altre forme di relazione che non sia quella del falco e della colomba. In secondo luogo, Anna ignora che le qualità che manifesta nell'ambiente di lavoro non sono solo una mascheramento delle sue difficoltà: sono autentiche qualità. E che la sua esperienza, di conseguenza, è strutturata a due livelli relazionali: ai livelli che non comportano coinvolgimenti affettivi Anna è, di fatto, matura e padrona di sé; ai livelli che comportano coinvolgimenti affettivi essa, invece, è del tutto bloccata, non tanto perché è inadeguata, bensì perché continua a riferirsi ad un modello che attribuisce ai bisogni affettivi un significato negativo, di dipendenza, di debolezza e di esposizione al rischio. Il modello di normalità verso cui gravita Anna, incentrato sul non aver bisogno di nessuno, proprio perché essa continua a viverlo come un valore, rende insignificanti le sue interpretazioni psicologiche. La sua inadeguatezza è infatti misurata su quel modello. E se il modello fosse altamente patologico? E se l'inadeguatezza dovesse essere recuperata come espressione di autentici bisogni di relazione che oppongono resistenza a un loro superamento astratto? In Anna insorge finalmente il dubbio che l'indipendenza cui mira da sempre possa essere un falso valore.


L'intervento terapeutico nella 'crisi' (1)

Il problema dell'intervento terapeutico nella situazione di crisi è quello che, apparentemente, pone le maggiori difficoltà ad una prassi dialettica. Apparentemente e di fatto: è bene, infatti, dire subito che è in rapporto al modo in cui sono affrancate le crisi acute che gli interventi terapeutici sono giudicati, e non solo dall'opinione pubblica. I politici autenticamente favorevoli alla legge 180 sono sensibili soprattutto a quest'aspetto della gestione del disagio psichico, poiché, nonostante le migliori intenzioni, non possono prescindere dal problema del consenso sociale. Da questo punto di vista, il sasso lanciato anni orsono da Jervis sulla impossibilità pratica di una psichiatria autenticamente alternativa, e cioè rivolta a rispondere solo ai bisogni elementari dei disagiati, conserva un'attualità inconfutabile.

Per affrontare questo nodo gordiano della psichiatria, e cioè la compatibilità tra una nuova pratica terapeutica e le persistenti esigenze sociali di ordine, occorre anzitutto tentare di porlo nei giusti termini. L'onestà impone di ammettere che ad un delirante in fase acuta la mitica 'tripletta' (Lagactil, Serenase e Fargan) può far meglio di un estenuante confronto verbale o di un logorante contenimento interpersonale. Questo criterio piattamente pragmatico non taglia la testa al toro, bensì la fa apparire semplicemente bicorne: se la crisi, infatti, si assume come sintomo di una malattia, e se si ritiene che, risolto il sintomo, sia risolta la malattia, il problema non si pone. Quest'estremo riduzionismo, confortato solo dalla constata efficacia degli psicofarmaci nell'indurre, in molti se non in tutti i casi, la remissione dei sintomi acuti, rivela la sua infondatezza se appena si tiene conto di due aspetti. In primo luogo, non appare in alcun modo giustificato scientificamente ricavare una casualità organica del disagio psichico dalla constatazione che alcune crisi possano essere l'espressione di squilibri biologici, poiché questi potrebbero essere semplicemente avviati da esigenze funzionali soggettive che, solo successivamente, vengono travolte dagli squilibri indotti per realizzarsi. Da questo punto di vista, la crisi non sarebbe il sintomo di una malattia, bensì l'espressione dell'insuccesso del tentativo di adattare gli assetti biologici a esigenze funzionali estreme, incompatibili con essi. Si tratterebbe dunque di una malattia psicosomatica. In secondo luogo, il riduzionismo organicista, esaurendosi in un intervento il cui obiettivo è la remissione dei sintomi, e, quindi, la restituzione del soggetto al suo modo di essere preesistente, ritenuto normale, concorre ad allontanarlo dall'interpretare questo come una condizione apparente, sottesa da conflitti psicodinamici.

In breve, il problema delle componenti biologiche nel corso della crisi è un falso problema: se le crisi vanno assunte come sintomi non è certo di processi organici.

Le crisi sono esperienze di più o meno violenta destrutturazione dell'organizzazione della personalità nel suo rapporto con il mondo che mirano, sempre, verso soluzioni radicali e non dialettiche di problemi preesistenti, più o meno mascherati, sino all'avvento della crisi stessa, da una struttura psicopatologica (di primo grado) manifesta o latente: è questo loro tendere verso soluzioni irrealizzabili e astratte che ne definisce la 'pericolosità' e ne rende gli esiti sempre scarsamente prevedibili. Le soluzioni, infatti, risultano povere rispetto alla complessità dei problemi e spaziano in un ambito di forme di esistenza insostenibili, che vanno da una brusca chiusura del rapporto con il mondo ad una dichiarazione aperta di guerra. In quest'estrema povertà, è riconoscibile con evidenza l'espressione del conflitto tra bisogni fondamentali alienati: nel primo caso, è il bisogno d'individuazione che, muovendo da un vissuto di totale impotenza e vulnerabilità relazionale, si realizza in virtù della rottura della relazione con il mondo; nel secondo, è il bisogno d'integrazione sociale che, lungamente frustrato, si realizza nell'unica forma di rapporto che sembra possibile: quella, appunto, della guerra. In entrambi i casi, i soggetti rischiano di finire in un vicolo cieco, nel senso che la soluzione adottata comporta il rischio che si realizzino i pericoli temuti: la chiusura al mondo, infatti, che tende a tutelare l'identità personale, comporta necessariamente un intervento terapeutico invasivo; la conflittualità, invece, che mira a mantenere comunque un rapporto sociale, dà luogo, attraverso il ricovero in clinica, all'esclusione dal contesto sociale.

Il nodo del problema consiste in questo: le crisi, quali che siano i modi in cui si manifestano, segnano una rottura del rapporto con il mondo, che sembra poter essere ricomposta solo in virtù di una repressione. Non è neppure azzardato affermare che ogni crisi veicola un bisogno di repressione, e cioè il bisogno che qualcuno intervenga attivamente ad impedire che la rottura con il mondo - sia sotto forma di chiusura che di guerra - divenga totale e irreversibile. Ai fini dell'intervento, non è insignificante il modo in cui s'interpreta e si risponde a quel bisogno. Se, infatti, lo s'interpreta come un bisogno oggettivo di cure legato ad una condizione di malattia che comporta rischi per il soggetto, per i parenti e per la società, l'intervento mira a rispondere ad esso in maniera oggettiva, facendosi cioè carico della malattia. Lo si può, però, interpretare in tutt'altro modo: come il riproporsi di un bisogno di relazione autentico in forma alienata, che postula che il mondo si faccia carico di ristabilire un rapporto non conflittuale che il soggetto apparentemente rifiuta.

Non c'è chi non veda le differenze radicali che comportano queste diverse interpretazioni delle crisi acute: la prima oggettiva un'esperienza umana riducendola alla malattia, per cui l'intervento terapeutico, mirando a curare questa, può prescindere del tutto dal soggetto e dalla sua storia, dando per scontato che il suo interesse oggettivo è la guarigione della crisi; la seconda vede nella crisi l'espressione di una rottura del rapporto con il mondo che non coincide con la globalità dei bisogni del soggetto, il quale, esprimendo il bisogno di repressione, postula che qualcuno lo recepisca e se ne faccia carico, ristabilendo una relazione che il soggetto desidera, ma a patto che essa esprima l'intenzione dell'altro – del mondo - di proporre un rapporto non conflittuale. L'interpretazione oggettivante della crisi, in breve, schematizza e sclerotizza l'intervento; l'interpretazione dinamica la dialettizza, nel senso che pone il problema dell'intervento nei termini della necessità di costruire un rapporto a partire da un ostacolo apparentemente insormontabile, la volontà del soggetto in crisi di rifiutarlo.

Quanto si sta dicendo, concerne, naturalmente, le prime crisi con cui si manifesta un disagio psichico. Ma già a questo livello, occorre distinguere due diverse circostanze: le crisi che insorgono ex abrupto, e cioè repentinamente a partire da un'apparente normalità e le crisi che concludono un lungo periodo di disagio percettibile socialmente.

Le crisi ex abrupto, solitamente violente nella loro qualità destrutturante, non concedono, il più spesso, spazi alla riflessione terapeutica. Occorre intervenire rapidamente per rompere la spirale che rischia di travolgere il soggetto e il contesto familiare. Ma, anche in questo caso, le differenze tra una pratica oggettivante e una pratica dialettica risultano nette. La prima infatti si articola in due momenti essenziali: sedazione massiccia e/o ricovero clinico, ove l'intervento farmacologico diventa ancora più incisivo. La seconda si propone invece un obiettivo minimale: conseguire, anche con il concorso dei farmaci, un'equilibrio, sia soggettivo che contestuale, che consenta di avviare immediatamente una ricostruzione sia pure sommaria dell'esperienza storica dell'individuo.

E' opportuno che quest'intervento primario avvenga a domicilio o comunque nell'ambiente in cui la crisi si è manifestata. Ciò per due motivi: intanto, per non essere costretti a sradicare violentemente il soggetto dal suo ambiente senza che egli possa rendersi conto di ciò che sta avvenendo e senza che si sia stabilito un mimimo di rapporto con gli operatori; in secondo luogo, perché la decisione di allontanare il soggetto dall'ambiente e l'eventuale inserimento in un centro non può fondarsi semplicemente sulle manifestazioni psicopatologiche, ma richiede una valutazione meno sommaria della situazione nel suo complesso. L'importante, insomma, quando ci si confronta con una crisi ex abrupto, è prender tempo e, ovviamente, disporre di tempo. Le decisioni che si prendono, a questo livello, devono già configurarsi, sia agli occhi del soggetto che dei membri familiari, come momento di un progetto di comprensione e ristrutturazione dell'esperienza globale dell'individuo e del suo mondo familiare e mai come un intervento rivolto a curare la malattia. Deve essere chiaro, sia al soggetto che ai membri della famiglia, che l'intervento sulla crisi, per quanto possa richiedere l'adozione di procedure mediche (somministrazione dei farmaci, allontanamento dall'ambiente, inserimento in un centro crisi), non è un intervento che ha come oggetto la malattia, bensì una situazione di emergenza in cui è esitata la storia del soggetto e del suo contesto, e che, dal momento in cui si interviene, a nessuno sarà concesso dialetticamente di occultare quella storia in virtù di un alibi medico. Un esempio vale a chiarire questo modello di intervento e a differenziarlo dalla pratica tradizionale.

Barbara, a 18 anni, è partita serena per un lungo soggiorno in Inghilterra. Non ha mai manifestato sino ad allora, alcun problema, se si fa eccezione per un breve periodo adolescenziale caratterizzato da un comportamento vagamente anoressico e aggressivo nei confronti dei suoi. Da poco ha conseguito il diploma di maturità con ottimi risultati. E', nel complesso, una ragazza socievole e sicura nella quale i suoi ripongono la massima fiducia. Dopo alcuni giorni telefona: è nervosa e depressa, ma attribuisce questo stato d'animo al cambiamento di clima. Le telefonate si susseguono con un ritmo incalzante: ai genitori risulta chiaro che sta avvenendo qualcosa che non riescono a comprendere. L'ultima telefonata è drammatica: Barbara sragiona, afferma di essere sotto controllo da parte della polizia per motivi politici (la riterrebbero una terrorista, mentre, di fatto, ha militato per un breve periodo in un partito di sinistra). La conclusione è addirittura sconcertante: Barbara ha capito che coloro che l'hanno allevata non sono i suoi veri genitori, e non intende più rivederli. Per lunghi giorni, nonostante i tentativi dei genitori di ricontattare Barbara in virtù dell'interessamento di persone amiche, non giunge alcuna notizia. Dopo due settimane Barbara torna a casa: è ridotta uno straccio, ha perso circa 20 chili, appare stralunata, pronuncia frasi incomprensibili e si chiude in camera in un isolamento totale, rotto solo da scoppi incontrollati di rabbia nel corso dei quali distrugge tutto ciò che ha sottomano. Per i suoi, non c'è dubbio che si tratta di un episodio di malattia mentale. Benché sconvolti, nel giro di un'ora, forniscono una quantità di notizie estremamente interessanti sulla vita di Barbara quando era "normale": studiava con un impegno tale da essere affetta quasi ogni sera da violente emicranie; aveva nei confronti della sorella più piccola un atteggiamento iperprotettivo quasi morboso; prima di andare a letto – e, comunque quando tutti i familiari erano già a letto - doveva seguire una serie piuttosto complicata di rituali (controllare la chiusura ermetica di porte e finestre, sistemare la scarpiera, riordinare gli oggetti nella sua toletta, ecc); disprezzava i coetanei per i loro gusti volgari e i modi di fare poco corretti; frequentava assiduamente un gruppo parrocchiale, ma, le rare volte che era andata in gita con loro, aveva avuto attacchi ripetuti di vomito; di notte, aveva spesso degli incubi incentrati sul tema della violenza sessuale, che la inducevano ad emettere delle urla terrificanti; amava, nonostante un'intensa religiosità, letture poco edificanti (i carmi di Catullo, Le amicizie pericolose, Madame Bovary, ecc.); ha avuto numerosi flirts, data la sua avvenenza, ma mai nessuna relazione che durasse più di un mese.

Barbara rifiuta il colloquio terapeutico, si rannicchia nel letto e si volge contro il muro, ma, con i dati raccolti, non è difficile capire cosa è accaduto: con una struttura d'esperienza tipicamente ossessiva alle spalle, la conclusione degli studi liceali e il viaggio hanno rappresentato un momento di verifica del suo grado di libertà lungamente vagheggiato, ma l'allontanamento dall'ambiente familiare e il trovarsi in un contesto nuovo, senza gli abituali punti di riferimento e di controllo, hanno investito l'avventura inglese dei significati anarchici e trasgressivi sottesi alla struttura ossessiva. Il rimedio alla vertigine della libertà totale è stato quello di porsi sotto il controllo delle forze dell'ordine inglese: controllo che, presumibilmente, ha impedito ogni esperienza di abbandono sentimentale o erotico. Avendo preso atto drammaticamente del suo essere senza libertà anche fuori dell'ambiente familiare, Barbara ha radicalizzato la sua rabbia, troncando ogni rapporto con la famiglia e regredendo nell'anoressia.

La paura che l'ha ricondotta a casa s'è trasformata in una sorta di rivoluzione interna al contesto familiare: se non è possibile liberarsi da esso separandosene, è sempre possibile isolarsi, chiudersi in camera e rifiutare ogni rapporto. Naturalmente – aggiungo - il suo comportamento non è insensato: in qualche modo, la famiglia deve averla manipolata e resa schiava del proprio modo di vedere. Ciononostante, deve esistere qualche soluzione al problema che non sia distruttiva. Il problema immediato è di superare la tempesta che le si è scatenata dentro, e che ha investito la famiglia. Poi, ci sarà molto tempo per capire, ricostruire, definire le colpe e responsabilità, trovare soluzioni. L'unica risposta di Barbara è che vuol finire come Madame Bovary, perché, come questa, ha rovinato tutto e tutti. La verità, come è attestato dalle mortificazioni che si è imposta in passato, è che essa è in credito e non in debito con il mondo. La volontà di espiare, comunque, può essere realizzata con l'assunzione di qualche farmaco. Barbara non oppone resistenze: se non può morire, il suo unico desiderio è di dormire (da una settimana circa è insonne) e dimenticare tutto. L'intervento di una zia, con la quale ha un buon rapporto e che ha sempre rilevato con comprensione le 'stranezze' del suo modo di vivere, accusando i genitori di averla fatta invecchiare prima del tempo, esonera questi dai compiti assistenziali. Dopo tre giorni Barbara comincia a mangiare con una certa regolarità.

Di fronte a quello che a loro appare un miracolo, i genitori accettano di ricostruire nei dettagli la storia familiare. Il 'canovaccio' è consueto: origini modeste, ascesa sociale fondata sul lavoro di entrambi per il bene delle figlie, il cui allevamento è stato affidato a donne di servizio, benessere con conseguente isolamento sociale (Barbara ha frequentato istituti di suore fino alla maturità), educazione incentrata sui fantasmi del traviamento, aspettative enormi fatte pesare sulle spalle di Barbara, dotata di qualità fuori dell'ordinario, incomprensione dell'unico periodo di rivolta adolescenziale, cecità nei confronti delle stranezze, concessione totale di fiducia e libertà dovuta all'intuizione del suo autocontrollo, ecc. Non occorre altro per definire un progetto terapeutico che aiuti Barbara a divenire libera senza farsi violenza, affrancandosi da un ipercontrollo interiore che mortifica il suo bisogno d'integrazione sociale.

Naturalmente, un esempio non prova alcunché. Infinite crisi si realizzano a partire da situazioni personali e contestuali molto meno decifrabili, si esprimono con modalità più drammatiche e pongono di fronte ad una resistenza all'intervento molto più marcata rispetto a quella offerta da Barbara. Ma ciò che è importante, per il nostro discorso, è la metodologia dell'approccio dialettico, che è rivolto, contemporaneamente, a ristabilire, con i mezzi ritenuti necessari, un minimo di equilibrio, e, paradossalmente, a drammatizzare la situazione, cercando di definire immediatamente uno sfondo – contestuale e storico-culturale - sul quale la crisi, quali che siano i sintomi e i livelli di destrutturazione, possa essere percepita come una soluzione a vicolo cieco, ma orientata verso un obiettivo che va confermato al soggetto. L'errore clamoroso dell'approccio tradizionale consiste nell'ignorare che le crisi esprimono in forme alienate dei bisogni autentici: di conseguenza, non riuscendo a distinguere il grano del bisogno dal loglio delle forme alienate che esso ha assunto nel corso dell'esperienza soggettiva e nella quale si esprime, l'approccio tradizionale fa di tutta un erba un fascio. Non è azzardato, pertanto, affermare che ogni guarigione della crisi ottenuta repressivamente, per semplice remissione dei sintomi, è un risultato antiterapeutico, poiché il soggetto, in virtù di essa, viene restituito alla struttura psicopatologica preesistente con la falsa convinzione che essa è la normalità.

Quando le crisi si configurano dopo un lungo periodo di disagio soggettivamente e socialmente percepibile, l'intervento dialettico è agevolato da una destrutturazione che è stata vissuta e partecipata.

A 15 anni, Lanfranco, che è stato fino ad allora un ragazzo quieto docile studioso, muta bruscamente carattere: diventa aggressivo e violento nei confronti dei familiari, reagisce ad ogni minima frustrazione sociale (a scuola o con gli amici) con attacchi 'isterici' di rabbia, e comincia a vivere in maniera piuttosto disordinata. Visitato nel giro di alcuni anni da numerosi psichiatri e assoggettato alle più varie cure psicofarmacologiche, egli reagisce a tutti gli interventi in maniera paradossale: i consigli paternalistici lo esasperano, gli psicofarmaci lo rendono più eccitabile, le imposizioni e i rimproveri lo fanno diventare più ribelle. A 19 anni, abbandonata la scuola, comincia a vivere alla giornata: si alza tardi, vuole essere servito come un signorino e 'foraggiato' di denaro, sta fuori casa la notte, frequenta quotidianamente prostitute. Il suo modo di vivere s'ispira, senza che egli ne abbia coscienza, alla visione del mondo trasmessa dalla famiglia: visione incentrata su una radicale diffidenza nei confronti degli estranei, da cui ci si può aspettare solo del male. Per Lanfranco, tutti gli uomini sono egoisti, avidi di piaceri, prepotenti e indifferenti ai bisogni altrui; tutte le donne 'troie' che ingannano chi si fida di loro. La conseguenza di questi presupposti è ovvia: è solo nella misura in cui Lanfranco riesce a sentirsi onnipotente – capace di difendersi e di 'sfruttare' gli altri (le donne, in particolare) - che egli può stare nel mondo. Di fatto, egli vive in una condizione costantemente ipomaniacale, che si autoalimenta fino al punto di indurre dei comportamenti abbastanza pericolosi socialmente. Quando è vicino al momento della rottura, l'esaltazione vira bruscamente: preda di paure persecutorie, Lanfranco si chiude in casa, si sente debole e impotente, incapace di reggere anche lo sguardo di un bambino. La sua dipendenza dai genitori diventa estrema,e, dopo un periodo di passività, Lanfranco li attacca, diventando estremamente aggressivo. E' nel corso di una crisi di questo genere che egli, per dimostrare di non aver paura di nulla, si lancia dalla finestra, frantumandosi il cranio.

Fortunatamente riesce a sopravvivere, e si avvia un intervento terapeutico dialettico. Non c'è alcun dubbio, data la lunga storia e la complessità dell'esperienza, che occorrerà affrontare ulteriori crisi. L'importante, nell'immediato, non è scongiurarle, bensì mettere Lanfranco in condizione di cominciare a capire le contraddizioni che sottendono la sua esperienza. La prima concerne la sua domanda terapeutica: facendo riferimento a periodi maniacali, egli continua a identificare nel sentirsi onnipotente la possibilità di vivere bene. Ma egli ha sperimentato che questo sentimento, al di là di un certo limite, si traduce bruscamente nel suo contrario. Qual è il significato di questo viraggio se non quello di metterlo al riparo, evitando che il conflitto con il mondo giunga alle estreme conseguenze? La depressione, paradossalmente, preserva dunque la sua libertà e il bisogno di un rapporto non totalmente conflittuale con il mondo. Essa, certo, gli restituisce un'immagine di sé inerme e impotente intollerabile: ma questa immagine definisce una verità di fatto – il suo essere inadeguato e incapace - o una verità microstorica- il non aver esercitato mai la sua potenza nel ricostruire rapporti significati con gli altri? La visione del mondo di Lanfranco esclude questa possibilità: ma non è sorprendente che la sua esperienza diretta non abbia fatto altro che confermare che il mondo è così come gli è stato suggerito dalla famiglia essere? E se egli avesse fatto di tutto per confermare quella visione per tutelare la sua vulnerabilità non dalla cattiveria del mondo, ma dalla pressione dei suoi bisogni di relazione?

Lanfranco ammette di avere sempre sognato un mondo utopico nel quale fosse possibile volersi bene e non farsi del male. Ma si tratta di un sogno infantile, per quanto persistente, smentito dai fatti. Il fatto fondamentale è la sessualità: Lanfranco vive se stesso e gli altri come macchine istintuali perpetuamente desideranti senza freno e senza controllo. Come è possibile costruire dei rapporti autentici se la natura umana è così ciecamente orientata a soddisfare gli istinti sessuali? Ma questa concezione istintualistica non potrebbe essere orientata e funzionale al fine di metterlo al riparo dal percepire il suo desiderio di legarsi e di amare? Numerosi dati dell'esperienza di Lanfranco confermano quest'ipotesi. Intanto, il massimo piacere sessuale egli lo riceve solo dai rapporti frettolosi con prostitute sempre diverse: l'intensità del piacere sembra dunque inversamente proporzionale al rischio, non già di legarsi, ma semplicemente di provare sentimenti. In secondo luogo, nei rapporti con le ragazze, egli sceglie costantemente ragazze che notoriamente hanno avuto delle esperienze. Nei rari casi in cui si è trovato in rapporto con ragazze apparentemente oneste (dal suo punto di vista), egli ha avuto enormi difficoltà a fare l'amore ed è riuscito solo fantasticando che erano delle 'troie'. Infine, c'è da tener conto di un aspetto solo apparentemente marginale: nel luogo di residenza, Lanfranco ha volutamente alimentato, con tutta una serie di comportamenti non spontanei, la 'fama' di essere un pazzo e ci tiene. E' inutile dire da che cosa questa 'fama' lo difende.

Con questi elementi, illuminati dalla ricostruzione di una storia familiare incentrata su un totale isolamento dal contesto ambientale dovuto ad una condizione di agiatezza, è possibile capire il significato del tragitto esperenziale di Lanfranco, minacciato costantemente due fronti: se è vero infatti che il mondo esterno ai suoi occhi si configura come cattivo per l'avidità istintuale che lo anima, non è meno vero che egli si sente minacciato internamente da bisogni relazionali che, nonostante tutto, mirano a realizzarsi affettivamente.

Con l'atteggiamento ipomaniacale, e cioè sentendosi potente e intrattenendo rapporti solo superficiali, Lanfranco si difende da entrambe le minacce. Ma la pratica dei rapporti costantemente rischia di provocare una realizzazione della minaccia interna. Per questo, Lanfranco deve periodicamente aumentare le difese: ma, d'altro canto, giunto a livelli di esaltazione piuttosto intensi, egli avverte la possibilità paurosa che il conflitto con il mondo esiti in qualche fatto che potrebbe comportare l'esclusione e, quindi, la distruzione di ogni possibilità relazionale. Anziché promuovere la repressione esterna, egli si reprime, crollando in depressione. Con l'aiuto di quest'ipotesi, Lanfranco comincia a leggere la sua esperienza nel mentre essa si realizza seguendo le dinamiche della struttura maniaco-depressiva, e coglie dal vivo la contraddizione tra il suo bisogno di stare sempre in relazione con il mondo e il bisogno di scongiurare ogni possibilità di legame significativo. Da questa consapevolezza, che rende molto meno drammatiche le oscillazioni nel modo di porsi in rapporto al mondo, è facile far scaturire una previsione: qualora Lanfranco si trovasse intrappolato in un rapporto d'amore, egli dovrebbe confrontarsi con una drammatica riaccensione delle contraddizioni apparentemente sopite.

E' quanto accade dopo tre anni dal tentativo di suicidio. Dopo l'esaltazione di un'avventura intensa incentrata sulla sessualità, Lanfranco scopre di non potersi liberare dal legame. Non solo: è contraccambiato con intensità. Egli sottopone la ragazza ad una serie di attacchi violenti senza riuscire ad ottenere che si allontani da lui. Allora non gli rimane altro che deteriorarla ai suoi occhi: è una 'troia' come le altre, che finge di amarlo perché, arrivata ai 30 anni, dopo averne fatte di cotte e di crude con mezzo mondo, vuole infinocchiarlo e sposarlo, per sistemarsi. Sa, evidentemente, della sua posizione, e dell'eredità (è figlio unico). Al culmine dell'interpretazione delirante, giunge a pensare che ucciderla sarebbe un atto di giustizia. Ma che cosa, infine, gli impedisce di troncare il legame se non il suo cuore che. dopo anni e anni di mortificazione, è riuscito a giocarlo? Lanfranco non vuole 'starci': va con le prostitute e scopre che non l'attirano e che con esse non prova più piacere. Gioca l'ultima carta per tenere in vita la sua visione del mondo che ha rischiato di perdere: finge di avere debiti di gioco. La ragazza, che, tra l'altro, ha un lavoro ben retribuito, gli presta del denaro, tutto quello che ha, e, infine, impegna i suoi gioielli. Lanfranco cade in depressione, ma diversamente da prima: si sente in colpa per la sua 'cattiveria' , e confuso su come stanno 'le cose del mondo'. La crisi ha, dunque, funzionato, instaurando una dialettica laddove c'era una struttura chiusa.

L'esperienza di Lanfranco permette di comprendere che il problema dell'intervento sulla crisi è posto in termini errati se l'efficacia dell'intervento è misurata su una situazione di crisi generica, per esempioun episodio psicotico acuto. Le metodologie di un intervento si distinguono per le capacità che hanno di intervenire nell'immediato sulla crisi e nei tempi lunghi sulla struttura psicopatologica. La prassi terapeutica dialettica si fa carica soprattutto di questo secondo obiettivo, anche quando esso appare difficile da raggiungere in rapporto ad una serie di interventi non dialettici, rivolti vanamente a soddisfare uno dei bisogni della struttura. L'esempio che segue è a riguardo significativo.

Caterina, la cui microstoria è già nota, ha, dall'età di 15 anni degli episodi piuttosto violenti di eccitamento con comportamenti di disinibizione erotica. A 23 anni entra in cura con una psicoanalista, che si pone, come primo obiettivo, quello di scongiurare ulteriori ricoveri in clinica. A tal fine, essa instaura con Caterina, un rapporto che è, al tempo stesso, molto gratificante e direttivo. Caterina si abbandona ad esso, è docile, giudiziosa, e collaborante, si lascia guidare e consigliare. Ma, come era prevedibile, in rapporto alla sua storia, caratterizzata da reiterati attacchi ai legami oppressivi (oggettivamente e soggettivamente), dopo qualche tempo si scatena: la sua libertà – questo è il problema -, muovendo da una percezione di sé impotente rispetto al mondo, ha bisogno dell'oppressione per realizzarsi. La psicoanalista si attribuisce un potere di controllo che, in effetti, non ha: per proteggere Caterina dal ricovero e farla rientrare dalla crisi, letteralmente le perseguita con sedute, telefonate e visite domiciliari. Caterina sta sempre peggio e fa sempre peggio: diventa anche nei confronti della psicoanalista aggressiva, ingrata e ferocemente cattiva. La psicoanalista non accetta la propria impotenza: reagisce recependo la sfida, e rispondendo colpo su colpo. Caterina, un giorno, esce di casa e, incrociando un'auto della polizia, lancia delle minacce: viene bloccata, si ribella, e scatta l'arresto. Dopo due giorni di detenzione, senza alcun intervento farmacologico, la crisi di eccitamento si risolve del tutto. E' evidente che la crisi di Caterina esprime due bisogni, apparentemente opposti: un bisogno di libertà totale rispetto ai vincoli affettivi – col marito, con la psicoanalista - che, alla luce di un'esperienza antica, le restituiscono il suo essere dipendente e manipolabile; e il bisogno che l'esercizio della libertà, nella misura in cui rischia di distruggere la sua possibilità di legami con il mondo, venga contenuto e represso.

La psicoanalista ha commesso l'errore di pretendere di mediare dall'esterno questo conflitto: ha preteso, insomma, di legare Caterina affettivamente e di proteggerla, in forza di questo legame, sia dall'esercizio di una libertà sconsiderata sia dalla domanda di repressione. Dall'altro canto, criticamente, è certo che l'alleanza con uno dei due bisogni non conseguirebbe alcun effetto. Nella storia di Caterina, ciò è comprovato dai fatti. Durante un soggiorno terapeutico in Svizzera, un terapeuta ha messo in atto una strategia della responsabilizzazione: lasciava Caterina libera di fare ciò che volesse, certo che o la paura o le esperienze negative avrebbero indotto una sorta di autocontrollo. Ma, alla fine, ha dovuto cedere: con i suoi comportamenti trasgressivi, infatti, Caterina gli procurava tali noie con la popolazione e con le forze dell'ordine da costringerlo a rinviarla in Italia da sola su un aereo in piena crisi. Numerosi ricoveri in una stessa clinica hanno corrisposto alla strategia della repressione, rinforzata dal tentativo degli psichiatri di convincere Caterina che la sua malattia dovesse essere contenuta farmacologicamente anche nel corso degli intervalli. Caterina si lasciava reprimere, con maggiore o minore violenza, e curare: poi, appena uscita, ricominciava daccapo.

Quale soluzione proporre in questo caso, da un punto di vista di prassi terapeutica dialettica? La ricostruzione microstorica offre gli elementi per comprendere la struttura dell'esperienza. Ma, mentre la ricostruzione attesta che il problema di Caterina è di sperimentare la sua possibilità di relazione in rapporto ad un mondo vissuto su un registro persecutorio, registro che l'ha costretta a subire ed accettare un'interminabile dipendenza protettiva, il suo livello di coscienza la porta a leggere in questa dipendenza solo l'intenzione strumentale – di protezione, di repressione e controllo - degli altri – i genitori, il marito, la psicoanalista -, che essa poi formalizza nel perbenismo borghese, nei valori sociali dominanti che impongono alla donna il ruolo subordinato, domestico e moralmente ineccepibile, mentre sembra rimuovere del tutto un altro aspetto: il suo essere cioè profondamente impregnata da quei valori da vivere di fatto, nell'intervallo tra le crisi, isolata nelle pareti domestiche, senza alcun rapporto significativo con il mondo e bisognosa di avere accanto a sé il padre o il marito per uscire. Anche in questa condizione essa di fatto si ribella rifiutandosi ad ogni impegno domestico e alle cure del bambino: ma uscire da questa condizione per essa significa solo gettarsi in una serie di avventure che la fanno sentire eroticamente libera ma che, in realtà, sanciscono la sua dipendenza dall'uomo. Il problema profondo, dunque, è che essa vive la possibilità di affrancarsi dalla paura del mondo solo sotto forma di attacco, di sfida e di trasgressione. Ma tanto è vero che questa soluzione non funziona che, rapidamente, Caterina sviluppa angosce di colpa, che la inducono a denunciare i suoi 'misfatti' e a vivere sotto la minaccia di angosce di morte (incubi, senso di soffocamento, crisi di contrattura funzionale, ecc.).

Alla luce dei dati microstorici, della struttura d'esperienza e del livello di coscienza che Caterina ne ha, l'intervento dialettico si pone due obiettivi. Primo, aiutarla a vedere il problema non nella genesi – di fatto è stata iperprotetta, manipolata, oppressa, controllata - ma nelle conseguenze: la paura di un contatto diretto, personale e libero con il mondo, che frustra ogni possibilità di integrazione sociale. Tale paura postula la necessità non di sfidare il mondo, bensì semplicemente di vivere in esso e di interagire, senza votarsi per lunghi periodi alla claustrazione. Il secondo obbiettivo è restituirle come confine comportamentale della sua libertà quello al di là del quale insorgono i sensi di colpa, la paura di morte e i bisogni di repressione. Questa restituzione consiste nel proporle un patto terapeutico che prevede un intervento di contenimento (assistenza domiciliare, somministrazione di farmaci, ricovero in clinica) non in rapporto alla libertà che esercita bensì all'angoscia che, eventualmente ad essa segue. In pratica, il patto prevede un intervento non perché tradisca essa il marito o trascorre le notti fuori casa, bensì perché, ciò facendo, comincia ad avere incubi, angosce di morte e necessità di confessare a tutti le sue colpe. Se essa dovesse vivere bene la libertà, non ci sarebbe alcun motivo, da questo punto di vista, per intervenire. In questo caso, il problema investirebbe il marito, nel senso che dovrebbe essere questi a decidere se stare o no con una donna che rivendica la libertà sessuale. Ma è chiaro che l'obiettivo più importante rimane il primo: aiutare Caterina a comprendere che la sua vera 'malattia' sta nel modo in cui vive negli intervalli tra le crisi, irrealizzata e frustrata nei ruoli domestici e completamente inibita nella pratica sociale. Carica di vergogna sociale, insomma, per la libertà trasgressiva verso cui tende, e in cui è rifluito il bisogno d'integrazione sociale, mortificato da una percezione persecutoria nei confronti del mondo. Da un punto di vista di prassi terapeutica dialettica, il problema non è dunque quello di reprimere la libertà, bensì di promuovere una libertà che non c'è mai stata, aiutando Caterina a comprendere che ciò che essa ha sperimentato come tale, eccessiva e colpevolizzante, è null'altro che la costrizione ad essere libera (secondo una forma di comportamento determinata…): l'espressione di un difetto, dell'angoscia di non esserlo affatto. La possibilità che Caterina non giunga mai a prendere coscienza di ciò sussiste, come in ogni esperienza umana. Ma l'impostazione dell'intervento, che vede nel bisogno di repressione veicolato dalla crisi l'espressione di un bisogno alienato, e che quindi si fa carico di esso nei momenti di crisi solo per restituirlo al soggetto come bisogno contro cui esso deve lottare nei periodi intervallari, nei quali, di fatto, è più attivo, ottimizza le possibilità di Caterina di riorganizzare dialetticamente la sua esperienza.


L'intervento terapeutico nelle situazioni di crisi (2)

Abbiamo considerato tre situazioni diverse: la crisi a ciel sereno, la crisi nell'ambito di un'esperienza che tende a destrutturarsi, e la crisi che si reitera con le stesse modalità in un lungo periodo. Si tratta, in rapporto alla complessità dei problemi, di un'esemplificazione sommaria, che può, però, essere utile per definire alcuni principi teorico-pratici, ai quali deve ispirarsi l'intervento dialettico.

Il primo principio postula che ogni crisi venga valutata non clinicamente ma dialetticamente, e cioè, in pratica, tenendo conto di due parametri: il bisogno di repressione che essa esprime e il rapporto che intercorre tra il soggetto in crisi, l'ambiente familiare e gli operatori. Si tratta di parametri intimamente correlati tra loro, decisivi ai fini di una risposta terapeutica adeguata. Posto, infatti, che si riconosca il bisogno di repressione, non ha senso misconoscerlo in nome del rispetto della libertà del soggetto. L'importante, da un punto di vista dialettico, è non assumerlo come un bisogno oggettivo, e dunque rispondere ad esso in maniera minimale: in maniera cioè da soddisfarlo, e da avviare immediatamente una riflessione critica che metta il soggetto in grado di valutarlo come un falso bisogno. Da questo punto di vista, il rapporto tra soggetto, ambiente familiare e operatori è decisivo, nel senso che solo un certo grado di conoscenza reciproca permette di valutare quale debba essere la risposta terapeutica minimale. Ciò significa che giocarsi la possibilità dell'intervento dialettico con una risposta ideologica, assolutamente non repressiva, che obbliga qualcun altro a farsene carico, non ha senso. E' chiaro, d'altro canto, che riconoscere il bisogno di repressione non autorizza in nessun caso un intervento standardizzato: il criterio della prassi terapeutica dialettica è di fornire – non lo si ribadirà mai a sufficienza - la minima risposta adeguata a soddisfare quel bisogno.

Il secondo principio postula che la crisi venga affrontata come un momento congiunturale di una struttura di esperienza, più o meno integrata con l'ambiente familiare e sociale, non evolutiva, che la crisi mira a far evolvere bruscamente, senza alcuna mediazione dialettica per i bisogni fondamentali alienati. L'interpretazione congiunturale della crisi impone, pertanto, di utilizzare il materiale che essa produce al fine di ricostruire una carriera microstorica finita in un vicolo cieco. Ciò consente di definire il più rapidamente possibile un progetto terapeutico il cui obiettivo è massimale, identificandosi con un processo dialettico di ricostruzione storica e di ristrutturazione dell'esperienza – sia a livello soggettivo che familiare e sociale- che ponga in grado il soggetto di trasformare le sue potenzialità in potere reale sul mondo interno ed esterno. Il superamento della crisi, da questo punto di vista, non significa altro che un ritorno alla struttura psicopatologica e agli equilibri ambientali preesistenti, colti nel loro carattere insoddisfacente e non evolutivo in rapporto ai bisogni fondamentali.

Il terzo principio, che muove dalla consapevolezza delle difficoltà di ristrutturare un'esperienza psicopatologica e dalla tendenza della crisi a ripetersi, in ordine all'esistenza – nel soggetto e nelle interazioni ambientali - di dinamiche che funzionano come 'grilletti', comporta la definizione di un patto d'alleanza tra il soggetto, l'ambiente sociofamiliare e gli operatori che, mortificando ogni vana illusione di una guarigione magica o spontanea, coinvolge tutti in un processo di lunga durata nel corso del quale il ripetersi di situazioni critiche non può essere ragionevolmente escluso (anzi, di solito, può e deve essere previsto).

L'importante è che le crisi vengano vissute più consapevolmente e comprese nella loro genesi e nelle loro dinamiche: ciò consente, infatti, di attenuare le conseguenze soggettive ed ambientali e, in una fase più avanzata dell'intervento, di scongiurarle in virtù della presa di coscienza del loro esaurirsi in un vicolo cieco. L'alleanza tra soggetto, ambiente e operatori non può nascere da una concordanza di punti di vista sulla situazione e non deve nascere dall'assoggettamento degli utenti al potere tecnico, bensì dall'accettazione di un metodo che, ponendo i problemi nei loro giusti termini, riabiliti il potere delle persone di agire su di essi. E' superfluo aggiungere che i problemi sono posti nei giusti termini quando essi sono dialettizzati, e cioè quando consentono di operare delle scelte in una condizione di relativa libertà.

Sinteticamente, questi principi possono ricondursi ad una serie di momenti terapeutici: si parte dalla crisi come tentativo astratto di risolvere problemi prodotti dai processi reali di vita, si supera la crisi restaurando la struttura di esperienza con la quale quei problemi sono stati mascherati adialetticamente, si ricostruisce la genesi e la dinamica della struttura in maniera tale da restituire al soggetto (e/o al gruppo) la configurazione alienata dei bisogni, si riavvia una pratica di vita che, lottando contro quest'alienazione e i codici mentali cui essa fa capo, miri a soddisfare i bisogni fondamentali.

Detto ciò sarebbe assurdo ignorare che, nella pratica quotidiana, ci si confronta con situazioni d'urgenza, caratterizzate dal panico soggettivo e ambientale, tali da far apparire impraticabili i principi esposti. Considerati nel loro insieme, e nella logica che li sottende, che è quella dei tempi lunghi, è difficile ipotizzare una situazione critica che li renda impraticabili. Il problema che induce un qualche scoramento è un altro e consiste nel rendersi conto – vale la pena rileggere a riguardo la biografia di Guido redatta dal padre - che un intervento terapeutico alternativo a quello tradizionale, o anche semplicemente un intervento, viene richiesto quando, per dirla con Laing, 'il terribile è già accaduto': quando cioè la struttura psicopatologica, nel suo vano sforzo di contenere i bisogni alienati, ha già prodotto delle potenzialità destrutturati pericolose. E' probabile che l'affiorare del disagio in forma critica sia legato a variabili socioculturali esse stesse assoggettabili ad una dialettica sociale. In particolare, due: la tendenza del soggetto ad occultare le difficoltà che incontra fino al punto che non ce la fa più e deve tentare di risolverle alla bell'e meglio, secondo il principio 'o la va o la spacca'; e la tendenza dell'ambiente ad accecarsi o a minimizzare ciò che sta accadendo fino a trovarsi di fronte al fatto compiuto della crisi. E' evidente che ambedue queste variabili sono da ricondurre ad una percezione pregiudiziale del disagio che comporta un vissuto di vergogna individuale e familiare. Un esempio significativo di ciò è il seguente.

Enrico, la cui microstoria è stata riferita, è crollato solo quando la sua intensa sofferenza interiore, protrattasi dall'infanzia fino ai 18 anni, si è tradotta criticamente in un evento – una forte folgorazione alla testa - che gli ha permesso di riconoscersi malato fisicamente. Nonostante ciò, egli, su consiglio della famiglia, si è mascherato socialmente da persona pigra, svogliata e disinteressata allo studio e al lavoro, senza parlare della sua condizione neppure con pochi amici intimi.

L'intervento dialettico, dopo un anno, giunge a scalzare questa convinzione di malattia fisica, e a porre in luce una storia familiare che ha sacrificato la cura dei figli al mito dell'ascesa sociale e della rispettabilità borghese. I genitori, coinvolti in una presa di coscienza sulla loro storia personale e sociale, si ribellano all'idea di avere una qualche responsabilità, e insistono nell'affermare che Enrico è malato, e che è nato 'strano', poiché fin da bambino faceva un dramma di ogni cosa. La prova di ciò è il fratello che, vissuto nello stesso ambiente, non ha mai manifestato problemi, è un ragazzo sano e vigoroso, che pratica il culturismo e frequenta le ragazze. Non rende a scuola e, ogni tanto, soffre di insonnia: ma, secondo i genitori si tratta di una conseguenza dell'affaticamento muscolare. Dopo sei mesi, il fratello di Enrico, che, in realtà, non dorme più da parecchio tempo, crolla: di notte, urlando, spalanca le finestre e getta giù tutti i mobili della camera. Il vissuto che esprime concretamente concerne il suo sentirsi un 'nano', handicappato sia fisicamente che mentalmente. La crisi precipita una presa di coscienza familiare sul prezzo pagato dai figli ai sogni di potenza e di prestigio sociale.


Coscienza e inconscio nella prassi terapeutica dialettica

Per avviare un discorso complesso, il ricorso ad una metafora sembra il modo migliore. Si pensi ad un progetto orientato a realizzare un filmato nell'ambito del cosiddetto cinema-verità. A tal fine, si registra, senza una sceneggiatura precisa, un'enorme quantità di materiale e successivamente, si procede al montaggio: è chiaro che, in questa fase, i giudizi di valore sul materiale registrato sono decisivi ai fini di utilizzarne una parte e di scartarne il resto. All'atto della proiezione, ciò che è stato scartato è come se non esistesse. Ma se il materiale montato manifesta, qua e là, incoerenze, lacune e insensatezze, viene ovvio pensare che i giudizi di valore che hanno presieduto al montaggio non hanno prodotto un risultato positivo, e che un esame più attento del materiale registrato può permettere di giungere ai risultati migliori.

Applicata all'esperienza soggettiva, la metafora può essere decodificata in questi termini. Il substrato materiale è, intanto, come per la pellicola cinematografica, la sensibilità. Questa dà luogo alla registrazione di infiniti eventi sotto forma di memorie. Le memorie sono il materiale su cui si esercita il lavoro di montaggio effettuato dalla coscienza: ma questo lavoro è orientato da giudizi di valore, e cioè da codici, che mirano ad assicurare alla coscienza un certo grado di coerenza e a renderla funzionale ai suoi fini: la soddisfazione dei bisogni fondamentali nella pratica della vita. Se il montaggio della coscienza non riesce funzionale, ciò significa che il materiale scartato deve essere, in una certa misura, recuperato e riutilizzato. Per necessità intrinseche, la coscienza richiede un certo grado di destoricizzazione: ma questo grado, definito dai codici che essa adotta per strutturarsi, se è troppo elevato, impedisce alla coscienza di funzionare.

Questa metafora presiede ad ogni intervento terapeutico dialettico, e può essere utilizzata, spesso, per rendere consapevoli il soggetto del lavoro da compiere. Per alcuni aspetti, essa è tributaria della psicoanalisi. La nozione d'inconscio represso e/o rimosso è psicoanalitica. Ma il punto di vista dialettico comporta anche dei parametri affatto diversi rispetto alla psicoanalisi. Intanto, l'inconscio non è represso o rimosso in quanto depositario di impulsi irrefrenabili o di ricordi traumatici, bensì in quanto rappresentante di bisogni che, essendo stati esperiti come dolorosi, devono essere eliminati. La pressione che esercita, di conseguenza, non è una pressione istintuale. Questa è solo l'apparenza: i bisogni, assoggettati ad una mortificazione ambientale prima e soggettiva poi, s'intensificano e, per ripresentarsi, devono assumere una connotazione esplosiva. La pressione dei bisogni, è omologabile alla pressione delle acque ingabbiate da una diga: è l'ostacolo esercitato da questa che rende quella pressione pericolosa. Gli impulsi e i desideri freudiani altro non sono che l'espressione di bisogni mortificati che si sono alienati nel corso del tempo

In secondo luogo, la rimozione non viene mantenuta da forze che agiscono al confine tra coscienza e inconscio, bensì dalla struttura stessa della coscienza che, fondandosi su codici normativi, esclude ogni contraddizione e dunque non può aprirsi alla memoria. In altri termini, è la struttura non dialettica della coscienza che, confermandosi di continuo nelle interazioni con il mondo esterno, esercita la rimozione, come è proprio d'ogni ideologia chiusa che si autoalimenta e selettivamente cancella tutto ciò che potrebbe compromettere la sua chiusura.

Dal punto di vista dialettico, l'inconscio, dunque, è il depositario della memoria e dei bisogni fondamentali, sia pure alienati, mentre la coscienza appare strutturata da codici normativi che la rendono astratta e, in una certa misura, chiusa al patrimonio microstorico che la sottende.

La dinamica del rapporto tra coscienza e inconscio è caratterizzata dal fatto che la prima, per strutturarsi in rapporto ai codici nei quali vede la normalità, deve rimuovere le memorie microstoriche e i bisogni così come essi si sono configurati nel corso dell'esperienza di vita. In virtù della rimozione, i bisogni operano una pressione costante e, se non trovano accesso alla coscienza, s'intensificano e si disordinano: ma è proprio in virtù della configurazione anarchica che essi sono costretti ad assumere che la coscienza, adottando come criteri di valore i codici ipernormativi, può ulteriormente respingerli, vedendo in essi una minaccia alla normalità, alla libertà e alla sessualità (è questa la radice delle tre grandi paure…).

L'intervento dialettico si rivolge anzitutto alla struttura della coscienza che, gravitando verso un modello di normalità astratta, si aliena sempre più rispetto ai bisogni, che, non potendosi esprimere – nei sogni, nelle fantasie e, talora, nei comportamenti - che in forma anarchica, vengono ad essere vissuti fobicamente.

E' attaccando la coscienza nelle sue valenze ideologiche, che comportano, contemporaneamente, una perdita di potere sul mondo esterno e su quello interno, che l'intervento dialettico genera una crisi che la orienta verso la ristoricizzazione e il recupero dei bisogni fondamentali. La crisi è dovuta al fatto che il soggetto giunge a percepire questi bisogni, che affiorano attraverso i sintomi, ma nella configurazione distorta che essi hanno assunto per effetto della rimozione o della repressione. L'ulteriore momento consiste dunque nella disalienazione dei bisogni: nel recuperarli, cioè, nel loro autentico significato evolutivo, superando l'attribuzione ad essi di caratteri repressivi, anarchici e distruttivi. E' a partire da questo recupero che il soggetto può avviare una pratica di vita orientata a soddisfarli, e cioè ad acquisire un potere di relazione col mondo sempre maggiore.

Il tragitto terapeutico porta, in breve, da una normalità astratta, paralizzante sul fronte del rapporto con il mondo interno, ad una pratica di vita che investe le potenzialità del soggetto in una direzione orientata a soddisfare i bisogni fondamentali. In un certo senso - ma questo è stato affermato sin dall'inizio della ricerca - l'approccio dialettico porta alle estreme conseguenze la più profonda tra le intuizioni freudiane: quella in virtù del quale l'intervento terapeutico non può rivolto che ad allentare le istanze superegoiche in ciò che esse hanno di disumano. Ma, mentre in Freud, la spietatezza del Super-io è riferita alla pressione delle pulsioni erotiche e distruttive sottrattesi alla civilizzazione educativa, dal punto di vista dialettico la verità è un'altra: per dirla con Rosseau, è la civilizzazione che, mirando a costruire le citoyen, mortifica l'uomo, lo disordina e lo costringe infine ad avere paura della sua umanità. La quale rimane, comunque, latente. L'inconscio, proprio per le sue radici biologiche, è animato da un solo istinto: l'istinto di vita, che, a livello psicologico, è null'altro che, come ha intuito Marx, il bisogno radicale del mondo, di manifestare in esso le proprie qualità e di esserne riconosciuto. In rapporto all'inconscio, univocamente orientato verso la vita, la coscienza appare una struttura bivalente: essa può farsi carico dei bisogni e mirare a realizzarli con l'investimento delle sue capacità cognitive, pratiche e progettuali, oppure ostacolarli, alienarsene e reprimerli, finendo in un vicolo cieco.


Teoria della personalità e prassi terapeutica dialettica

Rivisitando a posteriori la teoria della personalità che abbiamo delineato l’anno scorso, ritenendola compatibile con alcuni presupposti ideologici e con i dati genetico-strutturali offerti dalle esperienze di disagio psichico, ci si accorge di numerose lacune. La più importante, ai fini dell’intervento terapeutico, è che essa, pur alludendo di continuo a come si struttura una personalità che sviluppa poi un disagio psichico – i momenti strutturali, non sarà vano ricordarlo, essendo riconosciuti nell’alienazione dei bisogni fondamentali e nel processo di ideologizzazione della visione del mondo che muove da essa in virtù dell’adozione dei codici mentali - nulla dice, infine, dei livelli di esperienza che, in concreto, definiscono il modo di essere e di porsi del soggetto quando imbocca e percorre il vicolo cieco psicopatologico. Dal punto di vista terapeutico, questa lacuna è importante per l’ovvia ragione che, a livello di prassi noi entriamo in rapporto non già con la microstoria, che è da ricostruire minuziosamente e faticosamente, bensì con un’esperienza soggettiva strutturata, per quanto in qualche misura dissociata, e inserita attivamente in un contesto relazionale e socioculturale. Il problema che pone la prassi è come confrontarsi con questa struttura d’esperienza e con il sistema con cui interagisce, tenendo conto della necessità dialettica di fornire alla coscienza la possibilità di riappropriarsi della storia interiore vissuta nell'interazione con il mondo e dei progetti astratti che la irretiscono: presupposti, questi, di un possibile cambiamento, che può avvenire solo in virtù di una pratica di vita diversa.

In questa nota, delineeremo, dunque, i livelli dell’esperienza soggettiva. La nota successiva tenterà, con inevitabili approssimazioni, di definire le fasi di un intervento terapeutico dialettico.

Il primo livello con cui ci si confronta nella prassi è il livello comportamentale, e cioè il modo di essere e di porsi del soggetto di fatto, indipendentemente dai vissuti. Definire, come fa la teoria transazionale, questo livello obiettivabile è ingenuo, poiché, chi si confronta con esso entrando in relazione, non può limitarsi a descriverlo: lo interpreta.

Da un punto di vista dialettico, l’interpretazione del comportamento, anziché vertere solo sulle interazioni con l’ambiente, e cioè anziché tentare una descrizione riduzionista, mira a rilevare gli elementi costanti e stereotipici del comportamento stesso, quelli che, in misura relativamente indipendente dall’ambiente, attestano l’assoggettamento dell’esperienza ad un codice comportamentale fisso e immutabile. Si dà, infatti, per scontato che ogni comportamento è governato da regole, norme e valori, che queste funzionano in quanto introiettate; che la loro attività può essere prescrittiva ("tu devi"), prescrittivi ("tu dovresti"); che, nel loro insieme, esse definiscono un codice mentale normativo - il più spesso ipernormativo -; e che, infine, l’interazione con l’ambiente, può incorporarle o offrire un punto di leva per opporsi ad esse.

Se si tiene conto di ciò, immediatamente il comportamento di un soggetto che vive un’esperienza di disagio giunge a suggerire elementi atti a ricostruire un modello ipernormativo. Un esempio è il seguente.

Rita ha paura di star male ogni volta che esce di casa da sola. La sua autonomia non è azzerata, ma è di poche centinaia di metri rispetto alla casa. Essa è utilizzabile solo per uscite che comportino l’acquisto di beni per sé o per la casa. In pratica: Rita può andare a comprare il pane percorrendo cinquecento metri, non può scendere da sola nel giardino condominiale per prendere un po’ d’aria. In compagnia della madre, può andare ovunque: ma, talora, il malessere la coglie e deve rientrare a casa. In casa, sta bene anche da sola, tranne rarissime crisi di fame d’aria.

Codifichiamo questo comportamento: tu non devi uscire di casa da sola senza motivi, né allontanarti; se esci, devi farlo per assolvere dei compiti precisi; se vuoi andare in giro, devi essere accompagnata da tua madre; come hai sempre fatto, dovresti startene tranquilla in casa a studiare. Nel complesso, questo codice comportamentale configura il modo d'essere proprio della ragazza di buona famiglia, che vive nell’ossequio della tradizione. Codice costrittivo, aperto ad una sola speranza: trovar marito…

L’esempio è suggestivo. Cionondimeno, non si possono ignorare due problemi. Il primo inerisce l’esempio stesso. Se, infatti, l’esperienza di Rita è determinata dal codice tradizionale descritto, c’è da chiedersi donde attinge il suo potere questo codice, visto che coscientemente Rita non vuole vivere come una ragazza "da marito". Sarebbe ingenuo pensare solo ad un "condizionamento" familiare. La risposta, come vedremo, si ritrova ad un altro livello d'esperienza soggettiva. Il secondo problema è più serio: consiste nel domandarsi se la formula interpretativa adottata per interpretare il comportamento di Rita possa valere per tutte le esperienze di disagio psichico. La risposta è positiva: tutti i comportamenti umani, normali e psicopatologici, sono codificati culturalmente.

Massimo vive una perpetua neurastenia, che gli permette appena di andare un ufficio. Trascorre il pomeriggio a letto, nel vano tentativo di recuperare energie. Non può coltivare relazioni, né concedersi svaghi, né interessarsi ad alcunché: anche la lettura del giornale e il televisore lo affaticano. In pratica, lavora - ovviamente, con scarso rendimento - mangia e dorme.

Il comportamento, nel complesso, configura un modello di vita incentrato sulla logica della sopravvivenza: logica che postula che le energie vitali siano investite in attività economicamente produttive, e, per il resto, siano risparmiate. Alla luce di questo modello, tutto ciò che non è lavoro in senso stretto, ricade nell’ambito dello spreco, della dispersione, dell’azzardo e del vizio. Un modello calvinista, incentrato sul risparmio. En passant: in un’occasione, dovendo incontrare un’amica del liceo, Massimo è ossessionato dall’idea di dover offrire almeno in gelato. Spendere dei soldi per fare quattro chicchere risulta, infine assurdo: le forze vengono repentinamente meno, e l’appuntamento è disdetto…

Dopo aver ottenuto l’esonero dal servizio militare in virtù di un ricovero in clinica psichiatrica, Mauro sviluppa una grave sindrome ossessivo-fobica. Egli è certo di aver portato in casa il contagio della follia: ciò lo obbliga, e obbliga tutti i familiari, a comportamenti fortemente ritualizzati, incentrati sulla fobia del contatto tra gli oggetti contaminati e le persone, e tra le persone. La fobia, che investe, oltre ai malati di mente, tutti i "diversi" (barboni, emarginati, drogati, handicappati), impedisce a Mauro di uscire da casa per la paura di un incontro. Le rare volte che esce, lo sorprende, poi, la paura di essere scambiato per uno di loro: di conseguenza il suo comportamento è rigido, conformista e ipercontrollato. Nel complesso, il comportamento di Mauro integra il modo d'essere dell’individuo integro e integerrimo, che non ha nulla a che fare con i "diversi": questo modello impone a Mauro una maschera di igiene, di compitezza formale e di osservanza delle regole sociali, che comporta un totale difetto di spontaneità, e una costante distanza di sicurezza rispetto agli esseri umani, familiari compresi.

Numerosi esempi potrebbero essere addotti per confutare l’ipotesi che i comportamenti psicopatologici sono codificati: gli esempi di disagio in cui prevalgono, a livello comportamentale, trasgressioni, infrazioni e acting-out. Ma anche in questi casi, la formula interpretativa può essere adottata, se appena si tiene conto che un codice costrittivo consegue egualmente i suoi effetti per il soggetto se questi, avvertendone la pressione comportamentale, si costringe ad essere libero, e cioè agisce non secondo i propri bisogni, bensì in virtù di una logica antitetica alle prescrizioni e alle proscrizioni culturali. Anche in questo caso, egli vive dentro il codice realizzando le trasgressioni a partire dalle quali si è definito come normativo.

Al di là del livello comportamentale, c’è il livello dei vissuti soggettivi: il modo in cui il soggetto vive la propria condizione di disagio, il progetto di normalità che si pone, e la visione del mondo esterno ed interno che sottende questo progetto.

Il livello di coscienza nei confronti della condizione di disagio psichico è stato già considerato in una nota. Basta, pertanto, dire solo che, non essendo la coscienza in grado di decifrare il disagio come espressione di un codice, essa non può che oggettivarlo, viverlo cioè come un "impedimento ad essere" dovuto ai sintomi o ai controlli esterni. E’ comprensibile, pertanto, che il progetto di guarigione si articoli sotto forma di desiderio di liberazione dal disagio. I valori che animano questo progetto, tra l’altro, sembrano sempre esprimere bisogni autentici: benessere fisico e psichico, libertà, indipendenza, amore, studio, lavoro, felicità. Se si sottopone questo progetto all’analisi dialettica, risulta evidente che quei valori sono astratti, corrispondono cioè a codici ipernormativi, e che la loro funzione, in rapporto ai bisogni reali del soggetto e al tessuto della sua esperienza storica, è mortificante. Esemplificheremo questo assunto in rapporto alle esperienze cui si è fatto cenno.

Rita vagheggia una totale libertà, ma, nel contempo, pensa che per essere libera e conservare la libertà, una donna debba avere una personalità forte e inattaccabile; in breve, che non debba alcun cedimento sentimentale o erotico, poiché questo la rende dipendente dall’uomo e vulnerabile. Massimo individua la guarigione nel recupero delle piene energie fisiche e mentali. Ciò sarebbe funzionale alla realizzazione di un progetto di totale indipendenza dagli altri. Vivere solo, tranquillo, autosufficiente e padrone di sé è il suo modello latente di normalità, che non esclude, coscientemente, investimenti relazionali, sempre però sul registro dell’autocontrollo e della parsimonia.

Mauro, invece, ha un progetto di vita molto elevato. Una volta guarito egli intende riprendere gli studi universitari di ingegneria, dedicarsi all’astrofisica, interessarsi di cultura e di politica. Il suo modello latente si contrappone rigorosamente alle esperienze di altri giovani, che tendono a sballare e a sbracarsi. Ma la realizzazione di questo progetto postula un rigido ipercontrollo sul desiderio di vivere, che, per realizzarsi senza la minaccia di un ‘contagio’, è costretto a sperare che scatti un nuovo grande internamento dei diversi. Non esita a definire ‘fascista’ e ripugnante tale progetto: ma, per preservare la sua integrità, gli sembra che non esista altra via.

L’astrattezza dei tre progetti di guarigione ci consente di capire che essi esprimono l’introiezione di codici mentali ipernormativi, la cui funzione è ideologica per quanto concerne i modelli di normalità che essi propongono ma anche difensiva in rapporto a una paura profonda, che traspare in tutte le esperienze, di una relazione con il mondo fondata su investimenti affettivi ed erotici.

Questa paura non è solo di ordine emozionale: essa muove infatti da una visione del mondo articolata su una percezione di sé in termini di estrema vulnerabilità, minacciata dall’interno dal disordine pulsionale e dall’esterno dagli altri, cui si attribuisce una tendenza univoca a profittare di ogni debolezza. Questi elementi nel loro complesso determinano l’immagine negativa di sé che è presente a livello di coscienza in ogni esperienza di disagio.

Esistono tre modalità fenomenologiche con cui affiora l’immagine negativa di sé: sotto forma di radicale e costitutiva inadeguatezza di sé in rapporto al modello latente di normalità; di inadeguatezza relativa in rapporto ad un mondo letto in termini assolutamente pessimistici e persecutori; e, infine, sotto forma di percezione mostruosa del mondo interno. Non occorre spiegare perché le prime due modalità siano riconducibili alla terza.

L’immagine negativa di sé è la cerniera tra il livello profondo della coscienza e l’inconscio. In conseguenza dell’astrazione che impedisce alla coscienza di essere consapevole che il suo mondo interno è l’espressione di un processo microstorico, nel corso del quale i bisogni fondamentali si sono alienati, l’inconscio si configura così come Freud lo ha descritto: come inconscio pulsionale. Esso - sia chiaro - esiste realmente, sotto forma di fantasmi libidici e distruttivi. Ma - non lo si ripeterà mai abbastanza - nonché espressione della natura umana, esso va assunto come il prodotto di un processo in virtù del quale il bisogno di individuazione, impossibilitato a realizzarsi attraverso le fasi di opposizione, si è tradotto in aggressività, e il bisogno di integrazione sociale, frustrato nel suo tendere ad incanalarsi in relazioni significative, si è convertito in fantasie meramente strumentali di tipo erotico.

In un certo qual senso, si può dire che l’inconscio pulsionale preme per comporre lo scarto tra i bisogni fondamentali nella loro reale potenzialità e la pratica della vita: è, in breve, l’espressione di molteplici frustrazioni del desiderio di vivere - individuandosi e integrandosi - che vengono compensate in maniera fantastica e ridondante. Purtroppo, la percezione che i soggetti hanno dell’inconscio pulsionale è meramente terrificante; in senso formale, è su questa percezione che si edifica l’esperienza psicopatologica. Ma se esso esiste realmente a livello fantastico, perché mai non dovrebbe essere temuto? E, in secondo luogo, quali prove si possono fornire riguardo al suo essere un prodotto dell’alienazione dei bisogni, e non l’espressine di pulsioni naturali? E’ evidente che, per la pratica terapeutica dialettica, questo livello rappresenta l’experimentum crucis. A rischio di ripetere cose già dette, vale la pena di procedere con calma.

Quanto alla paura soggettiva, essa, per quanto comprensibile è infondata: come attestano con assoluta evidenza le esperienze ossessivo-fobiche, le pulsioni non mirano al disordine comportamentale, bensì a ricanalizzare nella pratica della vita i bisogni fondamentali mortificati prima dell’interazione con l’ambiente e poi dal Super-io. Un esempio inconfutabile è già stato riferito.

Francesco, sconvolto a 18 anni da fantasie incestuose rivolte verso la madre e la sorella e da fantasie omicide attivate dalla presenza a tavola di coltelli nei confronti del fratello, si impone di allontanarsi da casa per non diventare un criminale. Chiudendosi ad ogni tipo di rapporto significativo, egli, tutto dedito al lavoro, compie una rapida ascesa sociale, che si associa però progressivamente ad un sentimento profondo di vuoto e di solitudine interiore. Benché le fantasie siano valse a farlo venire bruscamente alla luce, sottraendolo ad un ambiente familiare al quale egli era troppo intensamente vincolato, e abbiano dunque riavvivato un processo di individuazione che rischiava di rimanere bloccato, esse non sono valse a distogliere Francesco da un progetto di vita totalmente incentrato sul desiderio di restaurare il prestigio socioeconomico della famiglia.

Anche a distanza, l’identificazione con la storia e il gruppo familiare mortifica il suo bisogno di integrazione sociale: tutto ciò che Francesco guadagna è investito nel restauro della casa avita e nel mantenimento dei suoi. La preoccupazione costante è di sistemare il fratello e la sorella. Il vuoto e la solitudine interiore, che denunciano il bisogno frustrato d'integrazione sociale, lo inducono a tornare in famiglia: ma immediatamente le fantasie ossessive si riattivano. Egli deve allontanarsi di nuovo, e, infine, prendere atto che i suoi bisogni postulano la costruzione di un mondo familiare nuovo.

Dell'infondatezza della teoria pulsionale, si possono fornire numerose prove. La più probante, paradossalmente, la si ricava dalle fantasie mostruose, quelle che - distruttivamente o sessualmente - si orientano sugli esseri vulnerabili per eccellenza, i bambini. Nessuno, con un minimo di buon senso, può considerarle facenti parte del corredo originario della natura umana. Si tratta, con evidenza, di fantasie iperadulte, che mirano a porre in luce non già la pericolosità del soggetto, bensì la condizione di pericolo in cui si trova ogni essere vulnerabile e indifeso. Il significato ultimo di queste fantasie, nonostante l’orrore che inducono, è di confermare i soggetti della necessità di diventare invulnerabili. Anche in questa necessità traspare la frustrazione dei bisogni fondamentali - individuarsi e integrarsi socialmente servono infatti, ad assumere il proprio potere reale sul mondo - ipercompensata però da un codice adulfomorfo letteralmente mostruoso.

Tutte le fantasie dell’inconscio pulsionale, in quanto prodotte dall’alienazione dei bisogni fondamentali, hanno la caratteristica di proporre ai soggetti modalità di rapporto con il mondo secondo un modello che identifica l’essere adulto con l’aggressività e la potenza sessuale.

Esse, in breve, vicariano ad un difetto di realizzazione dei bisogni nella pratica della vita accentuando la pressione del desiderio di vivere, che finisce con l’essere intrappolato da un codice pulsionale. E nella misura in cui esso si trasforma in inconscio pulsionale, i bisogni di socialità e di moralità dei soggetti sono costretti ad allearsi con le istanze superegoiche che, veicolate dall’ambiente, sono state le cause originarie dell’alienazione dei bisogni. E’ questo il paradosso che sottende ogni esperienza psicopatologica, e sul quale non si rifletterà mai abbastanza (per non parlare dell’esperienza di verificarlo ulteriormente: ché –sia detto en passant_ se esso non corrispondesse alla realtà, la nuova scienza del disagio psichico che stiamo edificando sarebbe meno un’ideologia che un delirio scientifico!).

Il paradosso consiste nel fatto che i codici superegoici, veicolati dalle istituzioni pedagogiche, producono l’alienazione dei bisogni fondamentali, e di conseguenza la precipitazione dell’inconscio pulsionale (dell’Es psicoanalitico). Ma, proprio perché minacciati dall’inconscio pulsionale, i soggetti, per la paura di essere esclusi dal contesto sociale, devono allearsi con le istanze superegoiche introiettate. E' il parassitismo esercitato da queste istanze sui desideri coscienti di vivere a permettere di comprendere il livello comportamentale: ché è, in ultima analisi, l’espressione sociale della struttura profonda della personalità!

Da quanto detto risulta chiaro che, nonché tenere a freno pulsioni pericolose, le istanze superegoiche rischiano di alienare ulteriormente i bisogni fondamentali: sono esse, dunque, e non le pulsioni a promuovere il rischio di una rottura comportamentale! Ciononostante, occorre pur tenendo conto che i bisogni fondamentali non risultano mai totalmente alienati. Il livello più profondo della personalità è rappresentato, infatti. proprio dai bisogni fondamentali, che nel loro originario significato di funzioni di vita umana, persistono. Ciò - come si è visto - è attestato precipuamente dai sogni. Ma tutto ciò che è profondo traspare anche in superficie. Anche a livello comportamentale esso denuncia, nonostante l’irrigidimento dei codici superegoici, i bisogni fondamentali. Come dubitare che Rita voglia rimanere una brava ragazza? Che Mauro intenda mantenere la sua integrità sociale? Che Massimo si voti alla solitudine per non fare agli altri ciò che è stato fatto a lui? Queste istanze, caricaturizzate e immeschinite dai codici mentali, vanno salvaguardate, poiché sono autentiche, liberate dalle distorsioni microstoriche e restituite ai soggetti per essere investite nella pratica della vita.

Se e come ciò sia possibile, può essere, sulla carta, solo accennato.

Un’ultima osservazione sintetica, di fondamentale interesse per l’intervento dialettico, concerne la condensazione, a tutti i livelli dell’esperienza soggettiva, di istanze personali e di istanze metapersonali. Il comportamento condensa codici comportamentali superegoici e bisogni di autoregolazione; la coscienza si orienta verso autentici valori, intrappolati, però, in codici mentali che li rendono astratti e disumani; l’inconscio pulsionale veicola il desiderio di vivere sotto forma di fantasmi la cui codificazione (sessualità, aggressività), per essere iperadulta, lo mortifica; l’inconscio superegoico, infine, si serve, letteralmente,della plasticità educativa, dei bisogni di socialità e di moralità intrinseci alla natura umana, per imporre, alla luce di codici tradizionali e inerti, un regime dittatoriale. Questa confusione di istanze personali e metapersonali è, nel contempo, il dramma dell’esperienza soggettiva psicopatologica, il motivo delle resistenze opposte ad ogni intervento terapeutico, e la materia prima dell’intervento dialettico. Ciò non significa, ovviamente, che tutti i codici metapersonali sono contro l’uomo: lo sono, di fatto, quando gli impediscono di assolvere la sua funzione evolutiva, che, in ultima analisi, è quella di mediare il passato e il futuro, di muovere e far leva sulla tradizione, non per rinnegarla, bensì per arricchirla e umanizzarla. Ma ciò dipende più da come la tradizione si offre all’uomo, che non da come egli la vive.


Metodologia dell’intervento terapeutico dialettico.

La definizione che, nel corso della ricerca, è stata data della salute mentale in termini di potere reale del soggetto sul mondo interno ed esterno, ci ha permesso di rivolgere l’attenzione, senza remore, al cosiddetto ‘specifico’, e cioè alle condizioni psicopatologiche di disagio non immediatamente correlabili alle situazioni socioambientali attuali, e nelle quali, pertanto, le difficoltà soggettive sembrano assolutamente prevalenti. Il riferimento alla radicale storicità dell’esperienza umana e il rifiuto di considerare la soggettività come una scatola nera o un universo prevalentemente fantasmatico ci hanno consentito di delineare una teoria del disagio psichico nella cui ottica l’autonomia relativa del mondo interno, strutturato dall’esperienza storica globale del soggetto, rispetto a quello esterno non comporta alcun cedimento al riduzionismo psicologista; né, d’altro canto, per sfuggire tale rischio, è sembrato necessario negare quell’autonomia, pagando un prezzo al riduzionismo sociologista. Da un punto di vista dialettico, il potere reale del soggetto è definito dalla sua storia, dalla struttura del mondo interno e dal contesto entro il quale egli vive. Valutare l’incidenza di questi tre fattori nella genesi del disagio permette di definire un continuum che va dalle condizioni psicopatologiche, propriamente dette (lo ‘specifico’) alle condizioni di sofferenza psichica dovute a fattori socioambientali. Non ha senso ridurre questo continuum cercando di sociologizzare la polarità psicopatologica o di psicologizzare il disagio socioambientale. Né ha senso scindere questo continuum, distinguendo un’area di interesse specialistico di pertinenza dei ‘tecnici’ e un’area di interesse socioambientale: la necessità di metodologie di intervento differenziate non può giungere, infatti, a negare la matrice comune dei problemi, che è nella struttura del mondo in rapporto ai bisogni umani.

Un esempio può definire meglio di ogni discorso questa matrice e i modi diversi in cui essa si esprime.

In un complesso I.A.C.P. di recente assegnazione, affiorano due diverse condizioni di disagio psichico. Marco, di 26 anni, che vive con i genitori pensionati sviluppa un delirio persecutorio incentrato sulla paura di subire violenza da parte di gruppi neofascisti. Non esce più di casa, obbliga i genitori ad installare permanentemente una porta blindata e a vivere in uno stato d'allarme permanente, che territorializza lo spazio abitativo, interdetto all’ingresso di qualunque estraneo, e si munisce di armi, una pistola e dei coltelli a serramanico. Fernanda, una donna di 57 anni, trovatasi sola dopo aver perduto il marito, sviluppa un’agorafobia: non potendo uscire di casa per la paura di stare male, distando il complesso IACP tre km dai negozi di alimentari, e non volendo dar fastidio a nessuno, regredisce, si alletta, e viene ricoverata, dopo un mese, in un grave stato di denutrizione con una fenomenologia psichiatrica di tipo interpretativo riferita ai vicini di casa, che la disturberebbero per ‘stanarla’.

E’ evidente che si tratta di due condizioni egualmente gravi sotto il profilo psicopatologico: sia Marco che Fernanda, di fatto, delirano. Per quanto riguarda Fernanda, però, le condizioni ambientali sono facilmente individuabili nel loro significato causale. Il complesso IACP è isolato, sprovvisto di servizi e mal collegato al tessuto urbano. Per i rifornimenti occorre disporre di una macchina o percorrere a piedi tre chilometri in gran parte non asfaltati. In questo tratto, gli scippi di tossicodipendenti a danno di donne sole sono all’ordine del giorno. Nel complesso, tranne alcuni nuclei familiari imparentati, non esiste un tessuto di rapporti di vicinato e di solidarietà. Rimasta sola, Fernanda ha espresso con l’agorafobia sia la paura di un aggressione sia il bisogno di avere accanto qualcuno che la proteggesse.

Il momento soggettivo, che ha precipitato la sua condizione, è riconducibile ad un malinteso sentimento di dignità, che le ha impedito di chiedere aiuto ai vicini: aumentando la pressione del bisogno degli altri, esso, ostacolato soggettivamente, si è tradotto paradossalmente in un interesse minaccioso dei vicini.

Sarebbe assurdo, in questo caso, privilegiare il momento soggettivo, immediatamente comprensibile, rispetto alle condizioni ambientali. Il disagio di Fernanda è l’indizio di un disagio sociale più vasto che investe, nel complesso, tutte le persone di mezza età e pensionate sradicate dagli sfratti e inserite in un complesso progettato senza tener conto dei bisogni della gente, privilegiando il bisogno del tetto rispetto a tutti gli altri. Al di là del ricovero e delle cure sintomatiche, l’intervento non può essere che socio-assistenziale e, assumendo il disagio di Fernanda come sintomo di un disagio collettivo, politico.

Per quanto riguarda Marco, il discorso è diverso. Al suo delirio non difettano riferimenti reali. I muri del complesso residenziale sono, di fatto, imbrattate di scritti e di simboli politici con assoluta prevalenza dei neri rispetto ai rossi. Ed è vero che gruppi neofascisti affrontano quotidianamente sia tossicodipendenti che rossi. Ma Marco non appartiene ad alcuna categoria: studente universitario di ingegneria, fuori corso, figlio di un ferroviere in pensione, è un ragazzo pulito, compito, piuttosto timido e remissivo. E’ intuitivo che il delirio persecutorio svela un’identificazione con i rossi che vale a tenere sotto controllo una rabbia eversiva giunta a livelli vissuti come pericolosi. E’ ipotizzabile che questa rabbia denunci un’opposizione lungamente frustrata che investe la mentalità piccolo-borghese della famiglia, i miti - la dignità, le forme, l’ascesa sociale in virtù dello studio, ecc. - alla cui ombra Marco ha costruito una personalità incapace di far presa sulla realtà. Un rapido contatto con i genitori fa affiorare subito il fantasma di un figlio che finisce male cui essi, vissuti sempre in ambienti sociali infestati di piccola e grande criminalità, hanno ispirato la loro opera educativa. Ed è chiaro che, come conclusione di un tragitto di esperienza microstorico, Marco, emarginato nel complesso IACP e isolato da un gruppo di amici con cui aveva interessi culturali e politici comuni, è giunto a sentirsi come un vaso di coccio tra vasi di ferro. Cionondimeno, l’intervento terapeutico non può prescindere dal farsi carico di una struttura di esperienza psicopatologica che espropria Marco della possibilità di disalienare i suoi bisogni di opposizione e di integrazione sociale, e rischia di confinarlo in un vicolo cieco le cui potenzialità di destrutturazione sono elevata. L’intervento socio-assistenziale, che desse per scontato che la condizione di Marco è sintomatica di una condizione giovanile caratterizzata dall’introiezione di valori astratti in rapporto alla concreta realtà storica, rischierebbe di funzionare come una protesi: potrebbe allentare, forse, la solitudine di Marco, ma non restituirgli il senso della sua esperienza e porlo in grado di riavviare una pratica dialettica della vita.

Definito il continuum delle esperienze di disagio rispetto alle matrici ambientali, che sono sempre reali, posto che la realtà sia considerata nella sua dimensione storica e nei suoi livelli strutturali (economico, sociale e mentale), possiamo ora dedicarci a delineare la metodologia dell’intervento terapeutico dialettico in riferimento alle condizioni psicopatologiche propriamente dette, che rappresentano il nodo problematico della psichiatria alternativa. Per ovvi motivi, il discorso procederà in termini generali. Non s'intende seguire i modelli propri delle scuole di formazione, che, all’ombra di teorie approssimative, si affannano a fornire tecniche efficaci.

La metodologia - come si è detto all’inizio della ricerca - è più importante della tecnica: essa infatti offre degli strumenti, ma senza mai prescindere da valori etici che presiedono ad ogni intervento terapeutico dialettico. Questi valori rappresentano anche gli strumenti differenziali della prassi terapeutica dialettica rispetto ad altre modalità d'intervento: non è superfluo, pertanto, ribadirli preliminarmente. Essi sono, nel complesso, riconducibili al problema dei rapporti di potere che sottendono le relazioni tra persone, e, dunque, anche i rapporti terapeutici. E’ fuor di dubbio che questi s'instaurano poiché al difetto di potere che connota ogni condizione di disagio - sia essa riconosciuta o negata - corrisponde un potere dei terapeuti che coincide con il loro ruolo sociale. Il problema che si pone è, dunque, che uso fare del rapporto di potere che, volente o nolente il soggetto, si definisce ogni qualvolta si dà un rapporto terapeutico. Dal punto di vista della prassi terapeutica dialettica, questo rapporto è la chiave di volta dell’intervento a patto che i terapeuti: 1) lo trasformino da rapporto di potere convenzionale, e cioè legato al ruolo sociale, in potere reale, e cioè in prestigio; 2) lo mettano in gioco continuamente, in maniera da affrancare i soggetti vuoi dalla dipendenza e dall’ossequio vuoi da un’opposizione passiva; 3) non ne abusino mai, adottando strategie o imponendo valori che non coincidano con autentiche scelte da parte dei soggetti.

In primo luogo, il terapeuta dialettico, comunque si inauguri il rapporto terapeutico, non pretende alcun credito che non corrisponda a quanto avviene di fatto. Non solo, dunque, non si arroga un potere che misura, in sé e per sé, solo l’impotenza dei soggetti, né fa riferimento ad un sapere tecnico implicitamente attestato dal ruolo sociale che egli ha, bensì propone ai soggetti di credere solo in ciò che di fatto avviene nel corso dell’esperienza.

In secondo luogo, il terapeuta dialettico rinuncia ad adottare strategie,e cioè sia ad assumere che a prescrivere comportamenti che mirino ad indurre effetti terapeutici senza che essi corrispondano ad una presa di coscienza dei soggetti.

In terzo luogo, il terapeuta dialettico non si pone altro obbiettivo che di partecipare ad un processo di ristoricizzazione e di comprensione delle esperienze dei soggetti, lasciando a questi la definizione dei tempi e dei modi del cambiamento, nonché, ovviamente, dei valori che sostengono il cambiamento.

Si tratta, è vero, di principi, ed è agevole contrapporre ad essi esigenze pratiche che postulano un loro accantonamento. Ma se la prassi terapeutica dialettica ha un senso, essa, come si prefigge di accettare come piano di realtà lo stato di cose esistente, così rifiuta di subirlo. Ciò significa che questi valori etici vanno sempre tenuti presente, anche se e quando il rispettarli si configura come altamente problematico – per esempio quando ci si confronta con un soggetto animato da un inconscio bisogno di repressione o di punizione. Non esiste, d’altro canto, una scienza dialettica che non sia, in qualche misura, utopistica,

Precisati dunque i valori che differenziano la prassi terapeutica dialettica rispetto alle altre pratiche terapeutiche, ci si può dedicare a delineare in concreto il tragitto di esperienza che essa permette di realizzare, Occorre tener conto, a questo riguardo, dei livelli di organizzazione della personalità definiti in una nota precedente.

L’intervento terapeutico dialettico muove dal modo d'essere e di porsi nel modo del soggetto che sperimenta disagio. Il livello comportamentale, sia esso riconosciuto o meno come espressione di disagio, e sia correlato o no a dei sintomi, definisce immediatamente il potere che il soggetto ha sul mondo interno ed esterno.

Il vissuto sintomatico, indubbiamente il più frequente, può essere significato nel suo valore dinamico solo se si tiene conto del comportamento che determina. Sostanzialmente, nonostante la diversità dei vissuti, il livello comportamentale permette di restituire al soggetto il suo modo d'essere e di porsi nel modo come espressione di un difetto di libertà o come espressione di una costrizione ad essere libero. Talora il difetto di libertà e la costrizione ad essere libero si alternano all’interno della stessa esperienza osi sommano. Restituire al soggetto la sua condizione come dovuta ad un difetto di autentica libertà,quale che sia la fenomenologia comportamentale,è un modo ottimale di impostare l’intervento terapeutico, inducendo la coscienza a vedere ciò che solitamente ad essa sfugge: la totalità comportamentale dell’esperienza.

Sandro è costretto da una serie di sintomi psicosomatici a non allontanarsi mai troppo dall’ambiente familiare. Ogni tanto, è preda di un ‘raptus’ che lo induce a giocare rilevanti somme al videopoker. In occasione di tali raptus egli, per sfuggire al controllo parentale, può allontanarsi anche notevolmente da casa. Il livello comportamentale attesta sia un difetto di libertà espresso dalla dipendenza familiare, sia una costrizione ad essere libero (i raptus) che sembra far cessare la dipendenza. All’ipercontrollo assicurato dai sintomi, che postula l’etercontrollo familiare, fa da contrappeso un atteggiamento trasgressivo, reso evidente dalla sconcertante costanza con cui Sandro si ostina a giocare fino a perdere tutto quello che ha e ad indebitarsi. Questi elementi comportamentali, restituiti a Sandro come modi di essere e di porsi, determinano un’autentica sorpresa, poiché egli consciamente non ha mai "visto" tra essi una qualche correlazione.

Definito come problematico il livello comportamentale, l’intervento terapeutico dialettico non si rivolge immediatamente a ricostruirne la genesi e la dinamica. Esso cerca di confrontarsi con la coscienza e con i suoi livelli di astrazione. La percezione oggettivante dei sintomi non può essere sterilmente messa in discussione: occorre, in una fase preliminare dell’intervento, utilizzarla soprattutto per proporre un’interpretazione funzionale dei sintomi stessi. Avanzare l’ipotesi che i sintomi, per quanto disturbanti, assolvono la funzione di mantenere un equilibrio minimale è importante. Non è necessario che il soggetto si riconosca in questo equilibrio, bensì che accetti l’ipotesi di lavoro, alla quale darà credito quando avrà le prove della sua validità.

Massimo vive un blocco totale delle emozioni. Non le sente scorrere e, di conseguenza, mentre la percezione del mondo interiore è quella di un deserto, la percezione del mondo esterno è opaca, fredda e ottusa. L’ipotesi che viene avanzata è che questo blocco sia funzionale al mantenimento di una indipendenza relazionale. Massimo vive come un automa, ma senza limitazioni della sua autonomia. Una sera, dopo aver visto al cinema un film piuttosto denso di contenuti, all’uscita, sente un violento flusso emozionale: si sente solo al mondo, sperduto, in una condizione di totale precarietà. Avverte un’intensa nostalgia dell’ambiente domestico e, per la prima volta, dopo tanti anni, la figura del padre, che egli vive come insignificante, gli appare come un’ancora di salvezza.

L’equilibrio minimale assicurato dai sintomi è ovviamente un equilibrio per difetto: e il difetto è riferito ai bisogni fondamentali, che non hanno spazio evolutivo. Ma è importante sollecitare i soggetti a riconoscere che quel difetto, in una certa misura, tutela i bisogni fondamentali, pur cristallizzandoli.

Claudio, da quando ha un rapporto con una ragazza, vive in un perpetuo stato d'allarme, incentrato sulla paura di essere preso in giro, di essere ferito, tradito e abbandonato. L’ansia gli toglie il sonno, e lo induce a leggere in tutti i messaggi che gli arrivano delle insidie latenti. Egli, a mente fredda, si rende conto della distorsione che l’ansia provoca nell’interpretazione del rapporto. Ciò di cui stenta a rendersi conto è che l’ansia funziona come un radar, perpetuamente in funzione per individuare un nemico: e che, nonostante l’allarme che provoca, essa mira a tutelare una vulnerabilità, nella quale è giunto a confinarsi il bisogno di individuazione.

Il secondo livello della coscienza astratta è il progetto di guarigione. Di solito, esso viene definito in maniera elementare, e postula, per realizzarsi, il venir meno dei sintomi o delle minacce esterne. Se si aiuta il soggetto a restituire questo progetto nella sua compiutezza, risulta sempre evidente che esso fa riferimento a dei valori la cui apparente normalità è sottesa da connotazioni astratte. E cioè che il soggetto, anziché realizzarli a partire dalla sua reale condizione, mira semplicemente a recuperarli, come si trattasse di proprietà che assicurano la felicità.

Massimo, se pensa a se stesso guarito, si vede come un essere indipendente e autosufficiente, che può vivere senza aver bisogno di nessuno.

Rossella, bloccata in casa dalla paura del giudizio sociale, definisce la libertà come la capacità di fare ciò che pare e piace, con esplicito riferimento alla pratica della sessualità.

Francesco, continuamente ricattato dai parenti che profittano delle sue disponibilità, vede la possibilità di guarire dai sensi di colpa che lo obbligano a pensare solo agli altri nel diventare insensibile e duro di cuore, egoista e cinico.

Il progetto di guarigione, con i suoi valori astratti, spesso amplifica, e rende trasparente, l’alienazione dei bisogni, che, a livello di coscienza, affiora indirettamente, come immagine negativa di sé. Sia in Massimo che in Rossella che in Francesco, la liberazione passa attraverso la negazione del bisogno di relazione. E’ ovvio che, in tutti e tre i casi, c’è alle spalle una vicenda di relazioni dolorose, che viene ideologizzata facendo ricorso a codici apparentemente significativi. Ma, nel contempo, quella negazione comporta, ed allude, ad un desiderio di vivere, che, non potendosi esprimere nella costruzione di legami significativi, è costretto a configurarsi come pulsionale.

Al di là di questo riferimento all’inconscio pulsionale, la coscienza astratta non può procedere. Un momento importante, forse il più importante, dell’intervento terapeutico dialettico consiste nel far affiorare l’inconscio pulsionale e nel restituirlo al soggetto com'espressione non del suo essere profondo o della sua natura, bensì di un processo microstorico che ha prodotto l’alienazione dei bisogni fondamentali. Si tratta di un momento particolarmente delicato, perché c’è il rischio che il soggetto rimanga nel guado: che. cioè, prende coscienza della configurazione alienata dei bisogni, ma senza riuscire a ricostruirla come esito di un processo. Ma non esistono alternative: per reintegrare il potere del soggetto sul suo mondo interno occorre percorrere questo tragitto. Questa possibilità si realizza tenendo conto del fatto che, essendo la struttura ossessiva la chiave dell’universo psicopatologico, è questa struttura che va, ove non sia manifesta, reintegrata, poiché essa, tra l’altro, offre la possibilità di restituire al soggetto l’anarchia pulsionale come correlato della dittatura superegoica. A tal fine, occorre utilizzare tutto il materiale di cui si può disporre: ricordi, vissuti, interazioni, fantasie,sogni.

La ricostruzione della struttura ossessiva è il momento creativo dell’intervento dialettico: il momento la cui realizzazione, teoricamente sempre possibile, non è mai un fatto puramente tecnico. Per esemplifica questa possibilità, faremo riferimento a tre esperienze la cui fenomenologia non è ossessiva, ma che, in virtù dei sogni, chiariscono la propria struttura.

Lorenzo vive in una condizione di cronica depressione mascherata psicosomaticamente. Come molti depressi, egli si sente svuotato e non minacciato da pulsioni. E’ chiaro però che il regime lavorativo e familiare di vita che s'impone è rigorosamente ascetico e mortificante. Riferisce il seguente sogno: "Sono su di un’autostrada e devo affrontare una grande curva. Mi accorgo di procedere per la tangente, sbando e, grazie al guard-rail, mi arresto sull’orlo del precipizio". Lorenzo è stanco della routine cui si sottopone: ma la fantasia di un cambiamento si configura come una terrificante sbandata che potrebbe mettere a repentaglio tutta la sua sicurezza.

Nonostante alcuni episodi di eccitamento con vissuti persecutori, a Patrizia, la cui normalità è ipercontrollata, grigia e monotona, non pare affatto che il suo mondo interiore contenga delle minacce pulsionali. Procede però una serie di sogni incentrati su di una cagna alla quale è affezionatissima e che ha allevato, che sono inequivocabili. Nel primo, la cagna, che, nella realtà, è stata abbandonata dalla madre, s'infuria, scappa di casa e provoca un incidente mortale automobilistico, nel quale perdono la vita i genitori di Patrizia. Nel secondo essa, che è in calore ed è sorvegliata scrupolosamente da Patrizia, sta in un frigorifero ed appare calma come mai. Nel terzo, si lascia avvicinare da numerosi estranei. Domizia è sorpresa dalla sua scarsa reattività - di solito, è estremamente pericolosa -, finchè non capisce che è stata sottoposta ad una lobotomia.

In virtù di questi sogni, Patrizia prende coscienza della configurazione pulsionale - distruttiva ed erotica - che hanno assunto i suoi bisogni e, nel contempo, del rigidissimo controllo cui essa sottopone le pulsioni.

Massimo, che vive una psicosi ipocondriaca incentrata sulla paura di avere una grave ed irreversibile malattia di mente che ha intrappolato la sua personalità, protesta a lungo di non avere un mondo interiore. Produce poi dei sogni incentrati sui nazisti, il più trasparente dei quali è il seguente: egli vede accanto a sé dei nazisti in assetto di guerra, e cava dalla tasca una bomba a mano che disinnesca pensando che, se non riuscisse a lanciarla, salterebbe egli stesso con loro. Il sogno mette in luce la configurazione rabbiosa assunta dai bisogni di opposizione, il ruolo di resistente che egli si è assunto e lo spietato regime superegoico cui è sottoposto.

Come risulta chiaro da questi sogni, l’affiorare dell’inconscio pulsionale permette sempre di individuare degli elementi che alludono al controllo superegoico. Arrivati a questo punto, il problema dialettico è di rimettere sui piedi ciò che appare poggiato sulla testa. In altri termini, di aiutare il soggetto a comprendere che l’inconscio superegoico, che rappresenta l’introiezione di codici pedagogici estremamente rigorosi e intolleranti, è la causa del disordine pulsionale e non una difesa dal rischio di impazzire, di morire o di commettere crimini. E’ a questo livello che la ricostruzione microstorica del rapporto del soggetto con le istituzioni pedagogiche assume un valore fondamentale, poiché essa permette sempre di definire le istanze superegoiche che hanno interagito con i bisogni fondamentali nella fase evolutiva della personalità disordinandoli.

In questa fase, s'inaugurano possibilità dialettiche rimaste mortificate dalla struttura psicopatologica. La realizzazione di questa possibilità è legata alla presa di coscienza del soggetto di doversi alleare con i bisogni fondamentali piuttosto che con le istanze repressive, e di doverli nuovamente riversare nella pratica della vita, dalla quale sono stati esclusi, perché essi possano evolvere. Si tratta di un vero e proprio processo d'apprendimento, nel corso del quale si verificano, inevitabilmente, dei momenti di crisi.

La difficoltà maggiore, da questo punto di vista, è rappresentata dall’aspettativa, incentivata dalla larga diffusione culturale della psicoanalisi, che la comprensione dei problemi equivalga alla loro soluzione magica. Ciò che si scopre, invece, è che l’aumento del potere sul mondo interiore non si traduce in potere sul mondo esterno se non in virtù di un duro lavoro.

La testimonianza di Miro, da questo punto di vista, è esemplare. Dopo 8 anni dall’episodio psicotico, che è stato riferito, egli, che non ha più paura di ammalare, si sente ancora impegnato a lottare contro il modello ipernormativo ‘fascista, maschilista e aggressivo’ che ha rischiato di disintegrarlo sotto il peso della vergogna di essere un nano, un debole, un imbelle, un omosessuale. Egli sente che il suo vero io non ha nulla da spartire con quel fantasma che, ogni tanto, utilizzando circostanze impensate, tende a riaffiorare. Però non demorde. Tra l’altro, da cupo, ombroso e rigido che era, è divenuto socievole e incline all’ironia. Sostiene di essere guarito dalla paranoia delirando a rovescio: i miti della ‘forza’, della ‘potenza’, della ‘maturità’ che, prima lo affascinavano come una droga, ora li vive fobicamente. Mentre, però, il delirio funziona: non solo sul versante interiore, bensì anche su quello politico, Miro è dalla parte dei deboli, degli emarginati, degli oppressi.

Egli sa che le cicatrici che porta addosso -le costole rotte e la pleura perforata -, esito di due gravi tentativi di suicidio, rappresentano il prezzo che egli ha pagato ala persecuzione superegoica. Ce n’è a sufficienza per capire da che parte stare.

In conclusione, l’intervento dialettico, per quanto riguarda le esperienze psicopatologiche, non consiste in altro che nel rimettere in piedi ciò che poggia sulla testa: nell’indurre cioè il soggetto ad allearsi con i suoi bisogni, disalienandoli, e, con ciò, affrancandoli dalle istanze repressive e alienanti. Non ci può essere alcun ragionevole dubbio riguardo al fatto che questo debba essere l’obiettivo di ogni intervento terapeutico dialettico, come pure che si tratta, in ogni caso, di un’impresa di lungo respiro. Posta in questi termini, è lecito affermare che essa s'integra con un’impresa infinitamente più vasta - restituire l’uomo ai ‘suoi’ bisogni e il mondo ai bisogni dell’uomo - dalla quale, infine, ricava senso.


Psicofarmaci e prassi terapeutica dialettica

Nel leggere la struttura orientativa del seminario sull’intervento terapeutico, un collega, marxista ortodosso, ha obiettato che parlare di un uso dialettico degli psicofarmaci è un’aberrazione teorica. Il giudizio è stato espresso in termini più sfumati, ma, nella sostanza, era franco. Chiariamo dunque in che senso è lecito parlare di un uso dialettico degli psicofarmaci. Il dato da cui muovere è lo stato di cose esistente: gli psicofarmaci esistono, sono un prodotto industriale che, rispondendo ad una domanda sociale, tende ad indurre un bisogno di consumo. Già da questo punto di vista, è evidente che essi evocano una contraddizione tra la logica del libero mercato e la logica di una regolazione da parte dello stato a tutelare gli utenti. Ma c’è di più. Nonché prodotti industriali, gli psicofarmaci sono anche prodotti culturali: essi cioè fanno capo ad un’ideologia, incentrata sulle categorie di salute e malattia, che postula che ad ogni problema che si ponga in termini tali da poter essere interpretato a partire da un sistema di riferimento medico, possa o debba essere fornita una risposta medica. Quest'ideologia vede una larga connivenza tra industria farmaceutica, stato e strutture assistenziali, opinione pubblica e disagiati psichici.

Essa pone in luce una seconda contraddizione, che verte sul potere terapeutico in senso proprio o sul potere sintomatico degli psicofarmaci.

C’è infine, un terzo livello, che concerne i vissuti. In quanto farmaci ai quali si attribuisce la capacità di incidere sugli equilibri psichici, essi sono appetiti dai disagiati che intendono frapporre una difesa artificiale tra il proprio livello di coscienza e un mondo interiore vissuto come carico di potenzialità destrutturati, ma sono rifiutati da coloro che vedono nel loro uso o una ratifica della propria condizione di malattia o una camicia di forza chimica.

La contraddizione che muove da questo livello consiste nella tendenza all’abuso da parte di alcuni, che, senza sapere, intendono alimentare la rimozione, e nella tendenza al non uso da parte di altri, che, forse, potrebbero trarne vantaggio.

L’uso dialettico degli psicofarmaci postula che si tenga conto di queste contraddizioni, nel senso di:

1)opporsi alla logica industriale dell’induzione del bisogno di consumo

2) intervenire sulla cultura per sfatare il significato magico degli psicofarmaci, come strumento di guarigione, e confermare il loro potere meramente sintomatico.

3) proporre agli utenti, quando appare necessario, un uso sintomatico, personalizzato e autogestito.

Affronteremo ora alcuni problemi legati a questi tre livelli della prassi. Fermeremo, per ovvi motivi, l’attenzione sul terzo, senza trascurare che il lavoro dialettico a questo livello dipende in maniera piuttosto diretta dai cambiamenti che sarà possibile produrre agli altri livelli.

In quanto prodotti industriali, gli psicofarmaci rispondono ad una domanda sociale che viene ideologicamente forzata a tradursi in bisogno di consumo. La domanda si articola a partire dall’oggettivazione del disagio sotto forma di sintomi: la risposta avviene in virtù della decifrazione dei sintomi entro un sistema di riferimento medico. L’esempio più significativo a riguardo è rappresentato dagli ansiolitici. Basta considerare alcuni dati statistici. Secondo l’ISTAT (1984), 4 milioni e mezzo di italiani consumano abitualmente, e cioè più volte la settimana, ansiolitici. Questo dato riesce ancor più significativo se si tiene conto che esso, statisticamente, si intreccia con un altro: dei 9 milioni di italiani che consumano abitualmente antidolorifici, almeno due consumano anche ansiolitici.

Sempre nel 1984, il Tavor, l’ansiolitico più diffuso in Italia, che ha ormai da anni soppiantato il Valium, ha raggiunto un fatturato di 12 miliardi di lire! Tenuto conto che ogni compressa costa 60 lire, ne sono state consumate circa 200 milioni. Le restrizioni adottate da qualche anno, dopo un lungo periodo di vendita libera, che prescrivono una ricettazione medica, non sembrano poter incidere sul circolo vizioso della diffusione degli ansiolitici, che è noto. La domanda sociale si rivolge infatti in massima parte ai medici di base che non hanno né tempo né il più spesso voglia né tanto meno un’attrezzatura culturale adeguata a decifrarla. La risposta più semplice, l’ansiolitico, è quella che viene erogata, ma senza nessuna informazione sui rischi di dipendenza psicofisica. Dopo tre mesi di uso continuativo, senza un programma a scalare, nessun utente è più in grado di fare a meno dell’ansiolitico, pena il rischio di una crisi di astinenza.

Quanto all’induzione del bisogno di psicofarmaci, l’esempio più significativo è quello degli antidepressivi. Le depressioni, com'è noto, sono episodiche, e colpiscono all’incirca il 20% della popolazione adulta. Di quest'enorme quota, solo l’1% esprime situazioni psicotiche: per il resto, si tratta di episodi che si iscrivono in un quadro nevrotico o che sono semplicemente reattivi a circostanze ambientali. Ma è chiaro che l’epidemiologia della depressione rappresenta un irresistibile polo di attrazione per la logica industriale, la quale, in virtù di un’alleanza prezzolata con i vertici accademici e gli istituti di ricerca, è riuscita a far avallare terroristicamente l’induzione del bisogno. Essendo ormai provato ‘scientificamente’ che la ‘depressione’ riconosce una predisposizione genetica, l’obiettivo della cura non è più solo la risoluzione dell’episodio bensì la prevenzione delle recidive.

In altri termini, il progetto latente di questa ‘impresa’ scientifica rivolta a debellare il ‘male del secolo’ comporta che ogni soggetto che ha avuto un episodio depressivo si consideri un malato potenziale (genetico) a vita, e, di conseguenza, si sottoponga a terapia farmacologia continuativa (Litio o Laroxil).

I risultati del trattamento preventivo, esibiti in vari congressi negli ultimi anni, sarebbero confortanti: tali, comunque, da giustificare come ‘umanitaria’ un’opera di propaganda terroristica volta a rimuovere le resistenze dei depressi, gran parte dei quali, risoltosi l’episodio, rifiutano le medicine. E’ superfluo sottolineare, al di là dei valori umanitari, l’utile che l’industria e psichiatri ricaverebbero dall’assoggettare a trattamento a tempo indefinito il 20% della popolazione adulta!

Ma l’umanitarismo sembra non avere limiti: un’equipe statunitense è al lavoro da anni per mettere a punto una tecnica che consenta di individuare la malattia nella sua fase preclinica - nei bambini e negli adolescenti -, e cioè a livello di predisposizione genetica, nell’intento di avviare precocemente una terapia preventiva che metta l’individuo al riparo dal manifestarsi clinico della malattia. Sono state già avviate sperimentazioni terapeutiche su campioni rappresentativi di soggetti adolescenziali ritenuti ad alto rischio! Al di là di questo ambito particolare, c’è da considerare che l’orientamento della ‘psichiatria biologica’ - una ormai potente corporazione internazionale - è rivolto alla prevenzione delle malattie mentali: in pratica alla diagnosi preclinica e alle terapie preventive a tempo indeterminato.

Vero è d’altro canto, che la logica dell’industria farmaceutica non agisce su di una tabula rasa. Se essa è infatti totalmente responsabile dell’induzione del bisogno, la domanda sociale cui risponde nasce da una realtà socioculturale strutturata in maniera tale da canalizzare automaticamente quella domanda nello schema salute/malattia riferito all’organismo inteso come un sistema biologico aperto alle influenze ambientali, ma modulato da equilibri o squilibri intrinseci.

La prova forse più clamorosa di questa confusione tra biologico e ambientale, consegnata alla storia, segue l’inizio stesso dell’era degli psicofarmaci, ed è fornita dalla rivoluzione avvenuta negli O.P. nel 1953 con l’introduzione del Largactil. Rivoluzione enfatizzata al di là di ogni criterio di buon senso. Se è vero, infatti, che il Largactil produsse, in molti casi, una remissione dei sintomi acuti - l’agitazione psicomotoria, le allucinazioni, il delirio -, non è meno vero che quei sintomi esprimevano l’interazione di esperienze soggettive destrutturate in rapporto ad un ambiente destrutturate e persecutorio. La standardizzazione dell’uso protratto e indiscriminato del Largactil ad alti dosaggi, in un contesto immodificato e radicalizzato nel suo potere repressivo dalla nuova arma del farmaco, produsse, nel giro di alcuni anni, oltre ad un numero imprecisato di vittime, la cronicità tranquilla, e cioè l’espressione patetica di un’umanità ‘dissociata’ tra un mondo interno destrutturato e un comportamento esteriore adattato ad un ambiente disumano. Ciononostante, c’è ancora chi sostiene che quella è stata l’unica autentica rivoluzione avvenuta in ambito psichiatrico.

Fuori dall’istituzione, lo schema salute/malattia ha funzionato e funziona come espressione del codice adultomorfo: esso, in altri termini, impone alle persone di sentirsi sane nella misura in cui sono in grado di adattarsi allo stato di cose esistente, sia esso oggettivo o determinato dal modello di dover essere soggettivo, e malate nella misura in cui manifestano difficoltà di adattamento o di realizzazione di quel modello. In conseguenza di ciò, il disagio non può affiorare che sotto forma di sintomi, ai quali si attribuisce lo scarto tra l’essere e il dover essere.

Se questo scarto viene vissuto come rimediabile, poiché prodotto da una malattia, il soggetto avanza una domanda di cure mediche; se esso, viceversa, viene vissuto come incolmabile, perché dovuto ad una grave inadeguatezza soggettiva o ad ostacoli ambientali insormontabili, il soggetto rifiuta ogni intervento, perché la cura sancirebbe la sua malattia o rafforzerebbe la repressione ambientale. In breve lo schema salute/malattia con la sua astrattezza produce due effetti paradossali: per un verso, induce a identificare la malattia nei sintomi e promuove una domanda di cure mediche mirante ad eliminarli (pretesa impossibile nel suo radicalismo se è vero che i sintomi, per quanto soggettivamente penosi, esprimono tentativi di correzione di un’organizzazione di vita o di un progetto di sé non rispondente alla globalità dei bisogni soggettivi); per un altro, induce la difficoltà di prendere atto della condizione di relativa impotenza in cui il soggetto si trova e, in virtù di una confusione tra potenzialità - che sono sempre integre e sane - e potere reale sul mondo, lo rende ostile ad ogni tipo di intervento, e, anzitutto, all’uso di psicofarmaci.

La complessa dialettica tra logica industriale e cultura medica da un lato e vissuti soggettivi impregnati in diversa misura dal codice adultomorfo apre la via al problema dell’uso dei farmaci dal punto di vista della prassi terapeutica dialettica.

I criteri generali che presiedono all’uso dialettico (eventuale, non necessario) degli psicofarmaci sono i seguenti:

1) gli psicofarmaci hanno un potere esclusivamente sintomatico; non hanno né possono avere un potere incisivo sulla struttura psicopatologica;

2) il loro uso può essere necessario nelle fasi di destrutturazione e utile per mantenere equilibri minimali strutturali minacciati dalla pressione di bisogni alienati, la cui manifestazione non potrebbe esitare che in una destrutturazione;

3) la somministrazione, anche nei casi urgenti, deve sempre associarsi ad un’adeguata informazione sul significato che ha l’uso dei farmaci e sul loro potere meramente sintomatico;

4) al di fuori delle situazioni critiche, l’obiettivo, nel caso si ritenga utile la somministrazione di farmaci, deve essere quello di pervenire all’autogestione da parte del soggetto; obiettivo che è perseguibile solo in virtù della presa di coscienza della precarietà degli equilibri strutturali e della necessità, temporanea, di porvi rimedio sintomaticamente;

5) l’uso dei farmaci deve avvenire sempre parallelamente ad un intervento dialettico sulla struttura psicopatologica, mirante a riabilitare il potere del soggetto di ristrutturare la propria esperienza in rapporto ai bisogni fondamentali nella pratica della vita


Prassi terapeutica dialettica e terapia transazionale (1)

La differenza radicale tra prassi terapeutica dialettica e terapia transazionale consiste nel fatto che mentre la prima si pone come obiettivo l’aumento del potere reale dei soggetti sul mondo interno ed esterno, dando per scontato che quest'aumento possa (ma non necessariamente debba) tradursi in un cambiamento, l’obiettivo della terapia transizionale e di determinare un cambiamento in virtù della proposizione di regole di comportamento - le prescrizioni - che funzionano nella misura in cui attestano la subordinazione fiduciosa dei soggetti al potere terapeutico. Il carattere manipolativo della terapia transazionale non è negato esplicitamente neppure dai padri fondatori. Scrive Watzlawick:

"Sappiamo per esperienza che taluni criticheranno la natura manipolativa, insincera del nostro approccio ai problemi umani, sia sul piano pratico che concettuale. Ma negli ultimi tempi la parola sincerità è stata logorata dall’uso eccessivo che se ne è fatto ed è ormai uno slogan ipocrita collegato in modo tutt’altro che cristallino con l’idea che può esistere davvero una visione giusta del mondo - di solito - la propria. Sembra anche implicare necessariamente l’idea che la manipolazione non solo è cattiva ma anche evitabile. Ma come evitarla, purtroppo non ce l’ha spiegato mai nessuno. E’ difficile immaginare come un comportamento qualunque che ha luogo in presenza di un’altra persona che possa evitare di essere una comunicazione del proprio punto di vista sulla natura della relazione con quella persona e come si possa quindi fare a meno di influenzare tale persona… Il problema, dunque, non è come si può evitare di influenzare e manipolare, ma come tali interventi vanno intesi e usati nell’interesse del paziente".

Watzlawick è un logico raffinato, oltre che un uomo colto e indubbiamente geniale. Ma quando affronta i problemi che investono i rapporti di potere tra esseri umani, e cioè problemi al tempo stesso etici e politici, sembra non andar al di là del machiavellismo di maniera, secondo il quale il fine giustifica i mezzi. Il problema è che, per quanto riguarda un intervento terapeutico transazionalista, i mezzi intanto funzionano in quanto i soggetti abdicano al loro potere di capire. Scrive Watzlawick:

"Il vero tallone di Achille di questi interventi resta la necessità di convincere il paziente ad eseguire le istruzioni. Il paziente che in un primo momento accetta la prescrizione di comportamento e poi quando torna per un’altra seduta dice che non ha avuto tempo di eseguirla, o che se ne è dimenticato, oppure che, ripensandoci, gli è sembrata piuttosto sciocca o inutile, offre scarse possibilità di riuscita. Un motivo di insuccesso, almeno potenzialmente, va dunque ricercato nell’incapacità di presentare l’intervento in un linguaggio che abbia un senso per il soggetto e che lo rende quindi disposto ad accettare e ad eseguire le istruzioni impartite".

Per avere senso, il linguaggio terapeutico deve promuovere, dunque, l’esecuzione di istruzioni apparentemente insensate! Watzlawick evidentemente scambia per potere tecnico l’effetto di un modo di porsi dei soggetti nei confronti di chi sa che segnala la loro rinuncia a capire i fatti della vita pur di cambiare, e cioè di vivere meglio. Indipendentemente dall’efficacia terapeutica dell’analisi transazionale, che viene facilmente sopravvalutata dal fatto di essere misurata con il metro del raggiungimento delle mete fissate dal tecnico all’inizio del trattamento - di solito la meta minimale di conseguire un qualche cambiamento -, non c’è alcun dubbio che essa postula una connivenza pregnante tra terapeuta e soggetti che è agevole ricondurre entro un quadro di mentalità, caratterizzato dal fatto che chi ha il potere concede a chi non lo ha di fruire dei suoi vantaggi a patto che esso sia preliminarmente riconosciuto e accettato come inconfutabile.

Non è importante sottolineare che le regole del gioco le pone il tecnico (in un certo qual modo, ogni intervento terapeutico, facendo intervenire in una situazione degli estranei - gli operatori - modifica lo spazio sociale vissuto): l’importante è che l’analisi transazionale muove dal presupposto che la vita sia un gioco (non nel senso ludico, ovviamente, ma in rapporto alla teoria dei giochi), che le persone che esprimono o sono coinvolte in un disagio non sanno a che gioco stanno giocando, e che non sia affatto necessario aiutarli a capire questo paradosso (in virtù del quale, di fatto, rischiano d' ‘giocarsi la vita’), bensì imporgli di giocare - comunicare e agire - diversamente. L’importante, in breve, è che cambino senza sapere come e perché sono finiti in una trappola, giusta la citazione di Wittgenstein, che Watzlawick ama ripetere: "Quale è il tuo scopo in filosofia? Indicare alla mosca la via d’uscita dalla trappola".

L’indifferenza dell’analisi transazionale per i tragitti di esperienza che finiscono in un vicolo cieco - e cioè per la storia reale dei soggetti - è giustificata dal fatto di ritenere quei tragitti casuali entro uno spazio aperto ad infinite possibilità - essendo la realtà, in larga misura, ciò che gli uomini la fanno essere. Su questo forse non sarebbe d’accordo neppure un’ entomologo. Ma il nodo cruciale della teoria transazionale riguarda le trappole entro cui gli esseri umani finiscono con il dimenarsi. Si tratta, infatti, econdo l'analisi transazionale, di trappole eminentemente logiche, e cioè di soluzioni sbagliate di problemi che, in sé e per sé, non trascendono l’orizzonte comune di come si debba vivere, e cioè comunicare e interagire. Affrancandosi prescrittivamente da queste soluzioni, che sono rimedi peggiori del male, gli uomini scoprono, come per incanto, che la vita non è poi tanto difficile da amministrare come ad essi appariva. E che il mondo nel quale si vive, eccezion fatta per i modo distorti di percepirlo e di interagire con esso, è, in fondo, il migliore dei mondi possibili; o, comunque, un mondo nel quale è possibile vivere, a patto che si cambino le premesse che lo rendono arbitrariamente disagevole o invivibile.

Non ci vuole molto a capire quale sia il grado di compatibilità e di incompatibilità tra una prassi terapeutica dialettica e la terapia transazionale. La compatibilità consiste nell’attribuire agli uomini, quali che siano le condizioni in cui si trovano, delle potenzialità attive che possono essere sempre investite in una pratica che porta al cambiamento. Comune è anche la convinzione che i problemi umani, comunque si pongano, non siano mai insolubili in sé e per sé. Convinzione che, urtando contro la sfiducia e la rassegnazione dei soggetti che vivono una condizione di disagio, postula che il terapeuta assuma un ruolo attivo, riproponendo in termini dinamici i problemi che, a livello di vissuto, appaiono statici e inerti. Al di là di questi elementi, che muovono peraltro da radici antropologiche profondamente diverse, tutto sembra rendere incompatibile una prassi terapeutica dialettica con un approccio transazionale.

Anzitutto l’obiettivo, che per la terapia transazionale è il cambiamento, e cioè la soluzione dei problemi, mentre per la prassi terapeutica dialettica è la comprensione e la spiegazione della loro genesi, del come e perché non si siano risolti e del come, eventualmente, possono essere affrontati. La prassi terapeutica dialettica, in altre parole, restituendo ai soggetti coscienza dell’impasse in cui si trovano e, soprattutto, del suo significato dinamico, che contiene le ragioni del passato ideologizzate in un modo d’essere che cela, ma non estingue, un possibile cambiamento, li riabilita ad agire in questa direzione, alla luce della disalienazione dei bisogni fondamentali.

La prassi terapeutica dialettica rende possibile il cambiamento, ma non lo determina, poiché i modi, i tempi, le forme e i contenuti del cambiamento rientrano nell’ambito della libertà dei soggetti. E’ evidente che il diverso obiettivo postula metodi d'intervento diversi. Ciò che è inessenziale poiché indecidibile, per la terapia transazionale, e cioè il passato e il suo depositarsi sotto forma di memorie, che sottendono i vissuti soggettivi, è indispensabile per una prassi terapeutica dialettica. Non nel senso di una banale ricostruzione biografica, bensì per rendere comprensibile al soggetto la struttura della sua esperienza, l’alienazione dei bisogni che la sottende e i codici adottati per risolverla: e cioè, in pratica, il significato delle trappole, soggettive e relazionali, in cui si trova impigliato.

A differenza della terapia transazionale, inoltre, la prassi terapeutica dialettica non solo non può prescindere dalla coscienza che i soggetti hanno della situazione in cui si trovano, ma deve far leva su di essa per promuovere un grado di consapevolezza maggiore microstorica e contestuale.

Quanto al rapporto tra disagio individuale e sistema familiare, la prassi terapeutica dialettica, poiché esclude un determinismo ambientale in senso proprio, può rivolgersi, a seconda dei casi, sia all’individuo che esprime il disagio che a uno o più membri della famiglia. La prassi terapeutica dialettica non ha bisogno di definire rigidamente un set poiché il suo metodo, rivolto a restituire ai soggetti il significato dinamico della situazione in cui si trovano, non teme né definizioni né invasioni: chiunque accetta l’intervento - dal singolo individuo al gruppo familiare - fornisce, in virtù del suo modo di porsi e del suo livello di coscienza, un contributo che può essere utilizzato per far affiorare ed accrescere la consapevolezza ché, per dirla con Luckacs, "le condizioni statiche e reificate sono solo forme fenomeniche di processi reali".

E’ la concezione dinamica della realtà umana a qualunque livello - individuale o interpersonale -, conseguenza immediata della teoria dei bisogni e della radicale storicità dell’esperienza soggettiva, a differenziare irriducibilmente la prassi terapeutica dialettica e la terapia transazionale. Quella concezione, infatti, mette in crisi le interpretazioni della patologia comunicativa fornita dalla terapia transazionale: tutto ciò che è storico, ripetitivo e immobilizzante -i giochi senza fine, i doppi legami, ecc. - lo è, infatti, solo apparentemente. La stasi non è dovuta, dal punto di vista della prassi terapeutica dialettica, al fatto che le persone non sanno a che gioco stanno giocando, bensì al fatto che esse si confrontano, senza consapevolezza e senza capacità dialettica, con un problema o una serie di problemi entro una cornice ideologica che esclude una soluzione dialettica. Ciò che è importante è fornire ad essi, o almeno ad uno di essi la consapevolezza del problema, della sua genesi, della sua struttura, nella quale è sempre riconoscibile l’opposizione tra i bisogni fondamentali della sua insolubilità entro il quadro di mentalità adottato, e della possibilità di affrontarlo dialetticamente. Solo apparentemente, alcuni di questi intenti sono comuni alla terapia transazionale: nei teorici italiani, più consapevoli dell’astrattezza di un progetto rivolto a formalizzare matematicamente il comportamento umano, è frequenta il richiamo alla necessità di tener conto dei rapporti interattivi tra microsistema familiare e sistema sociale totale. Ma, intanto, sul piano teorico, questo richiamo non va al di là di una metacontestualizzazione sociologista: manca, cioè, della dimensione storica necessaria a comprendere i processi reali che sottendono i sistemi. In secondo luogo, nella pratica, di esso non si tiene alcun conto, poiché, altrimenti, occorrerebbe cambiare sistema di riferimento e cioè vedere il sistema familiare inserito in un processo storico e non appiattito in un hic et nunc che lo rende manipolabile ma non dialettizzabile. Alcuni esempi varranno a chiarire meglio il modo in cui la prassi terapeutica dialettica affronta i problemi relazionali.

Caterina è l’essere dipendente, impotente e vulnerabile di cui il padre ha bisogno di sperimentare la sua capacità di proteggerla e di difenderla da un mondo spietato con i deboli. Essa partecipa al gioco abbandonandosi nel ruolo di bambina inadeguata e incapace fino a sentirsi oppressa dalla protezione e costretta all’inazione. E’ a questo punto che, utilizzando come forza motrice la rabbia nei confronti dell’oppressione, scatta in crisi di eccitamento che la inducono a sfidare le regole sociali e, in particolar modo, il comune senso del pudore. Terrorizzato dalla ribellione, il padre si ritira affidando Caterina alle cure dei medici, che la sedano a forza, confermandola nella sua convinzione di dissidente e di ribelle, e la riconsegnano, inibita, docile e dipendente, al padre, che rientra subito in gioco. In questo caso, da un punto di vista transazionale, il problema è nell'onnipotenza del padre che scatena periodicamente l’onnipotenza della figlia: sarebbe facile prescrivere al padre di "fingersi" impotente a tutelare la figlia da tutti i pericoli del mondo, e a questa di ribellarsi un po’ più sistematicamente, di concedersi delle libertà contro voglia. Ma, indipendentemente dal fatto che la struttura maniaco-depressiva è apparsa sinora la più refrattaria agli interventi transazionalisti, se il gioco transazionale cambiasse, il padre crollerebbe nell’ipocondria e Caterina sperimenterebbe la sua impotenza di godersi la vita senza l’indispensabile punto di leva dell’oppressione esterna. Il problema è delle visioni del mondo che si agitano nel gioco senza fine. Il padre, che ha riscattato la sua condizione di miseria originaria arrampicandosi socialmente nel mondo dell’alta finanza, legge il mondo alla luce delle leggi spietate dell’ambiente nel quale vive. Buono e generoso di carattere, infervorato di ideali di giustizia in gioventù, che ha tradotto poi in una sorta di paternalismo filantropico - non può tra l’altro vedere soffrire i bambini… - , è rimasto colomba per quanto si sia vestito da falco: ma le sue angosce si esprimono nel vedere Caterina come un esserino inerme, indifeso, impotente che, affidato a se stesso, sarebbe spogliato di ogni bene e destinato alla fame. Ciò che lo costringe a proteggere oppressivamente è il non rendersi conto che lo spietato cinismo che egli legge nel mondo è la generalizzazione della sua esperienza privata: della miseria originaria, del mondo senza scrupoli della finanza, e dell’isolamento totale e diffidente in cui lo ha chiuso al ricchezza.

Per quanto riguarda Caterina, che ha vissuto la protezione paterna, mirante a metterla al riparo da possibili violenze, come uno strumento di controllo della sua sessualità, il problema è di prendere coscienza che la repressione, impedendole di sperimentare se stessa nel mondo e convertendo la sua opposizione in rabbia sconsiderata, ha distorto la sua libertà orientandola verso un esercizio meramente trasgressivo. Godersi il mondo, per lei, è imprescindibile dallo sfidare l’autorità e dal commettere delle colpe. Ma ciò significa che essa ha bisogno di sentirsi oppressa per concedersi libertà. Ciò che la cattura nel gioco senza fine è una concezione meramente negativa della libertà, che svuota di senso ogni espressione di piacere che non sia contrastata. Essa, per sentirsi potente, ha bisogno di vivere in conflitto con il mondo, con le sue regole, le convenzioni, le norme morali: ma, nel contempo, questo stato di guerra permanente la paralizza in virtù della paura di una sanzione che lo esclude da ogni contesto sociale. In quanto colomba non può rimanere chiusa nella sfera protettiva paterna: ma, quando ne esce, si ritrova in un mondo di falchi.

Una situazione affatto diversa è quella che lega Giuseppe alla madre. Terrorizzato dal fantasma paterno, fatto incombere dalla madre come rappresentante di tutte le miserie, le debolezze e i vizi umani, e velatamente minacciato di abbandono ogniqualvolta manifestava comportamenti ritenuti ‘volgari’, Giuseppe, nel costruire la sua personalità è riuscito a realizzare una sorta di quadratura del cerchio rispetto alle contraddizioni che lo hanno investito. Egli si è ‘spiritualizzato’ fino al punto di non tollerare alcun rapporto diretto con il mondo: con ciò, rinunciando ad esprimere il bisogno di un’integrazione sociale, si è messo al riparo da eventuali abbandoni affettivi e istintuali che, data la sequela di manipolazioni che ha alle spalle, lo terrorizzano. Spiritualizzandosi, e cioè portando alle estreme conseguenze il modello proposto dalla madre, egli è rimasto, però, per sempre un essere bisognoso: se non altro di mangiare, di vestirsi e di pulirsi. E’ la madre a doversi asservire a queste esigenze: ma la struttura di esperienza di Giuseppe non postula solo che ella le soddisfi, bensì che, nel soddisfarle, rispetti nel modo più scrupoloso tutta una serie di regole comportamentali, incentrate sulla rupofobia, apparentemente assurde.

Che funzioni, cioè, come una ‘macchina’ programmata per erogare cure ritualizzate. In breve, la madre si trova ad essere schiava del ‘mostro’ che ha prodotto: un ‘mostro’ che, portando alle estreme conseguenze i valori impostogli quando era schiavo, spadroneggia su di essa schiavizzandola.

L’universo chiuso e dominato da regole in cui vive Giuseppe con la madre è al di là di ogni possibile intervento transazionale. Il problema di un possibile cambiamento, in questo caso, passa attraverso l’analisi della forma di relazione padrone-servo che ha dominato l’esperienza di Giuseppe. Esperienza che lo ha posto prima nel ruolo dello schiavo assoggettato ad un potere assoluto, e successivamente lo ha indotto ad assoggettare la madre alla soddisfazione (umiliante, perché ritualizzata) dei suoi bisogni primari, presupposto indispensabile del suo essere totalmente libero di dedicarsi ai lucidi piaceri dell’intelletto e dello spirito. Ciò che Giuseppe non riesce a leggere nella sua situazione è la dura repressione cui sono sottoposti i suoi bisogni di integrazione sociale, il regime spietato che egli impone al suo cuore. Egli deve prendere coscienza, che ci si può affrancare dalla forma di relazione incentrata sulla coppia padrone-servo solo in virtù del liberarsi di una ‘sensibilità’ che è stata totalmente mortificata in ordine a valori che permettono di sopravvivere, non di vivere. La liberazione deve passare attraverso la sconfitta di una logica di potere, che può subordinare a schiavizzare, ma che, in fondo, definisce una grave situazione di impotenza relazionale.


Prassi terapeutica dialettica e analisi transazionale (2)

Inserendosi in situazioni familiari di questo genere, caratterizzate dai giochi senza fine e dai doppi legami, l’analista transazionale ignora la densità microstorica e le visioni del mondo che in esse traspaiono: si chiede cosa si possa fare per cambiare i circoli viziosi comunicativi. La risposta, il più spesso, è che non si può far altro che prescrivere comportamenti che i soggetti rifiutano di eseguire. Insensati nei loro giochi a somma zero, inutili, questi lo sono anche nell’opporsi ad una manipolazione da cui potrebbero trarne vantaggio. Il terapeuta dialettico mira invece ad indurre nei soggetti la consapevolezza del valore degli obiettivi che perseguono, della distorsione microstorica dei loro bisogni e dei processi di codificazione ideologica che si esprimono in strategie non dialettiche, a vicolo cieco. Il padre di Caterina, con la sua iperprotezione, utopizza un mondo di cui i deboli non siano più esposti ad attacchi persecutori: ma questo mondo non può nascere che dal superamento della logica strumentale nei rapporti umani. Se egli continua ad usare Caterina per realizzare questa utopia, la fa sentire sempre più debole e inadeguata e la spinge ad incattivirsi, a strumentalizzare le persone con cui è legata per sentirsi potente. Caterina desidera affrancarsi da ogni oppressione: ma la libertà che persegue, non potendo prescindere dal suo vissuto di impotenza relazionale, postula l’oppressone per realizzarsi. E’ solo incattivendosi terribilmente nei confronti di qualcuno che la ostacola, che essa riesce a trovare la forza di affrontare un mondo che, nel suo intimo, continua a temere.

La madre di Giuseppe vive la sua relativa agiatezza come uno strumento d’indipendenza, che la mantiene al riparo dagli attacchi di un mondo avido e volgare, rappresentato dal marito. Si è pertanto chiusa nel mito di una signorilità, che serve solo a celare la sua profonda paura di una perdita di controllo istintuale, e la obbliga ad una esistenza solitaria e ascetica. Investito da questo mito, e dalla paura che lo sottende, Giuseppe ha portato alle estreme conseguenze la visione del mondo della madre, assoggettando i suoi bisogni di relazione ad un rigido controllo relazionale, giustificato da elevate istanze intellettuali e spirituali.

L’intervento dialettico mira a restituire ai soggetti le loro visioni del mondo come prodotto di esperienze microstoriche ingabbiate dentro codici totalizzanti che mortificano i loro umani bisogni soffocandoli o criminalizzandoli (a livello di fantasia o di comportamento). Ed è in rapporto alla disalienazione dei bisogni che promuove un cambiamento, nel modo di vedere il mondo, di vivere e di interagire con esso. L’obiettivo è di riabilitare le coscienze nel loro potere di ricostruzione i processi reali che hanno prodotto l’alienazione dei bisogni e di agire nella pratica di vita per soddisfarli, e’ superfluo aggiungere che questo intento, ambizioso e difficile, non avrebbe senso se non mirasse ad integrarsi con un più vasto movimento di disalienazione della coscienza sociale.

Chiarite le differenze radicali tra la prassi terapeutica dialettica e l’analisi transazionale, è possibile chiedersi se il sapere transazionale non sia in qualche misura recuperabile da un punto di vista dialettico. Noi pensiamo che ciò sia possibile, ma prescindendo del tutto dall’equivoco, estremamente diffuso nella scuola italiana, che attribuisce un carattere rivoluzionario all’assunzione dell’uomo come essere sociale che interagisce di continuo con contesti interpersonali.

Se è vero che la teoria transazionalista è nata dall’esigenza di superare sia il riduzionismo organicista sia il riduzionismo psicoanalitico classico ortodosso, non è meno vero che essa, trascurando le dimensioni storiche dell’esperienza umana, si è tradotta in uno sociologismo riduzionista estremamente povero. La tecnica che ne è derivata soffre di questo riduzionismo fino al punto che essa appare del tutto inconsapevole di come funziona, quando funziona e di ciò su cui agisce. Per quanti testi si consultino, le strategie transazionaliste appaiono tanto uniformi quanto assolutamente inconsapevoli del loro essere rivolte a inattivare i modelli ipernormativi (superegoici) che, sia a livello soggettivo che interpersonale, producono paradossalmente un ordine eccessivo per un verso e un disordine per un altro. I ‘trucchi’ adottati consistono infatti, o nel prescrivere comportamenti di ipercontrollo, che rendano intollerabile l’ordine preesistente, o comportamenti di perdita di controllo, che, rendendo intollerabile il disordine preesistente, promuovono un’autoregolazione. Ereditandola dalla lezione freudiana, l’analisi transazionale coglie, nei disagi individuali e interpersonali, la pressione di codici, ipernormativi che determinano un’opposizione adialettica tra controllo e perdita di controllo, tra libertà e legge, dittatura e anarchia. Ma, essendosi affrancata dalla concezione istintuale freudiana, che comporta una straordinaria prudenza nel promuovere attivamente cambiamenti, per la paura di indurre un collasso dell’Io, essa non esita a prescrivere squilibri il cui effetto retroattivo può produrre una ristrutturazione. Ciò di cui l’analisi transazionale non sembra consapevole è che essa tenta, non sempre con successo, di incidere sulla struttura ossessiva, sia a livello individuale che sistemico. Qual è il motivo per cui la ristrutturazione deve avvenire prescrittivamente non dialetticamente? E' ovvio: la necessità ideologica di restituire ai soggetti le trappole in cui si trovano impigliati come espressione della loro insensatezza, mascherata da una razionalizzazione che fa loro apparire le soluzioni adottate come le uniche possibili. Dal punto di vista della prassi terapeutica dialettica, quell’insensatezza esprime invece l’adesione dei soggetti a codici normativi storicamente determinanti, che funzionano come specchietti per le allodole: essi, in altri termini, promettono la normalità al prezzo di una rimozione delle concrete esperienze microstoriche. Chi cade nel ricatto dei codici, o diventa normale per difetto o si ipernormalizza, con il rischio di finire in un vicolo cieco psicopatologico. Non è di scarso significato che il cambiamento passi attraverso una ristoricizzazione dell’esperienza o venga indotto dalle prescrizioni. Non v’è da sorprendersi se le esperienze più ricche di valenze oppositive sfuggono inesorabilmente al potere dell’analisi transazionale. Alla quale, in fin dei conti, è lecito applicare il motto che essa utilizza per connotare, con un’ironia intellettualistica, l’insensatezza con cui gli uomini tentano di risolvere i problemi che ad essi si pongono: essa, di fatto, è la tecnica che, escludendo la dialettica, promuove cambiamenti perché nulla cambi. Nulla: nel sistema sociale, nei suoi codici, nei rapporti di potere su cui esso si fonda, e nell’alienazione dei bisogni umani che esso postula e di cui si alimenta.


Prassi terapeutica dialettica e psicoanalisi

Limiteremo la riflessione al rapporto tra prassi terapeutica dialettica e psicoanalisi ortodossa, per motivi che, dopo l’attenzione rivolta al pensiero freudiano, dovrebbero essere chiari. La prassi terapeutica dialettica è debitrice nei confronti di Freud di due intuizioni di fondamentale importanza, correlate tra loro: la prima, che non è mai stata portata alle estreme conseguenze, nonostante essa le implichi, consiste nell’attribuire la causa ultima di ogni disagio psichico alla spietata pressione superegoica; la seconda, che muove dall’assumere il Super-Io come il rappresentante interiore della norma e dei valori veicolati dalla tradizione culturale, consiste nel vedere nei processi di civilizzazione la matrice degli eccessi superegoici che si esprimono nelle esperienze psicopatologiche. Queste due intuizioni nel sistema teorico freudiano vengono svuotate del loro significato rivoluzionario poiché vengono riferite entrambe alla necessità, propria di ogni civiltà e di ogni personalità, di porre un argine alle istanze libidiche e aggressive, in sé e per sé prive di ogni principio di realtà, e, dunque, assolutamente asociali.

Se la civiltà e, come suoi agenti, le istituzioni pedagogiche creano problemi, è, nel pensiero freudiano, perché questi problemi sono posti anzitutto dalla natura umana: risolverli, senza correre il rischio di ricadere nella barbarie o, all’estremo opposto, nella repressione, è augurabile, ma pressoché impossibile.

Dal punto di vista teorico, la conseguenza consiste nel vedere nella natura umana il male, nel soggetto che si allea con la sconsiderata libertà che essa veicola il colpevole (inconsapevole) e nelle istituzioni pedagogiche e sociali, volte a sconfiggere il male senza un’adeguata considerazione dei bisogni soggettivi, gli agenti responsabili. In conseguenza di ciò, il set analitico è organizzato in maniera tale che l’analista, ponendosi come rappresentante buono delle istituzioni, permette al soggetto di scoprire, attraverso il transfert, la pressione sconsiderata delle pulsioni lipidiche e aggressive, costringendolo a prendere atto della necessità di padroneggiarle e di frustrarle , piuttosto che di allearsi con esse.

Non c’è alcunché di esemplificativo nel restituire in questi termini l’impresa analitica: quale che sia la raffinatezza degli strumenti interpretativi e la complessità della relazione terapeutica, l’obiettivo perseguito rimane quello sinteticamente definito da Freud ("dov’era l’Es, deve essere l’Io": in breve, la ragione, in senso lato, al posto della pulsione).

Ciò posto, non è arduo comprendere i motivi degli insuccessi delle esperienze psicoanalitiche, che, secondo statistiche di alcuni anni fa, investono circa il 90% dei ‘casi’. In pratica, ciò che accade è che, nei casi in cui i ‘fantasmi’ libidici e aggressivi non tendono ad essere agiti - in pratica, nelle strutture nevrotiche ossessivo-fobiche o puramente isteriche -, la loro elaborazione induce una diminuzione della paura di perdere il controllo su di essi. Un miglioramento per difetto, il cui prezzo è, notoriamente, una dipendenza pressoché interminabile dall’analista. Nei casi in cui quei fantasmi, invece, tendono ad essere agiti o in quelli in cui i soggetti non accettano di vedere in essi solo delle espressioni negative, la psicoanalisi è votata all’insuccesso. Rispetto alla psicoanalisi, la prassi terapeutica dialettica appare dotata di un’attrezzatura teorico-pratica infinitamente più efficace.

Se, per un verso, essa accetta di riconoscere i codici ipernormativi superegoici come causa univoca di disagio, non ha alcun bisogno di qualificare in termini meramente negativi i ‘fantasmi’ libidici e aggressivi. In questi, la prassi terapeutica dialettica vede infatti l’espressione alienata di bisogni fondamentali. Il problema non è, pertanto, quello di restituirli al soggetto come prova della sua fissazione al principio del piacere, quanto piuttosto di disalienarli fino al punto di far affiorare i bisogni ch’essi esprimono. E’ in rapporto a questa scoperta, che il soggetto può comprendere la sostanziale negatività dei codici ipernormativi, e muovere verso una mediazione dialettica tra bisogni fondamentali e codici socio-culturali.

Nella ristrutturazione promossa dalla psicoanalisi ortodossa, sorprendentemente, non vi è alcuna dialettica. La severità superegoica si allenta in virtù del fatto che l’io, inconsapevolmente alleato delle pulsioni fissate a livelli incompatibili con la socialità, scinde quest'alleanza ed esercita il suo potere nell’imporre a quelle il principio di realtà. Dal punto di vista della prassi terapeutica dialettica, l'alleanza che va scissa è quella dell’io con codici ipernormativi la cui introiezione ha disordinato ed alienato i bisogni nella loro autenticità, che non prescinde affatto dalle necessità di un ordinamento morale (in senso lato: come espressione della radicale socialità della natura umana), bensì - come si è evidenziato più volte nelle microstorie - la postula.

Questa diversa impostazione permette anche di andare al di là dell’individuo, senza pretendere, come accade nei tentativi teorici di applicare la psicoanalisi al sociale, di voler affrancare gli insiemi familiari, i gruppi sociali e la socialità dalla pressione delle pulsioni. In ogni caso, infatti, il problema, dal punto di vista dialettico, consiste nell’individuare - a livello di gruppi o di istituzioni - i codici ipernormativi, il cui intento - spesso ampiamente ideologico - è di moralizzare o migliorare l’individuo e la vita di relazione, ma il cui effetto è di indurre un disordine nella natura umana, che poi compare, sotto forma di fantasmi o di comportamenti, come pulsionale.

In breve, la morale dell’ascetismo e la morale del godimento, sulle quali Freud ha elevato il suo sistema teorico, prendendo spunto dall’analisi di esperienze soggettive isolate rispetto ai contesti storici, sono, dal punto di vista dialettico, due facce di una stessa medaglia, il cui conio –prodotto di un lungo processo storico- impone agli uni –non importa a chi- di sacrificarsi e di soffrire, perché gli altri possano godersi la vita. A qualunque livello, individuale o sociale, le istanze superegoiche non mirano a civilizzare, bensì a mortificare i bisogni umani: la mortificazione si alimenta dai fantasmi di disordine istintuale che essa stessa produce. Non si tratta, pertanto, come sostiene Freud, di ridurre quella istanza via via che la natura umana, in virtù di una mutazione genetica, si rivelerà meno indocile e pericolosa ai fini della vita sociale, bensì di riabilitare a natura umana in ciò che essa ha di specifico - la sua radicale socialità - e di accordare con essa la cultura, che è quella specificità può potenziare al meglio.


La gaia apocalisse

 

1) Sestilia

Ha 54 anni, e vive in una cittadina delle Marche con il marito e una figlia, studentessa di lingue.

La storia ‘clinica’ comincia a 40 anni: dopo aver subito un’isterectomia totale, Sestilia comincia a sentirsi debole e inadeguata, non più all’altezza dei suoi doveri. Sul piano comportamentale, questo vissuto non ha un riscontro obiettivo: secondo i parenti, ha continuato a fare tutto come prima. Troppo, anzi.

Sestilia, da sempre, è totalmente "schiava" dei ruoli domestici: dalla mattina alla sera non si concede un attimo di tregua. Tranne che per fare la spesa e andare in chiesa, non esce di casa per non perdere tempo. Da anni, non compera vestiti nuovi, non va dal parrucchiere, rifiuta le vacanze. Quasi annualmente, va incontro ad episodi di depressione caratterizzati dall’insonnia e dalla perdita di appetito: ma anche in questi periodi, nonostante la sofferenza le si legga in viso, non viene meno ai suoi doveri. Al ciel sereno, nell’81, tenta il suicidio gettandosi in mare. Soccorsa e salvata, non riesce a motivare in alcun modo il suo gesto. Riprendere a vivere come sempre, con il rimorso di aver disonorato la famiglia e con un’insonnia cronicizzata: si sveglia alle quattro pensando a come poter far fronte alle incombenze del nuovo giorno. Alle 7, quando si alza dal letto, è già logorata dall’ansia di non riuscire a fare tutto ciò che deve. Nel febbraio dell’84 tenta di nuovo il suicidio in mare. Salvata ancora una volta, riesce appena a dire che aveva la testa confusa e non si raccapezza più. Prima di gettarsi in mare, ha preparato il pranzo per il marito e la figlia.

Sestilia è una donna mite, taciturna, che si vergogna dei fastidi arrecati alla famiglia. Il suo livello di coscienza riguardo alla situazione è incentrato sull'essere inadeguata ai lavori domestici e, di conseguenza, inutile e di peso. La domanda terapeutica è ovvia: Sestilia chiede una cura ricostituente, che le restituisca le energie per fare ciò che deve. Ma, dato che il suo senso del dovere è illimitato, è chiaro che il suo progetto di guarigione è "suicida": postula, infatti, che sia rimessa in moto una macchina distruttiva che, sollecitando Sestilia a fare di più, finisce con l’indurre la disperazione. L’apparente soddisfazione con cui Sestilia ha vissuto e vive il suo ruolo ha indotto nei familiari un atteggiamento di passiva cecità sul dramma che si è svolto sotto i loro occhi.

Grazie al sacrificio di Sestilia, entrambi sono affrancati da qualsiasi responsabilità: il marito, che svolge al mattino un’attività lavorativa tutt’altro che faticosa, in casa, secondo le sue stesse parole, vive come un pascià; la figlia studia con profitto e si gode la vita (viaggia spesso all’estero, frequenta gli amici, ecc.). entrambi rimproverano a Sestilia di lavorare troppo, ma esitano ad aiutarla, poiché, le rare volte che hanno tentato, Sestilia ne ha tratto spunto per confermare la sua inutilità e il suo essere di peso.

La ricostruzione microstorica permette di comprendere agevolmente la struttura dell’esperienza di Sestilia. Prima di cinque figli di una misera famiglia contadina tipicamente patriarcale, essa ha visto la madre morire di stenti (in un tubercolosario) e si è precocemente dovuta assumere il suo ruolo. Delle sorelle che ha allevato, mortificando se stessa (ha frequentato appena la seconda elementare), una è finita "male": a 14 anni ha cominciato a sbandare, e a 17 anni è partita per Milano, dove ha praticato la prostituzione. Il padre pare che sia morto di ‘crepacuore’ per una vicenda, che ha disonorata la famiglia agli occhi del paese. Sestilia se ne è fatta una colpa da espiare: il suo modo di essere totalmente sacrificale è orientato a riscattare il nome della famiglia di fronte all’implacabile tribunale della sua coscienza e del mondo. La rabbia per un’esistenza chiusa ad ogni piacere è affiorata, oltre che negli acting-out suicidi, nei periodi di depressione, allorché Sestilia, preda di un vero e proprio affaccendamento ansioso, commette degli errori clamorosi nella gestione domestica: brucia la roba sul fuoco, mette il sale due volte sui cibi, lascia il ferro da stiro acceso sulla camicia, programma male la lavatrice logorando il carico, ecc.

L’intervento dialettico in questo caso ha un obiettivo univoco: far affiorare la sofferenza sottesa all’esperienza di Sestilia, restituendola alla sua coscienza e a quella dei familiari, e indurre, in virtù di questo, la consapevolezza del significato ‘suicida’ del progetto di guarigione e del significato correttivo degli episodi di depressione. E’, in breve, il negativo, così come appare agli occhi di Sestilia, - la sua inadeguatezza, la sua stanchezza, la muta ribellione alla schiavitù -, che va trasformata in positivo: in un cambiamento che l’affranchi dall’espiare colpe che non ha, e le conceda di godersi i meriti che ha accumulato sul conto di una vita totalmente dedita agli altri. Quel negativo, infatti, è null’altro che la rivendicazione d’un bisogno di individuazione, di un diritto a vivere frustrato prima dalle circostanze ambientali e, poi, dall’esigenza maturata in Sestilia, in conseguenza della ribellione della sorella e della sua stessa ribellione inconscia, di vivere espiando, pagando l’interminabile debito contratto con il mondo.

La ‘mostruosità’ dell’esperienza di Sestilia è così evidente che basta poco a farla entrare nel campo di coscienza suo e dei familiari. Nel suo intimo, dall’epoca dell’isterectomia, Sestilia si è chiesta infinite volte che cosa si fosse goduta dalla vita, perché il destino l’avesse fatta nascere donna, che senso avesse il suo perpetuo affanno per un’impresa in fondo banale: gestire una casa e una famiglia. Ha visto avvenire, nel corso degli anni, dei cambiamenti sociali: le donne del paese e le sue sorelle (quelle ‘buone’) non vivono come lei. La figlia stessa, con una dedizione allo studio non compromessa da un modo di vivere esuberante e gioioso, le pone sotto gli occhi una possibilità che Sestilia riteneva inesistente. Confessa che, prima che s'0inaugurino le depressioni, prova disgusto per le cose che fa: ma ha sempre reagito imponendosele in maniera più rigida. Sogna anche, ricorrentemente, la sorella ‘perduta’ che si è sposata, ha due figli e gestisce una profumeria, e la vede serena e felice, senza rimorsi. Quanto ai parenti, occorre ancora meno a fargli vedere ciò che essi sanno: Sestilia vive come un robot, sacrificandosi per loro; erogando servizi da cui traggono vantaggio ma che li colpevolizzano. Il marito, quando riposa il pomeriggio e sente la moglie trafficare per casa si sente un ‘verme’. Ogni qualvolta deve allontanarsi di casa per una gita o un viaggio, la figlia evita di guardare negli occhi la madre, per il timore di leggere nel suo sguardo un muto rimprovero, che, però, ormai sente incombere dentro di sé.

Il problema è dunque chiaro: occorre arrestare una macchina implacabilmente programmata dal senso del dovere, che, senza controllo, potrebbe votare tutti alla catastrofe. Scoperto il ‘persecutore’ in un modello di normalità la cui realizzazione comporta, come estrema ribellione e vendetta, la morte, non occorre alcuna prescrizione.

Gli uomini sanno lavorare sui problemi quando riescono a vederli e a viverli dialetticamente.


2) Irma

Ha 56 anni, vive con il marito e una figlia laureata in medicina. Un’altra figlia è sposata e ha un bambino di due anni. La storia ‘clinica’ comincia a 26 anni, poco dopo il matrimonio. Irma vive con i suoceri. Una mattina, alle 6, mentre sta sfaccendando in cucina, il suocere l’abbraccia: dopo un moto di ribellione, Irma si abbandona e si lascia baciare. Cade successivamente in una depressione profonda, che, al di là della colpa recente, rievoca una serie interminabile di colpe passate. Ricoverata e trattata con ES, Irma è diagnosticata affetta da una psicosi ossessiva con elementi deliranti. La psicosi ossessiva è funzionale ai ruoli domestici: Irma è una casalinga perfetta, per quanto scrupolosissima ed eccessiva nelle pulizie, una moglie servile, costantemente impegnata a soddisfare i bisogni del marito prima che siano espressi, una madre iperprotettiva, assillata dai pericoli delle malattie infettive. Vive in casa come un essere senza bisogni, continuamente assillata nel suo intimo dagli scrupoli. Periodicamente, ogni due-tre anni, sviluppa degli episodi depressivi con un delirio di colpa che la induce a sentirsi infetta, mostruosa e diabolica: viene ricoverata e trattata con psicofarmaci ed ES.

L’ultimo episodio, inauguratosi a 55 anni, appare particolarmente serio: tra l’altro, per la prima volta, Irma rifiuta il ricovero, poiché è certa che il cervello le si va disfacendo e che, di conseguenza, non c’è più nulla da fare. Accetta di buon grado un contatto terapeutico, dopo essersi assicurata che nulla sarà fatto o deciso contro la sua volontà.

Il comportamento di Irma è tipico delle donne schiave dei loro ruoli domestici, che si ribellano accrescendo il peso delle catene sino a renderlo insostenibile.

Dall’efficienza consueta, eccessiva e scrupolosa, essa è passata all’affaccendamento ansioso e improduttivo, finendo con l’ingabbiarsi in una serie di rituali inerenti l’igiene che le impediscono di fare qualunque altra cosa che non sia pulire il proprio corpo. Trascorre gran parte del giorno al bagno impegnata in interminabili abluzioni purificatiorie. Trascura, insomma, tutto e tutti, pensando solo a se stessa. Oltre a non fornire più le consuete prestazioni domestiche, essa è anche di peso ai suoi: non può più stare sola un attimo, e impegna di continuo il marito e le figlie nella ricostruzione dettagliata e ossessiva di episodi recenti banali, sostenendo che è un suo bisogno capire con assoluta precisione come sono andate le cose. Tutto ciò la fa sentire perpetuamente in colpa. Ma i vissuti, ch’essa ritiene inconfessabili, sono fonte di una sofferenza ancora maggiore. E’ certa di essere colpevole del tentato suicidio della madre, ha continue fantasie distruttive - di squarciamento, di sbranamento e cottura a fuoco - rivolta al nipotini, ed è perennemente agitata da scene sessuali che sembrano irrispettose di ogni principio morale, la più ricorrente tra le quali è un’orribile violenza perpetrata su bambini di tenerissima età. Questo scatenamento interiore di mostruosità giustifica il proposito di lanciarsi dalla finestra, per liberare l’umanità da un essere abominevole.

In una situazione tanto grave, l’intervento dialettico non sembra avere molte possibilità di saldare lo scarto tra il livello di coscienza e la storia reale del soggetto. Ma c’è un elemento sul quale si può impostare l’intervento: i comportamenti quotidiani esprimono una ribellione totale ma passiva ai ruoli domestici, mentre i vissuti altresì sembrano dar sfogo ad una rabbia incontrollata e distruttiva contro i legami affettivi più teneri ed i principi morali più sacri.

Nel complesso, l’esperienza di Irma è sottesa da una rabbia la cui mostruosità può essere dovuta al fatto di averla perpetuamente soffocata. Tutta la ricostruzione microstorica, che muove dal ritenersi Irma una persona docile, quieta e laboriosa invasata dal demonio, mira a restituirle coscienza delle ragioni della sua rabbia. La vita, infatti, l’ha giocata due volte. La prima, facendola nascere con un ardente desiderio di studiare in un ambiente misero socialmente: miseria aggravata dalla cronica malattia mentale della madre, esitata nel tentativo di suicidio e in un ricovero definitivo in O.P, che ha obbligato la figlia ad assumersi precocemente la responsabilità della gestione domestica e Irma ad abbandonare gli studi per lavorare (ciononostante, Irma si rimproveri di aver fatto troppo poco per la madre9. la seconda facendola fidanzare con un giovane di famiglia agiata e quindi imparentandola, dopo 8 anni di fidanzamento apertamente contrastato dai suoceri, nel ruolo di ‘miserabile’. Acquisito il quale, Irma, per un debito di gratitudine nei confronti del marito, che le ha permesso di affrancarsi dalla miseria originaria, ha cominciato a vivere come schiava, assillata da pensiero di non fare mai abbastanza in cambio del privilegio a lei concesso. In questa dimensione sacrificale, Irma si è calata tanto bene da ingannare tutti, compresa se stessa. Essa afferma di non aver mai avvertito altri bisogni, oltre a quello di amministrare la casa e di accudire il marito e le figlie. E’ smentita dalle crisi depressive periodiche, e dai rancori che, lentamente, affiorano nei confronti del marito, che si è concesso ogni libertà e non l’ha mai portata una domenica fuori, e della figlia sposata, la quale, anni addietro, ha portato in casa il fidanzato, imponendole di fare pranzo e cena per quattro persone, e concedendosi dei rapporti nella sua camera.

E’ in conseguenza di queste ‘schifezze’, delle quali trovava tracce dappertutto, che Irma è caduta in crisi. A distanza di tempo, è questo ricordo di un disordine irrispettoso dei suoi principi che la induce, senza sapere, a rifiutare il nipotino, che è il frutto di quell’unione. Da qualche anno, infine, il marito si astiene dall’aver contatti con lei: e Irma, che non ha mai osato chiederne la ragione, è convinta che questa sia la giusta punizione per le uniche colpe da lei commesse, ricorrenti fantasie oniriche di tradimento.

Lentamente, nonostante interagisca con la ricostruzione della sua vita producendo fantasie sessuali e distruttive sempre più mostruose, quasi a sancire la sua radicale negatività, Irma prende coscienza che le circostanze ambientali prima e il suo sentirsi in debito con il marito poi l’hanno mortificata, inducendola a rinunciare, a frustrare e a negare i suoi bisogni. il ruolo di schiava felice di esserlo è stato mantenuto dalla negatività che essa si attribuisce. La quale, invece, contiene ancora la pressione dei bisogni, il desiderio di godersi la vita e la necessità di allentare i legami nella misura in cui essi comportano una totale dedizione agli altri. Dopo aver raggiunto un’intensità estrema, le fantasie morbose si allentano. E, al loro posto, affiorano gli umani bisogni che Irma ha sacrificato sull’altare dell’espiazione: la lettura dei libri e una curiosità culturale ancora viva, andare al cinema e al teatro, girare da sola per una città nella quale vive da 30 anni ma che, in pratica, non conosce, curare se stessa, il corpo, l’abbigliamento, esigere dal marito qualche tenerezza, ecc. nulla di trascendentale: il diavolo - è la conclusione cui si giunge insieme - è sempre meno brutto di come si pensa…


3) Luisa

Ha 58 anni, un marito pensionato e due figlie sposate. A 20 anni contemporaneamente si è sposata e ha cominciato a lavorare come infermiera in O.P. Il suo titolo di merito, sia a livello familiare che lavorativo, consiste nell’aver tirato il carro come una bestia da soma. Ha accudito la casa e il marito, ha allevato le figlie, si è sempre assoggettata al potere delle suore-caposala, non si è mai concessa alcun piacere. Ha pagato un prezzo incredibile senza sapere, subendo, nel corso di due decenni, una serie incredibile d'interventi chirurgici per malattie alcune delle quali sicuramente psicosomatiche: ulcere duodenali, ernie addominali, emorragie intestinali, coliche epatiche e sine materia, prolassi uterini, ecc. Più volte, in occasione degli interventi, sembrava sul punto di finire: ma si è sempre ripresa sorprendendo i medici, e tornando al più presto al lavoro. Indipendentemente dagli interventi chirurgici, la sua vita è stata un perpetuo dolore: emicranie, dolori mestruali, dolori artrosici, attacchi addominali. Nessuno in famiglia ha sentito Luisa lamentarsi: la sua fama di donna forte, capace di affrontare qualunque difficoltà, e mai soddisfatta di sé è diventata proverbiale. E’ inutile aggiungere la particolare dedizione - al limite, secondo i suoi, della mania - con cui si applicava alle pulizie di casa. Andata in pensione a 50 anni, Luisa, per riempire il vuoto lasciato dal lavoro, ha allevato i nipoti, affrancando le figlie da qualunque peso. Una di queste, con il marito, consumava i pasti a casa sua. A 56 anni, Luisa subisce un’emorragia retinica. Rimane impietrita dalla paura di diventare cieca. Nel corso di alcuni consulenze oculistiche, coglie nelle parole dei medici allusioni ad una malattia delle arterie che progredirà inesorabilmente. Alla paura della cecità si aggiunge quella dell’indementimento arteriosclerotico, che evoca i ricordi delle vecchie dell’ospedale psichiatrico. Nell’immediato, Luisa sembra reggere bene anche questa prova. Ma, per la prima volta, i familiari registrano dalla sua voce dei messaggi di preoccupazioni: Luisa afferma che si sta avvicinando una catastrofe, che è destinata a finir cieca e a morire senza aver goduto nulla della vita. Paradossalmente, è come se aprisse gli occhi per la prima volta al mondo, e si accorgesse di aver vissuto solo per gli altri, svuotandosi in nome di una causa di cui le sfugge il senso. Le conseguenze di questa crisi sono ovvie: Luisa si abbandona ad un'inerzia assoluta sconvolta da un pianto perpetuo, perde ogni efficienza domestica, rifiuta di continuare ad accudire i nipoti, nei cui confronti avverte una profonda avversione, passa le notti insonni immersa in una ruminazione catastrofica, rifiuta di uscire di casa per la vergogna di mostrarsi ‘così ridotta’ agli occhi di coloro che la conoscono. Nonostante una profonda fede religiosa, il pensiero di farla finita precipitandosi dalla finestra la ossessiona perpetuamente. Il suo livello di coscienza non va al di là di una malattia irreversibile.

L’intervento dialettico, in questo caso, è facilitato dai vissuti affiorati nel lungo anno durante il quale Luisa, anticipando il crollo nella depressione, ha fatto il bilancio della sua vita, cogliendone il senso totalmente sacrificale. Valorizzando quelli, non è difficile restituire alla crisi il suo significato di brusco e radicale cambiamento di un regime di vita intollerabile, al quale Luisa si è assoggettata troppo a lungo. Il cambiamento si è tradotto in depressione perché, altamente colpevolizzato, è stato vissuto come se significasse un venir meno a tutti i doveri.

A partire da questo, è agevole porre in discussione la domanda di guarigione di Luisa che, benché convinta di non aver scampo, vuole tornare "quella di prima", e orientarla a comprendere che il suo modo di essere precedente non va ripristinato ma neppure rinnegato: va integrato con un’attenzione per i bisogni degli altri che non giunga a mortificare i suoi. Ma quali, se essa non ne ha conosciuti altri che non fossero i doveri? E le rinunce, i sacrifici cui si è sottoposta non alludevano a bisogni da mortificare? E’ tardi per recuperare il tempo perduto: non ancora, forse, per salvare il salvabile.


4) Anita

Ha 63 anni, vive con il marito pensionato, e ha due figli sposati. Fino a 36 anni è stata una donna perfetta: ‘maniaca’, secondo il marito, per le pulizie e l’ordine. Ogni giorno, immancabilmente, lavava i pavimenti, svuotava gli armadi, tirava a lucido le piastrelle della cucina e del bagno. A 36 anni comunica al marito che un inquilino del palazzo di fronte, dalla finestra, le fa continuamente delle proposte oscene. Il marito, con una violenta litigata, lava l’onta subita. Ma ben presto i provocatori diventano una torma inafferrabile. Comincia così una lunga serie di ricoveri in cliniche private, ove si tenta di tutto (elettroshock e psicofarmaci) per far rinsavire Anita. La quale, invece, regredisce in uno stato di completa abulia: da maniaca qual’era, diventa indifferente a tutto e a tutti, trascurata e disordinata. Due volte all’anno, in media, la sua condizione si acutizza: Anita avverte delle voci che la terrorizzano, piange e si dispera. Lo psichiatra che la cura da oltre vent’anni con gli psicofarmaci, e che formula precocemente la diagnosi di ‘schizofrenia ebefrenica’, non la interroga mai sul contenuto delle voci. A 63 anni, quando ormai è affetta da una discinesia da farmaci e da segni di arteriosclerosi cerebrale, dovuti ad una pressione arteriosa elevata, Anita, in un diverso contesto terapeutico, riesce a parlare. Il terrore che prova nel corso delle crisi è dovuto al fatto di sentire le voci minacciose del padre e della madre, morti da molti anni, che le impongono di alzarsi da letto e di spicciare la casa. Si tratta di intimidazioni atroci: deve pulire e lavare fino a sfiancarsi. Anita si oppone alle voci, che si arrabbiano e cominciano a proferire oscure minacce di morte. Varie volte, nel corso della malattia, sentendosi inutile e di peso, essa ha desiderato di ricominciare a fare qualcosa: ma l’ha sempre paralizzata la paura che, profittando della sua collaborazione, le voci tornassero a schiavizzarla. In questo caso, al di là del prendere atti della devastazione perpetrata da un cieco approccio organicista, l’intervento dialettico, per l’età e le condizioni del soggetto, non ha spazio né senso. Occorre limitarsi a prendere atto di una struttura d'esperienza incentrata su di una feroce dittatura interiore dovuta ad un’educazione rigidamente repressiva, cui Anita non ha potuto opporre che l’anarchia delle fantasie sessuali, proiettate all’esterno, e di una resistenza passiva, che l’ha relegata nel ruolo della malata cronica. Questa storia è stata riferita perché essa documenta, in una maniera inconfutabile, la pertinenza del concetto di struttura psicopatologica non dialettica: una struttura conflittuale cioè che, senza un intervento dialettico mirato a disalienare i bisogni, non concede scampo al soggetto.


5) Spunti di riflessione

Sestilia, Irma, Luisa, Anita: quattro storie, un unico canovaccio. La riflessione sulla condizione femminile è giunta a risultati tali da rendere quel canovaccio agevolmente decifrabile. La forza della tradizione, che vota alcune donne alla catastrofe, si esercita con una sottigliezza particolare: inducendo, nelle fasi evolutive della personalità, una percezione così tremendamente paurosa della libertà e del piacere, da spingere il soggetto stesso a definire come sua normalità un modo d'essere che, frustrando ogni libertà e ogni piacere, lo costringe ad espiare gioiosamente colpe mai commesse. La macchina del dovere, in altri termini, è solo apparentemente alimentata dal senso del dovere: di fatto ciò che la rende implacabile è la necessità di tenere sotto controllo un pericolo - il disordine - che, paradossalmente, cresce in conseguenza dello sforzo che dovrebbe estinguerlo. Parlare di gaia apocalisse è pertinente, poiché la catastrofe avviene in virtù di una normalizzazione forzata che corrisponde ad un livello di coscienza apparentemente privo di problemi. Non è un caso che la domanda di guarigione si esprime univocamente nel desiderio di tornare ad essere come prima (delle crisi).

Ma il significato di queste storie, esemplari, va al di là del discorso della nuova schiavitù affiorata con l’avvento della civiltà industriale: la schiavitù delle donne, isolate dal contesto sociale, improduttive economicamente e quindi dipendenti, chiuse nel loro spazio domestico e familiare. Esso infatti pone in luce per un verso la debolezza delle teorie relazionali, che pretendono di ricondurre un comportamento all’interazione con l’ambiente.

Nei casi in questione, l’ambiente, indubbiamente, sfrutta il comportamento sacrificale, ma non lo determina: e, se lo stigmatizza come eccessivo o maniaco, produce un rafforzamento. Il determinismo delle esperienze fa capo ad una struttura che, facendo incombere il pericolo del disordine, postula una feroce dittatura interiore. In secondo luogo, c’è da tenere conto che, se si vuole una conferma dell’ipotesi secondo cui la struttura ossessiva è la matrice delle esperienze psicopatologiche, le storie riportate, con i loro sviluppi depressivi e deliranti, la offrono inconfutabilmente.

Ma c’è un punto su cui sembra opportuno soffermare l’attenzione. Sarebbe ingenuo, muovendo dal dato anagrafico, pensare che la produzione di strutture di esperienze come quelle riferite appartiene al passato. E’ probabile, infatti, che i modelli di normalità in questione siano ancora attivi a livello di mentalità, e che i cambiamenti siano più apparenti che reali. Questo è un problema che meriterebbe di essere discusso e approfondito, poiché la sua chiarificazione consentirebbe di non sorprendersi del fatto, statisticamente certo, che molte giovani donne hanno già imboccato il tragitto percorso ciecamente, nei decenni trascorsi, da tante altre. E, forse, di rendere socialmente fruibili un sapere che non ha bisogno di altre conferme. 


Della vergogna sociale

L’interesse di questo gruppo di esperienze deriva dal fatto che i soggetti, legati tra loro da vincoli di sangue o acquisiti, appartengono ad uno stesso macrocontesto sociale: un comune del Lazio, non molto distante da Roma, estremamente conservatore dal punto di vista della mentalità (è - tra l’atro - un indiscusso feudo deocristiano), investito, a partire dal dopoguerra, da uno sviluppo socioeconomico tumultuoso, cui non ha fatto riscontro alcun impegno di ristrutturazione culturale. Cariche di nuovi bisogni, le esperienze soggettive delle persone nate nell’epoca del boom, sono venute ad urtare contro il muro della tradizione, rappresentato dagli occhi della gente. Alcune, indubbiamente la maggioranza, sono refluite nel più banale conformismo, aggiornato consumisticamente. Altre, sottese da istanze di opposizione, non trovando sbocchi sociali, si sono rivolte, prima, all’estremismo politico, e dal ’77 in poi alla droga. Altre ancora, come è il caso del gruppo in questione, sono esitate nel disagio psichico. Non è di scarso interesse rilevare preliminarmente che, nonostante le differenze apparenti tra le esperienze - dovute al diverso livello economico, alle identità sessuali e alle vicissitudini individuali - c’è in esse un elemento strutturale e dinamico comune: una profonda vergogna sociale, che attinge livelli soggettivamente e, talora, in rapporto a comportamenti ‘trasgressivi’, interattivamente persecutori. Questa vergogna definisce il peso parassitario della tradizione nella struttura di personalità dei soggetti: peso di cui essi non riescono a liberarsi perché la loro esperienza è intrappolata tra un disordine interiore totale - che è il modo in cui si è realizzata l’opposizione alla tradizione - e bisogni di moralità che, pur mirando a valori nuovi, risultano paradossalmente alleati con i codici tradizionali, e, in pratica, con gli occhi della gente. E’ in contesti sociostorici trasparenti nei loro livelli contraddittori, e tali che la tradizione continua a persistere nonostante non abbia più significato da un punto di vista sovrastrutturale, senza peraltro che siano maturate le circostanze politiche e culturali atte a svelarne l’inadeguatezza in rapporto ai bisogni umani, che lo strutturarsi delle esperienze psicopatologiche nella loro paradossale funzione di confermare una tradizione intimamente rifiutate risulta evidente. In tali contesti, la soggettività, più che mai, si configura come uno spazio animato da tensioni irriducibili alle esperienze personali o microcontestuale. Ed è inutile dire che, in situazioni tali, l’intervento terapeutico dialettico risulta tanto efficace soggettivamente quanto dolorosamente slegato da una realtà socioculturale inerte.

E’ anche di un certo interesse riferire che l’intervento terapeutico è stato progressivamente agevolato dal patrimonio accumulato via via che le esperienze venivano ricostruite e si ristrutturavano.

Antonio, a 25 anni, è già stato ricoverato tre volte in clinica psichiatrica per episodi di eccitamento emaniacale, e trattato con elettroshock e psicofarmaci. Negli intervalli tra le crisi, vive bloccato in cassa in una condizione di depressione inibita che lo prostra a letto e gli rende difficile articolare la parola. Per i genitori è difficile accettare la diagnosi impietosa degli psichiatri, che assegna Antonio alla categoria delle psicosi processuali. Di modestissime condizioni economiche - il padre è un impiegato statale - essi si sono sacrificati duramente per assicurare ai figli un avvenire migliore. Tutti e tre i figli, in effetti, hanno conseguito il diploma di scuola media superiore, ma nessuno di essi è riuscito a portare avanti gli studi universitari né ad inserirsi lavorativamente.

Piero, il fratello maggiore, è un ‘gruppettaro’: l’unico che è uscito di casa. Vive con una ragazza, lavorando saltuariamente. Egli è il primo in famiglia a contestare la diagnosi e le procedure psichiatriche, il primo a prendere l’iniziativa di mettere in discussione se stesso per capire le vicissitudini del fratello e indurlo ad accettare un intervento terapeutico alternativo. In una certa misura, intuisce che la ‘malattia’ di Antonio rappresenta un’amplificazione dei disagi che egli stesso vive in prima persona. Nonostante il livello di coscienza politica, che lo aiuta a tollerare una condizione di emarginazione sociale e di precarietà economica, Piero cade periodicamente in stati depressivi nel corso dei quali avverte dolorosamente la ‘pochezza’ della sua vita. Il metro di misura, in tali periodi, è il borghese integrato con i soldi, la macchina e le donne. Anche nel rapporto con le ragazze, egli vive con intensità la contraddizione tra valori nuovi - la libertà, la parità, il rispetto reciproco - e valori tradizionali, che lo portano ad essere geloso, maschilista e, talora, prepotente. Le intuizioni di Piero riguardo al fratello non sono lontane dalla verità. Il vissuto di Antonio è sotteso da una profonda vergogna sociale: non esce di casa perché non sopporta di esporre la sua miseria agli occhi della gente. Si sente un fallito sotto ogni aspetto. Affetto da un'impotenza, che egli attribuisce alla sessuofobia familiare rafforzata dalla frequentazione assidua dell’ambiente parrocchiale fino a 15 anni, non è mai riuscito ad accostare una ragazza. Ha studiato con la convinzione di trovare un posto meno umile rispetto a quello paterno: ma ha conseguito il diploma quando la crisi dell’occupazione si era avviata. Più volte ha tentato di lavorare come operaio stagionale nelle cave di marmo o nei cantieri del metanodotto, ma si è sempre arreso rapidamente, constatando di non avere né la struttura fisica né la mentalità adatta a lavori ‘bestiali’. Si vergogna d'essere ancora un peso morto per i suoi, che, con la pensione del padre, devono continuare ad imporsi duri sacrifici per andare avanti. Ma, nel contempo, nutre nei loro confronti un sordo rancore per i sani principi che gli hanno istillato e che non coincidono con la realtà del mondo, che, ai suoi occhi, è dominata dalla legge del più forte. Al rancore, si associa anche la volontà determinata di riscattare la famiglia, e se stesso, dalla miseria e dal grigiore.

Non è un caso un caso che la prima crisi, a 20 anni, sia esplosa quando il padre lo portò con sé in ufficio come volontario, con il patetico progetto di sistemarlo in qualche modo, e Antonio, vedendo il direttore che trattava il padre come uno ‘straccio’, aggredì quello verbalmente, continuando poi per alcune settimane a sfidare tutta la società, avvertendo un sentimento di sicurezza mai provato allora. Rischiò - è vero - di finire in galera, e l’ultimo evento - un violento alterco con un poliziotto stradale - fu tamponato nelle sue conseguenze penali solo in virtù del primo ricovero in clinica psichiatrica. Il sentimento di potenza sperimentato in quel periodo è rimasto per Antonio, il modello di normalità cui aspira. Nei periodi di depressione, vive nell’attesa che l’eccitamento si riavvii, consentendogli di non aver paura di nulla e di poter sfidare agli occhi della gente e delle ipocrite regole del vivere civile.

L’intervento dialettico, per avviarsi, non deve far altro che confermare quell’obiettivo, demistificandolo. L’onnipotenza è la forma in cui Antonio ha sperimentato di poter affrontare il mondo senza sentirsi un ‘verme’: pretendere di essere affrancato dalla vergogna sociale non è affatto insensato. Si tratta però di capire il significato di questa vergogna, che è il suo modo di essere consueto, e, soprattutto, della tendenza a ricadere in essa in conseguenza delle fasi di eccitamento.

Se, infatti, egli è stato ricoverato più volte contro la sua volontà, ciò è accaduto sempre al limite di una rottura sociale, che avrebbe potuto comportare conseguenze più serie di un ricovero. Altre volte, poi, l’eccitamento si è spento senza necessità di ricovero: repentinamente, Antonio ha sentito esaurirsi l’energia e affiorare, al posto dell’onnipotenza, intensi vissuto persecutori che lo hanno indotto ad occultarsi tra le pareti domestiche. Quale è il senso di questa ciclicità? Antonio, che ha militato politicamente in un gruppo extraparlamentare, non ha difficoltà a riconoscere che, nelle fasi di eccitamento, pur sentendosi sicuro di sé e capace di sfidare il mondo, giunge ad incarnare un personaggio molto diverso rispetto ai suoi ‘ideali’, ispirati alla solidarietà degli oppressi contro gli oppressori. Le crisi gli permettono sì di ribellarsi, ma in una dimensione privata che è potente non meno che aggressiva e tracotante e, per quanto concerne le donne, francamente maschilista. A mente fredda, egli riconosce che la normalità cui aspira riguarda solo il vissuto interiore di sicurezza prodotto dalle crisi, e non i comportamenti in cui esso si traduce, che definisce da ‘fascista’. E’ probabile dunque che l’esaurirsi delle crisi corrisponda ad un senso di colpa per questi comportamenti, che si traduce talora in una provocazione sociale che mira ad indurre la repressione psichiatrica e talaltra in una repressione interna espressa dai vissuti persecutori. Il problema, dunque, è di confermare la necessità di affrancarsi dalla vergogna sociale, ma vigilando sulla tendenza a slittare su un registro che Antonio giunge a vedere come un vicolo cieco, e a criticare nella misura in cui lo obbliga, per sentirsi in grado di interagire con gli altri, a pagare un prezzo elevato ad una visione del mondo che gli appare alienata rispetto ai valori in cui continua a credere.

Con questo approccio, è possibile indurre in Antonio la consapevolezza che la sua coscienza, pur orientata alla soddisfazione di bisogni autentici, è, di fatto, impregnata da un codice adultomorfo che la opprime nei periodi depressivi schiacciandola sotto il peso di un giudizio totalmente negativo e nei periodi di eccitamento sollecitandola a farsi carico di un ruolo insostenibile. La presenza parassitaria di questo codice nella struttura di personalità è facilmente ricostruibile nella sua genesi, tenuto conto delle aspettative parentali e dell’ambiente socioculturale. Individuato il nemico interno laddove Antonio vedeva prima l’alleato, è possibile avviare una pratica di vita rivolta a recuperare un’immagine di sé più tollerante e a tutelarla dagli attacchi degli occhi della gente. Antonio riannoda i rapporti con i vecchi ‘compagni’ riversando in essi la consapevolezza di un tragitto personale che inconsapevolmente lo aveva portato ad una visione del mondo individualista e ‘fascista’, riesce a trovare una ragazza che si fa carico, senza drammatizzarla, della sua impotenza, comincia a lavorare con contratti a termine come bidello. Non subisce più ricoveri in clinica. Episodicamente, quando gli si risvegliano dentro fantasie di fuga, assume spontaneamente dei farmaci per dominare l’insonnia. Non si sente un integrato: sa, ormai, che la forma peggiore d'integrazione è darla vinta agli oppressori cadendo nella cattura delle istituzioni psichiatriche e carcerarie o nell’incubo degli occhi della gente.

Lamberto, la cui microstoria è stata fornita, è il cugino di Antonio. A quanto si è già detto, appare opportuno aggiungere alcuni rilievi. Figlio unico, Lamberto appartiene ad un’ala ricca della famiglia, ascesa socialmente in virtù della gestione di un ristorante. In nome della posizione raggiunta, egli è stato trattato, dai nonni e dai genitori, come un ‘signorino’. Un particolare basta ad esprimere una strategia familiare rivolta a differenziarlo dal contesto "volgare": quando frequentava l’asilo, all’ora di pranzo, egli si appartava in uno stanzino per consumare un pasto confezionato nel ristorante di famiglia. Questa strategia di parvenus con pretese vagamente aristocratiche si è poi esercitata sotto forma di perpetuo isolamento dalle "cattive compagnie" e, dall’età dell’adolescenza in poi, all’ombra di una perpetua angoscia patrimoniale.

I familiari davano per scontato che tutti gli amici che si avvicinava a Lamberto intendessero sfruttarlo. Quanto alle ragazze., trattandosi di un "buon partito" in un ambiente in cui il matrimonio come sistemazione incombe, i giudizi - della madre in particolare - erano univoci: si trattava invariabilmente di "puttane" pronte a offrirgli il corpo pur di irretirlo. A queste costrizioni Lamberto ha reagito fin dall’adolescenza con una violenta aggressività nei confronti dei suoi, e, successivamente, lanciandosi alla ricerca di una libertà rischiosa: si è mascherato da duro e ha privilegiato esperienze sociali equivoche, malavitose, frequentando - tra l’altro - quotidianamente le prostitute. Questa pratica di vita ha finito con il rafforzare una visione del mondo nella quale non c’è spazio alcuno per i sentimenti e per i valori, riconoscendo essa nella sessualità e nel denaro le uniche molle pulsionali del comportamento umano. Le vicissitudini di Lamberto non sono diverse rispetto a quelle del cugino: le fasi di eccitamento, nel corso delle quali l’amore per il rischio e la sessualità sembrano incontenibili, si alternano a lunghi periodi nel corso dei quali egli vive bloccato in casa da angosce persecutorie. Ma, mentre in Antonio, la depressione è dovuta ad un sentimento radicale di fallimento, che investe la sua storia personale e quella familiare, in Lamberto il blocco appare più gravato da oscuri sensi di colpa che hanno radice in una visione del mondo che assoggetta tutti i valori umani ad una cieca pulsionalità egoistica e strumentale. La struttura dell’esperienza di Lamberto sembra essersi fatta carico delle contraddizioni socioculturali dell’ambiente.

Nel suo modo di percepire le pulsioni c’è evidentemente l’impronta di un’educazione religiosa intensamente partecipata sino all'adolescenza. Nella sistemazione ideologica che egli opera, si intravede il riflesso di uno sviluppo socioeconomico che, laicizzando quelle pulsioni, le ha liberate, con l’effetto di trasformarle da nuclei di paura atti a motivare un ipercontrollo in motivazioni univoche del comportamento umano. Quando Lamberto è in eccitamento, egli sembra condividere i nuovi "valori" affiorati nel corso dello sviluppo socioeconomico; quando si sente perseguitata dagli occhi della gente, egli paga un duro prezzo alla tradizione repressiva. Rendendolo consapevole della struttura della sua esperienza, l’intervento dialettico mira a far sì che egli comprenda il fine cui è orientata quella struttura, la cui drammaticità è rivolta, nell’una e nell’altra fase, a scongiurare che affiorino bisogni di relazione autentica, che, evidentemente sono ancora vivi. Paradossalmente, l’indizio della pressione di questi è fornito dal modo in cui Lamberto deve vivere per porsi costantemente al riparo da una possibile realizzazione. E’ facendo leva sull’utopia, ancora presente in Lamberto, di un mondo in cui i rapporti siano autentici e non strumentali, che l’intervento dialettico riesce a mettere in crisi una visione del mondo totalmente chiusa sotto il profilo relazionale.

In una fase precoce dell’intervento, per confermare la rispondenza al reale della sua visione del mondo, Lamberto convince a "curarsi"una ragazza residente nel suo comune di origine, con la quale ha avuto un breve rapporto e tempestoso, incentrato su di una pratica ‘ossessiva’ della sessualità. La ragazza, a detta di Lamberto, è una rappresentante esemplare del genere femminile: una insaziabile ‘virago’ che ‘ha estenuato i lombi’ di tutti gli uomini che ha incontrato, compresi i suoi. Paradossalmente, egli non ha mai colto in Anna i segni di una profonda stanchezza omologabile alla sua.

Figlia di un maresciallo dei carabinieri, politicamente conservatore e fieramente avverso a tutti i cambiamenti di costume sopravvenuti dopo il fascismo, Anna, fino a 16 anni, è vissuta in una sorta di isolamento sociale completo, accompagnata e rilevata dal padre a scuola, e, per il resto, costretta a stare in casa con la madre. Con costei, una donna precocemente sfatta dalla fatica di portare avanti dignitosamente la famiglia con un solo stipendio, Anna si è identificata, sentendo pian piano nel corso dell’adolescenza, montarle dentro una rabbia infinita per il mondo servile e sacrificale. A 15 anni, dopo un lungo periodo di depressione, tenta il suicidio. A 16 anni, sentendosi nuovamente minacciata dalla depressione, decide repentinamente di cambiare vita. Comincia a frequentare bande di giovinastri e a concedersi ad essi. La fama sociale che consegue rapidamente ha un effetto euforizzante: Anna gode di sfidare gli ipocriti pregiudizi della gente. Nonché ninfomane, è del tutto frigida: la sua insaziabilità è quella proprio di chi non prova alcun gusto per il piacere. Perché dunque non può fare a meno degli uomini? Per tre motivi: primo, per ribellarsi alla repressione cui è stata assoggettata e l’ha resa frigida; secondo, per frustrare la baldanzosa tracotanza degli uomini, dei quali, con la sua insaziabilità, mette a nudo l’impotenza; terzo, perché, nel suo intimo, essa spera sempre di incontrare un uomo che la ami per quello che essa ha dentro. Il prezzo che paga per questo modo di vivere è elevato: quando è sola i sensi di colpa diventano intollerabili, e si traducono spesso in propositi suicidi. Essa li tiene a freno precipitandosi nei rapporti, ed espiando la colpa esponendosi al giudizio di essere una puttana. L’intervento dialettico non trova resistenze nell’offrire ad Anna la chiave della sua esperienza: per sfuggire ad un destino tradizionale, iscritto nel suo essere donna, ha configurato un ruolo che è, nel contempo, totalmente trasgressivo e aspramente espiatorio. La sua totale libertà sessuale è imprescindibile dalle mortificazioni cui essa si sottopone il cui significato ultimo, ampiamente paradossale, è di smascherare la radicale ‘immoralità’ degli uomini, ponendosi al riparo da un legame stabile. La sua stessa frigidità - l’altra faccia della medaglia rispetto alla insaziabilità - esprime la persistenza, in lei, di un atteggiamento moralistico: essa, che di fatto, cede sempre, non si abbandona mai al piacere. La sua resistenza allude al desiderio latente di mantenersi integra e impenetrabile. L’esperienza di Anna condensa, in maniera paradossale, il rispetto rigido di una tradizione che vuole la donna seria, fredda e la ribellione nei confronti della tradizione che la vuole soggetta a un solo uomo. Essa è di tutti e di nessuno: totalmente dipendente dal bisogno dell’uomo e totalmente libera. La sua vita è scandalosa nella misura in cui realizza una sorta di quadratura del cerchio rispetto alla tradizione. Anche per lei il problema, di cui si fa carico l’intervento dialettico, è di essere più sensibile ai suoi bisogni personali: il che postula ch’essa cessi di vivere per sfidare gli occhi della gente, pagando il prezzo di una radicale vergogna, che, in fondo, sancisce il suo essere ancora impregnata dei valori tradizionali. Per due anni, dando spazio ad un bisogno profondo di espiazione, Anna si chiude in un lamento totale. Poi ne esce sposandosi con un giovane bolognese che si è trasferito dopo aver vinto un concorso alle poste. Costui sa tutto dei suoi trascorsi, e, avendola conosciuta nella sua sostanziale innocenza, non si preoccupa più di tanto degli occhi della gente. I quali scattano comunque impietosi il giorno che Anna, cedendo ad un estremo impulso di sfida, va in chiesa con l’abito bianco.

Imparentato con Antonio e Lamberto, è anche Enrico, che vive dall’adolescenza come un cane ‘bastonato’, sotto il peso dell’impotenza sessuale e di una estrema difficoltà di contatto relazionale, resa evidente, e vergognosa agli occhi della gente, dalla tendenza a tenere il capo chino e gli occhi bassi. A differenza dei cugini, egli non si è mai eretto in una sfida all’ambiente in cui vive. Di famiglia povera, come tutte le famiglie il cui sostegno è solo un modesto stipendio statale, Enrico è stato un figlio e uno studente modello fino al diploma di scuola media superiore. Poi, come tanti altri, si è insabbiato nell’interminabile attesa di un posto di lavoro. La necessità economica, caratterizzata da una costante precarietà, ha segnato tutta l’esperienza familiare. Arrivare alla fine del mese e, nel contempo, conservare un’immagine sociale decorosa è stato l’impegno costante dei genitori, che si è tradotto in un modello di vita incentrato sul sacrificio e sulla rinuncia ad ogni piacere. In quest’ottica di economia di guerra per sopravvivere, e non perdere la faccia, resa più mortificante dall’arricchimento allo sfoggio di altre famiglie, tutti i bisogni umani non orientati al dovere, al lavoro, al sacrificio sono stati mortificati.

L’obiettivo della sistemazione matrimoniale delle figlie e dell’inserimento lavorativo per Enrico sono stati fatti vivere come valori assoluti, da privilegiare in virtù di un perpetuo controllo sulle istanze affettive e sessuali, vissute come disordinate e dispendiose. La sorella di Enrico è stata la prima a ribellarsi a questo modello marcatamente superegoico. Si è sposata ‘sconsideratamente’ e cioè per amore, un ragazzo senza né arte né parte, dal quale si è separata dopo tre anni, tornando a casa dai suoi con un figlio da mantenere. E’ andata poi incontro ad un periodo di disordine, caratterizzato da una vita libera sotto il profilo relazionale ed erotico, che ha gettato disperazione e ‘fango’ sulla famiglia, finendosi con l’arrendersi sotto il peso della vergogna sociale e del rimorso. A 26 anni si è praticamente chiusa nelle pareti domestiche, dedicandosi completamente al figlio, in una dimensione grigia, rassegnata e rinunciataria. La rivoluzione della sorella, che ha intaccato l’unico patrimonio familiare - l’onore - ha pesato su Enrico, inducendo in lui un atteggiamento ancor più chiuso e conservatore. E’ inutile dire che i suoi sogni e le fantasie ad occhi aperti sono ingombre di istanze maniacali. Esse, urtando contro la sua volontà di non far soffrire ulteriormente i suoi genitori, vengono respinte: ma la loro insistenza, impercettibile socialmente, grava su Enrico sotto forma di senso di colpa. Egli, nel suo intimo, sa d'avere la stessa avidità di vivere dei suoi cugini, ma la criminalizza. L’intervento dialettico, in questo caso, è favorito dalla trasparenza della struttura di esperienza nella sua adialetticità, dalla comprensibilità immediata che essa ha sul piano della genesi, e anche dalle capacità introspettive di Enrico. E’ agevole avviare un processo di disalienazione dei bisogni fondamentali, e restituire il desiderio di vivere a Enrico come un capitale da investire in tutti gli ambiti della vita di relazione, compreso, ovviamente, il lavoro. E’ su questo fronte che avvengono i primi cambiamenti: egli, che è iscritto all’università, mette in discussione la sua aspirazione a diventare un colletto bianco. Si iscrive ad un corso di formazione artigianale, e scopre che le sue mani hanno qualità sorprendenti, che andrebbero sprecate se egli dovesse investirle nel disbrigo di pratiche burocratiche. Il mito dell’essere borghese si traduce nel recupero di una vocazione. Ma il nodo più inestricabile rimane quello degli affetti e della sessualità. E’ attraverso un duro lavoro su di sé che Enrico scopre una verità sorprendente: ciò che lo sblocca è l’identificare tutte le energie con capitali da risparmiare o da investire solo produttivamente. L’affettività e la sessualità sono bloccate dalla paura dello spreco, del consumo, del logoramento, in opposizione ad una logica di conservazione e di sussistenza. Enrico, in breve, è tanto desideroso di vivere, quanto parsimonioso ed avaro nella capacità di investire le sue energie in relazioni che producono solo piacere. E’ attraverso la lenta ristrutturazione di una visione del mondo meramente, e mediocremente, economicista, incentrata sulla sopravvivenza e sul decoro formale, che egli si apre al mondo. Comincia a lavorare come scalpellino, a concedersi dei piaceri e ad amare. Non senza, ovviamente, dover confrontarsi con una serie di sogni che elaborano il rapporto con una ragazza come un furto avvenuto in casa e dovuto alla sua sventatezza di aver lasciato la porta d’ingresso spalancata. Essere alienato negli affetti - identificati nei sogni del denaro nascosti nel cassetto della biancheria intima - è comunque meglio dell’alienazione dei bisogni, che, prima, lo costringevano a viversi, agli occhi degli altri, come un criminale.

Giorgio è un amico di infanzia di Lamberto, con il quale ha fatto le scuole elementari. I loro tragitti di esperienza sembrano assolutamente diversi, ma solo in apparenza. Figlio di un artigiano che ha fatto fortuna, Sandro la vergogna sociale l’ha vissuta fin da bambino. La madre, che pur essendo di umili origini, ha ambizioni elitarie, lo educa come un principino gli inculca precocemente l'avversione per il padre che non tiene minimamente alle forme. Essa, inoltre, umiliata oltre ogni dire dalla "rozzezza" del marito, intrattiene una lunga relazione con un amante, che non fa nulla per nascondere, e di cui Giorgio prende coscienza quando ha nove anni. Di questa situazione, i nonni paterni fanno un dramma, deteriorando l’immagine della madre agli occhi di Giorgio, fino ad indurre in lui l’incubo del giudizio della gente. Alla vergogna sociale, Giorgio reagisce chiudendosi agli affetti familiari, esiliandosi dopo la terza media in un collegio per ricchi a Roma, e tornando dopo la maturità a casa, con l’intento di riscattare se stesso e la famiglia dalla duplice onta: la volgarità del padre e l'immoralità della madre. Lo strumento del riscatto è il lavoro. Utilizzando i capitali lasciati dal padre, precocemente venuto a morte, Giorgio si lancia in un’attività imprenditoriale sagacemente amministrata sul piano dell’immagine pubblica, fino a conseguire, a soli 30 anni, la fama di essere un miliardario. Di questa, e dal prestigio che essa assicura, Giorgio gode, finchè non scopre che la vergogna sociale ha investito la sua vita affettiva. Egli non può farsi vedere in pubblico con una ragazza. Anche in privato, vive un grosso disagio nell’abbandonarsi sia affettivamente che eroticamente. Per un certo periodo, giustifica questo disagio con il dubbio di non riuscire a decifrare le intenzioni - sentimentali o di interesse - della donna con cui ha rapporto. In realtà, egli non tollera la dipendenza da un legame e, inoltre, ha una concezione sacra della donna, che lo induce a vivere la sessualità come un oltraggio.

A 31 anni, sposa, senza avvertire amore, una ragazza ricca e di ottima famiglia, per accrescere l’invidia della gente. La moglie risulta essere affetta da una totale frigidità. Nel corso del viaggio di nozze, Giorgio scopre, repentinamente, di nutrire interesse sessuale solo per gli uomini. Dopo due anni di matrimonio si separa e la sua vita si sdoppia. A livello pubblico, egli è un uomo apprezzato e rispettato, che tiene alle forme, vive negli agi e nell’eleganza, e si comporta in maniera raffinata e irreprensibile. In privato, è ossessionato dalla ‘fame di sesso’ ed esce ogni notte andando alla ricerca di un partner. La paura che la gente sappia di questo disordine raggiunge livelli di panico. Giorgio vive solo per il successo economico e per sfogare una sessualità che si configura, alla sua coscienza, come una ‘droga’. La ribellione privata al buon ordine civile borghese, al quale tiene tanto, lo caccia però in un vicolo cieco. Le esperienze che egli si concede diventano sempre più degradanti. Egli comincia a desiderare di amare. In effetti, s'innamora più di una volta. Ma i rapporti hanno un tragitto univoco: finché Giorgio non è certo dell’amore dell’altro, è geloso, possessivo, torturante. Non appena ha le prove della dipendenza amorosa, tronca bruscamente il rapporto. E’ evidente la logica dinamica di questo comportamento: Giorgio odia il suo bisogno di relazione, individuando in esso l’espressione di una miserabile dipendenza. Dopo aver tentato di degradarlo a livello di mero istinto sessuale, lo realizza nel rapporto d’amore: ma l’altro, nella misura in cui diventa dipendente, viene trattato come un essere da rifiutare. Ad un certo punto, Giorgio comincia ad avvertire il bisogno irrefrenabile di rendere pubblica la sua condizione, e di farla accettare in nome della sua potenza e del prestigio economico. Il suo disordine giunge così a configurarsi come una provocazione sociale: e, tenuto conto dell’ambiente, in termini molto più radicali rispetto ai comportamenti genitoriali. Alla fine, è questa motivazione sociale che prevale sulla fame del sesso e del bisogno d’amore. Ma quando lo ‘scandalo’ diventa di dominio pubblico, e nessuno osa fiatare, perché egli ha un potere troppo rilevante, la soddisfazione della vendetta si esaurisce e affiorano i disturbi. Giorgio comincia ad avvertire crisi di astenia, palpitazioni, sensazioni di soffocamento, sensazioni di malore. Consuma un patrimonio consultando i medici che gli prescrivono inutili ricostituenti e psicofarmaci. Sentendo venire meno la padronanza di sé, e crescere il panico di stare male agli occhi degli altri, giunge seriamente a meditare il suicidio. L’intervento dialettico restaura una verità trasparente: in nome della vendetta sociale, esercitata prima sotto forma di disordine privato e poi con la denuncia della sua condizione di omosessuale, egli ha letteralmente sacrificato i suoi bisogni di relazione, finendo nel vicolo cieco di una totale solitudine. L’isolamento è valso anche a negare i suoi bisogni di dipendenza, che invece sono ancora intensi. Giorgio nega di avere bisogni di dipendenza: ciò che avverte ‘visceralmente’ è il bisogno di paternità. Confessa addirittura di aver pensato più di una volta di pagare una donna che gli facesse un figlio e si togliesse poi di torno. Su questo bisogno di paternità, che postula il rapporto con la donna, si avvia il discorso di ristrutturazione dell’esperienza di Giorgio che affranchi la sessualità dalle sua connotazioni ‘perverse’.

Non sembra opportuno sottoporre ad analisi critica approfondita le esperienze riferite. Ciò che sembra importante è sottolineare in quale misura la diversità psicopatologica e fenomenologia corrisponde a tematiche di fondo riconducibili all’alienazione di bisogni fondamentali, in virtù della quale il prezzo dell’adattamento sociale è rappresentato da un comportamento conformistico ma schiavizzato, mentre l’individuazione sembra non avere altri sbocchi che o l’anarchia interiore o l’accettazione di un ruolo emarginato.

C’è poi, un intreccio tra mentalità collettiva - in parte rigidamente vincolata a valori religiosi, in parte tributaria di valori laici (sesso, denaro, potenza) - e esperienze soggettive che per molti aspetti è trasparente, ma, data la complessità dei tragitti individuali e delle costellazioni familiari, richiederebbe un approfondimento maggiore. Nessuno, forse, saprà mai quante esperienze giovanili siano incappate negli stessi vicoli ciechi ideologici, e quale sia stato il loro destino.

La prassi terapeutica dialettica, nella misura in cui si confronta con esperienze individuali o microcontestuali, non può celare a se stessa che c’è un al di là su cui non ha alcuna capacità di intervento.


Livelli di esperienza nel sistema familiare.

Una intuizione sulla struttura dei rapporti familiari, affiorata nella stesura dei seminari sui casi freudiani, di straordinaria importanza per i problemi teorici che essa permette di risolvere, è stata purtroppo ‘rimossa’ nel corso del seminario su ‘disagio psichico e famiglia’ per un eccessivo tributo alla coerenza del discorso. Con questa nota, si intende ovviare alla rimozione e portare alle estreme conseguenze quella intuizione.

Nei casi freudiani, la famiglia - Schreber padre, i genitori dell’uomo dei topi - viene valutata da Freud da un punto di vista superficiale. In apparenza, si tratta in effetti di contesti familiari buoni: Schreber padre è un uomo sensibile e attento ai problemi educativi, che dedica molto tempo al ruolo familiare; il padre de l’Uomo dei topi, nonostante gli scatti di rabbia, stabilisce addirittura con il figlio un rapporto di confidenza e di amicizia inconsueto per i tempi; la madre, a sua volta,appare costantemente preoccupata dell’avvenire del figlio, direttiva ma non repressiva. I ricordi dei figli confermano il punto di vista freudiano: sia Schreber figlio che l’Uomo dei topi riconoscono le qualità eccellenti dei genitori e, coscientemente, non avanzano critiche nei loro riguardi. L’ottica delle apparenze familiari, dei rapporti interpersonali buoni in un clima altoborghese culturalmente ricco e coscienzioso dei doveri parentali, è adottata da Freud non solo nei casi in questione, ma in tutti i casi clinici ch’egli ha redatto. E’ questa ottica ad ingannarlo sulla genesi del disagio psichico: non riuscendo a vedere, infatti, né nella struttura della personalità dei genitori né nei loro rapporti con i figli degli elementi tali da giustificare l’intensità dei conflitti interiori sviluppati dai figli, egli è costretto ad adottare un’ipotesi intrapsichica, ad ammettere fantasmi soggettivi atti a distorcere una realtà umana ed ambientale sostanzialmente positiva. Un errore di segno opposto è commesso dagli antipsichiatri inglesi, che ricostruiscono costantemente contesti familiari totalmente negativi, all’interno dei quali i genitori si configurano come ‘mostri’ di intolleranza, di incomprensione e di insensibilità nei confronti dei figli.

Né il punto di vista freudiano né quello antipsichiatrico sono infondati: l’errore epistemologico consiste nel cogliere, nella struttura della famiglia e dei rapporti interpersonali, aspetti parziali ciascuno dei quali viene assolutizzato. Risulta ovvio che un maggiore grado di verità, riguardo alla struttura familiare, si raggiunge tenendo conto di entrambi gli aspetti. Ma il tenerne conto non significa molto se si giunge a definire i contesti familiari che producono disagio semplicemente contraddittori. Di fatto, lo sono: ma le contraddizioni che esprimono vanno riferite a due diversi livelli della struttura della personalità dei genitori, destinati a riprodursi - mutati mutandis - nella struttura di personalità dei figli. Nei casi freudiani, questi due livelli hanno il pregio della trasparenza. Schreber padre, in quanto persona, è attento, scrupoloso, partecipe e affettuoso: ha, in breve, rapporto con il figlio come persona. In quanto educatore, egli invece ha rapporto con una natura percepita persecutoriamente, che traspare nei difetti del figlio e che egli perseguita. Il padre dell’Uomo dei topi è un uomo gioviale, estroverso e confidenziale: in quanto persona, egli dunque mira a stabilire con il figlio un rapporto di fiducia. Ma, nei casi in cui il figlio manifesta un atteggiamento di opposizione o di insubordinazione, il padre è preda di raptus di rabbia ed esplode repressivamente poiché l’atteggiamento del figlio si configura, ai suoi occhi, come un disordine che potrebbe produrre una personalità criminale (è quello il dubbio che, tra l’altro, esplicita), ed egli si confronta con questo pericolo investendosi del ruolo dell’autorità che deve sconfiggere una potenziale devianza.

In ambedue i casi, lo scarto tra i livelli interesperenziali che mettono in rapporto i padri con i figli su un registro affettivo - e i livelli metapersonali – che mettono in rapporto l’autorità con il disordine della natura umana su un registro codificato a livello comportamentale- appare enorme. In breve: in quanto persone, sia il padre di Schreber che il padre dell’Uomo dei topi sono, come ha rilevato Freud, ottimi padri: in quanto autorità investite di un ruolo educativo, e cioè in quanto funzionari della tradizione e dell’ordine sociale, essi sono incontestabilmente dei persecutori.

Non esito ad affermare che in tutte le famiglie che producono un disagio psichico è possibile individuare questo scarto tra il livello esperenziale e livello metapersonale (culturale o ideologico). Se fosse possibile quantificarlo, esso risulterebbe sempre rilevante.

Quest'affermazione permette di precisare meglio la configurazione strutturale delle famiglie che producono un disagio psichico. Essa, senz’altro, nell’ideale curva di Gauss che si è ipotizzata, appartengono ai poli estremi della conservazione e dell’utopia. Ma ciò è vero a livello ideologico o di mentalità. A livello interesperenziale, sia le famiglie conservatrici che quelle utopistiche, proprio in virtù del fatto di sentirsi, per motivi diversi, in opposizione rispetto alla realtà, hanno, nei confronti dei figli, degli atteggiamenti partecipativi più intensi rispetto alla media, che, per realizzarsi, utilizzano necessariamente il registro dell’affettività. Questi atteggiamenti sono senza dubbio strumentalizzati dai codici mentali che le famiglie veicolano: ma, nel realizzarsi, essi mettono in luce anche le qualità personali dei genitori o, meglio, ciò che in loro, come persone in carne ed ossa, è sopravvissuto al parassitismo dei codici mentali.

Questa ipotesi permette di risolvere alcune difficoltà teoriche che si pongono sempre quando si valuta l’incidenza della famiglia nella genesi del disagio psichico.

Intanto, essa consente di definire in maniera precisa la specificità delle famiglie che producono un disagio psichico in rapporto alle altre. Questa specificità non è riconducibile né al livello interesperenziale né a livello metapersonale considerati isolatamente, bensì allo scarto tra i due livelli. In pratica, in rapporto alla tipologia familiare che si è adottata, ciò significa che nelle famiglie conservatrici il controllo, duro e intransigente a livello metapersonale, è temperato da atteggiamenti iperprotettivi nei quali si esprime anche affetto, sensibilità e tenerezza; nelle famiglie utopistiche, viceversa, alla capacità umana di decifrare i bisogni di autonomia dei figli e al rispetto della loro libertà si associa, a livello metapersonale, la necessità di promuovere un assetto della personalità precocemente maturo, capace di sostenere il peso della ‘diversità’ rispetto al mondo.

In secondo luogo, l’ipotesi dello scarto tra i due livelli permette di comprendere come si determina la trappola nella quale finiscono i soggetti disagiati, caratterizzata dal fatto che la famiglia, per i suoi livelli metapersonali, viene rifiutata, aborrita, odiata o vissuta claustrofobicamente, mentre, per le qualità personali dei genitori, non può essere definitivamente abbandonata o perduta. Stando dentro o in un rapporto con la famiglia, il vissuto oppressivo e persecutorio dei livelli metapersonali attiva infatti dei bisogni di libertà; separandosene o troncando i rapporti, i soggetti ricadono sotto l’oppressione dei codici superegoici introiettati e la loro libertà, di fatto, diminuisce.

Un’esperienza esemplare di questa dinamica è quella di Anna, della cui storia si è già avuto modo di parlare. Finchè viveva in casa con il padre e la matrigna, essa è ricettiva, ribelle all’imposizione dei doveri domestici e si concede una completa libertà di relazione con gli uomini. Questo comportamento provoca continui e violenti conflitti familiari che giungono, spesso, al corpo a corpo. Dai conflitti, Anna trae l’energia per motivare la sua guerra d’indipendenza: e,di fatto, la sua vocazione alla libertà sembra incontenibile. Raggiunta l’autonomia economica, essa decide, d’accordo con i genitori, di acquistare una casa e di andare a vivere da sola. La nuova condizione produce un effetto paradossale: il comportamento di Anna diventa quello tipico di una brava ragazza ‘casa e chiesa’. Lavora, mantenendo un atteggiamento rigido e irreprensibile, che la pone al riparo da ogni tentativo, da parte degli altri, di stabilire una relazione più intima: si estenua nei lavori domestici, scoprendo di essere ossessionata dall’ordine. Non esce mai di casa, se non per andare a cena dai suoi, non riceve nessuno a rifiuta di incontrare gli uomini che continuano a rivolgersi a lei, considerata una donna disinibita e sempre disponibile. Dopo un anno di indipendenza, comincia ad avvertire la nostalgia per la casa paterna: colà, almeno non era sola, e, in un regime di oppressione, era infinitamente più libera.

Un’ultima osservazione si impone. L’ipotesi dei due livelli –interesperenziale e metapersonale- ha il pregio (che è, ovviamente anche il suo limite) di essere chiara e distinta. Se essa viene posta a confronto con la teoria sulla genesi familiare del disagio psichico – per quanto possa presumere di avere letto tutto ciò che è stato scritto a riguardo - l’impressione che si ricava è che il suo assunto di fondo, che consiste nel considerare la famiglia come un’agenzia di riproduzione sociale dei cittadini nella quale gli agenti veicolano modelli e codici superegoici senza necessariamente estinguere in essi la loro concreta umanità, che rimane, pertanto, una contraddizione, è stato progressivamente mistificato ideologicamente via via che l’interesse teorico si è incentrato sulla famiglia. Presente, infatti, e delineato in Reich, esso riecheggia ancora in Laing, che lo contamina con la nozione di famiglia fantasmatica. Nei teorici transazionalisti, ossessivamente incentrati all’analisi delle strategie comunicative, quest’assunto scompare: nella scuola italiana, esso è nulla più che una pezza d’appoggio, atta ad alludere a relazioni interattive tra microsistema familiare e macrosistema sociale. Relazioni che si danno per scontate, ma di cui non si parla, poiché –si dice- sfuggono al potere dei tecnici, e rientrano nell’ambito del potere politico. L’ipotesi dei due livelli restaura, e corrobora, una verità perduta, il cui significato, per la prassi terapeutica dialettica, è evidente: non si tratta, infatti, di gestire sistemi comunicativi, bensì di lavorare, restituendoli alle coscienze, su visioni del mondo che mortificano e intrappolano tutti i membri familiari.