Prassi Terapeutica Dialettica

Introduzione alla lettura

La difficoltà di scrivere un saggio sulla terapia è restituita immediatamente dal fatto che il testo che viene qui presentato rappresenta la terza (e presumibilmente ultima) stesura. Le due che l'hanno preceduta possono essere consultate nell'Archivio (1987-88, 1990-91). A cosa si deve tale difficoltà? Paradossalmente all'abbondanza del materiale da utilizzare. Mi dedico alla psicoterapia ormai da trent'anni. Questo significa che ho dedicato più di quarantamila ore della mia vita all'analisi. Tranne che per i sogni, alcuni dei quali ho registrato, non ho mai preso appunti sulle esperienze terapeutiche. Ciononostante il patrimonio delle memorie è imponente. Dare ad esso la migliore organizzazione possibile è stata un'impresa piuttosto ardua. L'ho risolta, dopo parecchie esitazioni, costruendo una griglia sui principi generali, sulle linee interpretative di fondo, sulle fasi standard e sull'evoluzione della terapia struttural-dialettica inserendo in essa un'abbondante esemplificazione clinica.

Il risultato, nonostante tutti i miei sforzi, non è pienamente soddisfacente. Se non manca l'essenziale, manca pur sempre qualcosa, e in particolare la capacità dell'analisi struttural-dialettica di illuminare, alla luce della teoria dei bisogni, i fenomeni psicopatologici dando ad essi, agli occhi dei pazienti, un nuovo significato. Tale significato, identificabile con la funzionalità dei sintomi in rapporto al conflitto che li determina e con l'attribuzione del loro significato patologico, irrazionale, alle interpretazioni della coscienza del soggetto che li esperisce, non è del tutto nuovo. L'analisi da tempo ha insistito sul fatto che i sintomi rappresentano comunque una difesa e un tentativo di mantenere in equilibrio una situazione soggettiva precaria e tendente alla destabilizzazione. L'approccio dialettico consente però di documentare, e direi di toccare con mano la verità di questo assunto, il quale, nelle sue estreme conseguenze, comporta il fatto che una coscienza capace di decifrare in termini significativi i messaggi provenienti dall'inconscio non ne rimarrebbe devastata.

Forse l'aspetto più specifico della terapia dialettica rispetto ad altre tecniche consiste proprio in questo: nell'escludere che, a livello inconscio, si dia una patologia in senso proprio. Per quanto strutturati, infatti, i conflitti psicodinamici hanno sempre e comunque un potenziale evolutivo, riconoscono sempre e comunque una possibile soluzione. Il vero problema non sta dalla parte dell'inconscio bensì della coscienza che non solo non è in grado, in genere, di decifrare i conflitti che alberga, ma li interpreta, a partire dai sintomi, in maniera sbagliata, e spesso adotta, consapevolmente o inconsapevolmente, delle strategie difensive che sono rimedi peggiore del male.

L'ipotesi funzionalistica dei sintomi, dei vissuti e dei comportamenti psicopatologici svolge un ruolo fondamentale nell'analisi dialettica. Ma essa comporta anche delle conseguenze teoriche di interesse sotto il profilo della prevenzione. E' evidente che, da un punto di vista struttural-dialettico, una prevenzione puramente psicologica, che si limiti a sensibilizzare le coscienze, non ha molto senso. L'alienazione psicologica è una conseguenza dell'alienazione sociale. Un'opera primaria di prevenzione passa, dunque, attraverso un'analisi critica delle istituzioni pedagogiche e delle istituzioni sociali, nonché dei codici normativi che esse veicolano. Tale analisi può diventare efficace sotto il profilo preventivo solo se essa non si limita ad investire gli esperti, ma giunge a coinvolgere la coscienza sociale.

Ciò detto, non si può negare che l'attrezzatura culturale media delle coscienze individuali nel nostro contesto sociale è molto carente sia per quanto concerne il ruolo mistificante della coscienza, sia per quanto riguarda il ruolo che l'inconscio svolge nella soggettività, sia, infine, per quanto concerne l'incidenza della storia sociale nella strutturazione della personalità. Queste lacune potrebbero almeno parzialmente risolversi se la scuola si facesse carico di esse e si decidesse finalmente ad inserire nei suoi programmi le scienze umane e sociali, dalla neurobiologia alla sociologia e alla psicoanalisi.

In difetto di quell'analisi critica e di questa riforma, nessuna tecnica terapeutica potrà risultare incisiva a tutto campo poiché le disfunzioni sociali e culturali, che incidono sulle esperienze soggettive, non sono sempre rimediabili.

In conseguenza dei principi teorici sui quali si foda, più di tutte le altre tecniche psicoterapeutiche, l'approccio dialettico mira, attraverso la pratica, ad accumulare di continuo prove del fatto che il disagio psichico, esperito dai singoli soggetti, non è un fenomeno in sé e per sé meramente psicologico.

Indice

Cap. I Dalla teoria alla pratica terapeutica e preventiva

Cap. II Principi generali

Cap. III Metodologia

Cap. IV Configurazioni psicopatologiche

Cap. V Il lavoro terapeutico (1)

Cap. VI Il lavoro terapeutico (2)

Cap. VII Il lavoro terapeutico (3)

Cap. VIII Il lavoro terapeutico (4)

Cap. IX Crisi acute e psicosi

Cap. X L’uso terapeutico degli psicofarmaci

Cap. XI Problematiche filosofiche

Cap. XII Per un progetto di prevenzione

Appendice Verso una scienza della salute mentale interdisciplinare

Prassi Terapeutica Dialettica


Cap. I Dalla teoria alla pratica terapeutica e preventiva

La proposta di una pratica terapeutica e preventiva fondata sul modello psicopatologico struttural-dialettico non può prescindere dallo stato attuale dell’arte caratterizzato dall’egemonia di un potere psichiatrico che ripropone, in una nuova veste, un approccio dichiaratamente riduzionistico e biologista. La messa in crisi del modello psichiatrico manicomiale, che ha caratterizzato la teoria e la pratica antistituzionale degli anni ‘70, non ha infatto conseguito l’effetto sperato di produrre un nuovo paradigma aperto ai contributi di tutte le scienze umane e sociali. I motivi di questo fallimento sono molteplici e richiederebbero un’analisi di vasta portata, epistemologica e socio-politica, che sconfina dagli intenti del saggio. Una riflessione però va fatta per quanto concerne la situazione italiana che ha una sua indubbia specificità.

Solo in Italia il movimento antistituzionale è giunto ad incidere, oltre che sull’opinione pubblica, a livello di potere politico, dando luogo alla promulgazione di una legge che ha determinato la chiusura definitiva dei manicomi. Originariamente, e di certo nell’intento di F. Basaglia, tale obiettivo conteneva in nuce la necessità di una pratica assistenziale alternativa, territoriale, destinata a promuovere nel tempo, attraverso il confronto degli operatori e dei cittadini con una diversità non segregata, un nuovo sapere riguardo al disagio psichico. Il privilegio assegnato alla pratica assistenziale dal movimento basagliano non comportava, se non tatticamente, in funzione antiaccademica, una preclusione assoluta nei confronti della teorizzazione. Esso riconosceva l’urgenza dei bisogni sociali espressi dal disagio psichico, e intendeva fondare la teorizzazione su una messe di dati - psicologici, microsistemici, culturali, sociologici - tratti dalla pratica stessa. Il progetto implicito nella legge 180 era dunque quello di costruire, sulla base del rifiuto dell’istituzionalizzazione, una scienza del disagio psichico empirica e totale, partecipata socialmente e dunque destinata a promuovere un nuovo ‘senso comune’ riguardo ad esso.

Tale progetto non si è realizzato per molteplici motivi. Gli operatori psichiatrici antistituzionali, in assoluta minoranza sul territorio nazionale, si sono sobbarcati a carichi di lavoro che, pur avendo realizzato localmente modelli di assistenza oggetto di vivo interesse da parte dell’O.M.S. e consentito la raccolta di numerosi dati significativi, hanno impedito la riflessione teorica necessaria a produrre un nuovo paradigma psicopatologico. L’impegno territoriale, inoltre, è risultato poco compatibile con la competizione a livello di istituzioni accademiche, che sono rimaste in larga misura colonizzate da esponenti della psichiatria tradizionale. In conseguenza di ciò, la formazione degli psichiatri italiani, oltre ad essere carente in rapporto all’organizzazione approssimativa dei corsi di specializzazione, è rimasta vincolata a pochi, perniciosi stereotipi. La possibilità, ventilata negli anni ‘70, che il potere psichiatrico potesse trovare un valido compenso nell’apporto culturale di psicologi, sociologi e assistenti sociali, è risultata infine utopistica, poichè, sia a livello legislativo sia nell’immaginario sociale, il disagio psichico rimane di competenza primariamente medica.

Tutto ciò non avrebbe impedito, forse, un lento cambiamento culturale, un cambiamento di mentalità se non fossero intervenuti fattori esogeni. Tali fattori sono riconducibili all’egemonia della cultura statunitense che, dopo la crisi degli anni ‘70, si è riproposta a livello internazionale a tutto campo. Anche negli Stati Uniti la contestazione psichiatrica, sia pure dovuta a sparuti drappelli di operatori, è stata per un certo periodo vivace e aggressiva. Essa, però, è venuta ad urtare, oltre che contro un sistema sanitario pubblico indifferente ai bisogni sociali, contro gli interessi concreti dell’industria psicofarmaceutica, che, minacciata nel suo budget, ha investito capitali rilevanti in ricerche universitarie, miranti a riabilitare il peso dei fattori biologici nella genesi e nell’evoluzione del disagio psichico. Essendo noto che, nell’ambito scientifico, è sempre possibile trovare ciò che si cerca, i risultati degli investimenti sono stati superiori alle attese, per via della connivenza interessata degli psichiatri (sponsorizzati nelle ricerche e nei viaggi per congressi, che sono spesso lussuose vacanze). Dall’inizio degli anni ‘80 si è realizzato un tam-tam di mirabolanti scoperte neurobiologiche, prontamente trasmesse agli organi di stampa, univocamente comprovanti la causalità genetica e biologica del disagio psichico. Nessuna di queste scoperte è stata confermata in sede di verifiche serie, le quali hanno evidenziate il costante ricorso ad una metodologia epistemologicamente scorretta: l’assunzione della correlazione, statisticamente poco significativa o addirittura casuale tra un indice (per esempio biochimico) e una sindrome, come causalità.

A tutt’oggi, non si dà alcuna prova scientificamente valida dell’etiologia genetica o biologica di qualunque forma di disagio psichico, psicosi comprese. Ciononostante, i dati offerti dalla neurobiologia sono stati propagandati dalla neo-psichiatria, attraverso i mass-media, per persuadere l’opinione pubblica che il disagio psichico, in tutte le sue forme, è una malattia in senso stretto. La cattura dell’opinione pubblica è stata facilitata dal fatto che l’ipotesi organicistica, ponendo tra parentesi l’incidenza dei fattori ambientali, deresponsabilizza completamente i pazienti, i parenti e il contesto sociale. La domanda di psicofarmaci, di conseguenza, è aumentata in maniera esponenziale. L’induzione della domanda ha realizzato un equilibrio tra questa e l’offerta, che ha privilegiato le case farmaceutiche statunitensi il cui fatturato negli ultimi anni è lievitato. Attribuire tale primato al primato scientifico degli Stati Uniti in rapporto al resto del mondo è pretestuoso. La ricerca neurobiologica, colà, appare del tutto avulsa da una pratica la cui rozzezza è attestata dagli istituti psichiatrici, nei quali le condizioni di vita sono omologabili a quelle dei manicomi italiani degli anni ‘50, dall'ancora larga diffusione della pratica dell’elettroshock e dal tentativo di rilanciare la psicochirurgia.

L’uso spregiudicato dei mass-media da parte della neo-psichiatria merita una riflessione. Tutte le scienze sono andate incontro negli ultimi decenni ad un processo di divulgazione, corrispondente ad un’aumentata domanda di sapere dell’opinione pubblica. La divulgazione comporta di necessità l’uso di un linguaggio non specialistico e una semplificazione concettuale. Nessuna scienza, però, viene divulgata fino al punto di falsificare i dati, come accade regolarmente per quanto concerne la psichiatria. Il modello neo-organicista, nella sua versione accademica, si presenta come un modello multidimensionale che, accanto ai fattori biologici, considera anche il ruolo dei fattori psicologici e sociali, il cui peso, all’interno delle singole esperienze di disagio, è affidato alla valutazione empirica. Esso dunque, benchè postuli la predisposizione genetica - in termini di vulnerabilità allo stress - come fattore di base, necessario anche se non sufficiente, di tutte le esperienze di disagio, manifesta una flessibilità che sembra sormontare il determinismo organicistico del modello tradizionale. Se dal mondo dell’accademia, dei congressi scientifici e delle pubblicazioni specialistiche, si passa però alle informazioni fornite ai mass-media, ci si ritrova di fronte alla riproposizione di un riduzionismo biologico apodittico e privo di sfumature secondo il quale l’origine genetica del disagio psichico sarebbe stata ormai accertata. Alla luce di questo assunto si diffonde la vulgata che l’ansia, la depressione, la psicosi maniaco-depressiva, la schizofrenia (nonchè l’omosessualità, la tossicodipendenza, la criminalità, ecc.) sono dovute al difetto e/o all’eccesso di qualche ‘sostanza’ biochimica. Particolarmente scandalosa, in questo conteso propagandistico, è l’assunzione di un sintomo di sicuro richiamo per l’opinione pubblica - la depressione - come indiziario di una sindrome che, pur nelle sue diverse espressioni cliniche, sarebbe geneticamente determinata. La cautela con cui la psichiatria tradizionale differenziava dalla depressione maggiore le depressioni nevrotiche, assumendo tra l’altro come criterio differenziale la scarsa sensibilità di queste ultime agli psicofarmaci, é stata accantonata in nome dell’accorpamento di tutte le depressioni nell’ambito dei disturbi dell’umore. Non ci si può sorprendere di ciò, se è vero che l’obiettivo delle industrie farmaceutiche è di indurre l’uso degli psicofarmaci nel 20% della popolazione che, episodicamente o ricorrentemente, incorre in stati depressivi. Tale obiettivo, sommandosi alla diffusione degli ansiolitici, realizzerebbe un profitto senza precedenti e senza equivalenti nella storia dell’industria farmaceutica. Se poi, come si augurano gli psichiatri neo-organicisti, lo screening genetico dovesse giungere ad individuare precocemente, fin dall’infanzia, le persone soggette a rischio di incorrere nel corso della vita in un disagio psichico, sarebbe possibile promuovere l’accettazione di terapie farmacologiche preventive su larga scala, a tempo indeterminato.

La riproposizione dell’organicismo sotto la nuova veste del modello multifattoriale ha un significato diverso rispetto al modello psichiatrico tradizionale. Nato in un’epoca di convulsioni culturali, sociali e politiche, questo mirava, come è stato ormai ampiamente documentato, a salvaguardare la normalità dell’ordine borghese dalle contraddizioni che avrebbero potuto metterlo in crisi. In rapporto a questo fine, la segregazione manicomiale risultava un rimedio ottimale poichè escindeva dal corpo sociale una quota sostanzialmente minima della popolazione e incombeva come un fantasma sulla normalità cristallizzandola sul registro del conformismo. La neopsichiatria appare, invece, meno funzionale al mantenimento dell’ordine sociale che non al perseguimento dell’obiettivo di una psichiatrizzazione farmacologica di una quota rilevante della popolazione, dall’infanzia alla terza età, a fini speculativi. Tale obbiettivo comporta la reificazione della normalità statistica, attribuita ad una combinazione casuale di fortuna genetica e di capacità adattiva personale. E’ evidente però che attualmente, data la crescita esponenziale del disagio psichico (che investe, secondo diverse statistiche, dal 15 al 30% della popolazione), il confine tra normalità e anormalità non è più netto e non può essere difeso con l’accanimento del passato. Alla neo-psichiatria, peraltro, non interessa il dibattito ideologico, bensì la promozione di una domanda di cura sempre più diffusa che aumenti il prestigio e il budget degli psichiatri nonchè il fatturato delle case farmaceutiche, che, in modi diversi, li sponsorizzano. Da branca povera e missionaria della medicina, qual’è stata sino ad alcuni anni fa, la psichiatria si sta trasformando in un’attività altamente redditizia. Essa però non si propone più la rimozione sociale del disagio, del quale anzi propugna una percezione sempre più acuta fino all’autodiagnosi, bensì la sua assunzione, a livello di opinione pubblica come male oscuro del quale solo la medicina può farsi carico. Prescinde insomma da ogni intento segregativo, a patto che la domanda terapeutica di cure e di psicofarmaci cresca in maniera esponenziale. Ciò che aborrisce è la domanda implicita in ogni esperienza di disagio: la domanda di senso.

E’ tristemente vero, però, che se Atene piange, Sparta non ride. Le responsabilità delle correnti ad orientamento psico- e sociodinamico in rapporto alla situazione attuale, per quanto indirette, sono rilevanti. Gli psicoterapeuti, pur scissi tra psicoanalisti, relazionali e cognitivisti, si sono ritagliati un orticello professionale privato che coltivano senza alcuna pretesa di ricavarne dati atti ad alimentare una teorizzazione e, tanto meno, un progetto preventivo. Tra le diverse scuole psicoterapeutiche non si dà poi alcun confronto teorico, che porrebbe in luce contraddizioni incompatibili con qualsivoglia sapere organizzato scientificamente. La pratica privata è condotta all’ombra di una riservatezza che, oltre a rendere inverificabile il lavoro svolto, promuove arbitri d’ogni genere. Questa situazione corporativa, di reciproca connivenza e non belligeranza, è diventata meno rassicurante di recente per effetto degli attacchi della neopsichiatria che ha sottolineato gli esiti deludenti dei trattamenti psicoterapeutici. La risposta a questi attacchi, soprattutto da parte degli psicoanalisti, è stata a dir poco sconcertante. Anziché riflettere sulla sostanziale inerzia teorica del pensiero psicodinamico, incapace di approfondire gli aspetti strutturali del disagio psichico e i nessi tra soggettività e contesto socio-storico, essi ripropongono, né più né meno, una visione mistica del disagio psichico come espressione-limite dell’essere al mondo, che esclude la possibilità di ingabbiarlo entro schemi teorici. Non potendo esso dunque essere spiegato, ma solo compreso empaticamente e partecipato, il concetto di guarigione andrebbe accantonato. L’analisi viene ad essere pertanto proposta come un processo autoconoscitivo, fine a se stesso.

I sostenitori della legge 180 - psichiatri, psicologi e assistenti sociali -, infine, quasi tutti impegnati nella pratica pubblica territoriale, dispongono di un patrimonio di dati ragguardevole, accumulato nel corso degli anni, ma, fatta eccezione per il loro uso statistico, epidemiologico, hanno poco tempo da dedicare alla teorizzazione. La territorializzazione dell’assistenza psichiatrica li ha posti infatti di fronte a problemi solo in parte previsti - quali la cronicizzazione di molti pazienti e l’esplosione di nuove patologie (quali l’anoressia e gli attacchi di panico) difficili da curare - che hanno finito con l’assorbire totalmente le loro energie nella difficile gestione dell’esistente. In conseguenza di ciò, la pratica territoriale ha perduto la connotazione originaria di frontiera sulla quale sarebbe dovuto maturare un nuovo sapere sul disagio psichico.

Gli esiti di questa carenza teorica sono sotto gli occhi di tutti. La neopsichiatria è riuscita ad influenzare potentemente l’opinione pubblica, inducendola ad accettare la natura sostanzialmente biologica del disagio psichico e alimentando in essa l’illusione di una soluzione farmacologica del problema. Il momento diagnostico, squisitamente medico, è stato riabilitato al punto che non pochi psichiatri pretendono la descrizione la più precisa possibile dei sintomi, ricusando talora sdegnosamente ogni riferimento alla storia personale e alle condizioni di vita. Le prescrizioni farmacologiche utilizzano sempre più spesso cocktails di psicofarmaci, minori e maggiori, solitamente ad alti dosaggi. I nuovi psicofarmaci, immessi sul mercato a un ritmo crescente, vengono utilizzati alla cieca, talora anche dai medici di base, sulla scorta dei suggerimenti degli informatori farmaceutici. Nella cura di mantenimento dei pazienti psicotici è ormai corrente l’uso, protratto per anni, di neurolettici depôt, i cui effetti a lungo termine sono notoriamente invalidanti. Nei casi di psicosi resistenti alle cure si fa ricorso a psicofarmaci ‘estremi’, come il Leponex, che comportano rischi di mortalità elevati.

Sul piano assistenziale, l’egemonia del modello neo-organicista non fa altro che perpetuare la tendenza all’oggettivazione della malattia propria della psichiatria tradizionale. Nella pratica quotidiana la conseguenza è che per un verso, nell’ambito della piccola psichiatria, si promettono guarigioni irrealizzabili, per un altro, nell’ambito della grande psichiatria, si avanzano frettolosamente prognosi catastrofiche che non lasciano _ speranza. Due casi esemplari di questo ultimo nefasto orientamento bastano ad illustrare la continuità nel tempo di un approccio oggettivante che può determinare l’evoluzione del disagio.

Renato P. ammala a 14 anni, nel 1966, dopo la morte repentina del padre. I sintomi prevalenti sono dei rituali concernenti l’ordine e la pulizia personale. Sintomi tipici dunque di una nevrosi ossessiva. Ma ad essi si associa una cefalea gravativa pressochè continua, insensibile agli antalgici, e difficoltà serie di concentrazione che incidono pesantemente sulla prosecuzione degli studi. Viene sottoposto a tests psicologici e la diagnosi è di personalità schizoide con turbe della socializzazione e strutturazione ossessiva. Viene preso in carico dalla Clinica Psichiatrica dell’Università di Roma. A 50 anni è ancora in cura. Negli ultimi anni è peggiorato. Si è reso necessario più di un ricovero in clinica. R. non ha opposto mai resistenza alle cure farmacologiche: la sofferenza anzi lo ha reso, oltre che farmacodipendente, farmacofilico. Purtroppo, la sua docilità nei confronti degli psichiatri non ha mai dato luogo a rilevanti risultati. Ha perciò sperimentato ciò che di peggio esiste in psichiatria: il mutarsi del’impotenza terapeutica in sadismo. E’ stato trattato, negli ultimi anni, con tutti i farmaci di recente commercializzazione (Leponex, Fevarin, Eforex, Zoloft) a dosaggi elevatissimi. E’ giunto addirittura a ingurgitare 12 compresse al giorno di Anafranil da 25 mg. Le cure si sono realizzate sempre più sulla base di coktails. In alcune prescrizioni risultano contemporaneamente due antidepressivi, due ansiolitici, un antipsicotico, due equilibratori dell’umore, un sonnifero, un induttore del sonno. A mali estremi - si dirà - estremi rimedi. Ma, per quanto concerne il male oscuro, se un ragazzo di 14 anni manifesta dei rituali dopo la morte del padre e i tests segnalano vivaci sensi di colpa, occorre una particolare competenza per correlare questi aspetti? A 50 anni, R. è ancora lucido e in grado di rievocare fatti remoti. Ricorda la sua ambivalenza nei confronti del padre, sinceramente interessato a lui ma nel contempo apprensivo e implacabilmente rigido. Ricorda d’essere andato a scuola già formato come un ometto e d’essere stato, perciò, oggetto di dileggio e di attacchi fisici. Ricorda che il padre gli impediva ogni frequentazione sociale dei coetanei per timore che le cattive compagnie lo traviassero. Ricorda d’essersi sentito oppresso dalla continua sollecitazione a studiare e dal controllo assiduo che il padre esercitava sul suo rendimento. Dato ciò, v’è da sorprendersi che la crisi adolescenziale a livello inconscio abbia intensificato al massimo grado l’ambivalenza? E’ arduo capire che, data la difficoltà di decifrare tale conflitto nel suo senso autentico, vale a dire come conflitto tra legame affettivo e rivendicazione di libertà personale, la morte repentina del genitore, vissuta con un dolore acutissimo associato ad un incomprensibile senso di liberazione, abbia provocato una terribile angoscia di colpa? In 35 anni di carriera psichiatrica Renato, che sa tutto sugli psicofarmaci e ha acquisito un rilevante linguaggio tecnico, non ha mai sentito parlare di cose del genere. Gli è stata curata vanamente la malattia mettendo tra parentesi la sua vita.

Massimiliano C. ammala a 14 anni, nel 1998. Apparentemente, la malattia è un fulmine a ciel sereno. Massimiliano è un ragazzo esemplare e evidentemente iperdotato: ha cominciato a leggere e a scrivere a 4 anni, ha coltivato precocemente interessi singolari (i francobolli, il computer, l’astronomia). Diligente e obbediente, religiosissimo, è stato sempre il primo della classe portato in palma di mano dai genitori e dagli insegnanti. Tendenzialmente introverso, non ha mai avuto un buon rapporto con i coetanei. Alla scuola media, si è ritrovato poi in una classe ‘balorda’ ove è stato oggetto di scherzi piuttosto pesanti, di dileggio e di aggressioni fisiche. Negli ultimi mesi - a detta dei genitori - appare un po’ stanco e svogliato. Lo aiutano sferzandolo come un cavallo in dirittura di arrivo. La ribellione, covata per anni, scoppia come un terremoto, in una forma peraltro prevedibile. Una notte Massimiliano ha degli incubi incentrati sul demonio che intende appropriarsi della sua anima. Il giorno seguente è stravolto, farfuglia frasi senza senso, si dedica a interminabili rituali, risponde talora animatamente a ‘voci’ che lo perseguitano. Manifesta, per la prima volta nella sua vita, una spiccata aggressività nei confronti dei genitori. Viene portato da uno psichiatra che, preso atto delle allucinazioni acustiche, emette in sua presenza, dopo un quarto d’ora, una diagnosi senza scampo di schizofrenia. Ai genitori tramortiti anticipa il calvario: trattandosi di una malattia genetica, potranno sopravvenire dei miglioramenti con le medicine, ma la malattia in sè e per sè è inguaribile e il decorso inesorabile. Il ragazzo insomma è perduto. Dopo due settimane, per effetto dei neurolettici, Massimiliano continua a non dormire e ad essere allucinato, ma, per di più, ha la facies del malato di mente. E’ancora lucido però e in grado di esprimere i suoi vissuti. Nei giorni precedenti la fatidica notte due circostanze lo hanno traumatizzato. A casa, sollecitato dalla madre a non perdere tempo in uno dei rari momenti di riposo che si concedeva, egli è stato attraversato repentinamente dalla fantasia parassitaria di metterle le mani al collo. A scuola, sbeffeggiato per l’ennesima volta dai compagni che gli davano dell’omosessuale, ha avvertito per la prima volta coscientemente delle violente pulsioni vendicative. Massimiliano ha interpretato entrambe le esperienze come attestanti una possessione demoniaca. Nonostante le cure farmacologiche, il demonio continua a perseguitarlo. Egli non lo sente solo dentro di sè, lo vede nella propria camera e sviene. E' oltremodo difficile capire il significato di una possessione demoniaca in un adolescente che ha subito le angherie degli adulti, che lo hanno messo alla frusta, e, paradossalmente, per risultare perfetto ai loro occhi, si è esposto al ludibrio sprezzante dei coetanei?

Il concetto di malattia al quale si riconduce la pratica psichiatrica ispirata dal modello multidimensionale è null’altro che la notte hegeliana in cui tutte le vacche sono nere. Esso attesta il primitivismo culturale neo-psichiatrico che, incapace di interpretare i fatti umani, li classifica.

Sullo sfondo di questo panorama assistenziale, la cui miseria è da ricondurre sostanzialmente al fatto che i pazienti sono, in media, più dotati dei curanti, va considerato il progetto che, con questo saggio, giunge al termine, di formulare un nuovo paradigma psicopatologico aperto al contributo di tutte le scienze umane e sociali. Gli esiti della ricerca teorica sono stati già pubblicati. Si tratta ora di documentare l’applicabilità del modello che è stato delineato a livello terapeutico.

Sotto il profilo espositivo, il compito è più arduo di quelli affrontati in precedenza. La teorizzazione psicopatologica può porsi su di un piano astratto rispetto alle singole esperienze i cui vissuti, sintomi o comportamenti ne rappresentano l’oggetto. L’astrazione è necessaria per rilevare la matrice strutturale e la dinamica del conflitto che li sottende, per spiegarne la fenomenologia e definirne le leggi evolutive. Solo ponendo tra parentesi la complessità e la concretezza delle esperienze individuali, riesce possibile evidenziare ciò che in esse si ripete, le invarianze strutturali e dinamiche. La pratica terapeutica si confronta invece con situazioni soggettive e microsociali specifiche, uniche e irripetibili. Pur realizzandosi sempre in stretto riferimento con i presupposti teorici che la sottendono, essa deve adattarsi alla specificità di quelle situazioni, valorizzando anche gli aspetti più particolari sia sotto il profilo soggettivo che interattivo e contestuale. Ciò rende ragione della difficoltà di scrivere un saggio di terapia. Se si adotta un’ottica metodologica, occorre sacrificare la ricchezza delle singole esperienze; se, viceversa, si muove dalle storie cliniche, è difficile restituire appieno il rigore della metodologia.

Consapevole di questa difficoltà, ho tentato di integrare i due diversi approcci. La struttura del saggio concerne i principi e la metodologia dell’intervento dialettico; le fasi attraverso cui esso procede; gli strumenti che adotta (psicofarmaci compresi); gli ostacoli, soggettivi, ambientali e culturali in cui si imbatte; i codici interpretativi di cui si avvale; i problemi, in massima parte filosofici, che essa enuclea dalle esperienze psicopatologiche e la cui elaborazione critica, sia cognitiva che emozionale, rappresenta la chiave risolutiva delle stesse. L’abbondante esemplificazione clinica dovrebbe rendere la lettura più agevole. Qua e là, sotto forma di excursus, vengono riferite storie cliniche a tutto tondo di particolare interesse. Se i risultati, nonostante tutto, risultano inferiori alle intenzioni, il modo proprio e specifico di rapportarsi alla realtà psicopatologica della terapia struttural-dialettica appare nondimeno sufficientemente delineato.

La qualificazione della terapia come dialettica, che serve a definire la sua derivazione dal modello teorico illustrato nei saggi precedenti e a differenziarla rispetto alle altre tecniche, richiede una puntualizzazione. Essa nulla ha a che vedere con il dialogo interpersonale in virtù del quale la terapia si realizza. Concerne piuttosto la finalità che persegue: il superamento dialettico del conflitto strutturale. Prodotto di un’interazione con l’ambiente esitata in una scissione del corredo dei bisogni e dei sistemi di significati costruiti su di essi, la struttura psicopatologica contiene nella sua dinamica, inesorabilmente evolutiva, le ragioni di un suo possibile superamento. Tali ragioni coincidono con i sacrifici inutili, in termini di frustrazione di una quota di bisogni, che essa inevitabilmente comporta; sacrifici che, alimentando una progressiva alienazione dei bisogni stessi, determinano una situazione di permanente precarietà strutturale. Il dispiegamento dei bisogni frustrati, essenziale al fine del prodursi di un nuovo equilibrio strutturale, più integrato, non può prescindere dalla ricostruzione dei processi interattivi e di significazione che hanno prodotto la scissione e l’alienazione dei bisogni intrinseci poiché solo tale ricostruzione consente al soggetto di riappropriarsene nella loro autenticità, affrancandoli dalla fenomenologia alienata che hanno assunto.

La definizione dell’intervento terapeutico come dialettico appare, dunque, pregnante in un duplice senso. In primo luogo, poiché esso mira a trasformare il negativo - i bisogni alienati - in positivo - in motivazioni, significati e valori comportamentali integrati nell’organizzazione della personalità. In secondo luogo, poiché, essendo il cambiamento perseguito di ordine strutturale, l’intervento dialettico deve necessariamente porre in gioco gli equilibri assicurati dalla struttura psicopatologica, intensificando e coscientizzando il conflitto che sottende la struttura in maniera da promuoverne il superamento. Deve indurre, in altri termini, la trasformazione "catastrofica" della quantità - delle risorse emozionali e cognitive investite nel conflitto - in qualità - nel loro uso in termini di riorganizzazione del mondo interno, dei sistemi di valore e dei moduli comportamentali.

La trasformazione strutturale promossa dall’intervento dialettico, che, come si vedrà, si realizza più spesso in fasi successive, non può però esaurirsi sul piano della presa di coscienza. Essa postula che i bisogni frustrati, affrancati dalla fenomenologia alienata e significati alla luce di nuovi sistemi di valore, vengano riconosciuti emozionalmente come propri e agiti sul piano comportamentale. La comprensione della storia personale e relazionale, e la comprensione dei modi in cui essa è stata significata a livello conscio e inconscio rimane sterile se non dá luogo all’appropriazione emozionale di alcune veritá, che, una volta assimilate, si trasformano naturalmente in moduli comportamentali nuovi. E’ sul piano della praxis o, se si vuole, della vita quotidiana che il soggetto può verificare la veridicità delle interpretazioni fornite e assimilate: il potere integrativo che l’io riceve dal riappropriarsi dei bisogni frustrati, il carattere non pulsionale, bensì dialettico degli stessi, e gli effetti emozionali - sostanzialmente umanizzanti - prodotti dal loro dispiegamento sul piano dei significati e dei moduli comportamentali.

La specificità della terapia dialettica si può identificare nel prendere assolutamente sul serio l’esperienza soggettiva in tutto il suo spessore, conscio e inconscio, senza mai prescindere dal fatto che essa si definisce, in virtù di molteplici interazioni interpersonali, su di uno sfondo socio-culturale che fornisce ad essa un ordito rispetto al quale i vissuti rappresentano la trama. Per questo aspetto, il metodo adottato nell’ambito dell’intervento dialettico si può definire microstorico. Il termine non è esornativo. L’adozione del punto di vista storico in psicopatologia si deve indubbiamente alla psicoanalisi freudiana, che ha illuminato l’influenza del passato sul presente soggettivo. Ma, per motivi inerenti i limiti culturali di Freud, tale influenza è stata esasperata sino a ricondurre l’evoluzione e la strutturazione della personalità ad un gioco di fantasmi primari. Con ciò, la dialettica reciproca tra passato e presente, e, ancor più, la dialettica tra soggettività e contesto ambientale è andata perduta nel nome di un rigido determinismo che ha attribuito alle fasi precoci dello sviluppo un significato fatalistico. Tale determinismo, incline ad interpretare tutti i vissuti soggettivi come attualizzazioni del passato, è stato contestato negli anni ‘50 dal modello relazionale e negli anni ‘80 dal cognitivismo. Per quanto innovativi, e, per alcuni aspetti, epistemologicamente salutari, sia l’uno che l’altro modello non sono riusciti ad affrancarsi dallo psicologismo: il metacontesto esplicativo dei relazionali non trascende mai l’ambito della famiglia, la ricostruzione della visione del mondo soggettiva dei cognitivisti si limita alla valutazione dei modi in cui il soggetto interpreta le situazioni di vita. La terapia dialettica cerca viceversa di esplorare i nessi che legano, attraverso gli spazi interattivi, la soggettività alla storia sociale. Per questo aspetto, essa si può considerare una ricerca sul campo, la cui finalità immediata è la risoluzione del disagio individuale, ma la cui finalità ultima è la raccolta di dati comparativi che consenta di delineare un progetto di prevenzione.

Come non ha senso, infatti, voler imbrigliare la ricchezza delle esperienze soggettive e microsistemiche entro schemi teorici, che possono coglierne solo le invarianti strutturali e dinamiche, non ha senso neppure opporre all’esigenza della teorizzazione il riferimento all’unicità e all’irripetibilità dell’esperienza soggettiva individuale. La teoria deve rimanere aperta agli indizi offerti dalla realtà clinica, che aprono spiragli sulle indefinite interazioni significative tra i soggetti, gli ambienti d’appartenenza e i contesti sociostorici. La pratica terapeutica è un’esplorazione incessante di queste interazioni orientata, per un verso, ad aiutare i soggetti a ricostruire i nessi significativi della loro esperienza e a significarli nuovamente alla luce di nuovi presupposti; e, per un altro, a individuare le circostanze ricorrenti - interattive, soggettive, intersoggettive, socio-culturali - che inducono una scissione nel corredo dei bisogni fondamentali al fine di arricchire un patrimonio di conoscenze che possa tradursi in un progetto teorico-pratico di prevenzione. Tali circostanze _ di rado occasionali, e quindi irripetibili, sono più spesso di quanto si pensa, congiunturali, e di conseguenza ricorrenti. La loro analisi porta ad individuare situazioni di rischio che potrebbero essere scongiurate e quindi a suggerire possibili progetti di prevenzione. E’ impossibile, per ovvie ragioni, pensare ad una soluzione totale preventiva del disagio psichico. Cionondimeno, come tenteremo di dimostrare, i dati di cui si dispone consentono già di individuare, nella pratica educativa, nell’organizzazione della famiglia e del lavoro, nei codici culturali normativi, e nello statuto stesso della coscienza sociale contemporanea tutta una serie di momenti congiunturali altamente indiziari di patogenicità, sui quali sarebbe possibile fin da ora intervenire. Il capitolo dedicato alla prevenzione dovrebbe servire soprattutto a smascherare un’inerzia progettuale e operativa che finisce con il favorire la psichiatrizzazione della società.

A differenza di altri lavori dedicati alla terapia, dai quali si evince quasi sempre una sorta di onnipotenza della tecnica in questione, il presente, pur facendo riferimento ad una pratica notevolmente incisiva, prescinde da ogni trionfalismo. A mio avviso, piú di altre, la teoria struttural-dialettica consente di interpretare e di spiegare, sia sotto il profilo della genesi che della dinamica, le esperienze psicopatologiche, quale che sia la loro forma e lo stadio evolutivo. Nella pratica però lo scarto tra la potenza esplicativa della teoria e l’incidenza terapeutica rimane rilevante. A determinare tale scarto concorrono una serie di variabili - socioculturali, microsistemiche, psicologiche, biologiche - che, nel loro complesso, appaiono trascendere il potere comunque limitato del soggetto, dell’ambiente familiare e del terapeuta. Gli insuccessi, per quanto frustranti, meritano però un'attenzione particolare poichè possono fornire elementi di grande interesse per progetti di prevenzione su larga scala, ai quali rimane vincolata la speranza di una progressiva riduzione dei sacrifici inutili che caratterizzano l’universo psicopatologico.


Cap. II PRINCIPI GENERALI

I princìpi generali cui si ispira l'intervento terapeutico dialettico discendono dalla cornice teorica illustrata nei saggi precedenti, che, qui e nel capitolo successivo, va approfondita per quanto riguarda alcuni aspetti importanti per la sua traduzione in pratica terapeutica. La teoria struttural-dialettica riconduce ogni esperienza di disagio psichico ad un conflitto tra i sistemi di significati - emozionali e cognitivi, consci e inconsci - che rappresentano il patrimonio dell’esperienza soggettiva, la cui scissione determina i sintomi, i vissuti e i comportamenti psicopatologici. Il carattere strutturale del conflitto è dovuto al fatto che esso si definisce sugli assi di significazione rappresentati dai bisogni intrinseci - di appartenenza/integrazione sociale e di opposizione/individuazione. Il conflitto strutturale psicopatologico è un conflitto tra bisogni che ripropone, in forme complesse, la trama problematica, essenzialmente filosofica, della relazione tra l'io e l'Altro, diritti individuali e doveri sociali, volontà propria e volontà altrui o, in termini generali, libertà e necessità. Il carattere inesorabilmente tensionale dell'essere al mondo dell'uomo come animale sociale dotato di identità individuale è, dunque, il leit-motiv di tutte le esperienze di disagio psichico.

Una prova inconfutabile di questo assunto è fornita dalle esperienze ossessive governate dalla scrupolosità, vale a dire dalla paura incessante di poter arrecare inintenzionalmente danno a qualcuno.

Maurizio B., nella fase più acuta della sua esperienza, avviatasi a livello universitario sotto forma di paura di poter contagiare gli altri toccandoli, non può uscire di casa. Gli studi di medicina che conduce lo hanno reso consapevole del fatto che egli è portatore di germi innocui per sè ma potenzialmente nocivi per esseri immunitariamente più deboli (bambini e anziani). Egli si rende conto di non poter tenere sotto controllo la possibile trasmissione di quei germi, ma il fatto che questa, inintenzionalmente, potrebbe produrre effetti letali, lo paralizza. Impossibilitato a vivere dalla presenza nel mondo di esseri vulnerabili, egli ha nei loro confronti fantasie di eliminazione di ogni genere che lo colpevolizzano profondamente, poichè vengono attribuite ad un’atroce malvagità.

Ponendo tra parentesi, per ora, le circostanze interattive e le elaborazioni soggettive che hanno indotto M. in una trappola conflittuale apparentemente inesorabile, che lo costringe nel contempo a coltivare un modo di essere nel mondo assolutamente innocente e a nutrirsi di un distruttivo odio sociale, ciò che qui interessa è analizzare la struttura della fobia in questione. Ogni relazione sociale, in quanto apertura reciproca allo scambio, comporta la possibilità del vantaggio e del danno per l’uno, per l’altro o per entrambi gli attori. Il danno si può realizzare del tutto indipendentemente dalla volontà e dall'intenzionalità di chi lo produce, oppure volontariamente e intenzionalmente. Nel primo caso sembra lecito parlare di nocività; nel secondo, di cattiveria. La nocività comporta una responsabilità oggettiva non imputabile moralmente, mentre la cattiveria è sempre e comunque una colpa. La scrupolosità si fonda sull'identificazione della nocività con la cattiveria. Essendo la nocività potenzialmente intrinseca ad ogni relazione sociale, il soggetto scrupoloso è sollecitato dalla paura della colpa a ipercontrollare il proprio comportamento perseguendo il miraggio dell'innocenza. Ma ciò comporta nè più nè meno la rinuncia a vivere, compensata consciamente o inconsciamente da una rivendicazione di libertà che assume di necessità un carattere antisociale. La scrupolosità drammatizza la potenzialità intrinsecamente nociva di ogni relazione sociale. Ma con ciò essa pone in luce nondimeno una problematica filosofica, inerente la valutazione delle conseguenze sociali del proprio comportamento, che meriterebbe per la sua inquietante densità un'attenzione che difetta del tutto all'interno di molte esperienze normali.

Ogni fenomeno psicopatologico, in conseguenza del fatto di esprimere una scissione dei bisogni, ha il suo doppio. Alla scrupolosità tipica di molte esperienze ossessive si contrappone l'alibi della non intenzionalità che, in alcune esperienze isteriche, definisce una sorta di anestesia morale in conseguenza della quale vengono agiti comportamenti oggettivamente aggressivi senza alcun apparente rimorso.

Rossella B. che dall’adolescenza in poi ha sedotto un’infinità di uomini che regolarmente abbandonava quando si attaccavano a lei, è aiutata a mettere la testa a posto a 34 anni dal sopravvenire degli attacchi di panico. L’angoscia di poter morire stando da sola la orienta a coltivare il sogno di una relazione d’amore rassicurante e gratificante. Entra in relazione con un uomo ponendosi in una situazione di dipendenza e di apparente affidamento. Non si accorge che il suo modo di dipendere diventa ricattatorio nei confronti del partner, che deve funzionare costantemente come erogatore di conferme, nè che la sua radicale diffidenza, la quale muove dalla convinzione del tutto inconscia di essere insopportabile, promuove una crescita esponenziale dei suoi bisogni di essere confermata. Non appena il partner manifesta qualche segno di disagio o di cedimento, Rossella, vedendo comparire all’orizzonte la minaccia di restare sola, lo attacca verbalmente e fisicamente con una durezza spietata. Ma questi attacchi essa li vive come comportamenti difensivi e, dato che coscientemente non intende fare del male, cade dalle nuvole quando il partner manifesta dolore e risentimento per il trattamento cui è sottoposto. Come è possibile che egli si senta ferito se essa non ha alcuna intenzione di fargli del male?

Le due facce della medaglia - la scrupolosità e l’insensibilità morale - appaiono entrambe, talora alternandosi tal’altra sommandosi sul registro comportamentale, in alcune esperienze psicotiche.

Orazio F., che ne ha ventotto, vive ormai da tre anni in casa immerso da mattina a sera nella pratica di estenuanti rituali ossessivi il cui fine ultimo è di scongiurare che accade del male ai suoi. La necessità dei rituali è imposta da un delirio persecutorio. Egli sa, avendo raccolto tutta una serie di complicati indizi, che c’è un complotto contro la famiglia. Immigrata dalla Sardegna sul continente, e sistematasi in un paesino in provincia di Roma, la famiglia di Orazio, che è un clan dominato dal nonno, non è riuscita mai a inserirsi nel tessuto del paese. Fin da bambino Orazio ha recepito intorno a sè una diffidenza pregiudiziale. In adolescenza ha capito che tale diffidenza si fondava sull’attribuzione ai sardi di una incoercibile tendenza a delinquere. Il delirio è insorto in occasione di un omicidio per accoltellamento avvenuto in paese a scopo di rapina i cui autori sono rimasti sconosciuti. Orazio si è convinto, in base a una serie di voci sentite a distanza, che nel paese accusano dell’omicidio la sua famiglia e che si sta preparando una vendetta. Egli sa però che, se riesce ad eseguire scrupolosamente i rituali, nulla di male può accadere ai familiari. Si sacrifica insomma per il bene del clan al quale si sente profondamente legato. Ma è un sacrificio che, coinvolgendo tutta la sua vita, lo esaspera e lo spinge periodicamente ad esplodere in crisi aggressive piuttosto serie nei confronti dei suoi, responsabili di non essergli grati, anzi di non rendersi affatto conto di ciò che egli fa per loro. Non nutre alcun rimorso per questi comportamenti. Rimane addirittura sorpreso per le rimostranze dei suoi. Come fanno a non rendersi conto di quanto vuole loro bene?

Nell’esperienza di Maurizio i diritti dell'io sono totalmente sacrificati a favore del benessere altrui; in quella di Rossella viceversa il benessere proprio, la necessità di scaricare la rabbia, si realizza trascurando i diritti dell'altro; in quella di Orazio, infine, il sacrificio dei diritti dell’io a favore dei familiari convive con comportamenti aggressivi nei loro confronti.

Tutta la psicopatologia, mutatis mutandis, può essere ricondotta a scissioni di questo genere, e dunque, in ultima istanza, come si è detto più volte, a sistemi di valore in opposizione irriducibile. E' una banalità sostenere, come fanno molti psicoanalisti, che tali scissioni, ponendo in luce un rapporto persecutorio tra l'io e l'Altro, sono sostanzialmente riconducibili alle vicissitudini dell'aggressività. Di fatto, nelle soggettività scisse è onnipresente un patrimonio di emozioni negative - rabbia, odio, vendetta, invidia, ecc. - molto intenso. Ma, non appena si va al di là del livello fenomenico e si ricostruisce la storia interiore dei soggetti, balza agli occhi che quel patrimonio esprime una protesta viscerale contro le ingiustizie, reali o presunte, subite. Sono le vicissitudini del senso di giustizia, vale a dire di un'emozione innata diversamente rappresentata negli individui, che sottendono molte esperienze di disagio psichico nelle quali la compatibilità tra i diritti dell’io e i diritti degli altri sembra impossibile.

Benchè formalmente ineccepibile, la formulazione sintetica della teoria struttural-dialettica è generica. I bisogni fondamentali, per la funzione loro propria di accentrare l’esperienza soggettiva sui diritti dell’individuo o di decentrarla sui doveri sociali, sono naturalmente in tensione tra di loro dall’inizio alla fine della vita. Un qualche grado di conflittualità è dunque costitutiva di ogni esperienza soggettiva, e rappresenta una sorta di predisposizione universale al disagio psichico. E’ a partire da questa predisposizione, intrinseca al corredo di bisogni tensionale proprio della natura umana, che va affrontato il problema psicopatologico. Si tratta infatti di capire quali circostanze congiunturali concorrono a determinare una scissione nel patrimonio dei bisogni intrinseci.

Per scissione dei bisogni si intende una significazione - emozionale e cognitiva - che li pone irriducibilmente in opposizione. Laddove si dà questa opposizione, i doveri sociali postulano la mortificazione della libertà individuale e l’affermazione dei diritti individuali la violazione di qualche norma sociale o valore morale. L’opposizione irriducibile tra i bisogni fondamentali, e quindi tra i sistemi di valore superegoici e antitetici costruiti su di essi, è la matrice strutturale di ogni esperienza di disagio psichico. Questo assioma è il cardine della teoria struttural-dialettica, ed è un assioma forte poichè può essere falsificato da una sola esperienza. La sua assertività sembra inoltre poco compatibile con la varietà e l’eterogeneità dei fatti clinici. Occorre però tener conto di alcune ipotesi, intrinseche alla teoria stessa, che la rendono estremamente flessibile e la adeguano alla realtà clinica.

La scissione dei bisogni può realizzarsi in fasi diverse dell’evoluzione della personalità. Nel lungo processo di sviluppo evolutivo (cfr. cap X di Psicopatologia strutturale e dialettica) si danno numerose fasi critiche nel corso delle quali l’interazione con l’ambiente può determinare catastroficamente l’integrazione o la scissione dei bisogni. Nessuna di queste fasi può ritenersi in sè e per sè decisiva psicopatologicamente, poichè è l’adolescenza il grande snodo dell’esperienza soggettiva. Nel corso dell’adolescenza e della prima giovinezza i conflitti generatisi precedentemente possono fluidificarsi, e dar luogo ad un’integrazione, come pure strutturarsi definitivamente. Decisivi, nella genesi e nella strutturazione del conflitto di base, sono la predisposizione genetica e l'ambiente socio-culturale.

Nell'ottica struttural-dialettica, il rapporto tra corredo genetico e ambiente si pone in termini radicalmente diversi dalla vulgata neo-psichiatrica, che attribuisce alla predisposizione genetica (implicitamente) un valore di penetranza assoluta per implicare che esso si tradurrebbe in una malattia, più o meno grave, in qualsivoglia ambiente. Pur maturata autonomamente, la concezione struttural-dialettica coincide in pieno con le ipotesi illustrate ne 'Il gene e la sua mente'. Il corredo genetico bio-psicologico che presiede allo sviluppo del cervello e della personalità è uno spettro di potenzialità che si realizza nell'interazione con un ambiente specifico. La personalità, dunque, è un fenotipo nel quale è arduo distinguere le componenti genetiche da quelle dovute alle interazioni ambientali. Essa rappresenta inoltre una realizzazione sempre parziale delle potenzialità genetiche, la cui varietà si riduce necessariamente interagendo con l'ambiente. Ma tali potenzialità, almeno in parte, persistono e possono realizzarsi al di là delle fasi evolutive in rapporto a circostanze ambientali e soggettive favorevoli o a uno stato di necessità, quale è appunto quello determinato dalle crisi psicopatologiche.

La predisposizione al disagio psichico, come si ricava dalle esperienze terapeutiche, è da ricondurre a una inadeguatezza dell'ambiente di sviluppo in rapporto al corredo genetico. Solo di rado, in contesti sociali disgregati e in contesti familiari particolarmente disturbati, tale inadeguatezza è assoluta, nel senso che qualsivoglia corredo genetico non riuscirebbe a fenotipizzarsi se non sul registro del disagio psichico e/o della devianza. Più spesso, essa è relativa, vale a dire che incide, determinando dei conflitti strutturali, solo su alcuni corredi genetici. Si tratta dunque di definire la specificità di questi corredi a rischio. Non possiamo che ripetere quanto è già stato detto nei saggi precedenti. Il rischio psicopatologico sembra essenzialmente legato all'iperdotazione emozionale e/o cognitiva sia sul registro dell'introversione che dell'estroversione. Questo paradosso diventa immediatamente comprensibile se si tiene conto che gli ambienti educativi, sia familiari che scolari, sono organizzati in riferimento ai bambini i cui corredi genetici sono mediamente dotati. Tranne casi molto rari, i bambini iperdotati, che rappresentano una quota costante della popolazione infantile, sono degli alieni, quasi sempre incompresi dagli adulti e dai coetanei, assoggettati incolpevolmente dagli educatori ad un trattamento sostanzialmente correzionale: gli introversivi in quanto timidi, inibiti, poco comunicativi; gli estroversivi in quanto troppo vivaci, disordinati e spesso ribelli. L’interazione con l’ambiente comporta due effetti: o una normalizzazione precoce e forzata, che, ponendo le basi di un falso Sé, è destinata prima o poi a entrare in crisi, o un’opposizionismo inconscio che accentua la tendenza all’isolamento degli uni e il ribellismo degli altri.

La scissione dei bisogni non investe mai la totalità del patrimonio dei bisogni stessi. La quota dei bisogni scissi, complementare a quella dei bisogni integrati, determina, in misura direttamente proporzionale alla sua entità, sia l'espressività del conflitto strutturale - la sua capacità di generare sintomi - sia la sua penetranza - la gravità oggettiva, clinica. La fenomenologia psicopatologica dipende invece dai significati costruiti sui bisogni scissi e dalla visione del mondo, conscia e inconscia, che da essi discende.

I bisogni scissi, in quanto privati della possibilità di integrarsi, e quindi frustrati nel loro dispiegamento emozionale, cognitivo e comportamentale, si alienano. L’alienazione consiste, per un verso, in una distorsione fenomenica tale per cui essi essi appaiono sempre più istintualizzati, e, per un altro, in un’infinitizzazione che li rende ridondanti e minacciosi.

Quest’ultimo aspetto è di estremo interesse sia teorico che pratico. Freud, che non poteva tenerne conto per le matrici positivistiche del suo pensiero, è caduto infatti nella trappola delle apparenze fenomeniche, che lo hanno costretto ad attribuire alla natura umana un corredo istintuale sostanzialmente asociale. Recusando la teoria dell’istinto di morte, la psicoanalisi post-freudiana, con rare eccezioni (Reich, Fromm) è risultata incapace di dar senso pieno a quelle apparenze, rimanendo vincolata al mito dell’ aggressività innata. Il concetto di alienazione appare adeguato a risolvere questo problema. Un bisogno si aliena poichè, nel suo dispiegamento emozionale e cognitivo, si imbatte in ostacoli interattivi e culturali che ne determinano la frustrazione. Nonostante la frustrazione, il bisogno, in quanto programmato geneticamente, continua ad agire, intensificandosi progressivamente in misura direttamente proprozionale alle resistenze che incontra. La spinta del bisogno frustrato è identificabile con un flusso ridondante di informazioni inconsce il cui fine è di indurre una ristrutturazione dell’assetto emozionale e cognitivo, cioè di rimediare al dispiegamento mancato. Ma l’intensificazione del bisogno dovuta alla ridondanza, che tende al limite all’infinitizzazione, giunge a dare ad esso un significato soggettivamente minaccioso. In quanto minaccioso per l’identità personale e sociale, il bisogno non può più essere utilizzato dal soggetto che ne è dunque espropriato. Il concetto di ridondanza, tratto dalla teoria delle comunicazioni, è, nella cornice struttural-dialettica, di un’importanza estrema. Gran parte dei sintomi psicopatologici si spiegano in termini di ridondanza, vale a dire di un'attività inconscia che, in sè e per sè, mira a rimediare ad una instabilità strutturale dovuta alla frustrazione dei bisogni e che lancia alla coscienza messaggi - sotto forma di vissuti e di sintomi appunto - che questa non è in grado di decodificare. La patologia, da questo punto di vista, attiene più la ricezione e l’interpretazione cosciente dei messaggi che non la loro produzione, drammatizzata dall'infinitizzazione dei bisogni frustrati.

Monica S. il cui comportamento sociale è caratterizzato sin dall’infanzia da una totale arrendevolezza e incapacità di agire qualunque interazione conflittuale anche solo verbale, convive dall’adolescenza con fantasie parassitarie che la solleciterebbero, se essa non ne inibisse il passaggio all’atto, di picchiare turri coloro con cui interagisce, compresi gli estranei. Credente e praticante, M. non riesce a giustificare in alcun modo il contrasto tra il suo orientamento cosciente, che è fondato su una reale disponibilità e umanità nei confronti degli altri, e la sua vita interiore che sembra animata da una distruttività totale.Lo scarto è reso comprensibile dal fatto che essa, dominata da un codice comportamentale incentrato sull’assoluta corretezza, reagisce con una rabbia smisurata alle infinite scorrettezze che coglie nel comportamento quotidiano degli altri e che però subisce senza mai reagire. Le fantasie parassitarie tendono a compensare la sua scrupolosità ossessiva e ad esprimere, in maniera ridondante, il bisogno di un’interazione oppositiva più adeguata al suo sentire. Non recepito coscientemente, tale compenso produce infine a 22 anni una grave sindrome da attacchi di panico che esclude M. dal mondo sociale.

Fabrizio I., la cui esperienza evolutiva è stata segnata da una grave forma di epilessia che ha limitato notevolmente la sua vita di relazione e lo ha esposto a una serie indefinita di interazioni sociali negative, deluso nella sua aspirazione di entrare in rapporto con una ragazza di cui si è innamorato, sviluppa una rabbia cieca nei confronti del mondo intero, nel quale i ‘diversi’ non hanno scampo, e decide di protestare tappandosi nella sua camera. Trascorre così, nell’isolamento totale, alcuni mesi, alla fine dei quali intuisce che, nella sua casa, sono state installate delle microspie attraverso le quali egli viene perpetuamente controllato. In occasione di una lunga vacanza dei suoi, trovandosi solo, egli sente che, attraverso le microspie, le persone parlano con lui. I messaggi che riceve, per quanto non sempre chiari, talora sono rimproveranti e minacciosi, talaltra amichevoli e affettuosi, come se le persone volessero fargli compagnia. Il bisogno di appartenenza sociale frustrato insomma ridonda imponendo, attraverso le allucinazioni, una relazione sociale rifiutata.

Ricondurre tutti i fenomeni psicopatologici alla scissione, all'alienazione e alla ridondanza dei bisogni fondamentali ha, per la traduzione della teoria struttural-dialettica in pratica terapeutica, un'importanza estrema. Ciò significa, infatti, anzitutto che i sintomi, in quanto espressione di quei processi, hanno un significato funzionale: mirano cioè a riequilibrare una struttura di personalità altamente instabile; e, in secondo luogo, che è sempre possibile, attraverso la loro analisi, ricostruire le quote di bisogni frustrati nel loro dispiegamento. Se si ammette questo, la patologia non può essere identificata con i sintomi, bensì con l'incapacità della coscienza di decodificarli e con le strategie errate che essa adotta per fronteggiarli, la cui conseguenza di solito è l'intensificazione del conflitto strutturale. Ciò riesce chiaro se si tiene conto non del singolo sintomo, bensì della correlazione dinamica tra i sintomi o tra i sintomi e i vissuti, e dei contenuti esperienziali che li sottendono.

In Maurizio B., la fobia di arrecar danno agli altri, giunta all'estremo di attribuire potenzialità distruttive al respiro, è fenomenicamente assurda (anche se, come si è detto, non priva di spessore problematico sotto il profilo filosofico). Essa diventa però immediatamente significativa come difesa se viene correlata all'intensità delle pulsioni antisociali che attraversano la coscienza di M. Il carattere radicalmente distruttivo di queste pulsioni, tanto più crudele in quanto concernente esseri vulnerabili, sembra confermare d'acchito la teoria dell'istinto di morte freudiana. Questa apparenza fenomenica risulta ancora più pregnante se si tiene conto che, prima ancora che si definisse la paura di poter trasmettere germi patogeni, M., trovandosi per strada, era attraversato pressochè di continuo da fantasie coatte di prendere selvaggiamente a calci vecchi, bambini e donne incinte, nè più nè meno come Mister Hyde. Cos'è che non quadra con la teoria dell'istinto di morte? Il fatto biografico che, fino all'epoca della scolarizzazione, M. è stato un bambino sereno, socievole e senza problemi. In seguito alla scolarizzazione, e in maniera evidente a livello di scuole medie inferiori, egli si è chiuso e incupito.

La ricostruzione biografica permette di render conto di questo drammatico cambiamento. Alla nascita di M., sua madre è stata praticamente costretta dal marito e dai parenti a lasciare il lavoro. Lo ha fatto malvolentieri, ed ha sviluppato una cronica per quanto asintomatica depressione, che ha curato con un'ossessiva dedizione all'allevamento del figlio. Curato e iperprotetto, M. è vissuto serenamente sino all'età di cinque anni. A tale epoca, è venuto a sapere dalla madre del suo malessere e delle origini di questo. Non ha potuto sfuggire al senso di colpa di averla danneggiata inintenzionalmente con la sua nascita. Ciò lo ha turbato, ma senza incidere sostanzialmente sulla sua vita incentrata sul gioco con i coetanei. Con l'avvio della scolarizzazione, ha invece intuito subito che gli si richiedeva di riparare la colpa dimostrando di essere il migliore. Dal gioco, e in conseguenza anche di un terribile maestro elementare, M. si è ritrovato inchiodato tutto il pomeriggio a tavolino. La sua reazione inconscia a questo brusco cambiamento è consistita in un'opposizione che lo ha reso estremamente lento nell'apprendimento. Per aiutarlo, la madre studiava con lui. Il debito da pagare si è di conseguenza accresciuto costantemente. Nonostante lo sforzo, M. ha preso atto del fatto che i risultati eccellenti che egli conseguiva rappresentavano per la madre un toccasana. E' divenuto pertanto soggettivamente responsabile dello star bene di una persona emotivamente vulnerabile. Aumentando gli impegni scolastici, l'opposizionismo ha determinato, dall'avvio delle medie in poi, il terrore di non poter essere all'altezza del suo compito, di crollare miseramente e di coinvolgere nel suo scacco la madre. Tale terrore lo ha costretto a dedicare tutte le sue energie allo studio, isolandosi dai coetanei, e a far ricorso smodatamente al cibo come ricostituente. Incupito nel carattere, ingrassato, incapace di socializzare, egli è stato sottoposto dai coetanei ad un'autentica persecuzione incentrata sul dileggio del 'lecchino' e del 'cocco di mamma'. Ha cominciato intorno ai 13 anni ad avvertire una cieca rabbia contro tutto e contro tutti, compreso il Padreterno che lo aveva destinato ad una vita infelice. Incapace di decifrare questa rabbia, egli si è rivolto alla religione e, anzichè ribellarsi ad un regime di vita innaturale, ha preso come modello di vita il Cristo crocifisso. L'intensa pratica religiosa ha dissolto per alcuni anni la rabbia cieca, inducendo M. a interpretarla a posteriori come espressione del Maligno. Con l'avvio dell'esperienza universitaria, la consapevolezza di un impegno di studio ancor più severo e la prospettiva, vincolata al desiderio materno, di dover diventare un professionista di successo, la nevrosi ossessiva è esplosa.

E' del tutto evidente che l'odio di M. nei confronti degli esseri vulnerabili fa riferimento all'incapacità, che ha segnato tutto il suo tragitto di vita, di opporre sul piano di realtà una qualunque resistenza alle esigenze della madre vissuta come straordinariamente vulnerabile. Esso segnala il bisogno frustrato di opporre e differenziare la sua volontà rispetto a quella materna, di rivendicare un minimo di libertà individuale e di potere decisionale sulla propria vita, e lo scacco di una strategia rivolta all'imitazione di Cristo, vale a dire al rafforzamento soggettivo di un'istanza superegoica altruistica e masochistica, oltre che impregnata dell'identificazione della nocività con la cattiveria. La fenomenologia ridondante di quel bisogno frustrato terrorizza però M. e lo induce a rinunciare a vivere pur di non far male ad alcuno.

Dare alla fenomenologia psicopatologica un significato funzionale, assumerla come espressione di una tendenza propria dell'apparato mentale verso l’equilibrio strutturale, sembra paradossale in riferimento ad alcune circostanze cliniche particolarmente gravi, come le crisi psicotiche acute e le depressioni che comportano un elevato rischio suicidiario. Ma la funzionalità dei sintomi, dal punto di vista struttural-dialettico, che concede un qualche credito alle teorizzazioni antipsichiatriche degli anni '70 che assumevano la 'malattia' come un tentativo spontaneo di guarigione, fa riferimento al fatto che, data una situazione di grave instabilità strutturale, legata all'intensificazione del conflitto, è necessaria una riorganizzazione strutturale, quale che sia il suo prezzo. Senza la partecipazione della coscienza, il prezzo può essere esorbitante poichè l'equilibrio, determinato dai contenuti dell'esperienza inconscia, si esprime sotto forma di sintomi o di vissuti.

Nella storia di Renato P. la morte repentina del padre sopravviene in un periodo in cui l'ambivalenza adolescenziale del figlio nei suoi confronti è molto intensa. Il senso di liberazione che Renato avverte, unitamente al dolore, non è sorprendente in rapporto all'atteggiamento educativo paterno sostanzialmente affettuoso ma nondimeno oppressivo e repressivo. L'impatto inconscio di tale vissuto in un'anima profondamente credente è, nè più nè meno, l'accusa di parricidio. I rituali intervengono a tramutare la libertà colpevole in schiavitù. Ma ai rituali si associano una serie di sintomi psicosomatici, tra i quali il più severo è un mal di testa lancinante, che attestano il definirsi a livello inconscio di un equilibrio strutturale masochistico, incentrato sulla necessità di soffrire per riparare la colpa. Dato ciò non v'è da sorprendersi che le cure non abbiano conseguito un effetto rilevante nel corso degli anni. Nè che l'anniversario della morte del padre sia pressochè sempre coinciso con l'aggravarsi della sintomatologia. Ma c'è una prova clamorosa che attesta la connivenza di Renato con il regime masochistico. Ogniqualvolta si concede un piacere sia pure minimale - come vedere un film in televisione o acquistare un oggetto che gli piace - egli sa, per esperienza, di rischiare di star male, sicchè negli anni la sua vita si è ridotta ad un perpetuo lutto animato solo dalla pratica dei rituali. Ha pensato ricorrentemente al suicidio, rinunciando solo per non abbandonare la madre anziana. La funzionalità della sintomatologia, in questo caso, è riferita alla necessità di scontare quotidianamente la colpa, a picoole dosi, per non esserne disintegrato.

La funzionalità dei deliri è complessa ma non impenetrabile. Un delirio persecutorio, per esempio, corrisponde spesso ad un bisogno inconscio di controllo sociale che serve a scongiurare, almeno transitoriamente, una temuta perdita di controllo comportamentale sul registro dell'aggressività sociale o della devianza.

Sergio R. si trasferisce a Roma, dall'Abruzzo, verso la fine degli anni '70. Per quanto di carattere mite, cova una rabbia sociale smisurata perchè ha preso coscienza dei pesanti condizionamenti che ha subito in rapporto alle sue origini umili. Il trasferimento corrisponde alla sua volontà di terminare gli studi superiori e di frequentare l'Università. Ha pochissimi soldi, e non riesce a trovare alcun lavoro. Frequenta dei gruppi giovanili politici estremisti, e intuisce che essi hanno rapporto con le residue frange del terrorismo di sinistra. Comincia a coltivare, per disperazione, l'idea di darsi alla clandestinità. Gli sembra giusto, e, tra l'altro, pensa che riuscirebbe a sbarcare il lunario. Pur non avendo alcuna esperienza di armi e alcuna predisposizione alla violenza, cerca un canale per affiliarsi. Non l'ha ancora trovato allorchè comincia a sviluppare il delirio persecutorio di essere tenuto sotto controllo dai servizi segreti.

L’ipotesi funzionale comporta una modificazione profonda del concetto di patologia. Questa infatti non sarebbe riconducibile agli squilibri biochimici o psicologici che sottendono il disagio psicopatologico, i quali tenderebbero a rimediare ad una situazione di instabilità strutturale determinata dall’intensificazione del conflitto, bensì all’interpretazione soggettiva e sociale (quindi anche psichiatrica) dei cambiamenti — dai vissuti ai comportamenti — che intervengono in conseguenza di tali squilibri, allo scarto tra l’interpetazione soggettiva e quella sociale, e alle strategie poste in atto, dal soggetto stesso o dal contesto sociale, per rimediare a tali cambiamenti.

L’interpretazione soggettiva può infatti drammatizzare o minimizzare, fino alla negazione, tali cambiamenti. Nelle depressioni, la cui funzionalità puntiva, riparativa o preventiva è fuori di dubbio, la drammatizzazione assume spesso la forma di una previsione che il soggetto opera, a partire dallo stato attuale di sofferenza malinteso, di un futuro doloroso e svuotato di senso. Il suicidio è una conseguenza di questa drammatizzazione. In alcune sindromi psicotiche la minimizzazione è dovuta ad un processo di anestetizzazione morale che, affrancando il soggetto dalla scrupolosità e dai sensi di colpa, lo induce a sentirsi più libero e più capace di inteargire anche sul registro della conflittualità.

Lo scarto tra l’interpetazione soggettiva e quella sociale, quando sussiste, si realizza o sotto forma di drammatizzazione soggettiva cui corrisponde una minimizzazione ambientale o sotto forma di minimizzazione soggettiva cui corrisponde una drammatizzazione ambientale.

Le strategie — soggettive, interattive, terapeutiche - poste in atto per rimediare ai cambiamenti sono le più varie ma accomunate dal fatto di risultare quasi sempre rimedi peggiori del male. Quelle neo-psichiatriche in particolare, orientate ciecamente a restaurare una normalità presistente, evidentemente fittizia e precaria, o a ricondurre comunque i soggetti ad una normalità astratta, minimale, meramente statistica, sono spesso iatrogene.

La latenza del conflitto strutturale è un altro aspetto di grande importanza. Essa è dovuta ad un insieme di variabili - soggettive, microsistemiche, sociali - la cui somma consente di spiegare, di volta in volta, l'affiorare della fenomenologia psicopatologica, che corrisponde ad una catastrofe strutturale. Solo di rado lo strutturarsi di un conflitto coincide immediatamente con manifestazioni sintomatiche, tranne che, come nel caso di Renato P. non intervengono circostanze congiunturali atte a precipitarlo. Più spesso si realizza un periodo di latenza, più o meno lungo, nel corso del quale il soggetto, anche senza esserne consapevole, adotta strategie orientate a risolvere il conflitto stesso. L'affiorare dei sintomi segnala l'insuccesso di tali strategie che, non di rado, per motivi di cui si tratterà successivamente, sono rimedi peggiori del male.

Maurizio B., per esempio, ha intuito a livello adolescenziale la sua precarietà psicologica, dovuta all'accumulo di forti quote di rabbia. Ma, interpretando le tensioni che lo attraversavano come minacce dovute al diavolo, egli ha tentato di liberarsene avvicinandosi alla religione e dedicandosi ad una vita incentrata sull'amore del prossimo. Ciò facendo, egli ha frustrato ulteriormente il suo bisogno di individuazione votandosi alla catastrofe strutturale.

L'insorgenza di una sintomatologia in età adulta impone una valutazione della storia personale e delle situazioni di interazione attuali molto attenta. Assumendo come probante la normalità passata, si rischia di dare eccessivo peso a eventi o situazioni attuali 'stressanti'; minimizzando il contesto di vita presente, si rischia viceversa di voler trarre a forza dal passato gli indizi di una conflittualità latente. Il carattere tensionale dei bisogni comporta che ogni esperienza soggettiva, nella trama profonda della sua organizzazione significativa, riconosce più di un locus minoris resistentiae. Valutare il peso delle variabili soggettive e di quelle ambientali è una ricerca sul campo delle interazioni tra soggettività e storia sociale. Nel corso del saggio si ritroveranno numerosi esempi a riguardo. Ne riferiamo uno di particolare interesse.

Ruggero C., impiegato in un'azienda privata di proprietà statunitense, ha tirato avanti per diciotto anni con le unghie e i denti. Convinto di valere poco, nonostante una laurea brillantemente conseguita e capacità lavorative oggettivamente confermate, egli ha sempre drammatizzato la precarietà dell'impiego dovuta alla logica vigente nell'azienda. In conseguenza di ciò, ha tentato di porsi al riparo dalla perpetua minaccia implicita di licenziamento dedicando al lavoro tutte le sue energie. Il perfezionismo ansioso ha svuotato la sua vita di senso riducendola, per cinque giorni la settimana, ad un affanno estenuante che lo fa rientrare a casa la sera del tutto logorato, capace solo di trangugiare del cibo e di andare a dormire. Pur coinvolgendo la moglie in questo tran-tran frustrante, ha retto per anni senza sintomi. Nel 1992 l'azienda, sull'onda della deregulation, è andata incontro ad un processo di ristrutturazione selvaggia. Un terzo degli impiegati sono stati licenziati, e gli altri sottoposti a carichi di lavoro ai limiti del possibile. Confermato nel suo incarico, R. ha avuto poco tempo di esultare per lo scampato pericolo. Si è reso conto infatti immediatamente di non avere energie di riserva da investire in un ulteriore aumento della produttività. Ha cominciato a sentirsi mortalmente stanco e irrequieto, ad accusare un netto calo di concentrazione e di memoria e, infine, un'insonnia incoercibile attraversata da pensieri catastrofici. Certo di non poter più lavorare, R. si vede destinato ad una vita da barbone senza più dignità, di peso alla moglie e ai familiari. In conseguenza di ciò, tenta il suicidio.

L'intreccio tra fattori soggettivi e fattori storico-sociali è evidente. R., educato nel rispetto cieco dell'autorità e nel culto dell'etica del lavoro (che ha consentito al padre di umili origini di finire la sua carriera come funzionario di banca), nonostante abbia conseguito brillantemente una laurea in economia e commercio, non ha mai considerato altra possibilità che non fosse il posto fisso. Si è adattato al ruolo impiegatizio, riversando in esso un perfezionismo ansioso che gli ha impedito di modulare le richieste dei capi. L'atteggiamento servile gli ha consentito di conseguire la stima di questi, ma non un avanzamento di carriera, poichè egli è stato giudicato carente sotto il profilo del carattere. La frustrazione di rendere sempre al massimo senza mai ricevere una gratificazione ha funzionato indubbiamente come il detonatore di una crisi che si è preparata per anni. Ma l'esplosione si è realizzata in conseguenza di circostanze reali, in seguito ad una ristrutturazione dell'azienda che, pur essendo in attivo, ha profittato della crisi economica dell'inizio degli anni '90 per portare all'estremo lo sfruttamento dei dipendenti. Ciò che è avvenuto nell'intimo di R. è immediatamente comprensibile. L'opposizionismo frustrato per anni si è tradotto repentinamente in un rifiuto radicale, benchè inconscio, del lavoro. Ma questa rottura emozionale è venuta a confliggere con un senso del dovere ancora vivo, aprendo l'orizzonte soggettivo di R. su di una prospettiva catastrofica.

Il postulato per cui non si dà disagio psichico se non in conseguenza di una conflittualità latente nell'organizzazione della personalità non comporta di conseguenza un'arbitraria sopravvalutazione dei fattori psicologici. Si tratta di volta in volta di discernere il peso delle variabili soggettive e di quelle ambientali, sulla base del principio per cui, laddove si dá disagio, nessuna delle due variabili puó avere un peso insignificante.

Dal punto di vista struttural-dialettico, non esistono conflitti soggettivi che si possano ritenere insolubili, tali cioè da non riconoscere alcuna possibilità di mediazione e di superamento dialettico, a differenza di conflitti interattivi che, talora, riconoscono come unica soluzione il distanziamento o lo scioglimento del rapporto. Ma questo riferimento teorico non può tradursi meccanicisticamente nella pratica terapeutica.

Occorre tener conto, infatti, per un verso che il conflitto strutturale, anche se si origina a partire dalla frustrazione di uno dei bisogni fondamentali, consegue inevitabilmente l'effetto di scindere il potenziale evolutivo del corredo dei bisogni. In conseguenza di ciò, la fenomenologia dei bisogni rappresentata a livello cosciente e, ovviamente, a livello inconscio, risulta alienata nel suo complesso. Per essere appropriati, i bisogni vanno necessariamente disalienati, vale a dire vissuti nell’autenticità che sottende la fenomenologia determinatasi in conseguenza del conflitto. Ciò significa decodificare correttamente il messaggio dei sintomi che, fenomenologicamente, è sempre ridondante.

Per un altro verso, occorre considerare che l'alienazione dei bisogni si associa a schemi emozionali, cognitivi e comportamentali che dispongono di un qualche grado di automatismo - dipendente dalla durata del conflitto strutturale - e che, quindi, non sono agevolmente modificabili in virtù di una presa di coscienza. Occorre, pertanto, una valutazione molto attenta sulle polarità del conflitto - con i loro correlati emozionali, cognitivi e comportamentali - al fine di individuare la quota di bisogni frustrati, il cui dispiegamento può favorire l'evoluzione e la risoluzione del conflitto.

Dato che la nozione di dispiegamento dei bisogni frustrati riassume le finalità proprie dell'intervento dialettico, appare opportuno a questo punto soffermarsi su di essa, anticipando alcuni temi che saranno approfonditi successivamente. Facilmente, infatti, tale nozione può essere equivocata come se essa facesse riferimento esclusivamente alla liberazione dei desideri, all’affermazione dell'individualità. Dal punto di vista dialettico, i doveri sociali sono soggettivamente non meno importanti dei diritti individuali, poichè, indipendentemente dai codici culturali che li informano, essi riconoscono la loro matrice primaria nella predisposizione sociale di ogni essere umano. La scissione dei bisogni determina una frustrazione poichè una quota di bisogni, impedita nel suo dispiegamento, rimane inutilizzata e tende a disordinarsi. Il superamento della scissione implica la liberazione di quella quota di bisogni e la sua integrazione con il bisogno complementare. Ciò non può avvenire linearmente. Nelle fasi evolutive che sopravvengono nel corso della psicoterapia dialettica, è normale che la riappropriazione di un bisogno frustrato comporti qualche eccesso. Ma è proprio l’eccesso che pone il soggetto di fronte alla necessità di tener conto del bisogno complementare. Il problema diventa più complesso se si tiene conto del fatto che, sia a livello inconscio che cosciente, il conflitto strutturale riconosce una organizzazione ideologica che tende a privilegiare una delle polarità in conflitto e a misconoscere l’altra. Talora sono i doveri sociali ad essere privilegiati in assoluto, talaltra i diritti individuali. E’ evidente dunque che il dispiegamento dei bisogni non può avvenire che partendo dalla quota di bisogni maggiormente frustrata, che non coincide mai con i bisogni privilegiati ideologicamente. Ciò significa che, in alcune circostanze, occorre restituire al soggetto consapevolezza delle mortificazioni cui sottopone i suoi diritti individuali in nome dei doveri sociali, in altre circostanze viceversa occorre restituirgli consapevolezza del suo rifiuto di riconoscere l’importanza soggettiva dei doveri sociali. Gran parte del lavoro terapeutico mira, in breve, a sormontare il conflitto tra Super-io e Ideali dell’io antitetici, che, in senso strutturale, è l’espressione propria della scissione dei bisogni.

La riappropriazione dei bisogni frustrati è l’aspetto più delicato del processo terapeutico. Esso implica la necessità di ricondursi alle origini del conflitto che ha prodotto l’alienazione, di recuperare i bisogni nel loro significato naturale e di assicurare ad essi, compatibilmente con le circostanze reali di vita, un adeguato dispiegamento, che li integri sotto il profilo emozionale, cognitivo e comportamentale e li renda, pertanto, funzionali alla partecipazione alla vita sociale mediata dalla soggettività. Il concetto di dispiegamento dei bisogni è, di conseguenza, chiaro e distinto. Ma la sua efficacia pratica è totalmente subordinata al fatto che, nelle esperienze di disagio psichico, il conflitto tra bisogni comporta la loro reciproca alienazione. Sicché l'intervento terapeutico dialettico è costretto a promuovere nel soggetto la presa di coscienza di questa alienazione: presupposto indispensabile perché egli si orienti a recuperare i suoi bisogni e ad amministrarli dialetticamente.


Cap. III METODOLOGIA

Alla luce dei principi di ordine generale di cui si è parlato, la cui importanza non può essere minimizzata, è ora necessario cercare di definire e di illustrare la metodologia propria della terapia dialettica.

Prima di entrare nel merito, è opportuno ricordare che essa si fonda su di una concezione dell'uomo evoluzionistica, incentrata sulla teoria dei bisogni intrinseci, che dà grande peso alla storicità dell'esperienza umana, all'interazione tra natura e cultura in virtù della quale si organizza la soggettività. La riconduzione della psicopatologia ad un conflitto strutturale di base tra diritti individuali e doveri sociali, entrambi radicati nella logica emozionale dei bisogni, può apparire una formula banalmente semplificatrice solo a chi, considerando quei diritti e quei doveri naturali o definiti con sufficiente precisione all'interno di ogni cultura, non ha mai riflettuto abbastanza sulla loro terribile problematicità, che segna come un filo continuo la storia umana e che è al centro della riflessione delle scienze filosofiche, umane e sociali. Assumendo come oggetto proprio e specifico tale problematica, che nelle esperienze psicopatologiche si declina in forme sottili, complesse, simboliche, la terapia dialettica si configura esplicitamente come applicazione di una filosofia in un ambito particolare contrassegnato da sintomi, vissuti e comportamenti che attestano la necessità di una ristrutturazione del patrimonio di esperienza personale. Il suo obbiettivo, in ultima analisi, è un cambiamento più o meno radicale della visione del mondo soggettiva di uno o più soggetti. Il suo strumento essenziale è una pratica comunicativa nel corso della quale si discute criticamente dei sintomi, del rapporto tra corpo e mente, degli istinti, delle emozioni, dei sentimenti, degli affetti, delle memorie, dei valori culturali, della famiglia, dei doveri parentali e di quelli filiali, del rapporto tra uomo e donna, del lavoro, della libertà, del piacere e del dolore, della malattia, della morte, della follia, dell'anima, della religione, della parapsicologia, della coscienza e dell'inconscio, ecc.

E' evidente che una pratica del genere ha, in sè e per sè, poco a che vedere con la medicina intesa in senso stretto. Considerarla una cura non è errato, ma non si dà alcun motivo valido di far rientrare integralmente il concetto di terapia nell'ambito della medicina. E' fuor di dubbio che si danno sindromi - come ad esempio le depressioni gravi, gli eccitamenti maniacali, le crisi psicotiche, ecc. - nelle quali la componente psicosomatica è evidente, e che, in alcune di queste situazioni, lo squilibrio biologico indotto dall’attivazione dei conflitti può autonomizzarsi in rapporto ad essi, autoalimentandosi e assumendo transitoriamente un ruolo patogeno. La necessità di intervenire con terapie farmacologiche non significa però che la psicopatologia sia di pertinenza strettamente medica, quanto piuttosto che la medicina è una scienza ausiliaria nel contesto di una cura che riguarda essenzialmente la visione del mondo soggettiva, conscia e inconscia, le sue contraddizioni e le sue matrici personali, familiari e socioculturali.

Se ciò è vero, occorrerà giungere di necessità ad una riforma universitaria che scorpori la psichiatria dalla medicina e ne faccia una facoltà autonoma il cui piano di studi associ alla formazione medica, indispensabile, le scienze umane e sociali nonchè la filosofia, che non lo sono di meno (cfr. Appendice).

Nell'attesa di questa riforma, occorre tener conto che la terapia si svolge in un contesto nel quale, oltre alla massiccia propaganda neo-psichiatrica, la medicalizzazione del disagio psichico fa parte del senso comune. Ciò ha due conseguenze sulla domanda di cura: la prima, più frequente, è che tale domanda si articola come richiesta di guarigione, di restituzione del benessere presistente; la seconda, ricorrente nelle situazioni più gravi, è la negazione del bisogno di aiuto. C'è un dato che accomuna le due situazioni: il riferimento ad una normalità, presunta o smentita dai fatti, alla quale il soggetto fa insistentemente riferimento, nel primo caso per sottolineare il carattere accidentale o estraneo alla sua esperienza del disagio, nel secondo per negarlo. Il mito della normalità, dietro il quale si cela la paura di essere etichettati come malati di mente, è il primo scoglio contro il quale si imbatte l'intervento terapeutico.

C'è da chiedersi se questo mito sia costitutivo della soggettività umana, e dunque universale, o non sia piuttosto influenzato dalla cultura. Non è facile rispondere. Ovunque si dà un'organizzazione sociale, si danno dei criteri normativi, delle regole comportamentali attenendosi alle quali un individuo si sente nella norma. Ma è fuor di dubbio che, nella nostra civiltà, l'ossessione normativa è stata potentemente rafforzata dalla nascita della psichiatria e dalla distinzione rigida che essa ha creato tra normalità e anormalità. Tale distinzione squalifica il significato potenzialmente evolutivo di tutte le condizioni psicopatologiche, e induce le coscienze a trincerarsi nell'oggettivazione, nella minimizzazione o nella negazione del disagio psichico.

Il primo criterio metodologico della terapia dialettica è di sgombrare il campo dal problema diagnostico. Etichettare una qualunque esperienza umana, che ha una sua complessità e una sua dignità, con uno o più termini tecnici è insignificante. Da parte dei neo-psichiatri, si sostiene che una corretta diagnosi consentirebbe di formulare un trattamento terapeutico mirato e di operare delle previsioni prognostiche calibrate. Nella pratica, questo rigore si traduce in un sorprendente disinteresse per la vita reale dei soggetti, nella prescrizione di cocktails farmacologici del più vario genere e in giudizi prognostici frettolosi e talora inappellabili. Dal punto di vista dialettico, ciò che importa preliminarmente è la valutazione della situazione con la quale ci si confronta, tenendo conto di tutte le variabili - soggettive, interpersonali, familiari, socioculturali - che è possibile cogliere ad un primo approccio, al fine di individuare i problemi che sottendono il disagio psichico, il set adeguato ad affrontarli e gli obbiettivi da perseguire. Quanto questo orientamento sia distante da quello neo-psichiatrico può essere attestato dalla seguente esperienza.

Silvio A. a ventuno anni comincia a ossessionarsi allo specchio per via di alcune manifestazioni brufolose. Non esce più di casa per la vergogna di un volto deturpato, che gli impedirà di lavorare e di mettere su famiglia. Dopo alcune settimane, si chiude in camera e minaccia il suicidio. Viene visitato da uno psichiatra tradizionale. S. non parla, è incupito e ha il volto affondato nel maglione. Dopo mezz’ora di visita, viene emessa la diagnosi fatale di processo dissociativo ad impianto dismorfofobico e si prescrive il consueto cocktail di psicofarmaci (Serenase, Melleril, Tegretol, Xanax). Ai genitori viene anticipato un decorso terribile, avvalorato dall'assenza di qualunque motivazione comprensibile. Una procedura del genere, deontologicamente censurabile, è purtroppo ancora frequente e richiederebbe, in uno stato di diritto, l'intervento dell'autorità giudiziaria.

S., tra l'altro, non è affatto inaccessibile al colloquio. Non gli va, semplicemente, d'essere stato trattato da pazzo: d'essere stato portato davanti a uno psichiatra che, prima ancora di rivolgergli delle domande, aveva sotto mano il ricettario. Insiste sul carattere oggettivamente deturpante delle manifestazioni dermatologiche, e appare contrariato dal fatto che gli si voglia far credere che si tratti di una sua fissazione. Ma intanto queste sono insorte dopo una delusione sentimentale. S. è stato dietro ad una ragazza per un anno che lo ha illuso e poi ha finito col mettersi con un suo amico. Si è arrabbiato e, vedendola, più volte ha sentito l'impulso di romperle la testa. Poi, guardandosi allo specchio, se n'è fatta una ragione. Tutto qui? No di certo. S. ce l'ha con tutto il mondo per via del fatto che la famiglia, operaia e cattolica, lo ha educato ad essere onesto e disponibile con tutti. Egli ci ha messo del suo e ha finito con il diventare di una scrupolosità sociale tale che ogni parola, ogni azione deve soppesarla per escludere che l'altro possa restarci male. E, ciononostante, il dubbio di aver sbagliato lo perseguita, lo fa sentire sempre in colpa. Lavora come precario, in nero, in una ditta di installazioni elettriche, e naturalmente lo sfruttano. Come secondo lavoro, ripara i computers. Ma non guadagna una lira, perchè tutti - compreso il parroco - si rivolgono a lui per favore e egli non ha il coraggio di chiedere soldi. Quanta rabbia ha in corpo? Un'infinità. E ne ha avuta una prova clamorosa. Qualche giorno prima di star male, era uscito con degli amici. Tra questi ce n'era uno che lo aveva impegnato per giorni in una riparazione promettendogli un compenso mai versato. Nel corso dell'incontro, S. ha avuto un raptus: si è 'risvegliato' con le mani che stringevano con forza il collo dell'amico e gli altri impegnati a bloccarlo. Questo episodio lo ha terrorizzato, ma, con la comparsa delle macchie sul viso, è stato rimosso.

E' evidente che si tratta di una situazione seria sotto il profilo psicodinamico, poichè è in gioco una struttura di personalità scissa tra una disponibilità altruistica radicale e un'altrettanto radicale ostilità sociale, inibita dalla scrupolosità ma proprio per ciò pericolosamente incline all'acting-out. Ma cosa, se non un pregiudizio oggettivante, può portare a pensare che essa sia espressione di un processo morboso inesorabile? Il momento diagnostico, se con ciò si intende la capacità di vedere attraverso la fenomenologia, può essere importante quando coglie le matrici dinamiche del disagio psichico. Ma da questo punto di vista risulta chiaro che gli uomini non soffrono di depressione, di attacchi di panico, di ossessioni, di distimia, di dissociazione, bensì sempre e solo di nostalgie, di rimpianti, di rimorsi, di rabbie, di odi, di sentimenti di vendetta, di delusioni, di sensi di colpa, di paure, di aspirazioni frustrate, e che la loro sofferenza affonda le sue radici nel loro tragitto di esperienza nel mondo. Soffrono, in breve, come solo gli uomini possono soffrire.

L'esempio consente di illustrare alcuni aspetti tipici della tecnica dialettica. Anzitutto, si tratta di una tecnica terapeutica che assegna al terapeuta un ruolo estremamente attivo. Egli ascolta, raccoglie e utilizza prontamente tutti gli indizi fenomenicamente disponibili per interpretare in termini strutturali l’esperienza del soggetto, ma fornisce anche informazioni, pone problemi, sollecita la comunicazione. L'originaria prudenza freudiana, dovuta alle incertezze di una teoria in fieri e che si perpetua nell'assurda passività degli analisti ortodossi attuali, dopo decenni e decenni di ricerca sul campo, non ha più motivo di essere. Se è vero infatti che il patrimonio del soggetto, conscio e inconscio, contiene le chiavi esplicative della sua esperienza, ciò non significa, come riteneva Freud, che egli non sa di sapere. Per essere riappropriato, quel patrimonio postula infatti dei codici interpretativi - neurobiologici, psicologici e socio-culturali - che non fanno parte dell’attrezzatura culturale del soggetto. L'attivismo terapeutico, caratterizzato dal fatto che il terapeuta utilizza tutto ciò che sa sulla condizione umana per confrontarsi con un’esperienza particolare, non solo abbrevia i tempi dell'intervento, ma consente talora di sormontare resistenze altrimenti inespugnabili.

Una circostanza esemplare a questo riguardo è fornita da alcune esperienze ossessive caratterizzate da fantasie e da pulsioni coatte che vengono soggettivamente identificate come espressione di una follia criminale.

Rosaria B. di 26 anni ha avuto, da alcuni mesi, un bambino lungamente desiderato al quale si è dedicata totalmente. Non potendo utilizzare alcun aiuto parentale, tranne quello del marito, risiedendo la sua famiglia originaria altrove, si è affidata con fiducia ad un pediatra, che consulta settimanalmente. Il bambino gode sin dalla nascita di un'ottima salute, ma, ciononostante, il pediatra ha definito delle regole igieniche e dietetiche molto rigide. All'epoca dello svezzamento, tra bagni, cure solari, preparazione del cibo (con alchimie caloriche e continue variazioni di prodotti), la vita di R. trascorre totalmente nella cura del figlio. Anche sotto il profilo psicologico, le direttive del pediatra sono univoche: la buona crescita di un bambino — sostiene con convinzione - dipende dall'assiduità del rapporto affettivo con la madre. In conseguenza di ciò, R. rifiuta la proposta del marito di affidarlo qualche volta ad una baby-sitter per uscire e stare un po' tra di loro. L'entusiasmo di R. per l'avventura dell'allevamento si esaurisce intorno al settimo mese. Subentra dapprima una stanchezza profonda per cui le riesce difficile tenere il bambino in braccio, poi un'irritabilità estrema per cui comincia a non sopportarne il pianto. I doveri domestici vengono trascurati. Il marito, rientrando dal lavoro, deve prepararsi la cena da solo. L’intimità sessuale della coppia è inesistente. Un giorno R. chiama il marito al telefonino e gli chiede di tornare a casa. La trova inebetita e terrorizzata, con negli occhi una strana luce che lo spaventa. Chiede di essere ricoverata in clinica e comunque scongiura il marito di non lasciarla più sola col figlio. Non vuole dire perchè.

Portata a forza dal marito in visita, appare tanto bisognosa di aiuto quanto chiusa a riccio in un mutismo difensivo. Le circostanze riferite dal marito su come si è svolta la pratica dell'allevamento sono sufficientemente indiziarie. Venendo a sapere che, date tali circostanze, capita spesso che una donna avverta repentinamente orribili fantasie di eliminazione del figlio, R. scoppia in lacrime. Esistono dunque altri madri snaturate e mostruose come lei? Ne esistono tante, di fatto, ma non si tratta di madri snaturate: cose del genere avvengono costantemente a madri particolarmente dedite ai propri figli e che, per difetto di aiuto parentale o per un proprio modo di intendere la maternità o su sollecitazione di qualcuno, si incarcerano nel loro ruolo sino a non farcela più. Non si tratta dunque di una malattia mentale? No, perchè è normale che se un rapporto, anche con il proprio figlio, assume una configurazione persecutoria, la mente risolva il problema eliminando il persecutore. Il vero problema consiste nel ristrutturare il rapporto, nell'accettare i consigli del marito piuttosto che di un pediatra terroristico, nel chiedersi come e perchè sia giunta a vivere il ruolo di madre in un modo psicologicamente nocivo.

Massimo D., ventisettenne, al ritorno da un ennesimo viaggio, ha un attacco di panico in seguito alla quale la sua vita muta radicalmente. Ha costante bisogno di una rete parentale e amicale di protezione, deve sospendere l'attività lavorativa, avverte, specie di notte, forti pulsioni suicidiarie. Riconduce il suo dramma ad una paura che lo attanaglia di poter star male e di morire solo come un cane. Punizione infernale riservata ai malvagi. Ma dov'è la malvagità? Tranne un periodo adolescenziale nel corso del quale, per esigenze difensive legate ad un impegno politico, M. si è dato un ruolo di duro e di violento, egli è sempre stato estremamente disponibile sul piano sociale, generoso e altruista, amato pertanto da molte persone. Obbligato in un certo senso ad esserlo prima da un'educazione religiosa molto rigida, poi dalla conversione al comunismo. I valori introiettati gli impongono peraltro di rinunciare a spiccare il volo in un ambito professionale creativo prestigioso. M. è ambizioso e cosciente del suo valore, ma, erede di una tradizione familiare, sia materna che paterna, segnata dal conflitto tra l'elitarismo di sangue e culturale e il richiamo religioso e politico all'uguaglianza e all'identificazione con i deboli, soffoca l'ambizione mantenendo uno stile di vita semplice e per alcuni aspetti ascetico. Non ritiene però che sia tutto oro quel che luce: ha sempre avuto l'impressione di essere un falso, un traditore e peggio ancora. Per via di cosa? Per via di strane fantasie che un tempo attribuiva al demonio ma che sono persistite, incrementandosi, anche dopo l’abiura. E’ terrorizzato a parlarne. Si tratta infatti di un’antologia della crudeltà e del sadismo: cavare gli occhi, rompere i denti, sfracellare teste, violentare le donne e via dicendo. Il peggio è che queste fantasie riguardano talora coloro - i deboli, gli emarginati, i perdenti - a cui si sente emotivamente legato. Avendo comunicato queste fantasie, M. si aspetta la diagnosi fatale, d'essere un pazzo criminale irrecuperabile, che, confermata da un esperto, lo indurrebbe a dare atto ai propositi suicidi. Ottiene una diagnosi psicodinamica. Capita spesso a chi eccede nella pratica delle virtù sociali di imbarbarirsi interiormente. Confortato dal fatto di non aver determinato con la sua comunicazione alcuna sorpresa, M., che, come tutti gli ossessivi, tiene parecchio all'essere in fondo in fondo una carogna perchè questa attribuzione, se lo terrorizza per un verso, lo tiene anche al riparo dalla debolezza che teme ancor di più, oppone una confutazione ideologica e colta. Mister Hyde non è onnipresente al fondo di ogni anima? Può darsi, ma se il dottor Jekill non avesse recintato la sua vita nel culto della virtù vittoriana, Mister Hyde non sarebbe venuto fuori.

Un altro aspetto specifico della terapia dialettica, come risulta dagli esempi citati, è l'assumere un punto di vista storicistico e globale. Ogni esperienza soggettiva è colta nella sua densità, che comporta una storia sociale, alla quale il soggetto è legato attraverso la mediazione del gruppo di appartenenza familiare, una storia interiore, rappresentata dalle memorie, dai vissuti e, in ultima analisi, da una visione del mondo conscia e inconscia che spiega i comportamenti soggettivi, e un'attualità sociale con la quale il soggetto interagisce con modalità conseguenti alla sua visione del mondo. Nei suoi aspetti più intimi, consci e inconsci, non si dà mai una soggettività pura. Ciò vale per tutti. Il pediatra che persuade Rosaria che l'allevamento di un bambino è un'impresa delicatissima, sempre esposta al rischio di un fallimento se si commettono degli errori, che deve ricadere sulle spalle della madre, anche se questa è isolata nel rapporto con un figlio come in una capsula spaziale, è in buona fede: non sa alcunchè di sociologia, anche se ha letto qualche libro di psicoanalisi. R. stessa, che pesa scrupolosamente i cibi, acquista prodotti alimentari solo di marca e valuta attentamente le calorie, è vittima di un'ideologia per la quale più i cibi, per effetto dell'industrializzazione, diventano pericolosi, più occorre far ricorso all'industria alimentare farmaceutica. Massimo si castra sotto il profilo della realizzazione sociale per restare fedele ai valori ereditati dalla famiglia, ma, con ciò, egli esaspera le valenze aristocratiche e implicitamente élitarie, dunque sprezzanti, che appartengono alla tradizione familiare e rivendica inconsciamente il diritto all’affermazione di sè sotto forma di onnipotenza malvagia.

La diagnosi psicodinamica di cui si è parlato è in breve una diagnosi a tutto tondo. Essa non recusa i vissuti più squisitamente individuali nè i più complessi meccanismi psicologici, ma non li isola mai nello spazio di una soggettività avulsa dalla storia e dalla realtà sociale. Il tessuto profondo dell'esperienza umana è inconfutabilmente rappresentato da vissuti soggettivi che sono però i residuati di esperienze interattive reali interpretate a partire dall'attrezzatura mentale di cui il soggetto dispone. E' evidente che più il contesto - familiare e socio-culturale - nel quale il soggetto si trova coinvolto è complesso, più egli è ricco di capacità intuitive - emozionali - ma carente di strumenti cognitivi e concettuali , più le interpretazioni possono risultare 'distorte'. Da questo punto di vista, il rilievo accordato da Freud al passato remoto nella strutturazione della personalità e nella genesi del conflitto strutturale rimane valido, anche se si può criticare il significato deterministico accordato ai primi mesi di sviluppo. Tale rilievo è importante poichè è fuor di dubbio che nell'infanzia lo scarto tra la vivacità del sentire e la capacità di interpretare i fatti complessi della vita è massimo, e ciò espone l'infante al rischio di interpretazioni parziali, distorte benchè mai prive di fondamento. Il limite, se così si vuol dire, della mente umana è che essa è costretta sempre e comunque ad interpretare la realtà, quali che siano gli strumenti di cui dispone, di solito inadeguati.

Proprio per ciò, la valutazione della situazione dal punto di vista dialettico, come rifiuta lo sterile concetto di malattia, così aborrisce il soggettivismo psicoanalitico, l'oggettivismo relazionale, l'autopoiesi cognitivista, il determinismo sociologista. E' fuor di dubbio che ogni soggetto ha una sua storia interiore, un suo mondo interno strutturato e modalità sue proprie di interpretare la realtà, che ogni soggettività si intreccia sottilmente con l'esperienza degli altri con cui interagisce e che, infine, ogni esperienza si svolge sul registro di una quotidianità che è fatta di mezzi di sussistenza, di casa, di lavoro, di rapporti personali e sociali, ecc. Ma, confrontandosi con una situazione psicopatologica, il peso dei fattori soggettivi, intersoggettivi, interattivi, cognitivi e sociali va definito di volta in volta.

Tale valutazione determina la definizione del set e della procedura terapeutica. In rapporto ai presupposti teorici cui si ispirano, poco aperti alla complessità del reale, gran parte delle tecniche riconoscono modalità d’intervento standardizzate, centrate sull’individuo, sulla coppia, sulla famiglia, sul gruppo. La tecnica dialettica viceversa, il cui paradigma di riferimento è la teoria dei bisogni intrinseci che presiedono alla strutturazione della personalità non meno che all’organizzazione dei rapporti sociali, dai livelli interpersonali a quelli storico-sociali, è aperta. Anche se il suo uso più frequente avviene sul piano individuale, concernendo situazioni psicopatologiche strutturate, essa è estensibile alla coppia e alla famiglia. Il set e la procedura vengono stabilite in rapporto alla situazione specifica. Un esempio significativo della flessibilità della tecnica è il seguente, che si è realizzato sul piano individuale e familiare.

Corinna C. ha 16 anni. Soffre dall'età di otto anni di allucinazioni terrifiche. Ha cominciato a tale età a vedere, in sogno e da sveglia, una signora vestita di bianco piuttosto giovane che le incuteva terrore. L'allucinazione è persistita negli anni, ma è diventata problematica allorchè Corinna per paura ha cominciato a rifiutare di stare in casa da sola. La madre, costretta a lavorare da una situazione economica precaria, si è dovuta adattare. Cionostante, gli incubi, diurni e notturni, si sono incrementati e complicati. C. ha cominciato a sentire delle voci minacciose e a vedere dei fantasmi: sono i morti che vengono a prenderla per portarla con loro. Talvolta evita di dormire per la paura. Ma la vigilanza non estingue le allucinazioni. Si rifugia estenuata nel letto dei genitori e si aggrappa alla madre.

E' stata sottoposta fin da bambina a esami e tests psicodiagnostici scrupolosi in un centro di neuropsichiatria infantile, ove si è tentata una terapia familiare. L'esito è stato inconcludente tranne che sotto il profilo diagnostico: dopo non pochi ripensamenti, è stato escluso un processo schizofrenico. Le cartelle cliniche ambulatoriali sono ricche di notazioni e notevolmente accurate. E' riportato in esse con chiarezza che i disturbi sono cominciati dopo che la famiglia di C. si è trasferita nella casa dei nonni materni, in seguito ad un ictus _ che _ha resa la nonna incapace di accudire se stessa e la casa. Si è trattato di una necessità, dice la madre, che ha creato non pochi problemi. Il nonno, di origine meridionale, ha una mentalità patriarcale e abitudini di vita piuttosto rigide: quando dorme il pomeriggio non vuole sentire rumori, lo stereo lo disturba, la televisione deve essere sintonizzata sul canale che lui preferisce e spenta quando va a letto. Nonostante si sia trasferita per dare aiuto, la famiglia di C. si è ritrovata nel ruolo subordinato di ospite. C., secondo la madre, non si è mai adattata. Ancora oggi, alterca con il nonno, si ribella alle sue prepotenze. Quando, rimbrottata dalla madre o dal padre, deve cedere, appare infuriata e tale rimane per molte ore. Che pensa quando è infuriata? Di andarsene, ma non è possibile. E non c'è un'altra soluzione? I nonni sono anziani: se morissero, il problema sarebbe risolto. E’ un pensiero fisso. Soluzione precaria, dato che i morti evidentemente non muoiono mai del tutto e diventano vendicativi.

Ma la signora bianca che c'entra coi morti? C. non lo sa: non l'ha mai vista in faccia. L'età, la sagoma comunque - lo ammette esitando - sono quelle della madre. Ce l'ha anche con lei? Sì, glielo ha detto tante volte di odiarla a morte, salvo poi pentirsi perchè le vuole bene. E perchè la odia a morte? Perchè è stata lei a decidere il trasferimento. Neppure il marito era d'accordo. La madre è disperata: intuiva, ricordando gli scontri avuti col padre da ragazza, che si sarebbe cacciata nei guai, ma come avrebbe potuto abbandonare a se stessi due poveri vecchi? Riguardo al padre poi, riconosce che è autoritario ma, con la maturità, è giunta a capirlo. E’ stato allevato in ambiente contadino con la frusta ma è rimasto convinto che quell’educazione gli ha fatto bene rendendolo rispettoso dell’autorità e delle leggi, ha dato del voi ai genitori sino alla fine. Tutto ciò C. lo ignorava, e venendolo a sapere commenta:poveraccio.

Affiorano altri problemi. C. sta male solo in casa, ma, da qualche tempo, essendo sempre arrabbiata, ha rilevanti difficoltà di relazione extrafamiliare. Basta un nonnulla, una parola storta di un insegnante o di un'amica e lei reagisce o troncando il rapporto o, se questo non è possibile, con una fantasia di eliminazione. Perchè è così rigida e implacabile? Perchè non sopporta le cose storte. Ha paura - questa è la verità - di diventare come la madre che essa considera una persona debole che si fa mettere sotto da tutti. Anche dai vicini. La madre ha allevato a pagamento il bambino della vicina, la quale, adducendo come motivo delle difficoltà economiche, lo ha affidato alla figlia di dodici anni. Essa e il marito stanno via tutto il giorno per lavoro. Il bambino bussa quotidianamente alla porta, e Corinna è infuriata con la sorella che, a suo dire, lo scarica per vedere il televisore. La odia a morte, e accusa la madre di farsi sfruttare. Poi prende atto che la ragazza, sola tutto il giorno col fratellino e spaventata dalla responsabilità che le è stata addossata e che per giunta deve accudire la casa, vive una realtà terribile. Riesce a mettersi nei suoi panni e scoppia a piangere a dirotto. La corazza dell’insensibilità è definitivamente lacerata. Nel giro di alcuni mesi gli incubi e le visioni svanicono.

La flessibilità della tecnica dialettica consente anche, quando si dà la necessità, di cambiare set e procedura nel corso del trattamento. Capita talvolta che una terapia individuale si allarghi, previo il consenso del soggetto, ai familiari o al partner, come pure che essa si restringa, dopo un certo periodo, ad un soggetto che riconosce la prevalenza dei suoi problemi personali.

Maria C. chiede aiuto perchè non ce la fa più ad andare avanti, è depressa e ha paura di attentare alla sua vita. Da qualche anno il figlio, che sino allora aveva mantenuto con lei un rapporto privilegiato, si è alleato con il padre. Entrambi l'hanno sottoposta ad un lavaggio del cervello incentrato sulla sua mediocrità e sulla debolezza di nervi. P., pur reagendo periodicamente con delle crisi isteriche che confermano quei giudizi, ha finito col farli propri. Si sente finita, incapace e senza aspettative. Perchè tanta crudeltà da parte dei suoi? Quanto al figlio, è chiaro che sta attraversando con ritardo una crisi adolescenziale. E' stato assoggetto alla madre per anni, e si è liberato della soggezione assumendo un atteggiamento duro e implacabile. Gli passerà. Ma quanto al marito? E' sempre stato così: maschilista, prepotente, sprezzante. Davanti agli amici, spesso le dà (per scherzo, dice) della cretina. Si dichiara apertamente fascista. Non è scritto però da nessuna parte che un fascista debba maltrattare la moglie. Pure lo fa, e l'ha portata sul ciglio della disperazione. Ma perchè? E perchè poi, se la disprezza, quando rientra in casa senza trovarla (casomai è andata a far la spesa), fa il diavolo a quattro? Mettendo da parte l'ipotesi della crudeltà mentale, ne rimane solo un'altra. I maschilisti sono di solito i più dipendenti dalla donna: alcuni, per celare la loro dipendenza, la cambiano di continuo, altri si accontentano di una sola, ma, per essere sicuri di non perderla, la invalidano. Basta poco a verificare l'ipotesi. Realizzando un vecchio sogno, P. si iscrive all'Università popolare. Il marito, per via anche dell'ideologia, fa fuoco e fiamme, minaccia sfracelli. Ma è chiaro che non può realizzare le minacce. P. prende coraggio, e, come capita agli esseri che si affrancano da una lunga soggezione, ne prende fin troppo. Esce spesso di casa, e comincia a rifiutare i rapporti sessuali che ha sempre subito. Per qualche tempo, teme di essere cacciata di casa. Poi si accorge che il marito ha calato le penne ed è avvilito. S'infuria contro la terapia che sta rovinando la famiglia, poi chiede di partecipare agli incontri. Cerca di giustificare i suoi comportamenti in rapporto agli atteggiamenti vagamente femministi della moglie. Deve poi ammettere che, per conservatorismo, si è attenuto agli insegnamenti del padre che schiaffeggiava spesso la moglie e gli ha insegnato che le donne, per tenerle sottomesse, bisogna trattarle col polso fermo.

Carlo S., di 22 anni, che periodicamente sfascia casa e aggredisce i parenti, non accetta di avere bisogno di cure psichiatriche, lui che è stato rovinato dalla famiglia. Obbliga i genitori e il fratello a partecipare agli incontri e li sottopone ad un fuoco di fila di accuse implacabili. Non sono infondate, ma non ce n'è una che giustifichi una rabbia così cieca. Odiare a morte il padre e la madre - gli si dice - non è un reato, nonostante urti contro un comandamento. Occorre però che l'odio sia giustificato. Deve tirare fuori il rospo, se c'è. Alla lunga, M. crolla. Chiede di parlare da solo. E' dall'età di diciotto anni che ogni giorno ha una paura pazzesca di morire, e non la sopporta, perchè si sente debole come una femminuccia. I suoi li odia perchè la debolezza di carattere gliela legge negli occhi, e gliel'hanno inculcata coi geni. M. voleva vivere alla grande, da spregiudicato, e invece... Invece è bastato che una volta, a diciott'anni, ha aspirato uno spinello, e il cuore ha cominciato a dar fuori da matto, la vista gli si è annebbiata, e ha conosciuto la paura che non lo ha abbandonato più. Insomma soffre di attacchi di panico e se ne vergogna al punto di avere assunto il ruolo del terrorista domestico. Capisce che deve vedersela da solo.

E’ ovvio che la valutazione della situazione non avviene con la rapidità nè con l'intensità comunicativa riportata. Ma il metodo dialettico, nella fase preliminare, più o meno è caratterizzato dall'essere diretto al cuore del problema. Un luogo comune, ricorrente particolarmente nell'ambito psicoanalitico, sostiene che i soggetti affetti da disagio psichico sono esseri estremamente vulnerabili, nei cui confronti occorre procedere con una straordinaria prudenza. Nell'esperienza dialettica, tale vulnerabilità appare sempre riconducibile alla paura di danneggiare gli altri o di esserne danneggiati, vale a dire a un vissuto di reciproca ostilità tra il soggetto e il mondo nel quale si esprime la scissione e l'alienazione dei bisogni fondamentali. Più rapidamente il paziente è messo in grado di prendere coscienza di questo problema di base e di capirne il senso, meglio è.

Valutata la situazione e definito il set, che il più spesso è individuale, si tratta di lavorare sul problema individuato. Il lavoro terapeutico, di cui si parlerà diffusamente nei capitoli successivi, non comporta regole particolari. Il materiale è rappresentato da tutto ciò che fa parte dell'esperienza soggettiva: vissuti, interazioni, eventi quotidiani, ricordi, sogni, riflessioni, letture, ecc. La strutturazione profonda della personalità, tanto più se è in gioco un conflitto psicopatologico, è tale che da dovunque si muova alla fine ci si riconduce al conflitto. Di questo assunto si daranno prove in un capitolo successivo. Qui sembra piuttosto opportuno soffermarsi su due aspetti del lavoro dialettico che lo differenziano rispetto alle altre tecniche.

Il primo riguarda il livello culturale dei pazienti. Una lunga tradizione, esplicitata dalla psicoanalisi ma recepita implicitamente anche dalle altre tecniche psicoterapeutiche, sostiene che, in difetto di un'attrezzatura culturale adeguata, è pressochè impossibile portare avanti una psicoterapia. E' difficile negare che questa affermazione contenga un grado di verità. Ma non tutta la verità. Più che la cultura in senso proprio, ciò che sembra fondamentale per l'esercizio dialettico è una funzione che non sapremmo definire altrimenti che come apertura emozionale alla verità, vale a dire come capacità di appropriarsene una volta che essa sia stata intuita. Ora, nell'esperienza dialettica, questa funzione sembra interclassista. Si sarebbe anzi portati a pensare che non di rado essa sia più rappresentata in persone semplici che non in persone dotate di cultura.

Il secondo aspetto, complementare al primo, concerne gli strumenti interpretativi utilizzati nel corso della terapia dialettica, che fanno riferimento, a seconda delle circostanze, alla biologia, alla medicina, alla psicologia dinamica, alla psicologia sociale, alla sociologia, alla storia sociale, all’antropologia culturale, alla semiotica, ecc. L'estensione dei codici interpretativi adottati in sede di terapia dialettica, che trascende di gran lunga il territorio della psicologia dinamica, impone di far rientrare dalla porta ciò che è stato cacciato dalla finestra: il momento dell'apprendimento. E' noto che questo aspetto, sprezzantemente rifiutato dalla psicoanalisi come pedagogico, è inviso a tutte le tecniche psicoterapeutiche. Ma, dal punto di vista dialettico, esso è essenziale. Un solo esempio può bastare. Rosaria B. ha bisogno di capire che le esigenze individuali di libertà possono essere sacrificate solo fino ad un limite al di là del quale la frustrazione, anche non recepita, promuove una rivendicazione inconscia che si rivolge contro tutto ciò che l’ha prodotta. Ma come è possibile che essa si affranchi dall'idea che qualcosa nella sua mente non va se continua a far riferimento alla diade madre-bambino come a un fatto di natura e non può tener conto dello sfondo sociale su cui si realizza quel rapporto? E che significa questo se non metterla al corrente che le trasformazioni sociali avvenute negli ultimi decenni, dando luogo ad una nuclearizzazione sempre più marcata della famiglia, hanno azzerato quello sfondo, avviando una sperimentazione sociale a vicolo cieco che isola spesso la diade madre-bambino in una solitudine intollerabile, spesso per entrambi, e micidiale talora per l'equilibrio psichico materno? Il fatto che gli uomini vivono nel proprio tempo e assumano la struttura sociale di cui fanno parte e i codici normativi che la sottendono come naturali e universali impegna la terapia dialettica a restituire spesso al disagio il suo significato implicito di contestazione e ribellione rispetto all'ordine di cose esistente. Occorre tener conto, ovviamente, oltre che dell'inganno sociologico normativo, della connivenza soggettiva. Rosaria pretende da sè la perfezione nel ruolo di madre, e ciò la destina alla catastrofe. Non può peraltro accettare i suoi limiti, poichè ciò la farebbe sentire handicappata rispetto alla madre che di figli ne ha allevati quattro da sola. Da sola, ma nel contesto di un paese meridionale, di una comunità in qualche misura sempre disponibile.

Un ulteriore strumento metodologico adottato nel corso della terapia dialettica, la cui validità si è rivelata sempre maggiore negli anni, è la stesura periodica di relazioni scritte sull'esperienza in corso che vengono consegnate al paziente. Il carattere innovativo di tale strumento richiede qualche riflessione. Si rimane intanto sconcertati dal dover definire innovativa una pratica che dovrebbe avere il carattere dell'ovvietà deontologica e scientifica. I motivi per cui tale pratica non è, a nostra conoscenza, adottata sono vari. Per gli psicoanalisti, al di là del processo conoscitivo, ciò che accade in terapia e la caratterizza concerne processi emozionali più che logici e pertanto è ineffabile. Per gli altri psicoterapeuti, non c'è alcun bisogno di oggettivare un'esperienza che vede il paziente partecipe e testimone. E' agevole opporre a queste giustificazioni dati tratti dall'esperienza. Si danno pazienti, e sono la maggioranza, che portano avanti talora per anni esperienze terapeutiche psicanalitiche o di altro genere e che, al di là del vantaggio o dell'inefficacia del trattamento, non sanno dire quasi nulla di quello che è avvenuto. Se questo non sorprende per le tecniche relazionali e comportamentiste che si prefiggono l'obbiettivo univoco di indurre un cambiamento prescrivendo delle strategie comportamentali, sorprende per tutte le altre che in fondo procedono sulla base di ipotesi interpretative. C'è da pensare o che queste ipotesi non siano fornite in termini chiari o che i pazienti non riescano a distinguerle sullo sfondo del processo comunicativo. Al di là del fatto che questa confusione dovrebbe far riflettere i tecnici, si pone il problema, che trascende le esperienze dei pazienti, di valutare oggettivamente le metodologie e gli esiti dei trattamenti. Non c'è chi non capisca che questo aspetto, ai fini di una riflessione scientifica sui diversi paradigmi terapeutici, è di un'importanza estrema. La documentazione scritta potrebbe fornire una messe di dati di estrema importanza. Si tratterebbe di utilizzarla nel rispetto della privacy dei pazienti. Se si volesse, il problema potrebbe essere sormontato.

L'uso delle relazioni scritte è nato comunque, nel corso dell'esperienza dialettica, in rapporto a esigenze (più o meno consapevoli) dei pazienti. Periodicamente, e soprattutto in alcuni momenti, allorchè si focalizza l'attenzione su alcuni aspetti strutturali dell'esperienza soggettiva, il vissuto di confusione è costante anche indipendentemente dalle resistenze. Il problema, di ordine culturale, è che la logica adottata comunemente nella nostra società è lineare e non dialettica. Le interpretazioni terapeutiche raggiungono il massimo di densità cognitiva e emozionale quando esse riescono a correlare aspetti soggettivi apparentemente del tutto scissi, e che invece sono espressivi delle polarità in conflitto. Un esempio generico riguarda le esperienze caratterizzate dall'alternarsi di fasi di malessere più o meno marcato, il cui approfondirsi evoca costantemente vissuti catastrofici, e fasi di relativo benessere che sopravvengono regolarmente quando il soggetto sente di aver toccato il fondo. Per quanto questa alternanza, che si perpetua talora per anni, dovrebbe suggerire al paziente che si tratta di due fasi correlate che si autoalimentano, e che quindi la paura catastrofica non ha fondamento reale, tale consapevolezza spontaneamente non sopravviene mai. Tanto meno ovviamente i soggetti sono in grado di leggere nel malessere l'espressione di un bisogno inconscio di soffrire programmato in maniera tale da mantenere un regime soggettivo di mortificazione. L'interpretazione dialettica verte sul mettere in luce tale bisogno e la connivenza inconsapevole del soggetto con i sensi di colpa che lo sottendono. Tale connivenza viene meno repentinamente allorchè il soggetto sente di aver sofferto abbastanza, e giunge a vivere la sofferenza come ingiusta. La rivendicazione di una qualche felicità determina il viraggio di fase, che può venire solo dopo che il soggetto ha pagato e può mantenersi solo fino a quando la connivenza con i sensi di colpa non si riabilita. Mettere sulla carta questa dinamica e illustrarne il significato, riconducibile ad una valutazione inconscia paradossale dei debiti e dei crediti soggettivi, aiuta il paziente a far costante riferimento alla sua circolarità e quindi ad impedire che, nelle fasi di malessere, si abbandoni a previsioni catastrofiche.

Le relazioni scritte servono a oggettivare le interpretazioni dialettiche, riconducendole a ciò che si è capito dell'esperienza soggettiva, interattiva e sociale. Esse servono a dare la prova ai pazienti di un processo che ha una sua logica, a indurli a riflettere in maniera da reperire nella propria esperienza, remota e attuale, prove a favore o contro le interpretazioni. Si pongono inoltre come documenti sui quali si può tornare a distanza di tempo per fare un bilancio del cammino percorso. L’utilità di questa metodologia può essere comprovata da un esempio. Esso concerne una ragazza di ventisei anni, Michela A., la cui storia clinica si avvia poco prima di pervenire alla laurea sotto forma di un delirio persecutorio incentrato su accuse infamanti di colpa che fanno riferimento ad una vita disonorevole e disordinata. Nel giro di sei mesi, con un intervento farmacologico minimale, la crisi si risolve. Il lavoro terapeutico ha messo a fuoco le problematiche di fondo, ma M. non si dà il tempo di elaborarle. Rilancia, nel pieno dell’estate, la sua sfida alla normalità borghese. Sopravviene un altro delirio persecutorio che la rinchiude praticamente in casa per oltre un anno. La relazione che segue è stata scritta nella fase di risoluzione di questa seconda crisi.

Cara Michela,

la ripresa sta avvenendo molto lentamente rispetto alle previsioni e alle aspettative. E’ facile ricondurre questa lentezza alla paura della libertà che la attanaglia a livello incoscio e che è sopravvenuta dopo che lei ha intuito che è stato l’esercizio sconsiderato della libertà a produrre le crisi che ha vissuto sinora. Il problema che lei dovrà affrontare, via via che quella paura si allenterà, consisterà nell’acquisire una capacità di autoregolazione che le consenta di vivere la libertà come una capacità di scelta tra alternative di vita che non necessariamente postula la sfida del giudizio sociale, la trasgressione, l’anarchia. Per favorire tale acquisizione, indispensabile al fine di uscire dalla spirale dei conflitti, è opportuno mettere a fuoco il lavoro fatto in questo lungo periodo.

Per quanto concerne la sua storia interiore, benchè molti aspetti della sua esperienza infantile rimangano oscuri, abbiamo capito che si è realizzato ad un certo punto, intorno ai sedici-diciassette anni, un passaggio critico. Fino a quell’età, nonostante alcune turbolenze comportamentali, la sua vita è stata sostanzialmente regolata dalla fede e dalla pratica religiosa, dall’amore e dal timor di Dio. So che, come accade a molte persone che crescono governate da valori religiosi e poi perdono la fede, il ricordo di quegli anni le riesce spiacevole come se si fosse trattato di un periodo in cui è vissuta con gli occhi chiusi, abbagliata da verità risultate poi ai suoi occhi inconsistenti, ingannata e alienata. In realtà in quegli anni non è accaduto nulla di strano. Veniamo al mondo predisposti ad acquisire i valori trasmessi dall’ambiente familiare e culturale - dal linguaggio alla moralità -, viviamo credendo in essi e praticandoli finchè, con l’adolescenza, acquisiamo un certo grado di libertà che ci permette (particolarmente per quanto riguarda i valori morali: il bene, il male, il giusto, l’ingiusto, ecc.), di criticarli, di modificarli, di adattarli a noi.

La sua crisi adolescenziale, forse perchè giunta tardivamente, è stata drammatica a livello interiore. I vecchi valori sono stati d’emblée rifiutati, abbandonati come un abito stretto e soffocante, e sostituiti da valori radicalmente antitetici: il relativismo (per cui è giusto che ciascuno faccia ciò che crede), l’anticonformismo, il culto della spontaneità e dell’istintività, il femminismo, la trasgressione. Il cambiamento è avvenuto in profondità e per molti anni è covato esprimendosi solo in modesta misura a livello comportamentale. C’è da pensare che il suo carattere radicale le abbia fatto anche allora molta paura se ha tentato di difendersene portando avanti per quattro anni un rapporto sentimentale che lei stessa ha definito ultratradizionale.

L’ideologia libertaristica ha cominciato a funzionare quando lei è andata a studiare lontano da casa e si è dispiegata lentamente nel corso degli anni senza produrre apparentemente problemi. Poi è incappata in un incidente (l’interruzione della gravidanza) che ha immediatamente riattivato il conflitto tra vecchi e nuovi valori scatenando un delirio persecutorio equivalente ad un delirio di colpa. Si è fatta per mesi inconsciamente rimproverare e accusare da tutto il mondo come se vivesse in una società integralista e antiabortista.

Nei primi mesi di analisi, indubbiamente molto difficili, le feci presente che la sua condizione presentava aspetti pienamente comprensibili dal punto di vista psicoanalitico. La psicoanalisi ha scoperto che le influenze culturali originarie, i valori trasmessi dall’ambiente, si radicano profondamente nella soggettività giungendo a strutturare una funzione conscia e inconscia - denominata Super-io - che tenta di mantenerli in vigore richiamando il soggetto, quando egli è recalcitrante o ribelle, a rispettarli con i sensi di colpa e la paura del giudizio sociale. Il Super-io inconscio, espressione della soggezione infantile agli adulti, sopravvive ai cambiamenti che avvengono a livello cosciente. Quando un soggetto muta radicalmente modo di vedere e di agire, quando adotta uno stile di vita antitetico rispetto ai valori acquisiti dall’ambiente originario, anche se egli non se ne rende conto, la vita interiore viene lacerata da un conflitto tra il Super-io, che rimane funzionario dei vecchi valori, e l’Io che rivendica la libertà di vivere secondo i nuovi valori. Non è un conflitto irrimediabile. La libertà umana, sia pure relativa, esiste. Ma arrivare a conseguirla non passa attraverso un colpo di spugna o una rimozione. Occorre un lavoro lento e graduale per estirpare i vecchi valori e sostituirli con dei nuovi, ed è importante che questi siano positivi, realizzino i bisogni personali e non si riducano solo alla negazione dei vecchi.

Purtroppo le cose sono andate come sono andate. Il benessere riacquistato piuttosto rapidamente dopo la prima crisi le ha restituito un senso di padronanza di sè, un senso di onnipotenza che l’ha spinta a rilanciare il gioco della trasgressione, della sfida, dell’anarchia. Ha scelto lo scenario giusto l'estate scorsa per abbandonarsi alla trasgressione: un festival alternativo di musica jazz. Colà ha ripreso a fumare, a bere, a fare l'amore libero, si è addirittura impasticcata per non dormire. Ha fatto ciò che facevano anche gli altri, ma senza tenere conto della sua esperienza soggettiva. Intensamente colpevolizzata, la trasgressione ha riattivato repentinamente i controlli superegoici in virtù di un delirio persecutorio che l’ha fatta regredire in una condizione di penosa dipendenza dalla famiglia e le ha tolto ogni libertà relegandola in casa. La punizione è stata più dura della prima volta e persiste ancora anche se si va lentamente attenuando.

Le allucinazioni si sono diradate via via che lei ha preso atto che le accuse di troia e di puttana, che ha sentito provenire dalla bocca di tutti, sono da ricondurre al moralismo superegoico che non trova riscontro nel mondo così com'è. Bacchettoni ne esistono ancora, ma la nostra società non è integralista. Via via che le allucinazioni si diradano, riconquista la libertà. E' inutile che le dica che ciò la metterà nuovamente alla prova. E' comprensibile che abbia paura: ma si guardi ancora più dal pericolo di non averne affatto. Non può permettersi di fare passi falsi perchè il suo mondo interno è ancora minato dai vecchi valori. Sarà libera quando avrà fatto i conti con essi.

Questa metodologia può facilmente evocare, soprattutto da parte degli psicoanalisti, la critica incentrata sul rischio della razionalizzazione. Ad essa occorre rispondere che se un'interpretazione è vera tocca sempre in profondità, ha una risonanza emozionale, ed è questa a permetterne l'appropriazione. Non si vede perchè essa debba essere allusiva, implicita, fornita in un linguaggio esoterico e non chiara e dialettica.

Non si può tra l’altro ignorare che alcuni pazienti portano in terapia degli scritti, che altri, affrancati dal lettino, prendono appunti, che altri ancora chiedono dei consigli su testi da leggere. Ascrivere questo bisogno di capire e, in senso più lato, di sapere nell'ambito della razionalizzazione è un pregiudizio, com'è un'ingiustizia il fatto che agli sforzi dei pazienti corrispondano, da parte dei terapeuti, solo risposte orali. Si obietta, da parte degli psicoanalisti, che l'analisi deve ricostruire le condizioni comuni di interazione che governano i rapporti interpersonali, soprattutto familiari. Ma, preso atto che queste condizioni, che spesso implicano più di quanto esplichino, sono fonte di equivoci interpretativi di ogni genere, nulla vieta di pensare che i rapporti umani significativi migliorerebbero di gran lunga se le persone, oltre a comunicare empaticamente e oralmente, usassero la scrittura.

Last but not least, si può aggiungere che l'arricchimento della terapia in virtù di commenti scritti può avvalersi oggi di un altro formidabile strumento: la posta elettronica. Essa vale a mantenere un filo comunicativo tra terapeuta e paziente costantemente aperto e fruibile, può rimediare alle pause dovute alle vacanze, ecc.


Cap. IV STRUTTURE E CONFIGURAZIONI PSICOPATOLOGICHE

Il primo momento della terapia dialettica è dunque una valutazione della situazione mirata ad una diagnosi psicodinamica, vale a dire all'individuazione del conflitto strutturale che sottende il disagio psichico, a una delineazione delle sue possibili origini e a una interpretazione sommaria delle modalità fenomenologiche e dinamiche in cui si esprime. Le strutture psicopatologiche di cui si è parlato ne La politica del Super-io sono un riferimento essenziale a tal fine. Ma non si può negare che esse, nel complesso, con le loro varianti e i loro gradienti, rimangono delle costruzioni teoriche debolmente correlate alla fenomenologia clinica. E' possibile definire delle categorie psicodinamiche diagnostiche ispirate alla teoria struttural-dialettica più immediatamente corrispondenti alla realtà clinica?

L'individuazione, nella Psicopatologia strutturale e dialettica di due varianti della funzione superegoica (repressiva e riparativa) e di due varianti della funzione oppositiva (opposizionistica e sfidante) consente di rappresentare, sulla base di combinazioni dinamiche tra tali varianti, una tavola psicopatologica più corrispondente alla realtà clinica. Il significato di tale tavola è difficile da minimizzare. Essa pone in luce che, in conseguenza del conflitto strutturale che lo sottende, l'universo psicopatologico è totalmente riconducibile all'equilibrio dinamico tra istanze inerenti l'appartenenza sociale, rappresentate interiormente dalla funzione superegoica, e istanze vincolate ai bisogni individuali, rappresentate dalla funzione oppositiva e dagli ideali dell'io antitetici. Tale equilibrio riconosce un numero indefinito di combinazioni. Ma è fuor di dubbio che, in questo continuum, è agevole isolare quattro combinazioni di base, che godono di una certa stabilità strutturale e pertanto possono essere individuate sul piano oggettivo dei comportamenti. Proponiamo di definire queste combinazioni come configurazioni psicopatologiche, dando a questa terminologia un significato specifico. Le configurazioni psicopatologiche sono, nè più nè meno, forme di esperienza soggettiva, agevolmente ricavabili dai vissuti, dai sintomi e dai comportamenti, che già di per sè comportano il riferimento ad una dinamica e ad un equilibrio strutturale inapparenti. Esse insomma permettono di cogliere in superficie gli effetti di un mondo interno talora del tutto precluso alla coscienza del soggetto. Tenteremo ora di descriverle e di esemplificarle.

La configurazione handicappante è caratterizzata da sintomi deputati a limitare, più o meno gravemente, la libertà personale. Tale limitazione può concernere, sul piano fenomenico, la libertà fisica di muoversi nello spazio, come accade negli attacchi di panico; la libertà emozionale, come accade in alcune sindromi ossessive e nelle depressioni; e la libertà interiore, la privacy psicologica come accade nei deliri persecutori. Il soggetto tende a subire passivamente i sintomi che attribuisce ad una malattia, nei primi due casi, o ad un potere che lo trascende e lo manipola (nemici, esseri dotati di poteri straordinari, Dio).

Franco P. è il terzogenito di una famiglia meridionale trasferitasi a Roma negli anni '60 che, in virtù dell'intraprendenza commerciale paterna, è andata incontro ad una rapida ascesa economica raggiungendo uno status ragguardevole. Pur inurbata da tempo, la famiglia ha mantenuto intatta la sua tradizione culturale incentrata sul patriarcato, sulla gerarchia dei membri, e sull'etica del lavoro finalizzato al bene comune.

Dopo due fratelli maschi, i genitori aspettano una femmina. Delusa nelle sue aspettative, la madre ha tentato di illudersi trattando F. nei primi anni come una bambina. Iperprotetto, F. ha sperimentato una socializzazione scolare all'insegna della timidezza, del pianto facile, della paura fisica. Si è sentito diverso dagli altri e inferiore sino all'età di dodici anni, accumulando una serie di frustrazioni piuttosto serie, allorchè - come dice - si è risvegliato, diventando irrequieto, discolo, attaccabrighe. Da questo momento si avvia una doppia vita che segnerà l'esperienza di F. Persistendo la soggezione nei confronti del padre, in famiglia il suo comportamento è irreprensibile; fuori della famiglia, egli tende a comportarsi come un ragazzaccio.

Il rendimento scolastico è mediocre. F. viene iscritto in un istituto privato di religiosi che ospita un notevole numero di handicappati. A contatto con questi, egli comincia a sentirsi un razzista. Dimentico della sua esperienza infantile, ne disprezza la debolezza e non manca occasione di sottoporli a scherzi alquanto crudeli.

La doppia vita è in realtà una tripla vita. All'indurimento caratteriale, corroborato da un orientamento ideologico di destra, e ai disordini comportamentali (F. ha preso a fumare e a bere birra), fanno da contrappeso dei rituali, dapprima vissuti come tics o bizzarrie che, con il loro progressivo incrementarsi, cominciano a infastidirlo non poco.

All'epoca del liceo, l'irrequietezza di F., venendo ad urtare contro le regole piuttosto rigide imposte dal padre, che gli impone nel tempo libero di collaborare all'azienda familiare e di rientrare, anche il sabato sera, entro la mezzanotte, si incrementa. Intimamente, egli continua ad avvertire paura quando affronta situazioni nuove e poco prevedibili. Ma è proprio ciò che non sopporta, e si 'cura' drasticamente: frequenta allo stadio gli ultras, trascorre ogni mese un week-end a Rimini, e il sabato sera a Roma si concede, con gli amici, degli scherzi che lo portano spesso a sfiorare la rissa. Questa escalation è contrassegnata dall'aumento esponenziale dei rituali, che egli riesce abilmente a mascherare a livello sociale. Comincia ad avvertire una vaga paura di poter essere da essi bloccato, e reagisce lanciando apertamente la sua sfida al padre. Rifiuta di lavorare, rivendica il suo diritto (ha ormai vent'anni) di star fuori la notte, vagheggia di andarsene a vivere da solo. Ha strane fantasie parassitarie - di far male, di farsi del male - che i rituali servono a scongiurare.

L'insofferenza nei confronti dei genitori - della madre per via del suo atteggiamento iperprotettivo, e del padre per via della sua severità - si traduce, nell'anima di F., in un odio cieco che lo porta a desiderarne la morte. Si sente un verme, ma l'odio è più forte della ragionevolezza, della gratitudine e del rispetto.

Nel corso di un week-end a Rimini, dopo una notte brava nel corso della quale ha assistito ad una maxi-rissa, avverte l'oscuro desiderio di saltare il fosso e di fare qualche 'stronzata': ubriacarsi, drogarsi, andare a puttane senza precauzioni. E' la sfida finale alla sua paurosità, che non può realizzarsi per via di un terrificante attacco di panico che lo riconduce a casa e lo incarcera per alcuni mesi rendendolo completamente dipendente dai suoi.

Francesco S. è il quarto ed ultimo figlio di una famiglia sarda immigrata a Roma negli anni ‘60. Quando nasce, la madre soffre già da alcuni anni di una psicosi delirante in via di cronicizzazione. F. viene allevato dalla zia e dalla sorella. Di carattere buono e docile, non dà mai problemi. Frequenta un asilo di suore e, poi, le scuole statali fino alla terza media, senza manifestare interesse alcuno per lo studio. Dopo l’abbandono della scuola, si lascia un po’ andare. Dorme di mattina fino a tardi, e trascorre il pomeriggio con gli amici del quartiere. Dopo circa un anno, il padre, che gestisce una stazione di servizio, gli impone di lavorare con lui per guadagnarsi da vivere. F. accetta per dovere, ma di malavoglia. Per via del suo atteggiamento di 'lavativo', affiora qualche contrasto con il padre ma di lieve entità.

Intorno ai 16 anni, F. comincia a frequentare un giro di amici accomunati da un orientamento ideologico di destra. Non ha interesse per la politica, ma è suggestionato dai discorsi degli altri sul mito della forza e sulla teoria dell’élite. Lentamente, e senza rotture, il suo stile di vita cambia. F. comincia a sentirsi radicalmente diverso rispetto al contesto familiare e al livello di vita piccolo-borghese faticosamente raggiunto. Nel suo intimo, diventa sprezzante nei confronti di tutti coloro che vivono un’esistenza routinaria, grigia e senza orizzonti. Continua a lavorare di giorno alla stazione di servizio, ma sente questa mascherata come un necessario compromesso. Nutre aspettative di un grande cambiamento fondate non su di un progetto personale, bensì sullo stato d’animo del gruppo che frequenta, vagamente esaltato dal rilancio della destra in Germania. Quando, a 17 anni, si rade a zero i capelli, esibendo la sua appartenenza al gruppo, lo scontro con il padre è inevitabile. Per via della docilità di carattere di entrambi, lo scontro non è violento.

Il padre, la cui cultura è rimasta incentrata sulla rispettabilità e sull’onore, lo richiama ad una condotta di vita più responsabile, facendogli presente che già da qualche tempo dei suoi conoscenti lo hanno messo sull’avviso riguardo alle compagnie frequentate dal figlio, e gli hanno consigliato di intervenire per scongiurare che egli, influenzato, possa compromettersi. C’è, in effetti, nel quartiere, un’atmosfera che sembra gravitare verso scontri tra gruppi di destra e di sinistra. F., in nome del rispetto dei grandi in cui è stato educato, lascia parlare il padre, ma, nel suo intimo, sente di essere ormai superiore a lui nel capire la vita, e di dover andare avanti per la via intrapresa. Se ne assume la piena responsabilità: ma è cosciente del fatto che potrà disporne solo dopo il compimento della maggiore età. Li compie un mese prima delle votazioni politiche, e si sente affrancato da un peso, vagamente esaltato senza ragione apparente. Vota MSI d’accordo con il gruppo cui appartiene, che si augura di vedere il partito virare più decisamente a destra per effetto della spinta giovanile. Per festeggiare il risultato elettorale, si concede una notte brava con gli amici nel corso della quale fuma qualche spinello.

Dopo alcune settimane, comincia ad avvertire delle voci. Sono dapprima voci un po’ confuse di gente che incontra fuori casa che commentano i suoi comportamenti. Nel giro di qualche mese, le voci diventano nitide: le avverte sia fuori che in casa, benché un po’ più distanti. I commenti si traducono, poco alla volta, in suggerimenti, consigli e, infine, in comandi.

F. non riesce a spiegarsi ciò che sta accadendo, se non nei termini di una presa in giro. Ma gli riesce chiaro che, perseguitandolo ovunque, le persone tentano di trasformarlo in un altro, in un automa che dovrebbe vivere eseguendo delle istruzioni. Si ribella, ma l’intensificarsi delle voci in rapporto alle sue ribellioni non gli concede scampo: deve piegarsi, anche se animato da una esasperazione rabbiosa crescente. Ma quale intento, infine, perseguono le voci ? Non è immediatamente chiaro, poiché i comandi concernono pressoché tutti i comportamenti della vita quotidiana. F. si rende conto addirittura che i suoi sogni sono programmati. E’ evidente, però, che i comandi concernono in particolare i comportamenti differenziati rispetto alla tradizione culturale cui appartiene e mirano a farlo tornare a vivere nel ruolo di bravo ragazzo, rispettoso e mediocre che egli ha incarnato fino a 16 anni.

Diventare un altro significa ridiventare quello che è stato: un figlio perfetto, del tutto rispondente alle aspettative paterne. F. si fa ricrescere i capelli, mantenendoli comunque corti, e rinuncia ad alcuni capi di abbigliamento e ad alcune ingenue pose da superuomo. Abbandona la palestra ove aveva cominciato a fare del culturismo. Ad ognuno di questi compromessi, corrisponde un allentamento della persecuzione che, però, dopo qualche tempo si realizza con maggiore intensità. Un giorno, per strada, F. perde il controllo e attacca fisicamente un uomo che lo sta tormentando. Per fortuna, l’episodio non ha conseguenze di rilievo, tranne per il fatto che l’uomo gli dà del matto.

Per non correre ulteriori rischi, F. si chiude in casa. La carcerazione domestica, che allenta ma non risolve la persecuzione, produce un’esasperazione totale, e l’affiorare di vaghi propositi di farla finita.

F. accetta malvolentieri di farsi curare. Il suo livello di coscienza è totalmente ingombro dalla rabbia di essere perennemente disturbato dagli altri e impedito di vivere liberamente. D'accordo, la gente ce l'ha con lui. Ma perchè? Una spiegazione F. la dà: è tutta gente del quartiere che è stata messa su dal padre per controllarlo e farlo rigare dritto. La prova è che sanno tutto di lui, e gli impongono di vivere come il padre desidera: per esempio di abbassare lo stereo quando è in casa e quegli riposa. E lui lo fa perchè altrimenti sono guai: le voci rimbombano. Qunado non ordinano poi, accusano. Accuse strampalate: dicono ladro! ladro! e accennano a tre milioni. Ladro poi! Qualche soldo l'ha preso dal portafoglio del padre, ma per necessità. Spilorcio, quello lo mandava in giro sempre senza una lira. Così, dai dodici ai sedici anni, ogni settimana si prendeva la paghetta, qualche decina di migliaia di lire. I conti non li ha fatti mai. Ma a occhio e croce? I conti tornano: tre milioni, poco più poco meno. E la gente come fa a saperlo, se non ne ha parlato mai neppure con gli amici? Fatti loro. F. ci tiene a fare il duro.

Altro di male non ne ha mai fatto. Passi per il ladro, ma che c'entra il traditore e il disonore? Ha fumato qualche spinello, tutto qui. Beh, nell'ambiente circolava droga di ogni genere, ma lui per principio ideologico i drogati li disprezza: tutte ‘zecche’. Fumava poi perchè stava male dentro. Male come? Un'angoscia alla bocca dello stomaco. E in testa? E' chiaro, si sentiva in colpa: ogni volta che rientrava in casa erano storie. Il padre, che pure si alza alle cinque, lo aspettava sveglio, poveraccio. E col fumo, l'angoscia andava via? Si attenuava appena, tant'è che qualche pasticca di ansiolitico l'ha mandata giù. D'accordo, a un certo punto ha pensato anche di farsi di eroina, è stato lì lì per provare. E' accaduto qualche giorno prima che le voci lo mettessero sotto controllo.

E’ di un qualche interesse rilevare che, nel primo caso, la drastica limitazione della libertà ha un significato manifestamente preventivo, nel secondo prevale invece l’aspetto punitivo e redentivo. Per quanto drammatica la sintomatologia handicappante rivela sempre la sua funzionalità equilibrante in rapporto ad un ideale dell’io antitetico che mira a risolvere l’oppressione in cui il soggetto è vissuto e vive in forme estreme, alienate.

Non di rado, la configurazione handicappante non si realizza per effetto di sintomi bensì di un ipercontrollo rigidissimo a cui l’individuo si assoggetta e dietro il quale traspare una smisurata fobia della libertà.

Nella configurazione riparativa prevalgono sintomi che impongono un regime di vita altruistico, sacrificale, mortificante o, al limite, espiatorio. Per quanto oppresso da tale regime, che frustra in maniera più o meno rilevante il bisogno di godersi la vita, il soggetto, pur lamentandosene, è con esso connivente, poichè intuisce oscuramente di dovere pagare delle colpe, come accade in alcune depressioni, o di dovere scongiurare col proprio comportamento che accada del male agli altri.

Non si dà ovviamente una linea di confine netta tra configurazioni riparative e configurazioni handicappanti. La riparazione, di fatto, comporta una limitazione più o meno rilevante della libertà personale. Ma, a differenza di quanto avviene nelle configurazioni handicappanti, tale limitazione viene di solito accettata.

Barbara P. a 26 anni ha un attacco di panico che la costringe a lasciare il lavoro e la reclude in casa. Può uscire solo accompagnata. Nonostante il cambiamento radicale di vita, essa sembra adattarsi alla nuova situazione in maniera sorprendente. Dopo alcune settimane, nel corso delle quali ha avuto bisogno della presenza della madre, riesce a rimanere da sola in casa. E’ tranquilla e si dedica alle faccende domestiche che ha sempre tendenzialmente rifiutato. La rievocazione dell’attacco di panico e la paura persistente di uscire di casa da sola la inducono a minimizzare la perdita quasi totale della libertà. Per fortuna - dice - ha fatto l’abitudine a stare reclusa. Il padre, che è morto da un anno per un tumore, è stato sempre severissimo con lei. Era ossessionato dall’idea che le donne, lasciate libere, tendono inesorabilmente al male. Gelosissimo con la moglie, non lo è stato di meno con la figlia. Quando B. diviene adolescente, tenta ingenuamente di rivendicare le libertà concesse al fratello di due anni maggiore, ma urta contro un netto rifiuto. A 17 anni il padre la trova sotto casa in macchina con un ragazzo. Stanno _ solo parlando, ma il padre, che non le ha dato il permesso di uscire, la tira fuori di forza dalla macchina, la riempie di improperi e le impone per punizione di stare chiusa in casa per tre mesi. La pena è implacabile e ingiusta. B., non potendo fare altro, la subisce ma sviluppa un rancore sordo nei confronti del padre e una sete di vendetta. E’ di buon carattere però. Passata la sfuriata dimentica, comincia a lavorare e si fidanza. Ma non è tranquilla. Ovunque si trovi ha l’impressione di essere osservata e giudicata, e nelle circostanze più varie, in presenza di uomini, avverte un disagio profondo come se stesse facendo qualcosa di male.

Quando il padre ammala e va in ospedale, la vendetta si realizza. Il rapporto con il fidanzato è in crisi: è lui a chiedere di non vedersi per alcuni mesi. B. prende ad uscire ogni sera, va in una discoteca un po’ malfamata, rientra alle tre di notte. Non fa nulla di male se non abbandonarsi a vaghe fantasie di seduzione e di tradimento.

Il padre muore, il rapporto con il fidanzato si ricompone, la vita riprende il suo corso normale. Dopo un anno è in macchina, si sente leggera e spigliata come non mai. Va per lavoro in un ufficio dove c’è un giovane impiegato che l’ha già più volte corteggiata. Per distrazione rischia di investire una donna anziana. Quando entra nell’ufficio e sente che il suo sguardo cerca insistentemente quel giovane ha l’attacco di panico. Si rinnova la clausura nel corso della quale B. si ritrova a pensare che qualcosa del genere, benchè meno intenso, l’ha provato la prima e ultima volta ch’è andata a trovare il padre al cimitero.

Solo di rado però le configurazioni riparative insorgono criticamente, com'è proprio invece di quelle handicappanti. Da un certo periodo in poi della vita, esse fanno corpo col modo di essere proprio di un soggetto: sono impercettibili oggettivamente e tollerate, o addirittura ideologizzate soggettivamente. E' solo l'incremento progressivo della componente riparativa, dovuto alla necessità di tenere sotto controllo le spinte dei bisogni frustrati, che giunge ad un certo punto ad una catastrofe strutturale.

Anna R. ha alle spalle un'esperienza piuttosto triste. Figlia maggiore di una famiglia di modeste condizioni (il padre è un muratore), ha undici anni allorchè la madre ammala di un'epilessia che la rende praticamente quasi invalida. E' lei a doverla sostituire facendosi carico della casa e di sei fratelli. Benchè pesante per le sue spalle, l'investitura di responsabilità la esalta. A. diventa in pochi anni efficientissima e quasi maniacale. Abbandona la scuola dopo la terza media per permettere ai fratelli di andare avanti. Rinuncia alla sua vita per anni, apparentemente serena e gratificata. Nell'intimo non lo è. A volte ha l'impressione di non farcela più, soffre di terribili emicranie, talora giunge ad odiare la vita. Ma si fa forza, assumendo come modello il padre che rientra a casa con la schiena spezzata, è comunista e ce l'ha coi padroni, ma sul lavoro non si risparmia.

A 25 anni, quando tre dei fratelli sono autonomi e in grado di vicariarla, si sposa. E' una liberazione, animata dalla fantasia di un cambiamento radicale di vita. Ma l'aspettativa viene delusa. A. diventa rapidamente preda dell'ossessione dell'ordine e della pulizia, che peggiora con la nascita e la crescita dei figli. Non può concedersi un minuto di tregua tutto il giorno per non incorrere in una crisi di angoscia. Sente una stanchezza mortale, soffre quasi di continuo di emicrania, riposa male la notte, ma non può fermarsi per la paura di rimanere bloccata per sempre. Subentrano infine degli attacchi di panico incentrati sulla paura di impazzire.

Quanto lavora? Paradossalmente, molto di più di quanto lavorava da ragazza per tirare avanti una famiglia di nove persone. Ma è il minimo che può fare perchè vede macchie e sporco dappertutto. E poi, prima era felice. Non s'arrabbiava mai? Solo qualche volta, per via dei rimproveri paterni. Il padre era un perfezionista. Bastava un nonnulla - un po' di sale in più o in meno nella minestra, una piega del calzone domenicale non stirata alla perfezione - e andava su tutte le furie. Col suo carattere era riuscito a fare ammalare la madre. I medici dicevano che era epilettica, e le crisi di fatto le aveva ma sempre e solo quando il marito era in casa, e quando questi si arrabbiava non finivano più. La madre le ha detto qualcosa? Tanti figli non li voleva, dopo il quarto desiderava abortire. Soldi per mantenerli, tra l'altro, non ce n'erano. Insomma si è sacrificata per la madre e il padre nel suo intimo, pur provando talvolta pena per i sacrifici che faceva, lo ha odiato. Deve continuare però a vivere rendendo conto a lui, che è morto da alcuni anni.

Nella configurazione opposizionistica, il comportamento del soggetto appare, in maniera più o meno rilevante, motivato dalla necessità di affermare la libertà personale in contrapposizione alla volontà degli altri, rappresentata dalle loro aspettative o dai doveri sociali e dai valori culturali introiettati. Tale affermazione si realizza in virtù di comportamenti diversi: talora sotto forma di un vissuto di inadeguatezza, spesso associato alla depressione, che porta il soggetto a fare molto meno di quanto potrebbe in rapporto alle sue capacità; talaltra, sotto forma di un incoercibile pigrizia, spesso colpevolizzata, che frustra l'impegno volontaristico del soggetto; talaltra ancora, sotto forma di un vissuto di oppressione claustrofobica che costringe il soggetto a liberarsi dagli impegni, a recusare i doveri sociali e, non di rado, a rifuggire i rapporti affettivi.

Attilio B. è figlio unico di una coppia di genitori sposatisi in età avanzata, entrambi di origini medio-alte borghesi. Viene allevato come erede di tradizioni prestigiose di cui deve essere degno: in pratica, e inconsapevolmente, ingabbiato in un modello che postula un comportamento precocemente perfetto, da bambino bene educato, e un orientamento, incentrato sul primato scolastico, verso una carriera professionale eccellente. Estremamente sensibile e vincolato da un profondo affetto soprattutto alla madre, che si dedica a lui a tempo pieno, A. aderisce a quel modello e ne assimila i valori elitari che condivide. Dall’epoca della scolarizzazione, sente imperioso il dovere di dedicare tutte le sue energie allo studio. Tale dovere è contrastato da un orientamento caratteriale marcatamente incline al gioco e alle fantasticherie. Orientamento che viene colto dalla madre e da A. stesso come un aspetto meramente negativo, come un tratto di pigrizia e di debolezza, come inclinazione al vizio. L’esperienza di A., alimentata dagli insegnamenti materni, è una perpetua lotta contro quell’orientamento, che appare però incoercibile.

Data la sua vivace intelligenza, il primato scolastico è conseguito e mantenuto, ma ad un prezzo emozionale crescente di anno in anno. Conscio delle sue responsabilità e dei suoi privilegi, A., dalle scuole medie in poi, si inchioda letteralmente alla scrivania tutto il pomeriggio e si impone di studiare. Ma è una durassimo lotta contro il vizio che lo induce a sfogliare dei fumetti, a giocare e ad alimentare vaghe fantasie erotiche intensamente colpevolizzate. Quando, verso la fine del liceo, la pigrizia si traduce in una difficoltà grave di concentrazione, A. richiede alla madre di stargli accanto, di sollecitarlo e di controllarlo. Con l’avvio dello studio universitario, venendo meno le vacanze, i problemi peggiorano. A. perde rapidamente terreno e l’ansia di dover recuperare lo intrappola in uno stato d’animo di riparazione permanente. Ma, perché la motivazione riparativa risulti produttiva, consentendogli infine di fare il proprio dovere, A. deve alimentarla commettendo delle colpe: distraendosi, giocando, masturbandosi. E’ l’abiezione della colpa a far scattare, dall’interno, la strategia del bastone, che si traduce in un periodo di studio intensivo e produttivo motivato dalle autoaccuse e dal disprezzo per la propria pigrizia incline al vizio. Il meccanismo funziona, ma comporta due prezzi da pagare: per un verso, un procedere degli studi a rilento (seppure con risultati nel complesso brillanti); per un altro, una polarizzazione emozionale sul problema dello studio che mette in ombra ogni altro aspetto della vita, amicizie, affetti, interessi. Nonché logorante, è un meccanismo frustrante: tant’è che più si accentua lo sforzo di A., più l’opposizionismo si radicalizza, imponendo pause e cadute verso il basso sempre più lunghe e profonde.

A. è totalmente connivente, a livello cosciente, con il sistema di valori introiettato. E’ ideologicamente un conservatore illuminato, che identifica l'aristocrazia nella virtù dell'obbedienza e del sacrificio e vede nella libertà individuale un male assoluto che determina comportamenti egoistici di ogni genere. In conseguenza di questa ideologia, egli giudica la pigrizia che gli impedisce di essere fedele ai valori in cui crede come una zavorra che attesta la persistenza, nel suo essere profondo, di una volgarità che né l’educazione né il suo annoso impegno sono valsi a sconfiggere. Convinzione avvalorata sia dall’impedimento opposto alla zavorra al portare avanti interessi culturali autentici sia dai comportamenti - infantili e/o moralmente trasgressivi - in cui essa si è espressa.

A. insomma insiste, per debito di fedeltà, a tentare di piegare la sua volontà al dovere assoluto che lo ha oppresso dall’età della scolarizzazione. Ma la sua battaglia è già perduta da tempo.

Nella configurazione sfidante il comportamento soggettivo è animato da una motivazione ciecamente libertaristica, che può essere più o meno ideologizzata. Nei casi in cui lo è, l'esperienza del soggetto è totalmente rivolta a lottare contro le regole, le norme e i valori culturali. Nei casi in cui quella motivazione non viene ideologizzata, la spinta libertaristica si realizza per effetto di vissuti e di comportamenti inequivocabilmente anarchici. Tra configurazione opposizionistica e configurazione sfidante non si danno, per ovvie ragioni, confini netti. Ma la differenza a livello comportamentale è inequivocabile: l'opposizione comporta l'astensione da un dovere sociale, la sfida si realizza nella trasgressione.

Caterina V., figlia unica di un ricco imprenditore venuto dal nulla, è destinata a diventare una signorina di buona famiglia. Frequenta istituti privati signorili gestiti da suore, studia lingue e, a casa, vive sotto il rigido controllo della madre che si arroga lei, date le sue origini sociali medio-borghesi, il compito di insegnarle le buone maniere. Manifesta fin da piccola un carattere indocile, tendenzialmente ribelle, incline allo scherzo e alla derisione. Il ménage familiare non è sereno. Il padre, che è intelligente ma tipicamente un parvenu, desidera la perfezione nella conduzione domestica, poichè è ossessionato dall'idea di dover cancellare le tracce delle sue origini misere. La moglie, che lavora come insegnante, non si lascia sottomettere considerandolo un prepotente. Reagisce spesso allettandosi. La freddezza e il disprezzo reciproco impregnano il clima familiare.

L’esperienza psichiatrica di C. si avvia precocemente, a 14 anni, apparentemente sotto forma di una turbolenta reazione ad una particolare circostanza familiare. Rovistando nel portafoglio del padre, essa scopre infatti la fotografia di una donna con una dedica che non lascia dubbi sulla relazione che intrattengono. La reazione di C. è violentissima: aggredisce il padre, lo insulta, distrugge mezza casa. Ricoverata in una clinica privata, ingaggia una sfida provocatoria con l’ambiente: rifiuta i farmaci, attacca i medici, seduce un infermiere, e si abbandona a costanti esibizioni di erotismo regredendo in una condizione di disordine comportamentale e verbale psicotica.

Esce dopo due mesi, ma con uno stato d’animo esaltato, denso di propositi vendicativi. Nel giro di qualche anno, tali propositi si definiscono e danno luogo ad un'ideologizzazione. C. si cala nei panni della donna-giustiziera: gli uomini li seduce, se ne serve, li tradisce, li tormenta portandoli all'esasperazione. Degli innumerevoli rapporti solo uno sopravvive nel tempo, ma in virtù del fatto che C. incastra il partner con un figlio e un matrimonio senza sentirsi in alcun modo vincolata da questi impegni. Tradisce di continuo, e in maniera umiliante, il marito, finché questi non si arrende e si separa da lei, portando con sè il figlio.

Alla fine di ogni rapporto, l'aggressività accumulata si scarica a livello sociale. Litiga con tutti, ma in nome di un odio esplicitato nei confronti del modo di essere borghese, che ritiene ipocrita. Subisce negli anni innumerevoli ricoveri per crisi di eccitamento maniacale. Ma rimane sempre lucida, e rivendica il suo diritto di vivere in maniera anticonformista. Di fatto, anche nei periodi di intervallo, è eccentrica nel modo di vestire e di parlare, tendenzialmente provocatoria: dà nell'occhio sempre e comunque e si rende conto che la prendono per matta.

A 32 anni, il bilancio della sua vita è desolante. Vive sola, di rendita senza nulla da fare e senza saper far alcunchè. Continua a intrecciare le sue storie sentimentali e erotiche, ma con convinzione sempre minore. Si sente sull'orlo di crollare nella depressione. Rilancia il gioco, recandosi in Svizzera. E' un luogo ottimale per provocare: viene fermata più volte dalla polizia. Una sera, s'impone di superare il limite di velocità. Va all'impazzata, perde il controllo, la macchina cappotta. Se la cava, ma finalmente la morte l'ha vista con gli occhi.

Non era questo che voleva da sempre? Macchè, non ci ha mai pensato alla morte. E il modo in cui trattava gli uomini: non ha mai pensato che qualcuno, esasperato, potesse farle del male? Di botte ne ha prese tante, in effetti, ma le ha pure date. Una volta - è vero - ha avuto proprio paura: uno 'psicopatico', che aveva tradito, l'ha minacciata più volte per telefono. Che ci può fare del resto se le situazioni di rischio la esaltano? E' nata così. E allora perchè ha paura di star sola? D'accordo, vive da sola da alcuni anni ma aggrappata al telefono giorno e notte. Le fa piacere sentire la gente. E quando non trova proprio nessuno? Beh, allora o esce di casa, anche in piena notte, o è il panico. Da sempre? Da sempre. Di cosa ha paura? Di nulla, è che si sente soffocare, svenire, il cuore le va a mille, ha paura che qualche vaso sanguigno le scoppi nella testa. Poi le vengono in mente tutte le cose che ha fatto... Che pensa di queste crisi? Al di là del terrore che prova, si fa un po' schifo perchè si sente d'un'infinita, patetica debolezza. Non ha mai sopportato, nè in sè nè negli altri, la debolezza.

Ha lottato una vita per sconfiggerla, creando un'immagine di sè temeraria e odiosa (essere odiati - dice - dà un senso di potenza infinita). Ma è al punto di partenza o, come dice lei, ‘alla frutta’.

La definizione delle configurazioni psicopatologiche è importante perchè orienta la terapia a evidenziare il problema immediatamente più rilevante all’interno delle singole esperienze: rispettivamente, l’ipercontrollo, conscio o inconscio, della libertà comportamentale, la rinuncia a soddisfare il bisogno di piacere, il sabotaggio più o meno sistematico dei doveri sociali, la ribellione anarchica nei confronti delle regole, delle norme e dei valori culturali. Per quanto la realtà clinica sia complessa, l'individuazione di una configurazione psicopatologica è quasi sempre possibile. Ma il suo significato, che attesta una delle possibili forme di equilibrio raggiunta dal conflitto strutturale, non deve indurre a dimenticare che si tratta pur sempre di una forma fenomenica. Data la natura dinamica del conflitto tra bisogni scissi e alienati, la stabilità strutturale che sottende le configurazioni psicopatologiche è sempre precaria. Indizi attestanti la polarità conflittuale latente sono quasi sempre reperibili a livello di vissuti, di sintomi e di comportamenti. Ciò spiega le fluttuazioni e i cambiamenti fenomenici che sopravvengono spesso spontaneamente, e costantemente nel corso delle esperienze terapeutiche.

Non di rado sintomi, vissuti e comportamenti attestanti la dinamica delle polarità in conflitto sono presenti contemporaneamente. In tali casi sembra lecito parlare di configurazioni miste. Il significato dinamico delle configurazioni miste è vario. Talora esse attestano che la scissione dei bisogni si mantiene fluida e non riesce a configurarsi stabilmente. In tali casi il lavoro terapeutico è molto agevolato dalla possibilità di trarre dall'esperienza immediata del soggetto indizi che lo aiutano a prendere coscienza di quella scissione. Talatra, come in molte esperienze psicotiche, esse viceversa attestano una particolare intensità del conflitto strutturale che tende ad autoalimentarsi. Anche in questi casi, la valutazione psicodinamica dell'esperienza è abbastanza agevole, ma la presa di coscienza da parte del paziente è molto più difficile.

Filippo L. è perseguitato dalle voci. Si tratta di voci che egli individua come appartenenti ai membri di una setta religiosa frequentata negli Stati Uniti. La frequentazione di questa setta ha rappresentato un momento cruciale dell’esperienza di F. Egli si è recato negli Stati Uniti per fuggire da una famiglia americana residente in Italia. Entrambi i genitori, accomunati da un rigido conservatorismo elitaristico, fondato in parte su qualche goccia di sangue blu materno in parte sull’agiatezza conseguita dal padre, e da un’elevatissima stima di sè, hanno allevato F., unico erede maschio, con l’atteggiamento proprio delle famiglie narcisistiche: sollecitandolo a primeggiare sia a scuola che nello sport, e nel contempo schiacciandolo sotto il peso della loro incommensurabile superiorità. Tendenzialmente introversivo, sicuramente iperdotato, ma frustrato e intimidito dai genitori, F. ha cercato comunque di fare il suo meglio. A 16 anni una depressione segnala che qualcosa non va. Nel corso di un breve rapporto con una psicoterapeuta riesce chiaro che il mondo interno di Ferdinand è già scisso: a un vissuto di radicale e umiliante inadeguatezza rispetto al mondo dei grandi che egli ritiene inaccessibile si contrappone un ideale dell’io onnipotente che mescola valenze mistiche e valenze sadiche.

A 17 anni F. si reca in Gran Bretagna dove riesce a portare a termine gli studi superiori. A 19 anni è negli Stati Uniti per seguire dei corsi avanzati di informatica. L’adesione alla setta religiosa è funzionale alla scissione che alberga nella sua anima. Si tratta infatti di una setta buddista, capeggiata da un leader carismatico e controverso, già più volte denunciato da ex-adepti, che promette nel contempo di diventare bodhi e uomini di successo. Il legame di F. con il leader è intenso. Egli si sottomette completamente alla sua volontà finchè non capisce che l’unico suo intento è di sfruttare gli adepti a fini speculativi. Egli in breve promette la grandezza per aumentare il suo potere, e gode sadicamente nel rilevare i loro difetti. F. apre gli occhi per effetto di una rabbia cieca e vendicativa. L’essersi affidato completamente e l’essere stato tradito e umiliato è un dejà-vu che aggroviglia la sua anima. Abbandona la setta e riflette su tutti i modi possibili di agire la vendetta. La rabbia lo fa sentire onnipotente, e Ferdinand se ne droga dando spazio alle fantasie sadiche.

Comincia a sentire le voci. Sono i membri della setta. Torna in Italia e la persecuzione continua. Singolare persecuzione peraltro. Talora le voci infatti sono minacciose e gli impongono di tornare alla setta e di sottomettersi al capo per non subire terribili conseguenze, talaltra esse lo ridicolizzano sottolinenando la sua inadeguatezza e la sua patetica pretesa di confrontarsi con chi vale infinitamente più di lui, talaltra ancora però lo confortano, rivolgendosi a lui affettuosamente e facendogli presente che se egli sarà in grado di sopportare il duro trattamento cui lo sottopongono sicuramente è destinato alla grandezza e al successo. Ferdinand è in trappola. Esasperato dalla persecuzione si abbandona a gesti distruttivi di rabbia. Poi però se ne pente, pensa che, in fondo, nonostante le apparenze, i persecutori gli vogliono bene e gli fanno compagnia. Come rinunciare infine alla grandezza che le voci promettono? Perchè non credere che la prova cui è sottoposto è un’iniziazione al mondo degli esseri onnipotenti? L’ambivalenza in cui vive da sempre si è trasformata in un delirio insopportabile non meno che irrinunciabile.


Cap. V IL LAVORO TERAPEUTICO (1)

1) Il contratto terapeutico

Il lavoro terapeutico non si svolge con la semplicità, sintetica e serrata, che risulta dai frammenti comunicativi riportati. Per giungere alla diagnosi psicodinamica necessitano di solito da 4 a 6 incontri. Tali incontri rappresentano la fase preliminare della terapia dialettica, che viene proposta al paziente come un periodo esplorativo il cui obbiettivo è di pervenire alla definizione dei problemi conflittuali strutturali e di formulare un progetto terapeutico. Tale fase è importante anche perchè dà modo al paziente di venire a conoscenza dei principi su cui si fonda la terapia dialettica. Questo aspetto informativo, nella pratica terapeutica corrente, è trascurato in nome del fatto che le cornici teoriche cui fanno riferimento le diverse tecniche sono troppo complesse, iperspecialistiche, per essere illustrate. Il terapeuta, di solito su richiesta del paziente, si limita a definire la sua appartenenza ad una scuola (freudiana, junghiana, kleiniana, bioniana, comportamentista, relazionale, cognitivista, ecc.). Il problema è che la notorietà dell'etichetta dice ben poco ai pazienti. Può accadere pertanto che un soggetto porti avanti una psicoanalisi freudiana ortodossa, o peggio ancora kleiniana, per anni ignorando la teoria dell'istinto di morte e l'intento pervicace dell'analista di giungere a fargli prendere atto della sua distruttività originaria. Come pure che una famiglia si impegni in una terapia devoluta a risolvere sul piano interattivo una nevrosi ossessiva strutturata, ignorando che questa riconosce livelli di interiorizzazione che l'autonomizzano dall'ambiente e che il terapeuta, per principio, rifiuta di ammettere.

La teoria struttural-dialettica, nonostante la sua complessa organizzazione intrinseca, ha il vantaggio di poter essere illustrata in termini accessibili a chiunque. Il conflitto tra appartenenza sociale e individuazione, doveri e diritti individuali, volontà propria e volontà altrui, per quanto si esprima a livello psicopatologico in forme complesse e simboliche, è intuitivo e vicino al sentire comune. L'incidenza della scissione e dell'alienazione dei bisogni è fenomenicamente evidente nel modo di essere e di porsi nel mondo del soggetto. Del tutto estranea al sentire comune è il significato funzionale del conflitto, che tende a promuovere un cambiamento di vita necessario e ha in sè, nonostante le apparenze fenomeniche negative, le ragioni - sia pure distorte dall'alienazione - del cambiamento. Ma tale significato è affidato al procedere della terapia. L'illustrazione dei principi teorici, d'altro canto, non postula un atto di fede da parte del paziente, bensì la sua disponibilità a verificare (e a falsificare) la coerenza delle interpretazioni che vengono fornite nel corso della terapia.

Un po' più problematico è definire gli assunti impliciti nella teoria inerenti la strutturazione e l'organizzazione della soggettività umana, mutuati dalla tradizione psicodinamica e arricchita dal riferimento alla storia sociale il cui fluire attraverso le generazioni avviene sia a livello conscio che inconscio. Tali assunti concernono i limiti della coscienza umana, facile preda di inganni di ogni genere per via del suo ingenuo realismo; l'esistenza di un'esperienza mentale inconscia che attualizza l'intero patrimonio di memorie soggettive e transgenerazionale e fa del presente, sempre e comunque, un ‘presente ricordato’; la natura sostanzialmente interpretativa della visione del mondo personale; l'influenza determinante dei codici culturali. E' evidente che la problematicità di questi principi, che pongono in gioco i fondamenti su cui si basa l'esperienza comune normale e anormale, non ne permette che una definizione nella fase esplorativa. E' nel corso del trattamento che, in rapporto alle esigenze terapeutiche, quella problematicità viene affrontata in misura funzionale ai bisogni del soggetto.

La definizione del progetto terapeutico, che avviene alla fine della fase preliminare, esita nel contratto terapeutico. Per contratto terapeutico si intende un accordo verbale tra terapeuta e paziente sulle modalità della terapia, sulla frequenza degli incontri, sulla presumibile durata del trattamento e sugli obbiettivi dello stesso.

Riguardo alle modalità, per quanto la filiazione psicoanalitica della terapia dialettica non debba e non possa essere negata, essa recusa gli artifici tecnici propri della psicoanalisi tradizionale: il lettino, il silenzio del terapeuta, le libere associazioni. Tale rifiuto è dovuto a due motivi. Il primo è che tali artifici corrispondono alle idiosincrasie e alle incertezze metodologiche di Freud. Il lettino, oltre a rivendicare alla psicoanalisi uno statuto clinico, mirava, secondo quanto dichiarato da Freud stesso, ad evitare un faccia a faccia soggettivamente sgradevole; il silenzio a promuovere la regressione del paziente e a scongiurare passi falsi interpretativi; le libere associazioni a trovare una via di accesso alle memorie inconsce. Il secondo è l'esigenza di contestualizzare la situazione terapeutica riconducendola alle modalità proprie di interazione tra soggetti nella vita reale quotidiana. La ieraticità dell'analista, che sta alle spalle del paziente e parla poco, poteva avere una qualche giustificazione all'epoca di Freud, allorchè l'autorità, anche a livello privato, familiare, imponeva una rispettosa distanza e si paludava spesso di un distaccato silenzio. Oggi essa serve solo a frustrare e far arrabbiare i pazienti. Se si vuol dimostare che un qualunque soggetto messo in uno stato di soggezione, di dipendenza, costretto a parlare senza ricevere risposta, a pagare anche quando non frequenta le sedute, finisce col diventare aggressivo, la tecnica funziona, ma non si vede quale vantaggio terapeutico essa consegua. La psicoanalisi difende quegli artifici e la sacralità del set terapeutico in nome del fatto che solo in virtù di essi sarebbe possibile accedere agli aspetti più profondi, emozionali e fantasmatici, della soggettività individuale. Ma questo riferimento, che coincide con il punto di vista freudiano di un'esperienza soggettiva stratificata da memorie avulse dal tempo storico, non può essere accolta in ambito dialettico, poichè si ritiene che il rapporto tra il presente e il passato sia un rapporto reciproco e interattivo. Ciò significa che se il passato è necessario per spiegare il presente, il presente non lo è di meno nello spiegare il passato. Non avrebbe alcun senso ricostruire, in terapia, la storia interiore di un soggetto se non si desse per scontato che il passato, interpretato in base all'attrezzatura mentale del soggetto, può essere reinterpretato alla luce del presente e della struttura di personalità attuale. Oltre a ciò, c'è da tener conto che, dal punto di vista dialettico, il passato in questione non è solo biografico e fantasmatico, poichè la storia di ogni soggetto, attraverso la mediazione del gruppo di appartenenza, riconosce le sue radici nella storia sociale. Talora è solo il punto di vista storico-sociale a permettere di spiegare vissuti apparentemente individuali.

Un esempio di grande interesse, per questo aspetto, è ricavabile da molte esperienze femminili di disagio caratterizzate da un drammatico conflitto tra indipendenza e dipendenza nei confronti dell'uomo. Tale conflitto si manifesta in due modi: o in un malessere più o meno grave che segna la storia di un rapporto stabile, matrimoniale, o in una ricerca affannosa di rapporti che dura tutta la vita passando attraverso un numero di delusioni rilevante ed esita infine in una drammatica solitudine. In tutti i casi, la naturalezza del bisogno relazionale, identificato con un bisogno di amore, cela agli occhi delle donne la configurazione che esso ha di necessità assoluta, vitale ai fini della sussistenza soggettiva: in breve, il suo carattere non già di bisogno ma di condanna a dipendere dall'uomo, pena la percezione dolorosa della propria insussistenza e del proprio disvalore assoluto o, al limite, della propria anormalità. Tale confusione impedisce alle donne di comprendere il significato di una rivendicazione di indipendenza che si realizza sotto forma di malessere relazionale o di attacco ai legami. L'invarianza di questo conflitto all'interno delle esperienze di un numero di soggetti tale che il malessere femminile ha ormai assunto la configurazione di un fenomeno sociologico dovrebbe indurre almeno il sospetto che la sua matrice sia di natura storico-sociale. Ma la pratica psicoterapeutica corrente insiste nell'indagare i rapporti col padre e con la madre, nell'evidenziare le interazioni patologiche con il partner o nel mettere in rilievo il modo in cui il soggetto elabora le informazioni relazionali. Gli esiti di tali pratiche sono solitamente deludenti poichè esse tendono a promuovere un adattamento relazionale senza cogliere il significato ultimo del conflitto: la necessità di sormontare il vissuto di insussistenza ontologica della donna senza l'uomo, che dà alla relazione il significato simbolico di una protesi, per poter accettare e vivere serenamente la relazione stessa. Frustrato nel suo esito naturale, di giungere a definire un centro di gravità interno alla personalità, il bisogno di indipendenza non si sottomette alla condanna a dipendere, la boicotta in ogni modo. Ma è vano (anche se ovviamente non superfluo) cercare l'origine di tale condanna nel privato, poichè essa fa capo alla definizione storica dell'essere femminile come ontologicamente insussistente, che continua ad essere interiorizzata nonostante i cambiamenti avvenuti in conseguenza della rivoluzione femminista.

Rosaria C. è una donna indipendente sotto il profilo economico che è giunta a ricoprire un ruolo professionale di grande responsabilità. Ha lottato duramente contro il contesto socio-familiare rigorosamente tradizionalista per affermare la sua libertà, aiutata in ciò dalla militanza femminista. Dopo una serie di relazioni di coppia travagliate, si è unita con un uomo dal quale ha avuto un bambino. Si è separata dopo due anni di convivenza quando ha preso atto che il partner le imponeva un rapporto fusionale e che essa, pur rifiutandolo, in sua presenza si sentiva risucchiata dal dovere di asservirsi alle sue esigenze. Dopo la separazione, sperimenta, al di fuori del lavoro, un'intensa vergogna sociale che la isola. Il senso di questo vissuto le riesce chiaro allorchè, forzandosi, partecipa ad una festa tra amici di vecchia data. Le coppie sono numerose non meno dei singles. R. si sofferma a scrutare prima le donne in coppia, senza cogliere in nessuna uno sguardo felice. Poi sposta la sua attenzione sulle donne sole, e scopre, con sorpresa, che le fanno pena. Il significato di questo vissuto le rimane oscuro. In realtà occorre un bel po' di lavoro per illuminarlo, perchè esso affonda le sue radici in una tradizione culturale che è ancora viva in R. e che essa non può riconoscere. Alla luce di questa tradizione, la solitudine di una donna non può essere una scelta personale, consapevole anche se sofferta, poichè, se una donna è sola, ciò significa che 'nessuno se l'è presa'. Sono gli uomini, insomma, a selezionare e a qualificare l'universo femminile. Una donna sola è in ultima analisi una donna scartata perchè difettosa. Nè più nè meno come al mercato delle vacche. R. pensava di essersi affrancata da questo pregiudizio, che, invece, nel suo inconscio, è ancora vivo e spiega la sua vergogna.

A 37 anni, Silvana C. comincia a cogliere sul volto e nel corpo i primi segni impercettibili dello sfiorire della giovinezza e ne rimane terrorizzata attribuendo ad essi i segnali di abbandono, compresa la rarefazione dei rapporti sessuali, che registra da parte dell’uomo con cui convive, di alcuni anni più giovane. La perdita della capacità attrattiva fa comparire al suo orizzonte il fantasma della solitudine, della depressione e del panico. Dall’età di sedici anni in poi, S. non ha fatto altro che perseguire il sogno di un rapporto stabile e duraturo con un uomo. Alla realizzazione di tale sogno ha sacrificato, senza dolore, la coltivazione di qualunque altro interesse, fatta eccezione per una giovanile militanza in un gruppo extraparlamentare, realizzata come sfida nei confronti della sua famiglia originaria ricca e borghese, nel corso della quale si è impregnata anche dei principi di un femminismo radicale.

La sua storia è un impasto di contraddizioni. S. ha avuto un’infinità di rapporti, ciascuno dei quali vissuto all’inizio con la convinzione che fosse quello giusto, si è sposata due volte con uomini che l’amavano intensamente, ma ha distrutto entrambi i matrimoni dai quali ha avuto due figli. Alla fine di ogni rapporto, che si realizza sempre con l’abbandono da parte del compagno, S. crolla in una situazione di panico e di svuotamento totale che la induce a tentare pateticamente di ricomporre la relazione e si risolve solo con l’instaurarsi di un nuovo rapporto. Essa è del tutto inconsapevole delle strategie relazionali che adotta, attribuite alla sua insicurezza, che conseguono infine l’effetto univoco di farsi odiare.

Le relazioni deguono di fatto un canovaccio costante. Nella fase della seduzione S. è accattivante, accondiscendente, premurosa e altruista. Allorchè il rapporto si instaura comincia a diventare diffidente, sospettosa, esigente, oppressiva. La giustificazione cosciente di questo atteggiamento è che essa ha bisogno di sentirsi veramente e continuamente amata dal partner. Ma non è vero perché quando riceve dall’altro (come è avvenuto nel corso dei due matrimoni) dei segnali certi di amore, S. anziché tranquillizzarsi diventa intrattabile. E’ — a suo dire — un modo per mettere l’altro alla prova, che giunge però all’estremo del maltrattamento, del rifiuto dei rapporti sessuali e del tradimento manifesto. Solo quando l’altro reagisce, minaccia o realizza l’abbandono, S. avverte di nuovo nei suoi confronti un amore infinito che in realtà è un bisogno di dipendenza. Ma è troppo tardi.

Ciò che sfugge a S. è che la sua storia, apparentemente animata da un bisogno incoercibile di conferma maschile, è in realtà sottesa da un disprezzo radicale nei confronti della dipendenza, vissuta come segno della debolezza e dell’insufficienza femminile. Condizionata dalla tradizione, non può fare a meno di cedere ad essa, ma, nel momento stesso in cui cede e l’altro si fa carico della sua dipendenza, comincia a lottare contro di essa e contro l’altro che è colpevole di assecondarla. E’ una lotta senza esclusione di colpi, nella quale S. non ha mai riconosciuto l’espressione di un bisogno di indipendenza lungamente frustrato. E non riesce a riconoscerlo, nonostante l’evidenza dei suoi comportamenti, perché, avendo recintato la sua vita nella ricerca ossessiva del rapporto con l’uomo, quando questo viene meno essa scopre di non avere alcuna identità che non sub specie relationis.

E' la messa in gioco di tale definizione di insussistenza ontologica che riabilita il bisogno di indipendenza, e orienta la soggettività femminile a riconoscersi nella totalità dei rapporti che essa intrattiene con il mondo e non solo nel rapporto con un partner maschile. Il livello più profondo che spiega il malessere femminile è dunque la storia sociale, rispetto alla quale esso si definisce come un malessere di transizione tra una mentalità tradizionale che non è stata sormontata e una nuova che, per ora, si riduce all'antitesi: alla guerra, latente o dichiarata, contro la cultura maschilista e la debolezza femminile che ne rappresenta un caposaldo.

Il rifiuto degli artifici tecnici propri della psicoanalisi ortodossa implica, come si è detto, la definizione di un set comunicativo il più possibile vicino alla pratica quotidiana dei rapporti sociali. Ciò che specifica questo set non è la forma del rapporto bensì l'obbiettivo che si persegue: la risoluzione del disagio psichico in nome della ricostruzione della sua genesi e della decodificazione dei significati che lo sottendono, premessa indispensabile della riappropriazione e dell’uso del potenziale di bisogni frustrato. Tale obbiettivo dà alla terapia dialettica il carattere specifico di una ricerca appassionata e a tutto campo, dalla soggettività alla storia sociale, dei significati condensati nel conflitto stesso. Il primo elemento del contratto terapeutico, che risulta già chiaro dalla fase esplorativa, è per l'appunto, da parte del paziente, l'accettazione del rischio implicito in siffatta ricerca. La coscienza umana, condizionata da modalità di funzionamento sue proprie e dalla cultura che la orienta in ogni contesto al culto dei miti suoi propri, per quanto ne abbia un bisogno assoluto, non ama le verità che la feriscono prima e l’arricchiscono poi. La ricerca del senso della propria esperienza, necessaria quando questa finisce in un vicolo cieco, ha un prezzo. E' giusto farlo pagare ad un essere fragile e vulnerabile, già gravato da una sofferenza che postula cautela? La terapia dialettica assume la sofferenza legata al disagio psichico come espressione di un modo di porsi della coscienza in rapporto al patrimonio soggettivo esperienziale che, non riuscendo a dare ad esso senso, la fragilizza e la terrorizza. La distinzione tra sofferenza sterile, che può durare indefinitamente, e sofferenza produttiva, che porta al benessere, è dunque fondamentale dal punto di vista dialettico. E, non dandosi alternative tra di esse, non occorre avere molte cautele nel tentativo di tradurre la prima nella seconda. La schiettezza, la franchezza, l'autenticità comunicativa è l'impegno al quale il terapeuta dialettico si attiene e al quale sollecita il paziente ad attenersi, fermo restando che tale impegno può essere esercitato solo nei limiti della propria coscienza, e quindi con responsabilità almeno originariamente diverse. Il clima interpersonale che si instaura in conseguenza di questo impegno, che esclude strategie, sotterfugi, manipolazioni, risolve d'emblée molti problemi che si pongono all'interno di altre pratiche terapeutiche. Ma che significa l'assunzione, da parte del terapeuta, di un atteggiamento franco e diretto? Semplicemente che le interpretazioni vengono fornite allorchè i dati di cui si dipone sono atti a permetterne la formulazione, senza alcuna preoccupazione per i tempi del soggetto. Ciò che vien detto, può anche non essere capito immediatamente. Una volta formulata, un'interpretazione, che risulta immediatamente poco o punto comprensibile, può essere ripresa, arricchita o modificata, ogniqualvolta i dati dell'esperienza soggettiva lo consentono.

Un secondo elemento importante del contratto terapeutico dialettico riguarda la frequenza degli incontri e la durata del trattamento. Da parte del terapeuta si definiscono solo delle regole di massima. Dato il carattere attivo della terapia dialettica più di due incontri la settimana sono inutili e, in gran parte dei casi, un solo incontro basta. In situazioni particolari, anche incontri più sporadici possono risultare efficaci. La durata del trattamento non è prevedibile con precisione per via di variabili che si definiscono nel corso dello stesso. La terapia dialettica può cimentarsi agevolmente sul terreno delle psicoterapie brevi. Di solito però le sue diverse fasi richiedono da uno a quattro anni per realizzarsi. Proseguire la terapia al di là dei quattro anni ha senso solo se si riesce a capire che cosa, in tale periodo, non ha funzionato.

L'obbiettivo della terapia dialettica fa parte integrante del contratto terapeutico, e va definito con estrema chiarezza. Esso non si identifica nella guarigione, che è naturalmente l'obbiettivo del paziente, bensì nel ricostruire la genesi, la dinamica e il significato funzionale del conflitto strutturale, ponendo il paziente in condizioni di agire su di esso e fornendogli gli strumenti necessari a tal fine. In altri termini, l'obbiettivo della terapia dialettica è univocamente l'aumento del grado di libertà del soggetto in rapporto alla vita, che è una conseguenza della riappropriazione e di una nuova significazione dei bisogni frustrati. L'uso di tale libertà, che, al di là dell'elaborazione psicologica del conflitto, postula spesso un cambiamento comportamentale e, talora, delle scelte di vita impegnative, ricade totalmente nell'ambito della responsabilità del paziente. Ciò non significa che il terapeuta dialettico si cautela riguardo ad un eventuale insuccesso, che va discusso e analizzato criticamente, quanto piuttosto che egli non si arroga alcun merito, se non del tutto secondario, in rapporto ad un'evoluzione positiva del trattamento, che va ricondotta al buon uso che il paziente fa degli strumenti acquisiti.


2) Le fasi della terapia dialettica

L’intervento dialettico, in ordine ai princìpi cui si ispira e agli obiettivi che persegue, riconosce delle fasi temporali costanti, che, in rapporto alle singole esperienze, possono risultare sequenziate in maniera diversa. Tali fasi sono, oltre a quella preliminare o esplorativa: 1) la fase di riconoscimento soggettivo del conflitto strutturale; 2) la fase di ricostruzione della genesi del conflitto e dei sistemi di significati - emozionali, cognitivi e comportamentali - che lo animano; 3) la fase di rottura della spirale conflittuale e di realizzazione dei bisogni frustrati 4) la fase di riorganizzazione della visione del mondo. Sul piano della pratica terapeutica ovviamente tali fasi non si succedono regolarmente: più spesso si intrecciano, si sovrappongono, si alimentano reciprocamente. Analizzarle singolarmente è dunque un artificio espositivo.

La fase di riconoscimento soggettivo del conflitto strutturale impegna di solito alcuni mesi. L’adozione del codice interpretativo struttural-dialettico consente agevolmente di dar senso ai vissuti, ai sintomi e ai comportamenti psicopatologici. Ma, per un verso, il paziente ha bisogno di un certo tempo per prendere atto di quel senso e per verificarlo a livello soggettivo e nel contesto della sua vita quotidiana; per un altro, il riconoscimento del conflitto strutturale richiede anche l’acquisizione di un sapere sull’organizzazione della mente che deve sopperire i punti di vista originari del soggetto a riguardo. La fase del riconoscimento del conflitto strutturale si realizza allorché il soggetto è in grado di leggere e di interpretare i vissuti, i sintomi e i comportamenti come espressione dei diversi sistemi di significati che alberga e delle logiche che sottendono quei sistemi. L’effetto di tale riconoscimento è rassicurante per un verso, poiché consente di affrancarsi dal riferimento ad un mondo interiore oscuro, caotico ed incontrollabile, ma inquietante per un altro poiché pone il soggetto di fronte alla realtà di una scissione nel suo essere che comporta orientamenti antitetici di vita che possono apparire difficilmente ricomponibili. A seconda della prevalenza dell’uno o dell’altro effetto, è in questa fase che si realizzano con facilità sorprendenti miglioramenti o notevoli peggioramenti.

Michela A., a 24 anni, dopo un delirio persecutorio esitato in una depressione inibitoria che l'ha chiusa in casa per alcuni mesi, ha preso atto che la sua personalità è scissa tra un modo di essere dipendente, bisognoso, tendente all'affidamento, e un modo di essere libertario, trasgressivo e tendenzialmente sfidante. Tale scissione si è manifestata, negli anni precedenti la crisi, in oscillazioni fasiche tra l'uno e l'altro modo di essere che si sono progressivamente amplificate. Il delirio persecutorio e la depressione sono intervenute per porre fine ad una oscillazione maniacale che ha indotto M. ad allontanarsi dalla famiglia, a praticare un aborto e ad abbandonarsi all'uso delle droghe leggere. Tutto ciò è stato compreso, ma non riconosciuto soggettivamente. Il riconoscimento avviene in conseguenza di una circostanza banale. Per lottare contro un'inerzia che ha indotto un rilevante aumento ponderale, M. si iscrive ad un corso di trekking. Il suo impegno volontaristico è evidente come pure le sue difficoltà. Essa assume nel gruppo un atteggiamento 'patetico' mirante ad assicurarsi la benevolenza degli altri e in particolare di un istruttore. In rapporto ad un esercizio difficile, e modicamente pericoloso, questi però sottolinea la sua inadeguatezza. M. si sente ferita nell'intimo e spinta a sfidare quel giudizio e i suoi limiti. Mentre si avventura su di un costone di roccia, prende coscienza di essersi posta a rischio. Ne discende, ma rimane bloccata tutto il giorno, preda di una paura che le impedisce di muoversi. Il porsi in dipendenza l'ha esposta dunque ad una frustrazione, la frustrazione ha animato la sfida, la sfida, ponendola a rischio, ha attivato il meccanismo del blocco.

La fase di ricostruzione della genesi del conflitto strutturale è orientata a rimediare allo sconforto prodotto dalla presa di coscienza dei suoi effetti nell’organizzazione della vita quotidiana. Ciò che di fatto scopre il soggetto nella fase precedente è l’incidenza del conflitto non solo a livello sintomatico, bensì soggettivo, relazionale e comportamentale, la sua inesorabile e impercettibile penetranza. Tale presa di coscienza dà al problema un carattere di gravità, cui si può porre rimedio solo cercando di chiarire le valenze microstoriche del conflitto, di illuminare nel contempo il carico di memorie cui esso fa riferimento e i significati che veicola. Si tratta in altri termini di mettere a fuoco il rapporto reciproco tra passato e presente che irretisce la soggettività.

Questa fase si imbatte nelle difficoltà proprie di ogni ricostruzione del passato, sia essa storica o biografica: la scarsa attendibilità delle memorie, la relativa affidabilità dei testimoni, la scarsità dei documenti, ecc. Il metodo microstorico che si utilizza nel corso della terapia dialettica, essendo rivolto a reperire indizi che consentano di collocare biograficamente la scissione dei bisogni e di seguirne poi l'evoluzione sino alla catastrofe psicopatologica, si fonda su ipotesi che vengono via via arricchite. Caratteristicamente, le ipotesi originarie sono di ordine psicologico e interattivo, quelle definitive di ordine socio-storico.

Rita B. comincia a soffrire a trentacinque anni di attacchi di panico incentrati sulla paura di morire. Tale paura evoca un terribile senso di colpa riferito coscientemente ad un aborto effettuato a 20 anni. R. ha tentato sempre di rimuoverlo, ma sa che quell'evento ha cambiato la sua vita. Ha prodotto infatti una depressione, durata due anni, che l'ha costretta a interrompere gli studi universitari e, dopo la sua risoluzione, uno stato di allarme con cui essa è convissuta incentrato sulla convinzione di essere destinata ad avere una vita breve. Al senso di colpa R. riconduce anche un'amenorrea intervenuta a 28 anni diagnosticata come menopausa precoce. Sembra tutto sufficientemente chiaro. Ma perchè un aborto assuma il significato di una colpa imperdonabile, di un sacrilegio, esso deve essere significato alla luce di una credenza religiosa. A 20 anni era credente? No. Ha avuto un'educazione religiosa perchè ha frequentato un istituto di suore dall'asilo sino alle superiori. Ha creduto, sì, ma solo sino a 12-13 anni. La famiglia, poi, era cattolica, ma nè bigotta nè praticante. E allora qual è la matrice del senso di colpa? Accordava, allora come oggi, alla vita un valore assoluto. Occorre non poco tempo perchè R. si convica che questa concezione della vita è di fatto religiosa, anche se essa non coincide con una credenza confessionale. Rimane il problema di capire perchè, nonostante questa concezione, essa ha abortito. I motivi sono tre: non se la sentiva di dare un 'dispiacere' alla madre, non aveva intenzione di sposare il padre del bambino, il rapporto con il quale era in crisi, non si sentiva in grado di accettare il vincolo irreversibile della maternità. L'eventuale dispiacere della madre non sarebbe stato di ordine morale o sociale. Essa sarebbe semplicemente rimasta delusa poichè il modello proposto alla figlia era quello della donna autonoma e indipendente. Lei lo era economicamente: dedicava al lavoro la sua vita, parlando, ma si rimproverava di essersi sposata troppo giovane e di aver messo al mondo troppi figli (R. ha un fratello e una sorella maggiori). Chi era di troppo? R. naturalmente, che sa da sempre di essere nata per incidente. Anche la madre considerava la vita un valore assoluto? Stando ai fatti, si direbbe di sì. Quanto ha pesato l'esser nata per sbaglio? Non molto o, forse, non se ne è resa conto. La madre si è comportata allo stesso modo con tutti e tre i figli: si dedicava al lavoro e, per farli diventare autonomi, pur volendogli bene, era volutamente poco affettuosa. R. insomma ha vissuto sentendosi di peso, con i suoi patetici bisogni di affetto che ha finito con il disprezzare e col soffocare, calandosi precocemente nel ruolo della bambina senza problemi. Da adolescente, poi, si è indurita, ha abbandonato la fede a cui si era aggrappata. A sedici anni ha cominciato a frequentare ambienti alternativi, di sinistra, imbevendosi dell'ideologia antiborghese, libertaria e tendenzialmente trasgressiva che li animava.

Come avrebbe potuto piegare il suo libertarismo e il disprezzo nei confronti di tutto ciò che è debole ai compiti legati all'allevamento di un bambino? Ancora oggi tutti gli impegni di vita che si configurano come fissi e irreversibili le mettono i brividi. L'avversione nei confronti delle costrizioni di fatto le ha impedito di svolgere un'attività lavorativa continua, di portare avanti un rapporto affettivo per più di pochi mesi, di praticare addirittura nel tempo alcuni interessi vivi (per esempio la musica).

Una claustrofobia ideologica? Non solo. L'impatto con l'asilo a tempo pieno è stato terribile. R. vi si sentiva incarcerata e impotente. La sua crescita è stata pervasa dall'ansia di diventare libera e di non perderla mai più la libertà. Oltre che nell'istituzione, forse si è sentita incarcerata nella sua stessa condizione infantile destinata a durare anni. E' così, ha avuto sempre in odio tutto ciò che le rievocava l'infanzia: la debolezza, la dipendenza, il bisogno di amore. Questa fobia della debolezza l'ha perseguitata. Quando ci cadeva dentro per amore si disprezzava. Quando qualcuno ci cadeva dentro, innamorandosi di lei, gliel'ha fatta pagare a caro prezzo. La legge del più forte esiste veramente. Per i deboli sulla terra non c'è scampo. E' nel nome di quella legge, già latente nella visione del mondo della madre e esasperata dal contatto con la cultura trasgressiva degli anni '70, che R. è vissuta. Fino a imbattersi nell'attacco di panico, che l'ha indebolita definitivamente e ha riattivato, nel suo intimo, le ire di un dio interiore di cui non si è mai liberata.

La fase di rottura della spirale conflittuale comporta il procedere - per tentativi ed errori - verso un nuovo equilibrio strutturale più integrato alla luce di un processo di significazione che introduce, nell’orizzonte della soggettività, nuovi valori adeguati ad autenticare il conflitto e a promuovere comportamenti atti a soddisfare i bisogni frustrati. Tale fase postula che il soggetto, dopo aver riconosciuto e verificato emotivamente e cognitivamente il conflitto, prenda posizione alleandosi con una delle polarità conflittuali e agisca consapevolmente per realizzare i bisogni frustrati che la sottendono. Con ciò il soggetto introduce nella sua vita un elemento di tensione e di squilibrio, che può comportare e di fatto spesso comporta un peggioramento sintomatico. La terapia dialettica procede in virtù di crisi periodiche ciascuna delle quali produce una riorganizzazione strutturale di livello più elevato. La legge per cui ogni salto di qualità nel corso della terapia è preceduto da un apparente peggioramento ha un valore assoluto, e va partecipata al paziente. Questa peraltro è l'unica via attraverso la quale l'io cosciente può conseguire un potere legislativo sulla propria vita compromesso dal conflitto strutturale.

E’ assolutamente sorprendente, e costante, il fatto che il dispiegamento di una quota di bisogni frustrati, che avviene privilegiando una delle polarità in conflitto induce rapidamente il recupero della quota di bisogni frustrati intrinseci all’altra polarità conflittuale.

Giovanni C. a 36 anni ha un attacco di panico che inaugura un periodo caratterizzato da pressochè continue preoccupazioni ipocondriache. Medico di professione, è umiliato dal doversi presentare spesso in piena notte al pronto soccorso per essere rassicurato sullo stato del cuore. Le limitazioni della libertà personale indotte dalla nevrosi sono esasperate da una serie di rituali che G. deve eseguire per evitare che accada del male a lui o alla figlia di cinque anni.

Il senso dell'esperienza si chiarisce nel giro di alcuni mesi. Fino a diciannove anni, G., figlio unico allevato iperprotettivamente da una famiglia di cultura conservatrice e provinciale, è un figlio perfetto, studioso, timido e ligio ai dettami di una fede religiosa intensamente vissuta. Cambia radicalmente con l'ingresso all'università, ove assimila la cultura contestataria degli anni '70 e scopre una vocazione a vivere fuori dalle righe. Dalla crisalide del ragazzo frustrato di provincia, viene fuori di fatto nel giro di alcuni anni un giovane simpatico e comunicativo, ricco di interessi culturali, impegnato politicamente in maniera attiva a sinistra, aperto a ogni genere di avventure. Il cambiamento non è indolore. L'esperienza di G. è costellata di piccoli rituali e di un vago stato di allarme ipocondriaco con i quali convive senza rinunciare a vivere di testa sua. Si sposa a 29 anni, e la scelta matrimoniale cade su di una donna di vivace intelligenza ma affidabile, di sani principi. Col matrimonio, G. si assicura un retroterra di sicurezza, ma non rinuncia a vivere secondo l'ideologia antiborghese e libertarista in virtù della quale ha scoperto se stesso. Naturalmente di questa ideologia fanno parte anche le avventure sessuali che egli si concede sviluppando modici sensi di colpa.

Quando la figlia ha quattro anni, si innamora però perdutamente di un'infermiera. In conseguenza di ciò, la vita familiare comincia ad andargli stretta. Nonostante l'accentuarsi dei rituali - un campanello di allarme che G. trascura -, esce sempre più spesso di sera. Quando è in casa, si isola nel suo studio tra i suoi amati libri. Le rimostranze della moglie sono larvate, ma bastano a convincere G. che la vita familiare non fa più per lui. L'attacco di panico interviene nel periodo in cui sta decisamente pensando di separarsi.

La crisi riattiva un'infrastruttura superegoica, di chiara matrice religiosa, che G. rifiuta di riconoscere. Ma di questa infrastruttura fa parte anche una sensibilità naturale nei confronti dei bisogni della figlia, che gli è affezionatissima e che subirebbe la separazione traumaticamente. I rituali parlano chiaro: dal suo comportamento dipende il benessere o il malessere della bambina. Si tratta indubbiamente di una drammatizzazione scrupolosa della situazione, ma essa vale a restituire a G. una sensibilità che egli, in nome dell’ideologia libertaristica, ha tentato di soffocare avvertendola come un vincolo comportamentale. Di fatto, anche depurata dagli scrupoli religiosi, lo è. Ma va riappropriata poichè essa impone a G. di affrancarsi dal cinismo implicito in quell’ideologia.

L’insensibilizzazione morale che gli ha consentito, a livello adolescenziale, di affrancarsi dall’oppressione delle aspettative genitoriali e dai valori introiettati, non potrà mai diventare la legge della sua vita poichè in rapporto al legame affettivo con la figlia, essa si tradurrebbe nell’esercizio della legge del più forte che G. aborrisce.

La rottura della spirale conflittuale, una volta avviata e sperimentata come possibile, inaugura la fase di riorganizzazione della visione del mondo. Questa fase è di fondamentale importanza dal punto di vista dialettico perchè comporta il superamento della scissione dei bisogni, che in realtà oppone irriducibilmente due diversi orientamenti di vita, in nome di un sistema di valori - emozionali, cognitivi e comportamentali - sufficientemente integrato. E' in questa fase, per ovvie ragioni, che si pone il problema di affrontare criticamente i nodi filosofici che sottendono le esperienze di disagio psichico. Ciò avviene non astrattamente, bensì in stretto rapporto con l'esperienza soggettiva e socio-culturale del soggetto. E' importante specificare questo per evitare un equivoco. La presunta morte delle ideologie fa sì infatti che oggi proporre la riorganizzazione della visione del mondo come obbiettivo ultimo di una pratica terapeutica può indurre l'equivoco di una tecnica manipolatoria o mirante all'indottrinamento. Ciò che è in gioco, in realtà, in tale riorganizzazione, è il patrimonio esperienziale del soggetto, e non l'ideologia del terapeuta. Può capitare pertanto che un paziente sia sollecitato ad integrare una visione del mondo in rapporto a valori culturali che fanno parte del suo patrimonio esperienziale senza essere condivisi dal terapeuta.

Gisella S. cade in una grave depressione a 54 anni. La perdita della concentrazione mentale, della capacità di lavorare, del sonno, del gusto della vita - sintomi che peggiorano di giorno in giorno - la inducono a pensare con insistenza e con terrore ad una cugina, ricoverata da anni in una casa di cura, e a sentirsi destinata a fare la stessa fine. Non c'è alcun evento nè esterno nè interno che apparentemente giustifichi una crisi così seria. G. è stata male già due volte: a 15 anni e subito dopo il matrimonio. Ha fatto una lunga analisi che le ha permesso di andare avanti senza troppi problemi, ma con un regime di vita sostanzialmente mortificante. Una depressione frusta clinicamente, caratterizzata da rigide restrizioni dietetiche, dal rifiuto delle vacanze e degli svaghi, dall'assenza del desiderio sessuale e da un marcato altruismo. Nell'ultimo anno, la situazione è un po' peggiorata per via dell'accentuarsi di un vissuto in precedenza vago: la paura dell'ictus. La lunga riparazione, dunque, non è bastata.

Le colpe da pagare si ricostruiscono abbastanza facilmente. G. ha un'onestà interiore rara. Seconda figlia femmina di una famiglia contadina, sa di essere stata rifiutata dalla madre. Una santa donna che, al di là di inculcarle il timor di Dio, l'ha sempre criticata privilegiando manifestamente la sorella che, tra l'altro, andava bene a scuola. Destinata alle faccende di casa, G. è vissuta come Cenerentola, covando una rabbia mortale per la madre, che le provocava degli incubi notturni e che non osava confessare. A 15 anni, la sorella fallisce un esame importante. G. nel suo intimo prova una gioia immensa per l'insuccesso e per il dolore della madre. Non fa a tempo a pensare di avere un'anima nera che crolla in una cupa depressione. Il suo matrimonio è organizzato dalla famiglia per motivi di interesse. G. si trova sposata ad un uomo che non ama e inserita in una famiglia autoritaria che la incorpora e la tiranneggia. All'odio ancora vivo per la madre si aggiunge quello per la suocera, mortale. La nuova depressione è inaugurata dalla paura dei coltelli.

Alla morte della madre G. non prova altro che un'algida indifferenza. Già i suoi odi la convincono di essere, sotto le apparenze, una sorta di bestia selvaggia. Ma il peggio è che, come capita a tutti quelli che vivono male, comincia a invidiare coloro ai quali arride la fortuna o che comunque appaiono contenti di vivere. Col passare degli anni, l'invidia, sempre intensissima, si associa a fantasie parassitarie di malaugurio.

Quando la sorella, che ha fatto un buon matrimonio e alla quale la vita è andata abbastanza bene, le comunica che sua figlia aspetta un bambino, la fantasia parassitaria è che nasca handicappato. Scatta di nuovo la saetta della depressione.

Non ci vuole molto ad aiutare G. a prendere coscienza che la sua anima nera è null'altro che una protesta viscerale e annosa contro un destino che non è stato clemente con lei, e che quella protesta di giustizia, non potendosi esprimere nella rivendicazione di una qualità della vita migliore, ha pareggiato i conti con il resto dell'umanità con l'invidia e il malaugurio. Il problema è che essa è rimasta religiosa, crede che Dio punisce i cattivi e, per giunta, all'estremo dell'esasperazione, da un anno a questa parte ha rivolto anche contro Lui la protesta rifiutandosi di andare in Chiesa. L'assoluzione terapeutica è fuori discussione e vale ad attenuare la depressione. Ma se G. non vuole lasciare le cose a metà, deve risolvere questa contraddizione religiosa. La giustizia di Dio è una giustizia finale, e la fede comporta l'accettazione delle ingiustizie mondane come prove che il credente deve accettare. Certo, si può rinunciare alla fede, e concedersi tutte le fantasie rivendicative e vendicative che si vuole a patto di non colpevolizzarsi e di dare ad esse il giusto senso di protesta contro le ingiustizie della vita. Ma G. non se la sente di abiurare. Allora è necessario che si riappacifichi con Dio e si senta assolta da Lui. La medicina è amara ma gli effetti che consegue sono positivi.

Rispettosa della libertà individuale e del patrimonio esperienziale soggettivo, la terapia dialettica non assume, peraltro, un atteggiamento acritico nei confronti dei valori culturali nè il terapeuta simula una neutralità che non può avere e che, simulata da molti psicoanalisti, non ha senso. I valori alienati e alienanti, incompatibili con il corredo dei bisogni umani, vanno necessariamente criticati. Ma l'alienazione può intervenire in rapporto al fatto che determinati valori risultano incompatibili con la vocazione a essere di quel determinato soggetto o che essi sono stati introiettati senza essere stati assimilati. E' evidente che, nel primo caso, il soggetto deve sostituirli, nel secondo, se non può rigettarli, deve appropriarsene.

Le fasi descritte rappresentano dei passaggi obbligati verso la guarigione allorché si parte da una condizione psicopatologica. Ma è evidente che, nella pratica terapeutica, la sequenza delle fasi riconosce tempi e modi di realizzazione i più diversi. Nel determinare ciò, incidono variabili soggettive, microsistemiche e socioculturali che vanno adeguatamente valutate. Non si può misconoscere, inoltre, che, talora, il tragitto terapeutico comporta un cambiamento del progetto originario, incentrato costantemente sul cambiamento strutturale. Ciò avviene nei casi in cui, nonostante i suoi sforzi sul piano della comprensione e del comportamento, il soggetto viene ad urtare contro rappresaglie superegoiche e circostanze interattive che appaiono insormontabili.

Giovanna L., di origine sarda, lancia la sua sfida alla cultura tradizionale in cui è stata allevata non appena approda a Roma per seguire un corso di infermiera professionale. Stabilisce una relazione con un uomo sposato, consapevole del fatto che, se i suoi lo sapessero, morirebbero di vergogna o di crepacuore. La 'colpa' è incompatibile anche con una fede religiosa profonda e partecipata. In conseguenza delle angosce che l'attanagliano, Giovanna pensa di troncare la relazione. Ma sopravviene una situazione di subeccitamento maniacale che le consente di portarla avanti un anno. L'esperienza si conclude con una grave depressione, superata la quale Giovanna vive nell'ordine per anni, dedicandosi sempre più intensamente alla pratica religiosa. Si 'risveglia' dopo circa vent'anni, rendendosi conto di esser vissuta in una condizione di mortificazione. Contatta il partner che è ancora disponibile nei suoi confronti e decide di convivere con lui. La colpa è ancora più grave perchè il partner abbandona la moglie e due figlie adolescenti. Dopo tre mesi di euforia, Giovanna cade di nuovo preda di una depressione grave, che la induce a pensare al suicidio. Il partner, che non sa come aiutarla, torna a casa sua. Nel giro di tre anni, l'esperimento della convivenza viene ripetuto due volte, sempre con gli stessi risultati benchè il partner abbia definitivamente abbandonato la casa.

Giovanna non intende accettare di non essere padrona della sua vita a quarant'anni. Ma la fede non è in sè e per sè l’accettazione consapevole di un limite della propria libertà? La rivendicazione d’esser padrona della propria vita postulerebbe un’abiura che essa non è in grado di realizzare. C’è poi il problema della cultura familiare che è stata interiorizzata, incentrata sull’onore familiare. Che cos’è l’onore se non un patrimonio di prestigio sociale accumulato dai membri di un gruppo familiare che si sono attenuti a norme comuni e vincolanti di comportamento che nessun altro membro può violare se non accettando di essere escluso dalla famiglia come un traditore? Giovanna non è in grado di fare a meno degli affetti familiari. Deve pertanto arrendersi, non per viltà, bensì nel rispetto dei valori religiosi in cui crede e dei valori culturali di appartenenza, che critica, ma ai cui vantaggi non può rinunciare, a considerare perdente la sua sfida. La proposta di adattamento non viene accettata. Giovanna si rivolge ad una psicoterapeuta femminista che la liberi dai condizionamenti che ha subito. Continua il suo calvario, con crisi depressive annuali. Alla morte dei genitori che avviene a breve distanza di tempo - ha cinquant’anni - si immerge in un delirio mistico incentrato sul tema della purificazione dell’anima, che è con evidenza un delirio riparativo. L’uomo che ha amato non esiste più nel suo orizzonte soggettivo.


Cap. VI IL LAVORO TERAPEUTICO (2)

3) Variabili

Nella pratica terapeutica, solo di rado il trattamento procede linearmente secondo le fasi di cui si è parlato. Ogni esperienza è caratterizzata da un certo numero di variabili ciascuna delle quali definisce un problema che va affrontato. Cercheremo, ora, di illustrare le più frequenti tra queste variabili.

1. L'età

La terapia dialettica riconosce solo una soglia minima al di sotto della quale essa non è praticabile. Tale soglia si può identificare approssimativamente con l'adolescenza. L'approssimazione è dovuta al fatto che cambiamenti di ordine socio-culturale si riflettono, in una certa misura, nella strutturazione della personalità inducendo una progressiva precocizzazione della crisi adolescenziale e, con essa, del definirsi di un disagio psichico. Capita oggi sempre più spesso di poter avviare un trattamento individuale con ragazzi e ragazze di 13-14 anni, che hanno già livelli di interiorizzazione molto marcati e buone capacità introspettive.

Carlo V., dall'età di dodici anni, manifesta dei comportamenti aggressivi particolarmente intensi nei confronti del fratello maggiore di quattro anni e della sorella minore di due. Sottoposto a tests psicodinamici e ad alcuni colloqui familiari, il problema viene minimizzato e ricondotto allo squilibrio di potere tra una madre dominante e un padre defilato. Le prescrizioni, che comportano una delega al padre dell'educazione di Carlo, lasciano il tempo che trovano. I comportamenti aggressivi persistono e la situazione si complica per via di vaghe fobie ipocondriache e di incubi notturni.

L'aggressività riesce di facile comprensione. Dall'età di undici anni, in maniera inapparente, l'esperienza di Carlo è sottesa dalla necessità di eseguire quotidianamente tutta una serie di rituali che lo estenuano. I fratelli, che si muovono in casa liberamente, spesso interferiscono con l'esecuzione dei rituali. Carlo cerca di tollerare la frustrazione di doverli ripetere, ma, quando non ce la fa più, scarica la rabbia sui fratelli.

I rituali mirano a scongiurare che accada del male a sè e ai suoi genitori. Carlo non è in grado di capire la logica superstiziosa che sottende i suoi vissuti di ansia, ma non ha difficoltà a interrogarsi su un eventuale rabbia che egli può nutrire nei confronti dei genitori. Sono di fatto entrambi perfezionisti, e ai figli hanno richiesto sempre il massimo, nello studio e nello sport (oltre ovviamente che nella condotta). Gli altri fratelli se ne sono fregati: galleggiano nel gruppone della classe e non fanno nient'altro. Carlo invece si è sentito sempre richiamato al dovere di non deluderli: eccelle nello studio e nel nuoto. Da quando sono venuti fuori i rituali, sente però di non farcela più a mantenere le sue prestazioni. Di fatto, queste stanno declinando. I rituali rappresentano con evidenza un tentativo inconscio di tenere sotto controllo una tendenza a lasciarsi andare che implica una rabbia cieca contro il perfezionismo interiorizzato.

Si rende necessario coinvolgere i genitori, che, naturalmente, cadono dalle nuvole, poichè a loro sembrava che il figlio eccellesse senza sforzo alcuno. Messi di fronte alla possibilità di ritrovarsi a convivere con una nevrosi ossessiva che, alla fine, coinvolgerebbe tutto il nucleo familiare e con un'aggressività incoercibile, non hanno difficoltà a capire che devono predisporsi ad accettare una qualche delusione.

La crisi oppositiva, che ha prodotto i rituali in conseguenza dell'animarsi delle fantasie anarchiche (lo 'sbraco'), va assecondata. Carlo abbandona il nuoto che, nonostante i risultati, lo annoia, e si dedica alle sue passioni preferite: il calcio e la bicicletta. Il problema dello studio è più complesso. Occorrono alcuni mesi perchè Carlo capisca che la sua esigenza è di dar corso alle sue emozioni: di dedicarsi, per esempio, alla matematica che lo appassiona e meno alla storia e all’italiano che lo annoiano. Quando lo fa, retrocede al terzo posto. Ma i rituali scompaiono e, con essi, l'aggressività domestica.

Quando il trattamento terapeutico riguarda degli adolescenti, il coinvolgimento dei genitori è inevitabile, poichè una componente interattiva è pressochè sempre presente. Essi vanno messi al corrente dei problemi che vengono in luce e del modo in cui essi si sono originati. Quasi sempre occorre sollevarli anche dai sensi di colpa di cui sono preda, che solo di rado hanno fondamento. Se gli errori commessi sono particolarmente rilevanti, vale la pena interpretarli alla luce dei codici educativi cui essi si riconducono.

Al di là dell'adolescenza, il problema dell'età incide solo sugli obbiettivi che si possono perseguire. Più il trattamento si avvia precocemente, più gli obbiettivi terapeutici possono essere ambiziosi. Se questo è vero, ma non pone ovviamente al riparo dagli insuccessi, dal punto di vista dialettico non è vero il contrario. Terapie avviate in età adulta o anche matura possono conseguire notevoli risultati, anche quando il soggetto ha alle spalle una lunga carriera psichiatrica e esperienze di psicoterapie.

Sandra G., di 52 anni, che ha portato avanti un trattamento psicoanalitico ortodosso per molti anni conseguendo alcuni risultati, entra in crisi dopo aver conseguito una promozione prestigiosa e inaspettata. La crisi è caratterizzata da un'ansia catastrofica incessante. S. è convinta che i risultati ottenuti a livello lavorativo erano dovuti a delle figure di riferimento maschile alle quali si affidava e che la guidavano. La promozione, obbligandola a cambiare gruppo di lavoro, le addossa un carico di responsabilità che essa vive come esorbitante e la fa sentire del tutto priva di protezione. Il nuovo ruolo comporta in effetti frequenti esposizioni pubbliche che S. vive con terrore, essendo certa che la sua inettitudine verrà fuori e sarà implacabilmente sanzionata. Il terrore massimo è di rimanere bloccata e di avere una crisi di nervi, in seguito alla quale la sua condizione di persona affetta da squilibri mentali diventerebbe universalmente nota.

Coloro che l'hanno promossa le avrebbero dunque attribuito capacità che non ha. Ma c'è un fatto: essa ha brigato parecchio per conseguire la promozione. Ed è questo che non si perdona: di essersi messa nel sacco con le sue stesse mani. E se anzichè di una sventatezza irrazionale si trattasse di una rivendicazione di valore e di indipendenza lungamente sacrificate? Ma come può una persona che, in pubblico, si sente inetta e annientata sotto il peso dell'inadeguatezza rivendicare di essere alla pari con gli altri? Qual'è il metro di misura? Un po' particolare invero: S. vede se stessa inetta e gli altri straordinariamente dotati. Ciò nonostante il fatto che, spesso, sentendo parlare gli altri - anche gente importante -, si meraviglia che possano essere così sicuri e disinvolti dicendo delle banalità o talora delle sciocchezze. Il metro di misura è dunque un metro di misura perfezionistico in nome del quale solo esseri dotati di capacità straordinarie potrebbero esporsi in pubblico, gli altri dovrebbero stare nell'ombra o scomparire. Da dove viene questo metro di misura? S. tenta di razionalizzarlo, cadendo in una serie di contraddizioni insolubili. Alla fine, si riconduce al passato. La famiglia la pensava così, e lei, in confronto ai fratelli, era ritenuta un'inetta. Adesso il suo ruolo è pari nel prestigio rispetto a quello conseguito dai fratelli. Ma essa non può prendere atto di questo fatto, deve continuare a vivere tra sè e gli altri una distanza incommensurabile. Altrimenti? Altrimenti - ci arriva - le si risveglierebbe una rabbia cieca nei confronti dei genitori che non possono più difendersi essendo morti. Ma non c'è bisogno di arrabbiarsi: basta considerare che il loro giudizio è stato sbagliato, e non reificarlo per dar loro ragione. A 52 anni S. raggiunge psicologicamente la maggiore età.

Non si può peraltro, in rapporto all'età, trascurare un fatto. Nel caso di S. il processo reale della sua vita si è svolto, sia pure a caro prezzo, positivamente. Il problema dunque è stato quello di farglielo riconoscere, di dissolvere - per così dire - la sovrastruttura che, mantenendola in una condizione di perenne minorità, le impediva di prendere atto del suo valore. In altri casi, i conflitti strutturali determinano uno spreco di risorse soggettive irreversibile e talora una serie di scelte di vita fuorvianti e sbagliate. In casi del genere occorre considerare i rischi che l'individuo corre nel prendere coscienza di questo, e valutare se il principio del salvare il salvabile possa risultare significativo.

2. Livello culturale

E' un luogo comune che il livello culturale sia un elemento discriminativo per proporre e portare avanti un trattamento psicoterapeutico. La pratica dialettica non solo non lo conferma ma, per un aspetto, lo confuta. E' senz'altro vero che la domanda di psicoterapia ha un'incidenza direttamente proporzionale allo status socio-culturale. Ma intanto essa si va diffondendo per effetto in parte dei mass-media e in parte dei medici di base, che sempre più di frequente la consigliano.

La terapia dialettica non incontra grandi difficoltà nel recepire tale domanda, poichè essa, pur adottando una metodologia psicodinamica aperta alla valutazione dei fattori storico-sociali, ritiene che l'attrezzatura culturale adeguata a capire i fatti umani e quelli psicopatologici in particolare non faccia parte del bagaglio di qualunque soggetto. Tale attrezzatura, per quanto riguarda la natura umana, il rapporto tra coscienza e inconscio, i nessi tra soggettività e storia sociale, va acquisita nel corso della terapia, sulla base non di un indottrinamento bensì di un'analisi critica dei dati vissuti e dei codici culturali che li sottendono. Si può pensare che comunque un certo grado di istruzione favorisca il processo di apprendimento che è costitutivo della terapia dialettica. Ma ciò non sembra confermato dai fatti. In genere i pazienti più colti incontrano difficoltà maggiori rispetto a quelli meno acculturati, non per quanto riguarda la fase della comprensione bensì quella dell'appropriazione emozionale delle verità che via via si mettono a fuoco, fondamentale ai fini del cambiamento. Non sembra agevole spiegare questo fatto. E’ suggestivo pensare che esso sia riconducibile ad una funzione, diversamente rappresentata negli individui, che si sarebbe indotti a definire come apertura emozionale alle verità di ordine personale e interpersonale. Ma rimane il problema di capire come mai tale funzione, la cui distribuzione statistica si deve ritenere necessariamente indipendente dal ceto sociale, risulti piuttosto interferita che non potenziata dalla cultura. Un’ipotesi possibile è che la cultura possa essere facilmente utilizzata a fini di mistificazione soggettiva e che essa, con i suoi livelli di astrazione ideologica, renda più difficile cogliere gli scarti tra i livelli di coscienza e i vissuti inconsci.

Un rituale ossessivo, per esempio, si presenta con le stesse caratteristiche a qualunque livello della scala sociale. Ma l'interpretazione che mira, da ultimo, a rivelarne la logica superstiziosa che lo sottende, vale a dire il riferimento ad un potere trascendente il soggetto che piega la sua volontà sotto il peso di una minaccia, paradossalmente viene appropriata più facilmente da persone poco acculturate il cui vissuto, spesso, comporta già l'intuizione di 'qualcuno' che comanda. I pazienti di buona cultura, solitamente immuni a livello cosciente da pregiudizi superstiziosi, _ arrivano con facilità ad ammettere (come peraltro è vero) ch'è una parte della loro mente che obbliga l'esecuzione dei rituali. Talora, avendo letto libri di psicoanalisi, sanno già dell'esistenza del Super-io. Hanno difficoltà però a riconoscere che il mantenersi della paura in rapporto ad un'inadempienza nell'esecuzione dei rituali attesta il fatto che la consapevolezza che essa è generata da una parte della mente cela una convinzione più profonda che fa riferimento a un potere o un ordine trascendente dotato di potere di controllo e capace di punire.

In alcuni casi _ la comparazione di storie aventi la stessa genesi strutturale in diversi contesti sociali pone inequivocabilmente di fronte a scarti paradossali tra il livello culturale e l'appropriazione della verità.

Marco S. è figlio unico di una famiglia popolare che risiede in un quartiere periferico di Roma. Prima di sposarsi la madre ha fatto la donna delle pulizie. Il padre lavora presso una società privata di vigilanza. Il ménage familiare è tempestoso per via del fatto che la donna coltiva ambizioni di ascesa sociale e accusa il marito di essere inetto e grossolano. Si arroga l'educazione del figlio al fine di trasformarlo in un signorino. Gli impedisce di frequentare i bambini del quartiere, gli impone precocemente le buone maniere, pretende che sia sempre lindo e pulito. Il padre, temendo che Mario possa diventare una femminuccia, tenta di boicottare la moglie. Porta spesso il figlio con sè al bar, non lesina le parolacce e cerca di suscitare in lui precocemente l'interesse per le ragazze. Costretto ad allearsi, Mario infine opta per la madre che, col suo carattere dominante, gli fa paura. Cresce perciò tentando di soddisfare le sue aspettative, ma si trasforma in un essere timido e inibito, poco comunicativo, che a scuola ha difficoltà di socializzazione e un rendimento mediocre. Nel complesso sembra poco intelligente. Porta a termine a fatica gli studi superiori, e subito dopo comincia a star male manifestamente. Il primo sintomo è la paura di guardarsi allo specchio, riferita alla possibilità di poter vedere il suo volto deformarsi e divenire mostruoso. Seguono degli attacchi di panico che lo paralizzano in casa e lo inebetiscono in un rapporto estremamente regressivo con la madre. Viene visitato da uno psichiatra che diagnostica una schizofrenia ebefrenica e prescrive una terapia con un cocktail di neurolettici.

C'è un dato almeno che non quadra. Da due anni, Mario è in rapporto con una ragazza che gli vuole un bene dell'anima, lo considera intelligente e sensibile. Dice che è in grado di capire cose che gli altri neppure si sognano. Non è una follia a due. Ha ragione. Mario è poco colto, ma ha una straordinaria capacità intuitiva. Capisce al volo che il mostro di cui ha paura è la parte viva di sè che ha sacrificato ad una maschera di perbenismo che gli è andata sempre stretta. Di fatto, nel corso degli anni, è convissuto con fantasie parassitarie di ogni genere, oscene e aggressive. Una chiave importante è fornita da un ricordo infantile che risale all'età di sette anni. Mario è nella camera dei genitori di fronte alla specchiera. In salotto, la madre parla con un'amica con un tono affettato cercando di simulare una buona conoscenza dell'italiano. Poco dopo, andata via l'amica, alterca con il marito e s'abbandona senza ritegno ad urla nel più triviale gergo romanesco. Mario fa prima le boccacce di fronte allo specchio, poi si scopre a digrignare i denti come una belva e si mette una terribile paura.

L'apertura emozionale alla verità è attestata dalla reazione di Mario alle prime ipotesi interpretative che vertono su di un bisogno di opposizione ai valori mistificati imposti dalla madre che è scorso sotterraneamente caricandosi progressivamente di valenze ciecamente rabbiose. Mario si illumina: è vero - dice - in tutta la vita non mi sono mai opposto. E' questa una scoperta, prontamente appropriata, che rappresenta il leit-motiv di una terapia quasi lineare che dopo tre anni porta Mario a sposarsi e ad avviare un'attività lavorativa. Sorprendentemente, egli non ha mai manifestato aggressività nei confronti della madre, che giunge a fargli pena con le sue pretese e che considera un essere terribilmente fragile. Non è espansivo, ma gli amici che si fa lo ritengono dotato di una particolare saggezza.

In tutt'altro contesto socio-culturale, Attilio B., di cui si è parlato, non ha avuto una storia interiore radicalmente diversa. Sull'impianto di un conservatorismo élitario, che fonde i valori nobiliari con quelli religiosi, egli si è sentito richiamato dal debito nei confronti dei suoi genitori e dei suoi avi a primeggiare e a eccellere in una dimensione competitiva che ha sempre avvertito intuitivamente come estranea a quei valori. Cionondimeno, si impegna allo stremo per essere degno dei suoi privilegi, giudicando come espressione di ignobile pigrizia i comportamenti dilatori e distratti che, a partire dall'adolescenza, segnalano un opposizionismo crescente. Continua a impegnarsi anche quando sente di essere svuotato di emozioni e di vivere come un automa. Nonostante un'attrezzatura culturale raffinata e una viva intelligenza, egli però oppone una rigida barriera ideologica alle interpretazioni dialettiche. Il carattere assoluto, oggettivo che egli assegna ai doveri è infatti tale dal suo punto di vista che non è lecito, neppure inconsciamente, ribellarsi o sottrarsi ad essi. Impiega non meno di tre anni a convincersi che i valori culturali, quali che siano, per funzionare, devono essere assimilati, cioè partecipati emotivamente. E si arrende malvolentieri alla verità solo quando, concedendosi un po' di respiro e abbandonandosi al gusto della letteratura (trascurata sempre in nome dello studio), scopre che l'opposizionismo si allenta e gli consente di lavorare bene senza penare troppo.

4. Il contesto micro- e macrosociale

L'importanza del microsistema di interazione abituale, vale a dire della famiglia - originaria o acquisita -, della scuola, dell'ambiente di lavoro, del gruppo amicale, ecc., nella genesi e nell'evoluzione di ogni esperienza di disagio psichico è ormai un dato acquisito. L'uso di questo dato nella pratica terapeutica dipende però dalla cornice teorica propria di una determinata tecnica. E' evidente, per esempio, che il considerare, come avviene in ambito psicoanalitico, la famiglia come spazio intersoggettivo eminentemente fantasmatico, o, viceversa, come avviene in ambito relazionale, come sistema di interazioni comunicative oggettivabili, non è la stessa cosa. Dal punto di vista dialettico, si ritiene insufficiente qualsivoglia approccio psicologista che tenga conto solo della soggettività, dell'intersoggettività e delle relazioni interpersonali comunicative. Benchè non si possa negare l'importanza di questi aspetti, il loro isolamento rispetto alla storia e alla struttura sociale cui appartengono rischia di impoverirne o di distorcene il senso.

Un esempio di ordine generale dell'incidenza dei fattori storico-sociali a livello psicopatologico è fornito dall'epidemiologia. Essa infatti pone di fronte a dei cambiamenti che contestano di per sè che la psicopatologia sia solo la somma di diverse esperienze individuali o microcontestuali. L'isteria femminile, che è esplosa nel corso dell'700 e ha assunto per alcuni decenni una diffusione epidemica, è oggi oltremodo rara. Come si può spiegare questo dato se non pensando che le rivendicazioni di libertà e di indipendenza femminili che un tempo potevano esprimersi solo a livello immaginario, oggi trovano canali diversi di realizzazione? In rapporto al presente, poi, come interpretare l'incidenza crescente degli attacchi di panico, che stanno assumendo una configurazione epidemica, se non pensando ad uno stato di cose che indirizza i conflitti strutturali verso l’esplosione di rabbiose fantasie di scissione di tutti i legami sociali? Si abbrevierebbero notevolmente i tempi della terapia se si riconoscesse che gli attacchi di panico rappresentano la via finale comune di conflitti nei quali i vincoli affettivi e culturali dell'appartenenza sociale si mantengono vivi ma, configurando situazioni di vita - familiare, coniugale, lavorativa - poco o punto tollerabili danno luogo, in una misura incommensurabile rispetto al passato, a fantasie di fuga, inconsciamente a vicolo cieco per il loro estremismo, nelle quali si esprime una percezione dei bisogni e dei diritti individuali molto più spiccata e incoercibile rispetto al passato.

Nella pratica dialettica, l'attenzione alla storia sociale - delle istituzioni, dei costumi, della cultura, delle mentalità - è costante. L'incidenza di tale attenzione può essere illustrata dai seguenti esempi.

Raffaella M. nasce sotto una cattiva stella. I suoi, entrambi di origine meridionale, sono costretti a sposarsi in fretta e furia in seguito al suo concepimento. Il matrimonio tronca gli studi universitari del padre, e espone la madre al giudizio infamante di entrambi i gruppi familiare. La responsabilità è ovviamente comune, ma, in quell'ambiente culturale, la colpa è della donna che non ha saputo resistere alle naturali insistenze del maschio. R. è dunque figlia della colpa. La madre, gravata di una vergogna che non si estinguerà mai, si dedica a lei all'insegna di una riparazione ossessiva ingabbiando la bambina in una rete di prescrizioni igieniche e educative senza scampo. Incapace di reagire alle ferree regole educative, miranti ad esibirla ai parenti che la rifiutano come un angelo, R., che si sente tratta come una cosa, si chiude, si incupisce. Registra poi negli alterchi frequenti dei suoi una rabbia rimproverante che la investe come se fosse lei colpevole della loro infelice unione. Giunge a pensare di non essere amata. La sorellina che nasce quando ha cinque anni è accolta da tutti i familiari con una gioia che convince R. di essere lei fuori posto. Cova per anni nel suo intimo l'odio nei confronti di coloro che la rifiutano e di se stessa, attribuendosi difetti di carattere che giustificano il rifiuto. A 14 anni, isolata anche nel contesto scolastico per l' introversione e la cupezza del carattere, tenta due volte in maniera seria di togliersi la vita.

Ricoverata in clinica psichiatrica, la diagnosi di personalità schizoide con orientamenti autodistruttivi lascia un flebile filo di speranza ai genitori. Nell'anamnesi risultano tutti i comportamenti strani che R. ha manifestato dai primi anni di vita, ma non c'è alcun cenno alle circostanze che hanno presieduto alla sua nascita e alle ossessioni educative materne. I medici non l'hanno chiesto, e i genitori si sono ben guardati dal dirlo. La terapia dialettica si avvia sulla base dell'autorizzazione a mettere R. al corrente della verità. Non è facile ottenerla. Messa al corrente, R. non dà immediatamente grande importanza alla cosa. La sua acculturazione, avvenuta a Roma, ove la famiglia si è trasferita dopo il matrimonio, la induce a minimizzare un fatto ormai all'ordine del giorno. Quando riesce a capire cosa il suo concepimento ha significato nel contesto culturale originario, dispone della chiave che le consente a posteriori di dare un senso diverso a tutti i messaggi che ha interpretato come comprovanti il non essere amata e la sua non amabilità.

Enrico T., a 17 anni, protesta per la prima volta nella sua vita vivacemente contro un professore di liceo che lo ha rimproverato ingiustamente per una marachella commessa dal compagno di banco. E' la goccia che fa traboccare il vaso. Dopo pochi giorni precipita in un marasma psicotico che esita in una totale chiusura col mondo. Vive in casa, isolato nella sua camera ascoltando musica con un walkman, non comunica coi familiari, passa parte della notte sveglio eseguendo nel letto movimenti ondulatori talora fragorosi. Per quattro anni, trattato con dosi massicce di neurolettici, che inducono un rilevante aumento ponderale, non fa altro che regredire. Il peso, la mimica atonica, il perpetuo dondolio del tronco, il disinteresse completo per il mondo configurano un quadro psicotico senza speranza.

Accede alla terapia con un unico intento: essere aiutato a liberarsi da un dolore psichico che lo attanaglia di continuo e contro il quale gli psicofarmaci, che prende senza opporre resistenza alcuna, sono inefficaci. Impiega tre mesi a riconoscere che il dolore psichico è un impasto di angoscia e di paura. Ha paura che i terrestri gli facciano del male. Lui non è un terrestre: viene da un altro pianeta. Non sa quale nè sa come sia caduto sulla terra. Ha sempre saputo, fin da piccolo, questa verità, che ha tentato di rimuovere finchè la verità si è imposta. Sulla terra non esiste la giustizia: nel suo pianeta l'ingiustizia è sconosciuta. Quando ha scoperto l'ingiustizia del mondo? Quando il padre si arrabbiava (ricorda con orrore gli occhi del padre fuori di sè) e impartiva punizioni senza motivo. Motivo non ce n'era mai per quanto lo riguardava, perchè il suo comportamento era perfetto. E poi a scuola, a contatto con i 'selvaggi', i coetanei che urlavano, si azzuffavano e picchiavano regolarmente i più deboli. Botte ne ha prese tante, ma non ha mai avuto l'istinto di reagire. Rimaneva sconcertato del fatto che il maestro chiudeva gli occhi. Ne ha viste poi tante che lo hanno convinto che sulla terra vale solo la legge del più forte, che gli è del tutto estranea. Aspetta che qualcuno dei suoi lo venga a prendere prima che gli si faccia del male.

Per quanto singolare, il delirio riconosce matrici esperienziali facilmente ricostruibili. E. è il primogenito di una coppia socio-culturalmente eterogenea: la madre è di estrazione elevata e ricca di famiglia, il padre di umili origini. La famiglia vive nel paese natale della madre, isolata dal contesto. E. è un bambino buono, intelligente e docilissimo. La madre, che se ne arroga l'educazione per evitare che possa assumere i comportamenti grossolani del marito e dei paesani, lo alleva come un principino. La scuola pubblica del paese è frequentata quasi esclusivamente da figli di contadini e di artigiani, scalmanati e tendenzialmente aggressivi. La circostanza, oltre che dai genitori, è attestata anche dal fratello minore di tre anni che ha avuto un'analoga esperienza e ne ha ricavato una nevrosi ossessiva piuttosto seria animata da continue fantasie di perdere il controllo sull'aggressività. La situazione familiare è caratterizzata da una conflittualità permanente tra i genitori, le cui visioni del mondo sono inconciliabili. Quando litigano, le capacità dialettiche della madre finiscono regolarmente con il prevalere finchè il marito non risolve la situazione con le urla e scatti violenti di rabbia.

A 14 anni E., oppresso dalla famiglia e dalla società, che vive entrambe come segnate da un'irreversibile irrazionalità, comincia a comunicare nel suo intimo con altri esseri sereni e cordiali, che lo aiutano, lo consigliano, lo confortano. Capisce che non si tratta di umani. Non riesce però a farsi rivelare la loro identità. Si dedica perciò alla lettura di libri di fantascienza, di ufologia e, all'epoca del liceo, di cosmologia. Apprende così che esistono, quasi di sicuro, altri mondi e altri esseri intelligenti. Non appartenendo, con evidenza, a questo mondo, la conclusione diventa ovvia.

E. di fatto appartiene ad una minoranza: quella dei bambini iperdotati, la cui sorte dipende dal contesto in cui vivono, e che comunque spesso giungono a sentire dolorosamente la loro diversità, pagando il prezzo di una colpa che non hanno commesso. Il prezzo pagato da E. è stato elevatissimo per via della cronica conflittualità tra i genitori e dello scarto tra il modello educativo materno e il contesto sociale con cui ha interagito dall'epoca della scolarizzazione. Lui però ci ha messo del suo: ha rimosso completamente la rabbia evocata dalle ingiustizie perchè l'ha percepita sempre come una emozione volgare, incompatibile con la sua natura. In buona fede, rifiuta di riconoscerla finchè un giorno, in seguito ad un aspro rimprovero del padre per il regime di silenzio che egli impone in casa, si ritrova, per effetto di una strana energia, a brandire un coltello davanti alla faccia di quello. Comincia così, con una presa di coscienza stravolgente, il suo lento ritorno tra i comuni mortali che lo affrancherà dal dolore psichico, nel quale si è condensata la sua rabbia e il senso di colpa, ma non gli restituirà mai una qualsivoglia gioia di stare al mondo.


Cap. VII IL LAVORO TERAPEUTICO (3)

A. Il materiale

Come si è già accennato, il materiale su cui si basa il lavoro terapeutico è rappresentato da tutto ciò che fa parte del patrimonio di esperienza soggettiva: sintomi, vissuti, comportamenti, interazioni quotidiane, ricordi, sogni, fantasie, riflessioni, documenti, scritti, ecc. Nel privilegiare la totalità del patrimonio interiore e dell'esperienza reale del paziente, l'approccio dialettico condivide il ruolo assegnato dalla psicoanalisi tradizionale alla soggettività conscia e inconscia. Ma, rispetto a questa, esso se ne differenzia per il peso accordato alla teoria dei bisogni, al carattere strutturale del conflitto psicopatologico e agli aspetti interattivi che lo determinano.

Se la predisposizione, riconducibile per lo più, come si è detto, ad un corredo cognitivo e emozionale particolarmente ricco, ha un peso non insignificante che vale a spiegare perchè, dato lo stesso ambiente evolutivo o interattivo, un soggetto piuttosto che un altro vada incontro ad una scissione del patrimonio dei bisogni, il ruolo dei fattori ambientali è fuor di dubbio. Essi vanno accuratamente _ ricostruiti al fine di illuminare l'interazione che ha prodotto la matrice del conflitto. Dal punto di vista dialettico, l'ambiente però non è riducibile ai rapporti interpersonali. Esso rappresenta il contesto socio-storico culturale nella sua totalità, che impregna le soggettività.

La trascurataggine delle pratiche terapeutiche correnti riguardo a questo aspetto è sorprendente, tanto più se si considera il fatto che le scienze umane e sociali hanno messo in luce inconfutabilmente che non solo il modo di pensare ma anche quello di sentire degli individui è profondamente influenzato dalla cultura cui essi appartengono, e che esse - dall'antropologia di Lévj-Strauss alla nuova storia - hanno dato pregnanza al concetto di inconscio sociale.

Dai casi riportati in precedenza, risulta già abbastanza chiara la modalità interpretativa propria della terapia dialettica. L'elaborazione del materiale avviene in virtù di una procedura costante. Si cerca anzitutto di individuare, tra i vari livelli dell'esperienza soggettiva, gli aspetti fenomenici che attestano l'espressione di un conflitto strutturale. Questi aspetti vengono poi interpretati in termini psicodinamici, in maniera tale che risulti chiara la scissione dei bisogni che li sottende. Allorchè il paziente prende coscienza di questa scissione, si pone il problema di illuminarne la genesi ricostruendo la storia interiore e sociale del soggetto. Tale ricostruzione comporta pressochè costantemente la necessità di interrogarsi sulla visione del mondo delle persone con cui il soggetto ha interagito nel corso delle fasi evolutive. Si ritorna infine al conflitto strutturale per mettere a fuoco i sistemi di valore che lo sottendono e per analizzarli criticamente nelle loro valenze ideologiche e filosofiche.

Ciò che distingue l'approccio dialettico da ogni altra tecnica è il frequente passaggio discorsivo dal particolare all'universale e viceversa, e la tendenza a generalizzare l'esperienza soggettiva. Capita di frequente che l'analisi di un sintomo o di un vissuto si apra repentinamente su tematiche - scientifiche e filosofiche - di grande portata. In tal caso, anzichè essere ritenute non pertinenti, tali tematiche vengono affrontate e messe in discussione (cfr. Cap XI). Capita ancor più di frequente che l'esperienza del soggetto, in ciò che essa ha di strutturale, viene ricondotta e comparata con altre esperienze. In entrambi i casi la reazione dei pazienti è solitamente di sconcerto, poichè è inveterata l'abitudine di considerare la propria soggettività come unica e irripetibile. Questo narcisismo coscienzialista va frustrato poichè i conflitti strutturali, come si è detto già più volte, determinano, a livello di sintomi, di vissuti e di comportamenti, degli effetti ricorrenti e inequivocabili.

Forniremo ora un'antologia esemplare di situazioni analizzate con la metodologia dialettica.

1) Sintomi

A 38 anni, Anna B. comincia a soffrire, nella tarda primavera, di attacchi di panico. Sono attacchi singolari, che intervengono esclusivamente in rapporto all'esposizione al sole e si traducono in brividi di freddo con piloerezione, sudorazione algida e un senso di malore che induce A. ogni volta a temere di stare per morire. Si è sottoposta ad accertamenti medici di ogni genere senza risultato.

A. è sposata e ha due figli già grandi. Apprezza il marito per le sue qualità umane e professionali, ma non lo ama. Dopo quattro anni di matrimonio, l'uomo è divenuto impotente. Non ha mai voluto affrontare il problema nè sul piano medico nè su quello psicoterapeutico, e ha imposto a Adele un regime di assoluta astinenza.

Per anni, A. si è adattata a questo regime, ma, superata la soglia dei trentacinque anni, ha preso coscienza della sua infelicità, e ha avvertito un'ondata di turbolenti desideri. Avrebbe potuto abbandonarsi ad essi, poichè sa che il marito non è geloso e non avrebbe opposto difficoltà, se non fossero intervenuti gli attacchi di panico. A chi deve render conto dunque A. e perchè la causa scatenante degli attacchi è l'esposizione solare?

Figlia unica di una famiglia meridionale, A., il cui padre è sempre in viaggio per lavoro, viene allevata dalla madre e dalla nonna in maniera rigidissima. Non può frequentare i coetanei. Vive tra casa, scuola e chiesa. Il regime di mortificazione che vige in casa è del tutto particolare. La nonna veste costantemente di nero e da anni non varca la soglia della casa, non si può ascoltare la radio nè parlare a voce alta. Per parecchio tempo, A. considera quel regime espressivo di una religiosità profonda. Solo da grande scopre la verità: la nonna è una figlia naturale e ha dedicato la sua vita a cancellare l'onta originaria.

Con l'adolescenza, il regime di mortificazione si incrementa. A. viene accompagnata a scuola dalla madre che la va a riprendere. Non può partecipare alle festicciuole adolescenziali. Le è vietato affacciarsi alla finestra per non mostrare un'equivocabile curiosità. Non potendo fare altro, si dedica con passione allo studio che riempie il vuoto della sua vita. Il dramma sopravviene verso maggio, allorchè si profila la chiusura delle scuole. Per anni, A. vive nell'incubo dei mesi estivi assolati da trascorrere nel buio della casa senza alcunchè da fare.

A 18 anni ottiene di venire a studiare all'Università di Roma. Si sente un pesce fuor d'acqua, ma, dopo un anno, si risveglia e scopre di avere un notevole potere attrattivo sugli uomini. Terrorizzata dall'idea di perdersi, non si concede però alcuna esperienza. A 20 anni incontra il marito, di dieci anni maggiore, e, affascinata dalla sua posatezza, lo sposa. E’ una scelta ragionevole, che soddisfa il suo bisogno di sicurezza, ma sacrifica i sentimenti e il piacere. L’intimità coniugale, mai viva, si estingue addirittura dopo la nascita dei figli. Femminista, politicamente impegnata, colta, sempre pronta a difendere nell'ambiente di lavoro i diritti delle donne, A. vive di fatto recintata dagli incubi moralistici che ha originariamente introiettato.

2) Vissuti

Salvatore D. è sconvolto dall'idea di essere un cattivo padre, che finirà con il danneggiare i figli con la sua 'nevrosi' e la sua incapacità di proteggerli. Il senso di colpa lo ha sempre perseguitato da quando li ha messi al mondo, ma, via via che crescono, si accentua e gli toglie il sonno. Il quartiere in cui vive Salvatore è periferico. I giardini sono infestati di siringhe. La scuola media è assediata dagli spacciatori. Egli odia i tossicodipendenti, che non hanno rispetto per nessuno, e odia ancor più lo Stato che lascia i cittadini inermi. Un giorno, passeggiando in un giardino col figlio di sei anni, si accorge che questi ha calpestato col sandalo una siringa. Questo fatto segna l'avvio di una ruminazione ossessiva diurna e notturna che porta in poco tempo Salvatore alla disperazione e a una cupa depressione orientata verso il suicidio liberatorio.

In realtà, come sostiene la moglie, Salvatore non è un padre inadeguato bensì iperprotettivo. Da quando i figli sono nati è sempre stato preoccupato per un nonnulla, gli è stato sempre 'addosso'. Ha però le sue ragioni.

Salvatore non ha conosciuto i genitori. Affidato all'età di pochi mesi a due contadini, a sei anni sa la verità sulla sua nascita e ritrova chiuso in un grigio orfanotrofio ove regna il regime del terrore. Bambino sensibilissimo e pauroso, si comporta alla perfezione per evitare le punizioni, per quanto le ingiustizie degli istitutori gli smuovono nelle viscere reazioni violente di rabbia. Finite le scuole medie, in difetto di una sistemazione esterna, gli viene offerto di essere ospitato in un altro istituto, ove potrà apprendere un mestiere in cambio del vitto e dell'alloggio. Il nuovo istituto è peggiore del primo, e per alcuni anni salvatore si adatta a farsi sfruttare. A diciotto anni non ce la fa più e si affaccia al mondo. L'impatto è traumatico. Per anni, Salvatore vive di lavori saltuari, di umiliazioni, di stenti. In alcuni momenti è tentato dall'idea di lasciarsi andare e di abbandinarsi a qualche forma di devianza. Lo sorregge la fede politica (è comunista) e la volontà di studiare. Consegue un diploma di scuola media superiore, e riesce a trenta anni a trovare una sistemazione. E' apprezzato da tutti per come lavora, ma nel suo intimo egli sa che ha paura di tornare a far la fame e, inoltre, l'esperienza istituzionale lo ha condizionato ad avere un sacro rispetto dell'autorità. A 35 anni incontra una donna che ne apprezza le qualità e lo convince a sposarsi. Comincia a stare in ansia subito dopo la nascita dei figli.

Sullo sfondo c'è tra l'altro una situazione sociale incomprensibile per Salvatore. Per un verso egli pensa che i devianti (categoria alla quale sa che sarebbe potuto appartenere) esprimono in una forma confusa una qualche protesta contro l'ordine di cose esistente. Ma è pur vero che non può non confrontare la propria esperienza istituzionale repressiva con la libertà concessa ai tossicodipendenti e con l'inerzia dello Stato, che scarica il problema sui cittadini indifesi.

Attilio B., di cui si è parlato nel capitolo x, trasferisce nel lavoro libero-professionale lo stile di vita mortificante che per lui è simbolo di virtù. Ma, via via che prende atto del grigiore della sua vita e della vita dei suoi, si apre alla vita. Comincia ad avere momenti di intensa partecipazione alla natura, si abbandona al gusto del cinema e della lettura, scopre, incredibilmente, di sentire amore nei confronti di una donna e di essere contraccambiato. L'ossessione per il lavoro diminuisce. Insorge uno strano vissuto. Professionalmente Francesco riceve continue conferme del suo valore, ma non riesce a goderne. Pensa sostanzialmente che la sua bravura professionale è un bluff, e comincia ad essere ossessionato dall'idea di uno smascheramento. Questo incubo, che lo richiama al dovere di dedicare tutto il suo tempo allo studio, toglie senso al cambiamento in corso, che appare come una perdita di tempo che, un giorno o l'altro, sarà pagata a caro prezzo.

I dati oggettivi sono quelli che sono. La professione di A. si basa sulla stesura di documenti che vengono vagliati solitamente da persone molto esperte. E' possibile che tutti si lascino ingannare? Che cos'è che sfugge loro? O, meglio, che cos'è che A. sente che manca nel suo lavoro? La risposta, che implica la verità, è che lavorare ormai gli viene troppo facile. Non pena più come prima. E se il lavoro non è frutto di un travaglio terribile, se non viene prodotto con sacrificio, se non porta al completo esaurimento delle energie, non può essere ben fatto. E' questa ideologia del lavoro dunque che intralcia e svuota di senso la presa di coscienza del cambiamento in atto. Sostenendola, A. rende ancora onore ai suoi che gliel'hanno trasmessa, come non volesse riconoscere il sacrificio inutile cui essi si sono sottoposti e nel quale l'hanno coinvolto.

3) Comportamenti

Lorenzo R. insegue da anni il sogno di una relazione duale che lo affranchi dall'angoscia che lo perseguita di finire solo come un cane. Il suo dramma interiore, che si esprime in penosi attacchi notturni di panico incentrati sul tema della solitudine, è minimizzato sia dai familiari che dagli amici. L. è giovane, attraente, socievole, ricco. Fin dall'adolescenza ha viaggiato in lungo e in largo, ha avuto sempre delle donne. Oggettivamente non è mai stato solo, nè lo è. I suoi sforzi di costruire una relazione sulla quale fondare un progetto matrimoniale sono però regolarmente naufragati. Il problema si definisce analizzando le relazioni che ha avuto.

L. va incontro piuttosto spesso a violenti innamoramenti che si mantengono finchè la donna oppone una qualche resistenza. Una volta, innamoratosi di una donna sposata e fedele, è rimasto incastrato nei tormenti di amore per due anni. Quando riesce a conquistare una donna e a legarla a sè, L. sente di toccare il cielo con un dito. Ma, dopo l'iniziale esaltazione, subentra prima l'apatia, poi l'insofferenza, infine il desiderio di liberarsi del rapporto. Sembra trattarsi di una banale fobia del legame affettivo, ma la sofferenza interiore di Lorenzo è troppo profonda.

C'è un retroterra biografico che va ricostruito. L. è stato un bambino difficilissimo. Descritto dai suoi come una peste, egli si rievoca di fatto come un bambino ribelle, capriccioso, oppositivo, arrogante. Con l'adolescenza, questo atteggiamento si radicalizza e si estende, al di là della famiglia, ai parenti, agli insegnanti, ai coetanei. Nel suo intimo, L. si rimprovera questi comportamenti ma non riesce a correggerli. A 14 anni prende coscienza del suo isolamento e dei giudizi negativi che incombono su di lui. Quasi da un giorno all'altro, si normalizza diventando affabile, disponibile, compito e rispettoso. La sua socialità si arricchisce e si avviano le esperienze affettive.

Il problema è che, nel suo intimo, L. sente che il suo nuovo modo di rapportarsi agli altri è una maschera dietro la quale è viva e vegeta la sua natura originaria. E' questa convinzione che spiega sia il suo rimanere vincolato alle donne che lo rifiutano, avendo capito com'è fatto veramente, sia il suo perdere interesse per quelle che cedono e che non valgono nulla poichè si lasciano ingannare, sia il suo timore di finire solo come un cane.

Come si può negare, del resto, ch'egli sia venuto al mondo fatto male se ha dato tanti problemi sin dai primi anni di vita? L. trascura un dato che ha sotto gli occhi. Vive ancora con i suoi, ma ha un'insofferenza radicale e cieca nei confronti della madre per via del suo perfezionismo. Egli non si sente mai libero, neppure nella sua camera. Esistono regole implicite in casa che concernono ogni azione. Il padre, dopo aver protestato per anni, si è arreso e vive come un automa. Lorenzo non si arrende, ma sente sempre incombere su di sè il giudizio implicito materno.

Il campo in cui è vissuto è, dunque, una gabbia implacabile di regole comportamentali alle quali egli ha cominciato ad opporsi precocemente. La sua volontà libera si è definita sempre e solo sul registro dell'opposizione alla volontà materna che pure è stata interiorizzata. La generalizzazione di questo conflitto ha determinato il fatto che L. si sente dotato di un'identità personale solo quando la sua volontà è antitetica a quella della persona con cui è in rapporto. Consentire, che è proprio di una relazione d'amore condivisa, gli ingenera dentro il terrore di essere assoggettato, preda della volontà altrui. Il fatto che egli entra in relazione e riesce a conquistare le donne falsificandosi non fa altro che porre i presupposti della liberazione.

Rosaria C., che fa il medico, non comprende il senso di un alternarsi continuo di periodi nel corso dei quali tende a sovraccaricarsi di impegni, azzerando ogni spazio di libertà personale, e di periodi caratterizzati da un vissuto di oppressione e di soffocamento che la inducono a liberarsene. In buona fede, pensa che la tendenza all'iperimpegno sia un modo per colmare il vuoto affettivo che la perseguita dacchè si è separata da un uomo con cui è convissuta due anni e da cui ha avuto un figlio. L'interpretazione è banale. L'esperienza affettiva di R. infatti è stata contrassegnata dalla stessa dinamica. Tutti i rapporti che ha avuto sono stati caratterizzati da una tendenza a chiudersi e a chiudere l'altro in una gabbia fusionale fino a sentirsi soffocare e a sentire di doversene liberare. R. insomma intrattiene con la realtà, a tutti i livelli, un rapporto claustrofilico che determina la reazione claustrofobica. Si tratta di capire come mai insista, in assoluta buona fede, in una direzione che è a vicolo cieco, e che, alla fine, alimenta la sua paura di rimanere sola e vuota.

R. pensa che ciò sia dovuto al suo esasperato bisogno di sentirsi confermata dall'esterno. Ma la legge che governa la realizzazione di questo bisogno è l'essere totalmente disponibile nei confronti delle aspettative altrui, sino al limite del sacrificio. E' questa una legge che vige nell'organizzazione sociale o una legge privata che domina il mondo interiore di R.? Si tratta chiaramente di una legge interiore che trova solo casualmente e raramente corrispondenza nelle richieste esterne. Questa legge impone a R. di annullarsi a favore degli altri per sentirsi confermata e al riparo dalla minaccia dell'abbandono e della solitudine infinita. Si tratta nè più nè meno di una riparazione. L'altruismo sacrificale è stata la richiesta originaria avanzata originariamente dalla madre, rimasta precocemente vedova, nei confronti di tutti i figli, giustificata dal suo sacrificio. A questa legge, che la assoggettava alle aspettative moralmente e socialmente perfezionistiche della madre, R. si è piegata sino a 25 anni, allorchè la ribellione l'ha portata a ridurre la sua disponibilità nei confronti della famiglia, a prendere le distanze dalla madre e a rivendicare il suo diritto di operare libere scelte di vita incentrate sui suoi bisogni personali. E' stata evidentemente, per effetto dei sensi di colpa, una liberazione apparente. La dinamica claustrofilia/claustrofobia esprime la cristallizzazione dell'esperienza interiore di R. su questo passaggio, al di qua del quale c'è la conferma, al di là del quale l'abbandono e la solitudine infinita.

4) Interazioni interpersonali

Eliana B., sposata con due figli adolescenti, impegnata da anni in un conflitto pressochè quotidiano col marito che essa ha sistematicamente esasperato pensando di poter essere spinta dalla rabbia a trovare la forza di separarsi, riferisce un vissuto che la mette a disagio. Ogniqualvolta riceve la visita della madre che ha settanta anni, avverte un intenso fastidio che viene recepito da quella con imbarazzo. Se poi è presente il marito, E. diventa aggressiva e li maltratta entrambi.

Di che genere di fastidio si tratta? E' come se si sentisse giudicata, ma non sa per cosa.

Due indizi preziosi sono i seguenti. Mentre vede un film in televisione con la madre, se capita qualche scena di sesso, E. prova un vivo imbarazzo. Quando la madre poi si ferma a dormire, si astiene dal raggiungere il marito nella camera da letto sino a tarda notte. Sembra si possa pensare ad una persistente vergogna infantile. Ma non è così.

A16 anni, E.lascia il paese natale per andare a studiare a Roma. La famiglia non esercita alcun controllo su di lei. A 18 anni comincia a convivere con un ragazzo in un appartamento di proprietà del padre, ed è mantenuta per anni finchè incontra quello che sarebbe divenuto suo marito. La scelta matrimoniale sorprende la famiglia. Il primo partner è una sorta di hippy, il marito un inappuntabile borghese.

Pochi mesi prima del matrimonio, il padre di E. muore. La madre ha 53 anni, ed è una donna ancora attraente e piena di vitalità. Il rapporto coniugale è stato infelice proprio in conseguenza di una diversità di carattere radicale: tanto il padre era abitudinario, conservatore, vincolato al suo piccolo mondo provinciale, tanto la madre inquieta, desiderosa di vita mondana e di viaggi. Le perpetue liti genitoriale sono stati uno dei motivi che hanno indotto E. a sentire il desiderio di fuggire di casa. L'alleanza con la madre si è tradotta poi in uno stile di vita manifestamente rivolto ad affermare l'indipendenza e la libertà della donna.

Dopo la morte del padre, E. si aspettava che la madre seguisse la sua vocazione, rifacendosi una vita. Questa, invece, pur concedendosi numerosi viaggi, è rimasta ostinatamente sola, nonostante numerose occasioni di rapporto. Tale solitudine, vissuta pateticamente dagli altri figli, ha assunto agli occhi di E. il significato di una rivendicazione orgogliosa di totale affrancamento dal bisogno dell'affetto, del sostegno e del rapporto sessuale con un uomo. Una rivendicazione che, a confronto, le fa vivere come un'umiliazione la sua dipendenza dal marito, che la rabbia perpetua non riesce a risolvere. E.ha pensato infinite volte alla separazione, ma sa che, se tentasse di agirla, precipiterebbe in una situazione di panico.

Il disagio riesce dunque interpretabile. Il giudizio soggettivo da cui E. si sente investita in presenza della madre concerne la sua sconfitta come donna che non è riuscita ad affrancarsi dal servaggio nei confronti dell'uomo. Per ciò essa deve esibire la sua aggressività nei confronti del marito, maltrattandolo al fine di simulare la sua disponibilità a giocarsi il rapporto. Per ciò si vergogna del fatto che la madre possa pensare che sia rimasta schiava del bisogno sessuale.

Con la sua diffidenza radicale nei confronti dell'altro, sottesa dalla convinzione di non poter essere amata, Simona P. è riuscita a distruggere un matrimonio. La diffidenza l'ha spinta per anni a mettere il marito alla prova per ricavare una conferma definitiva del suo amore. Non riuscendo mai a raggiungerla per via di un dubbio ossessivo che invalidava ogni conferma, essa è divenuta progressivamente aggressiva, insopportabile. Il mènage si è concluso traumaticamente. Dopo diciotto anni, il marito è fuggito di casa, lasciandola col bambino piccolo. Dal tradimento, naturalmente, S. ha ricavato una conferma della fondatezza della sua diffidenza.

Dopo due anni incontra un altro partner che manifesta nei suoi confronti un interesse sentimentale evidente. Lusingata, si abbandona al rapporto, ma, non appena si sente coinvolta, comincia ad avanzare sistematicamente dubbi sull'autenticità dell'amore dell'altro. A differenza del marito, che per anni ha tollerato passivamente di essere inquisito, il nuovo partner reagisce con uno sdegno vivacissimo e rabbioso che sorprende S. In fondo - pensa - esprimere dei dubbi sull'autenticità dell'amore non è che un modo per essere rassicurata. Il bisogno di conferma è il bisogno primario che essa riversa in un rapporto. Se il partner non intende soddisfarlo, la relazione perde significato per lei. La naturalezza di questo bisogno però è sospetta.

Il problema è che il nuovo partner, di origini sarde, è impregnato di una cultura per la quale dubitare di ciò che egli manifesta significa nè più nè meno accusarlo di mentire e sentirsi dare del bugiardo da colei cui lo lega un sentimento d'affetto è un'offesa intollerabile che può comportare la chiusura di un rapporto. Simona rimane perplessa. Impiega del tempo a capire che sta interagendo con una persona radicalmente diversa sotto il profilo culturale dal marito e dagli uomini che ha conosciuto. Apprende così dal partner che l'impegno sentimentale, contratto liberamente, è una questione di onore che comporta serietà e autenticità. Se i sentimenti cambiano, occorre farlo presente; ma, finchè essi si danno, non ci si gioca. S. prende atto, dunque, che la sua diffidenza è un problema soggettivo, con il quale deve vedersela prescindendo dall'illusione, coltivata per anni, di una soluzione relazionale.

5) Ricordi

Piero F. di 26 anni vive immerso in un perpetuo senso di colpa che gli restituisce la sua intera esistenza segnata da una pigrizia costituzionale e da una tendenza ribellistica che lo hanno portato in un vicolo cieco. La sollecitazione continua dei suoi gli hanno consentito di laurerarsi in ingegneria, ma nulla più possono contro una sorta di apatia che rende P. indifferente al mondo e al suo futuro. Egli non solo non è più recettivo nei confronti di quelle sollecitazioni, ma si irrita e spesso reagisce aggressivamente. E' sempre stato così. La madre cerca di aiutarlo sin dall'avvio della scolarizzazione, ma, di fronte al suo opposizionismo, cede e, sulla scorta di letture psicopedagogiche, lo lascia completamente libero. La carriera elementare è stentata. All'inizio della scuola media, è P. stesso a chiedere di essere nuovamente aiutato, e in virtù dell'aiuto riesce ad andare avanti sia pure a fatica e percependo comunque una sorta di viscerale avversione nei confronti dello studio, della cultura e più in generale degli impegni. L'università l'ha portata avanti come un automa. Dopo la laurea, ha sentito la sua energia vitale esaurirsi e contemporaneamente crescere una rabbia irrazionale contro tutto e contro tutti. In realtà, se le cose sono andate come sono andate la colpa è solo sua. I suoi primi ricordi rievocano un'immagine sgradevole di un bambino riottoso, esasperante, opposizionista e del tutto privo del senso del dovere, nonostante fosse amato e curato.

Uno sbaglio di natura, dunque, un errore genetico. Strano peraltro perchè i genitori sono entrambi persone responsabili, dedite alla famiglia e al lavoro. Al loro confronto P. si sente, nè più nè meno, 'una merda'. C'è qualcosa che non quadra, però. Sfogliando l'album delle fotografie, viene fuori un'immagine rimossa. E' quella di un bambino - di tre e quattro anni - sorprendentemente serio e compito, capace di comportarsi già da grande, di comportarsi adeguatamente a tavola e di fare discorsi inconsueti per la sua età. Non nascono bambini pregiudizialmente ostili alla civilizzazione, ma non ne nascono neppure di portati a crescere troppo in fretta. Il mistero si infittisce: il modello educativo adottato dai genitori è stato liberale, l'asilo frequentato era della Montessori. Quand'è che P. diventa aggressivo nei loro confronti? Quando sente, al di là dei discorsi sempre ragionevoli e misurati, che essi sono terribilmente ansiosi riguardo al suo futuro. L'ansia gli fa rimbombare dentro il presagio di una catastrofe che già fa parte del suo orizzonte soggettivo. Ma è un'ansia fondata: cos'altro potrebbero sentire in rapporto ad un figlio adulto che passa la giornata a letto o a vedere i cartoni animati? Affiora un altro ricordo. A tre anni e mezzo, mentre frequenta la Montessori, ove lo lasciano libero di fare quello che vuole, la madre si impegna a insegnargli a leggere e a scrivere. Riuscendo bene, P. si sente gratificato della sua superiorità rispetto agli altri. A quattro anni, la madre gli propone di studiare anche la matematica. Cominciano allora i problemi.

Un tipico effetto di campo, dunque. Coscientemente e in buona fede permissivi e autenticamente interessati al figlio, i genitori di P. lo hanno investito di un'ansia smodata, che ha prodotto prima effetti apparentemente positivi, di crescita precoce, e poi l'opposizionismo. Ma di che tipo di ansia si tratta? I genitori di P. non sono nè perfezionisti nè narcisisti. Sono impregnati però di un'ideologia del tempo che ne impone un investimento produttivo, finalizzato ad acquisire strumenti per integrarsi socialmente. Scelgono sì la Montessori, poichè l'indirizzo pedagogico corriponde al loro progressismo, ma in casa è stato sempre implicitamente vietato distrarsi e giocare. I conti tornano, i ricordi diventano significativi di un conflitto strutturale definitosi precocemente.

6) Sogni

‘Scaglio un pugno contro un bersaglio indistinto che però so essere mio padre. Il sogno si svolge al rallentatore. Mi rendo pertanto conto che l'energia investita nel pugno ä violentissima, ma, via via che diminuisce la distanza dal bersaglio, essa scema fino ad estinguersi. Il contatto che infine si realizza è poco più di uno sfioramento’.

Sogno ricorrente con una certa frequenza dall'età di quattordici anni, esso continua a riproporsi ad Andrea, che ormai ne ha ventidue, evocando al risveglio una reazione paradossale. Alcuni mesi fa, A. il pugno lo ha scagliato realmente, e con la stessa violenza rappresentata nel sogno, ma contro la libreria a vetri dello studio paterno, infrangendo un cristallo e producendosi, oltre ad un'emorragia copiosa, una recisione dei tendini del polso. Con un intervento chirurgico, la funzionalità della mano ä stata recuperata quasi del tutto. Al risveglio dal sogno, che dall'epoca dell'incidente, si è ripresentato con una frequenza maggiore rispetto al passato, A. non può fare a meno di fissare la cicatrice sul polso dandosi dello sciocco. Sa di aver corso un rischio piuttosto serio, e che l'acting-out ha prodotto un crollo nevrotico che si configura ai suoi occhi come un tunnel senza uscita. Di fatto, in conseguenza di esso, A. ha sviluppato una sindrome da attacchi di panico per cui ha paura di stare da solo in casa, non può uscire se non accompagnato e comunque non può allontanarsi che poche centinaia di metri dal palazzo ove risiede. Tale condizione ä vissuta drammaticamente, poiché A., dall'adolescenza in poi, ha sempre dato 'sfogo' alle rabbie e a un'innata irrequietezza viaggiando. Sacco in spalla, e spesso senza soldi, partiva, realizzando il mito di una vita aperta al rischio e all'avventura. Ridotto all'impotenza, osserva la cicatrice sul polso, chiedendosi se non sia il caso di riaprirla volontariamente e di farla finita.

D'acchito il sogno non sembra offrire alcun problema interpretativo. L'ambivalenza affettiva nei confronti del padre, che comporta un odio distruttivo, rappresentato dalla violenza del pugno, inibito da una soggezione sacrale ancora molto intensa, è evidente. Il carattere ricorrente del sogno attesterebbe inoltre inequivocabilmente la 'fissazione' del soggetto in un rapporto di sfida invidiosa nei confronti dell'onnipotenza paterna, che però approda allo scacco, alla scoperta dell'impotenza di quegli. Il problema, in un'ottica analitica tradizionale, verterebbe solo sulla decifrazione del carattere edipico e/o omosessuale del conflitto. Cosa mai può aggiungere un approccio struttural-dialettico a tanta evidenza? Intanto, raccogliendo la lezione freudiana, il dubbio riguardo al fatto che l'apparenza fenomenica rappresenti fedelmente la verità latente. A. scaglia il pugno contro un bersaglio che egli sa essere il padre. Ma, nonostante il sogno si sia ripetuto nel corso degli anni, il bersaglio si è configurato sempre come una sagoma indistinta, un feticcio, mai come una persona in carne e ossa. Si può pensare che tale raffigurazione esprima una rimozione, necessaria a celare l'odio ad personam. Non è così, dacché A., fin dal momento in cui carica il pugno di tutta l'energia di cui dispone, e dunque con l'intento di produrre un effetto distruttivo, sa di scagliarlo contro il padre. E' evidente che l'odio concerne non tanto il padre in quanto persona, bensì 'qualcosa' di indistinguibile dal padre: una forma. Nella realtà, il pugno è stato scagliato contro una libreria: impulsivamente ma non casualmente. La libreria custodisce gelosamente l'Enciclopedia Treccani, alla cui lettura il padre si dedica quotidianamente da anni. Funzionario ministeriale, egli non ha altri interessi al di fuori della coltivazione di una cultura di fatto enciclopedica. Da bambino A. rimane affascinato dalla saggezza del padre. al quale attribuisce una capacità onnicomprensiva dei fatti della vita. Sicuramente si identifica con lui, sviluppando un atteggiamento un po' sprezzante nei confronti della madre, donna semplice, apprensiva e chiusa nei suoi doveri domestici. Con l'avvento dell'adolescenza, l'identificazione con il padre va incontro ad una crisi drammatica. A., infatti, si rende conto dapprima che la saggezza di questi si riduce ad una filosofia di vita sostanzialmente pessimistica e nichilistica, incentrata su di una concezione della natura umana come un coacervo di irrazionalità, di egoismi e di bassezze. In secondo luogo, e ancor più dolorosamente, egli poi scopre che quella filosofia funziona come una corazza razionalistica che coarta ogni espressione spontanea della vita emozionale e e pone il padre al riparo da qualunque significativa interazione sociale.

Questa scoperta determina a quindici anni un repentino viraggio comportamentale e ideologico. Per sfuggire al modello paterno, A. dedica sempre meno tempo allo studio, si apre alla vita giovanile, si interessa di musica rock, frequenta gruppi di sinistra, comincia a viaggiare e avere esperienze erotiche. Questo cambiamento, che produce un'attivazione smisurata dell'ansia materna, incorre nel disprezzo gelido, implicito e esplicito, del padre, che non si traduce in alcun atteggiamento repressivo. A. sente che il padre lo considera nulla più che l'ennesima bestiolina umana venuta a turbare l'ordine razionale del mondo. Devastato dal peso di questo giudizio, più volte nel corso degli anni A. tenta di ingaggiare con il padre discorsi sul senso della vita e sui fatti umani. Per tanti aspetti, egli sa di aver ragione. Ma, sul piano dialettico, il padre, con le sue argomentazioni logiche e con dotti riferimenti culturali, riesce sempre ad avere la meglio e ad andare avanti finché A. si ritrova umiliato e impotente. La rabbia che egli sperimenta in queste circostanze - rabbia contro la persona e contro una cultura di cui è testimone non meno che vittima - è di fatto cieca e vendicativa. A ciò si aggiunge inoltre l'intuizione che anche la madre è stata trattata sempre come una serva e, benché indispensabile, intimamente disprezzata.

Nel corso di una discussione più aspra del solito, A. scopre qualcos'altro che sino allora ha solo confusamente intuito. Mentre il padre contesta la mediocrità culturale e sociale dei suoi amici, A. fa presente che egli almeno non è e non finirà solo come un cane. Il colpo, per la prima volta, arriva a segno. Il padre impallidisce, ammutolisce e trattiene a stento le lacrime. Repentinamente affluiscono alla mente di A. una serie di ricordi inerenti il comportamento impacciato del padre in presenza di familiari o di estranei. Quando il puzzle si completa A. sa che, sotto la corazza razionale, c'è un essere estremamente vulnerabile emotivamente. Più o meno a questa epoca risale il sogno divenuto poi ricorrente. E' superfluo aggiungere che nell'interazione quotidiana familiare, al di là di tale episodio, nulla è cambiato, neppure l'atteggiamento di A. inibito, però, ad un certo punto dalla paura di ferire profondamente il padre.

Con ciò, la struttura del sogno diventa intellegibile. Il bersaglio è la corazza razionale, la forma ideologica, impregnata di una ricca ma sterile cultura, nella quale il padre è calato e a cui non rinuncia. Forma odiosa e che lo rende pertanto odioso. La violenza del pugno scagliato esprime una rabbia cieca ma non immotivata: il rifiuto viscerale e irreversibile di un razionalismo gelido e sprezzante. Via via che il pugno si avvicina alla meta, esso perde di energia non a ragione della sacralità del ruolo paterno bensì dell'intuizione della fragilità e della vulnerabilità del padre in carne e ossa. Cionostante, quella rabbia, in quanto colpevolizzata, va comunque pagata. Congiuntura fatale, che il sogno stesso però attesta come rimediabile.

Cap. VIII IL LAVORO TERAPEUTICO (4)

B. L'evoluzione per crisi

Una regola che, nel corso della terapia dialettica, non è mai smentita riguarda l'evoluzione dell'esperienza che avviene per crisi successive ciascuna delle quali precede un salto di qualità che coincide con un equilibrio soggettivo di livello superiore. Questa regola è di estremo interesse sia teorico che pratico. Sotto il profilo teorico, essa conferma l'organizzazione strutturale del conflitto e la sua natura dinamica riconducibile alla teoria delle catastrofi.

Sotto il profilo pratico, l'evoluzione per crisi rappresenta un'amara sorpresa per i pazienti (e spesso più ancora per i loro familiari) che può essere alleviata dall'anticipare tale necessità nella fase d'avvio della terapia, nel corso della quale si realizza quasi sempre un consistente miglioramento, e dal sottolineare il fatto che ogni crisi può consentire di capire più in profondità la dinamica del conflitto.

Michela A., al rientro da un viaggio all'estero che doveva, nei suoi intenti, rappresentare la prova generale di un'autonomia dalla famiglia lungamente aspirata, cade in depressione. Nel giro di un mese la depressione vira in un quadro psicotico di tipo persecutorio che la rende agitata e incoerente. Il diario scritto prima e durante il viaggio e nel corso della depressione consente di capire facilmente ciò che è accaduto. L'autonomia per M. rappresenta una resa dei conti con una dipendenza che la perseguita da sempre e si configura come un'autosufficienza che postula lo scioglimento dei legami familiari. Non c'è da sorprendersi che la crisi la restituisce alla famiglia in una condizione di umiliante regressione, e che le voci che la perseguitano facciano esplicito riferimento alla sua insensibilità, all'egoismo e alla cattiveria. Trattandosi di una prima crisi e accettando M. la protezione della famiglia, pur con qualche atteggiamento aggressivo, il trattamento farmacologico si riduce ad una modica quantità di ansiolitici. La risoluzione della crisi avviene in due fasi: dapprima scompaiono le voci, e poi lentamente la depressione inibitoria si attenua. Dopo sei mesi, M. torna a studiare, a frequentare gli amici e appare, com'è nel suo carattere, vitale, un po' irrequieta e ciarliera. La famiglia grida al miracolo, e anche M. è sorpresa. Ma, in terapia, sono già stati raccolti indizi che attestano che il conflitto tra dipendenza e indipendenza si riproporrà, e, data la sua genesi di lunga data, sarà difficile che M. scampi al ricatto di cercare di risolvere il problema di forza: anestetizzandosi e trattando gli altri come oggetti. La previsione si avvera. Nel corso di una vacanza, M., influenzata dall’ambiente alternativo che ha scelto, perde ogni controllo: beve, fuma hascish, fa l’amore con diversi uomini. E’ un delirio persecutorio incentrato sul tema dell’indegnità e della colpa a indurla a desistere. Tale delirio si esaurisce poi in una condizione ‘devitalizzata’ di totale dipendenza dalla famiglia.

Il lavoro terapeutico dialettico è orientato a far prendere coscienza al soggetto del conflitto strutturale che sottende la sua esperienza, dei significati inerenti le polarità conflittuali e dell'estensione, più o meno invasiva, del conflitto nell'organizzazione della vita. Mentre la definizione del conflitto strutturale è abbastanza precoce, poichè - come si è detto - si realizza nella fase preliminare, la scoperta dei significati inerenti le polarità conflittuali e soprattutto la presa di coscienza dell’estensione del conflitto è lenta e graduale. Per esempio, l’analisi di un rituale pone rapidamente di fronte al fatto che la volontà soggettiva deve piegarsi a regole, più o meno ragionevoli, il cui rispetto scongiura una catastrofe per il soggetto stesso o per qualcuno che gli è caro. Ma il prendere coscienza che quelle regole fondano la loro efficacia costrittiva su di un potere che trascende il soggetto e lo tiene sotto controllo in quanto dotato di capacità di rappresaglia, quindi su di un potere a cui il soggetto attribuisce una volontà indipendente dalla sua avviene, non senza resistenze, nel corso del tempo. Capire infine che il rigido controllo assicurato dai rituali esprime, in ultima analisi, una paura profonda della libertà vissuta come incontrollabile e che tale paura postula una connivenza soggettiva, la quale è la matrice della necessità di essere controllati dall’esterno, è un ulteriore progresso che costa molto in termini emozionali. Il superamento di questa paura, infine, non comporta solo la presa di coscienza del suo significato e della sua genesi, bensì la capacità di agire la propria libertà affrancandosi dai rituali e dando a se stessi la prova di poter amministrare la propria libertà.

Se si tiene conto del procedere del lavoro terapeutico, non si stenta a capire perchè la terapia dialettica procede per crisi periodiche intervallate da fasi di relativo equilibrio. Le crisi si producono per molteplici motivi.

Talora esse sono riconducibili alla rabbia evocata da una ricostruzione dell'esperienza personale che pone in luce un concorso di variabili casuali - costituzionali, soggettive, ambientali - che, nel loro complesso, sembrano rappresentare a posteriori una trappola fatale. La rabbia promuove spesso comportamenti aggressivi nei confronti dei familiari e dei comportamenti di rottura rispetto ad un modo di essere che viene vissuto come non conforme alla libertà personale.

Sandra C., allorchè scopre che il suo inesauribile bisogno di amore è in realtà una condanna a dipendere, un rituale comportamentale che la costringe a calarsi nel ruolo, odiato da sempre, della donna tradizionale che non sussiste senza l’uomo, rimane traumatizzata. La sua storia l’ha sempre vissuta dall’interno. L’oggettivare il comportamento umiliante e servile che assume quando si sente minacciata da un abbandono che essa ha fatto di tutto per promuovere, le restituisce immediatamente l’incoerenza di tale comportamento con le sue credenze politiche e il suo orientamento femminista. Reagisce rabbiosamente alla presa di coscienza prescrivendosi un’astinenza relazionale di alcuni mesi. La decisione è prematura in rapporto alla condanna a dipendere in cui è vissuta, e la precipita in una condizione di panico permanente.

In altre situazioni la crisi sopravviene allorchè alcuni aspetti dinamici, semplicemente compresi, vengono vissuti immediatamente nella loro incidenza coercitiva.

Gabriele C. vive da anni in una condizione di depressione frusta dovuta all’infelicità del rapporto coniugale. G. e la moglie si sono conosciuti da ragazzi e si sono sposati sull’onda di un’affettività amicale che non è mai venuta meno. La donna, per problemi suoi personali, è incapace di esprimere tenerezza, non ha mai manifestato desideri sessuali rivolti al marito e si è prestata ai rapporti come una statua. G. vive per anni questa condizione come normale, equiparabile a quella di tante altre coppie, finchè non incontra una donna di cui si innamora essendone ricambiato. Il tradimento, dato il suo rigore morale e la sua scrupolosità, lo precipita in un’angoscia di colpa profonda. Avendo sperimentato il calore e il piacere nel rapporto con una donna, egli si chiede come ha potuto vivere per più di venti anni rinunciando ad essi, e apparentemente senza soffrirne. La risposta è semplice. Tutta la vita di G. si è svolta sul registro della mortificazione e della rinuncia, valori residuati ad un’esperienza religiosa giovanile profondamente partecipata che sono rimasti vivi nonostante l’abiura. Ha un incarico come dipendente pubblico di grande responsabilità, ma, pur essendo laureato, percepisce uno stipendio ridicolo. Non si è mai concesso delle vacanze, degli svaghi, dei consumi voluttuari. Coltiva interessi culturali, ma una stanza della casa, che sarebbe dovuta essere utilizzata come uno studio, è rimasta da sempre in uno stato inagibile. La mortificazione, soddisfacendo un bisogno inconscio profondo, non è mai stata vissuta come una condanna, finchè non si è animata una repentina ribellione che lo ha spinto al tradimento, a rivendicare una qualità della vita migliore. Non appena prende atto della logica che ha governato la sua esperienza, e comprende che la sua estensione riguarda tutti gli aspetti della vita, G. sente la necessità di ribellarsi. Rivendica una promozione lavorativa, si concede degli acquisti rimandati da sempre, incontra regolarmente la donna che ama, fa partecipe la moglie del suo desiderio di separarsi che viene accolto con serenità. Ma è proprio in questa fase di ristrutturazione della sua esperienza che G. si imbatte in un ostacolo rilevante. Tutti i piaceri che si concede vengono pagati al prezzo di crisi di angosce di colpa sempre più rilevanti che lo portano sull’orlo della disperazione e inducono la convinzione di dover tornare suoi suoi passi.

In altre situazioni ancora, la crisi assume una singolare configurazione ossessiva caratterizzata dal fatto che il soggetto sente di non potere restaurare l’inconsapevolezza riguardo alla sua condizione preesistente e nel contempo di non poterla cambiare.

Elisabetta S. si è precocemente fidanzata con un bravo ragazzo che le dava sicurezza senza amarlo. Se lo è imposto, e ha portato avanti il rapporto per dieci anni. Chiede aiuto per via dei comportamenti maltrattanti, del tutto ingiustificati, cui sottopone il partner, e che la colpevolizzano profondamente. L’analisi rivela l’inconsistenza sentimentale del rapporto, nel quale E. si è calata dopo una vacanza nel corso della quale aveva avvertito la possibilità di abbandonarsi ad una vita disordinata. Data l’affidabilità del fidanzato, il rapporto soddisfa pienamente il bisogno di sicurezza di E., ma frustra del tutto il suo bisogno di amore. Il maltrattamento è un comportamento orientato a indurre il partner a concederle la libertà, dato che lei non ha il coraggio di prendere una decisione radicale. E’ chiaro però che il partner, che le vuole autenticamente bene, continuerà a subire come ha sempre fatto. Posta di fronte alla necessità di prendere una decisione, E. interrompe il trattamento, si convince di voler bene al partner e lo sposa. Dopo due mesi di matrimonio è in crisi profonda. Sente il bisogno di frequentare un collega di lavoro che la attrae e la corteggia da anni. Tradisce il marito scoprendo di avere una natura passionale e sensuale. Sopravvengono degli attacchi di panico che la inducono a chiedere nuovamente aiuto. E’ chiaro che, sposandosi, E. ha operato una forzatura, imponendosi di rinunciare all’amore per vivere tranquilla. Sentirsi definitivamente vincolata ad un uomo che non ama le risulta ormai intollerabile. Separarsi evoca lo spettro della solitudine, poichè l’amante non è in grado di offrirle alcuna certezza in rapporto al futuro. E. è insomma nel guado: non può tornare dietro, restaurando le illusioni che ha coltivato per anni, e non può procedere, separandosi e accettando il rischio della nuova relazione. La condizione, soggettivamente dolorosissima, richiede l’analisi di un bisogno di sicurezza che essa continua a sentire come suo ma che è chiaramente alienato, funzionale al mantenerla nell’ordine grigio che ha governato la sua esperienza familiare.

Si danno poi crisi di rigetto che concernono passaggi rischiosi che, dal punto di vista terapeutico, vengono previsti e proposti come obbligati. Tali crisi si intrecciano quasi sempre alla consapevolezza del conflitto in gioco e all’intuizione della responsabilità soggettiva inerente l’ammninistrazione dello stesso.

Michela A., dopo la seconda crisi, sviluppa una consapevolezza piena del problema che deve affrontare. Si tratta di recepire la spinta libertaria che urge dentro di lei, e che ha un carattere turbolento dovuto alla lunga frustrazione moralistica e a un ideale dell’io anarchico, e di canalizzarla in maniera tale da impedire che essa assuma un carattere trasgressivo che attiva i meccanismi superegoici repressivi. La consapevolezza dunque è che, data la struttura del conflitto con cui convive da anni, non si dà una guarigione spontanea, bensì solo la possibilità di un’evoluzione che richiede soggettivamente un grande impegno e che, ciononostante, non la mette al riparo da qualche ulteriore crisi. L’effetto di questa consapevolezza è che, pure allentandosi progressivamente, un certo grado di inibizione persiste. M. confessa infine che ha paura di affrontare una nuova prova, che la terrorizza la possibilità di perdere nuovamente il controllo su di sè e di dovere affrontare un altro periodo di regressione.

Si dà anche un'ulteriore circostanza critica, che è la più paradossale. Essa si realizza allorchè il soggetto ha bisogno di verificare la propria libertà sospendendo tutti i doveri sociali e gli impegni, e immergendosi in una sorta di inerzia totale.

Maurizio B., raggiunta la laurea e quindi pagato il debito alla madre, si è chiuso in casa per circa un anno rifiutando qualunque impegno e dedicandosi ai giochi e alle letture. L'esperienza, che ha gettato la famiglia nello sconforto, è risultata salutare. Sperimentando, nonostante i sensi di colpa, la sua capacità di astenersi da ogni dovere, M. si è finalmente convinto di essere dotato di una volontà propria non più influenzabile da quella altrui, e ha ripreso il suo tragitto di vita.

Massimiliano C., dopo la crisi psicotica che ha interrotto il suo fin troppo brillante tragitto di studio nel corso della terza media, riesce a superare l’esame di licenza e s’iscrive al liceo. Dopo alcuni giorni dall’inizio dell’anno scolastico, deve desistere per via di un’angoscia claustrofobica che gli impedisce di stare in classe. L’angoscia segnala un opposizionismo radicale inconscio nei confronti di qualunque impegno sia pure minimamente coercitivo. Animato da una volontà di primeggiare nella quale si riflette ancora il perfezionismo che è esitato nella crisi, M. tenta di studiare da solo ma scopre di avere una repulsione insormontabile nei confronti dei libri. Per un anno intero deve arrendersi all’opposizionismo che lo costringe a concedersi una libertà totale. All’inizio soffre e si dispera perchè pensa che la malattia abbia compromesso definitivamente le sue capacità intellettive. Solo lentamente, analizzando il modo volontario con cui abbandona dopo pochi giorni gli impegni liberamente intrapresi per occupare il tempo (frequentazione della palestra, studio della chitarra, ecc.), comprende e accetta che l’opposizionismo mira a sconfiggere il perfezionismo che lo ha schiavizzato.

Quest’ultimo caso merita una riflessione che, per alcuni aspetti, può essere generalizzata. Nell’ottica della neo-psichiatria, il sopravvenire di un ritiro dal mondo e del rifiuto di ogni impegno dopo una crisi psicotica acuta viene interpretato come un indice prognostico negativo, come la prova di un’evoluzione processuale, che si tenta di rallentare con interventi farmacologici massicci. Tali interventi non valgono a riabilitare il paziente ma di fatto, per gli effetti diretti e collaterali dei farmaci, inattivano le potenzialità sia intellettive che emozionali sicchè, allorquando la dinamica opposizionistica si esaurisce, il paziente non è in grado di riprendere il corso della sua vita. Si realizza per ciò, in non pochi casi, il passaggio da una situazione dinamica ad una di precoce cronicità.

Analoghe considerazioni si possono fare per numerose crisi psicopatologiche che hanno un significato evolutivo ma che vengono regolarmente equivocate dai neo-psichiatri come indiziarie di un peggioramento della malattia e trattate di conseguenza.

2) Il problema delle resistenze al trattamento

Tranne casi piuttosto rari, nel corso del trattamento dialettico ci si imbatte sempre, prima o poi, in vissuti o in comportamenti che sembrano attestare una resistenza che il soggetto oppone al trattamento stesso. Si possono distinguere due modalità fondamentali attraverso le quali la resistenza si manifesta.

La prima si esprime sotto forma di un atteggiamento perennemente scettico nei confronti della terapia, ipercritico, contestatario per quanto concerne le interpretazioni e talora verbalmente aggressivo nei confronti del trerapeuta. Questa circostanza si presenta spesso allorchè i soggetti, particolarmente gli adolescenti e i giovani, si sentono costretti a sottoporsi al trattamento per sedare le ansie dei genitori o per ottenere dalla loro accondiscendenza qualche vantaggio secondario.

Giorgio S., che ha avuto una carriera scolastica discreta, comincia a manifestare a 17 anni un disinteresse completo nei confronti dello studio. Dopo i risultati negativi del primo trimestre, la madre, che è una donna estremamente apprensiva, lo sollecita a farsi aiutare da qualcuno. G. cede per farle piacere. Il problema psicopatologico è reso evidente dal fatto che il disinteresse per lo studio è una conseguenza del fatto che G. è impegnato gran parte del giorno ad eseguire dei rituali impercettibili agli occhi degli altri insorti nel corso dell’estate in conseguenza del rapporto con una prostituta. Egli minimizza questo aspetto, che però risulta significativo in virtù del fatto che comportamenti rituali, sia pure meno gravosi, si sono definiti a partire dalla seconda media, associati a incubi notturni. Il tentativo di renderlo consapevole che, nonostante l’evidente perfezionismo materno, tali comportamenti attestano un conflitto interiorizzato in virtù del quale una parte della sua mente gli impone doveri ai quali nella realtà egli si è sempre ribellato, fallisce. G. sostiene che, se potesse andar via di casa, tutto si risolverebbe. Non potendolo fare, si limita a tenere a freno l’ansia della madre facendo la terapia. Ma non ci crede. L’interesse vivo che ha da anni per l’informatica lo ha reso scettico nei confronti delle chiacchiere e della psicologia. Purtroppo, i rituali interferiscono pesantemente anche a livello di questo interesse. Chiarito con G. il principio per cui la terapia ha senso solo se essa corrisponde ad una motivazione personale, sembra giusto dargli il tempo di maturare tale motivazione. Ai familiari si fa presente che la condizione del figlio probabilmente evolverà in senso negativo, ma che questo rischio va corso perchè egli sviluppi una consapevolezza dei problemi. La loro ansia incontrollabile li porta a consultare altri specialisti che prescrivono cure psicofarmacologiche che il figlio rifiuta nella maniera più assoluta. Dopo sei mesi, è egli stesso che chiede di riprendere l’esperienza, perchè i rituali ormai non gli consentono neppure di respirare e sono comparse delle fantasie parassitarie che lo terrorizzano.

Questa stessa resistenza può comparire anche in soggetti adulti che avviano spontaneamente il trattamento. In tale caso essa è quasi sempre l’equivalente di un opposizionismo radicale che rivela un’incoercibile paura di essere influenzati.

Marco S. è un provocatore di professione. E’ stato fin da bambino opposizionista e negativista. Con l’adolescenza è divenuto anche aggressivo sia in casa che fuori casa. Ha terminato a fatica gli studi superiori e poi si è insabbiato, coltivando nel suo intimo il sogno di fare l’attore di cinema. Non è una pretesa infondata. M., oltre che di un physique du rôle adeguato, dispone di una buona cultura, in gran parte autodidattica, e di attitudini coltivate attraverso corsi notevolmente impegnativi. Il problema è che le sue esperienze lavorative abortiscono costantemente perchè entra in conflitto con il regista. Il conflitto è sempre motivato. M. non è anarchico, non ha un partito preso con l’autorità, ma intende il lavoro come una collaborazione tra soggetti creativi nessuno dei quali ha il diritto di imporre agli altri le proprie idee. Per esprimere il suo bisogno di pari dignità, frustrato originariamente da due genitori sessantottini, aperti e colti, che sapevano tutto loro, ha scelto un ambito di lavoro poco idoneo a recepire istanze antigerarchiche. Nonostante il rapporto terapeutico si istalli su di un registro che esclude l’ipse dixit, e all’interno del quale tutte le interpretazioni sono proposte come ipotesi di lavoro argomentate, M. non può fare a meno di rifiutarle pregiudizialmente e di tentare sofisticamente di smantellarle logicamente. Si rende conto però che la sua partecipazione al rapporto è pregiudiziale, e non può attribuirla ad un autoritarismo latente. Alla fine cede e riconosce che dare credito ad una qualunque idea, per quanto suggestiva, che non sia sua, gli pone il problema angoscioso di pensare di potere essere influenzato, plagiato senza accorgersene.

La seconda modalità si esprime viceversa attraverso una partecipazione al rapporto apparentemente buona e attiva, che sembra coincidere con la volontà di cambiare. Essa è attestata però dal fatto che, mentre il processo di comprensione della storia interiore procede e viene acquisito soggettivamente, nella realtà della vita quotidiana non sopravviene alcun cambiamento. In tali casi ci si riferisce di solito o a un processo di razionalizzazione, per cui le interpretazioni vengono capite ma non vissute, o ad una presunta volontà del paziente di non guarire. I tentativi di isolare emozionalmente i contenuti delle interpretazioni terapeutiche, in effetti, si pongono, quasi sempre in rapporto ad una struttura ossessiva, ma vengono facilmente scalzati dalla tecnica dialettica in virtù del suo orientamento attivo che mira al cuore del problema.

Salvatore D., medico di base, desidera semplicemente avere dei consigli su come diminuire il suo nervosismo. Tiene a sottolineare che nella sua vita, sia professionale che familiare, tutto va per il meglio. Il nervosismo, oltre che in una difficoltà di addormentamento, si esprime in banali tics che sopravvengono spesso nel corso della giornata. Sono tanto banali che S. ritiene che non abbia senso parlarne. In realtà - ma occorre del tempo per accertarlo - non si tratta di tics ma di rituali piuttosto complessi. S., di solito mentre lavora, è costretto a ritirarsi in un’altra stanza e a "sciogliere" i muscoli della nuca che sente come annodati. E’ - sostiene - una tecnica di rilassamento che non può eseguire in presenza dei pazienti. Una tecnica piuttosato particolare peraltro, poichè S. deve scuotere violentemente la testa a destra e a sinistra in movimenti che mimano chiaramente un diniego, fare delle smorfie, aprire la bocca, digrignare i denti e, talora, protrudere la lingua. Il rituale dura circa quindici minuti. Che cosa penserebbe qualcuno se potesse assistere al ‘rilassamento’? S. è terrorizzato da questa idea, poichè la sua immagine oggettivata gli risulta un incrocio tra un mostro, Mister Hyde e il diavolo. E se i rituali rappresentassero l’espressione di una protesta rabbiosa contro un regime di vita troppo coercitivo? S. ironizza sull’ipotesi. Ha scelto la professione ed è contento dei risultati conseguiti. E’ credente, e gli sembra che la medicina gli consenta anche di soddisfare un bisogno di dedicarsi agli altri. Purtroppo per i suoi livelli di razionalizzazione, l’esecuzione dei rituali si associa a delle fantasie parassitarie inequivocabili: l’esigenza del rilassamento insorge infatti quando gli passa per la testa l’idea di mandare a quel paese i pazienti. La pratica della medicina di base - sostiene - è un po’ stressante. Ma i rituali si presentano anche quando è in chiesa, immerso nella preghiera, e sono preceduti da orribili bestemmie. Mister Hyde e il diavolo non c’entrano. S. insiste a ritenere sua una scelta di vita perfezionistica che, di fatto, è stata imposta sul piano morale dall’educazione religiosa e su quello sociale dall’ambizione di riscattarsi da origini estremamente umili.

La volontà di non guarire è una formula mediocre adottata talora da terapeuti incapaci di tollerare le frustrazioni. Nella realtà clinica si danno situazioni che sembrano comprovarla, ma un’analisi più approfondita rivela una serie di motivazioni complesse.

In alcuni casi, è in gioco infatti la scrupolosità, la paura di danneggiare qualcuno in conseguenza di un cambiamento di atteggiamento o di vita.

Nel giro di un anno dall’insorgenza della crisi, Gabriele C. prende atto del fatto che non ha senso continuare a portare avanti un ménage coniugale fondato solo su di un affetto di tipo fraterno. La moglie è d’accordo sulla separazione, e gli chiede solo di potere continuare a contare su di lui. Lo aiuta addirittura ad acquistare una casa limitrofa a quella nella quale abitano. Le figlie, di undici e sette anni, sono messe al corrente del cambiamento cui si andrà incontro, e, dato il modo sereno in cui esso viene proposto da entrambi i genitori, non sembrano particolarmente turbate. Giovanni, che si è sempre preso molta cura di loro, le rassicura sul fatto che, per questo aspetto, non devono temere alcunchè. La nuova casa viene arredata. Nel momento in cui Giovanni comincia a preparare le valigie, subentrano degli attacchi di panico incentrati su angosce di colpa riferite alla possibilità di danneggiare irreversibilmente le figlie.

In altri casi, il cambiamento è ostacolato dalla convinzione di danneggiare se stessi irreversibilmente.

Francesco I., ingabbiato precocemente in un habitus di serietà e di responsabilità, ha trascorso l’adolescenza tra la chiesa e i libri di scuola. A 27 anni tenta di assecondare un modello di vita ‘serio’ fidanzandosi ufficialmente. Il vincolo attiva però un’angoscia claustrofobica intensissima e fantasie di tradimento ossessive. F. interpreta tali fantasie come espressione della natura umana ribelle ai valori positivi proposti da Dio e si impone di lottare contro di esse. La lotta si esaurisce quando prende atto che l’unico esito dei suoi sforzi è quello di incrementare la sua sete di libertà e di piacere. Lentamente comincia a leggere in essa una rivendicazione alla quale decide infine di dare corso. Ma nel momento in cui comincia a frequentare delle donne e a scoprire di avere un notevole potere di seduzione viene investito dalla fobia di abbandonarsi a rapporti occasionali e di poter contrarre una infezione.

Oltre alla paura di danneggiare gli altri o se stessi, occorre considerare la resistenza paradossale legata ad un vissuto profondo che identifica nella scissione conflittuale, e dunque nella possibilità di operare decisioni e di agire comportamenti antitetici, un’espressione di libertà. Massimamente evidente negli ossessivi che, pur sconvolti dalla loro cattiveria interiore, sono terrorizzati dall’idea di poter rientrare definitivamente nella loro pelle di esseri sensibili perdendo un’indispensabile difesa e diventando inermi, questa resistenza si esprime anche nel corso di esperienze isteriche allorchè è chiaro che il passare dalla dipendenza fusionale al rigetto della relazione, dall’amore all’odio, dalla tenerezza al sadismo viene vissuto come espressione di un’identità che, rifiutando un rapporto univoco con la realtà, rimane aperta a ogni possibile modo di essere. In questi casi il cambiamento urta quasi sempre contro l’angoscia di una definizione irreversibile di sè che potrebbe essere del tutto alienata.

Alessandro S. impiega due anni a capire il senso delle sue angosce che sommano la paura di essere danneggiato (dalle siringhe lasciate in giro dai tossicodipendenti) e di danneggiare (guidando la macchina) e degli infiniti rituali che hanno ingombrato la sua esperienza. Preso atto di un incattivimento adolescenziale mirante a porre rimedio ad una sensibilità scrupolosa catturante e dei sensi di colpa prodotti dalla sua totale identificazione con un ideale dell’io anestetizzato e capace di far male senza nutrire rimorso, si orienta verso un modo di sentire e di essere più congeniale alla sua originaria sensibilità. Le angosce e i rituali spariscono come d’incanto. Alessandro si ritrova ad essere completamente libero e padrone di sè. Una mattina, guardando fuori dalla finestra con lo stato d’animo di un miracolato, si chiede perchè non potrebbe scendere per strada e uccidere il primo che gli capita a tiro. L’angoscia di essere libero ma pericoloso attiva di nuovo sia le angosce che i rituali. Occorre tempo perchè Alessandro capisca che quel pensiero attesta la sua difficoltà di rientrare nella sua pelle e di affrancarsi totalmente dall’ideale dell’io onnipotente e malvagio, e che questa difficoltà attesta che egli continua a sentirsi protetto da quell’ideale in rapporto a possibili prepotenze cui potrebbe essere assoggettato.

Rossella B., che si avvia verso i quarant’anni, non si arrende all’evidenza di una carriera relazionale contrassegnata da una guerra perpetua condotta contro l’uomo che attesta di fatto la sua volontà inconscia di rifiutare un rapporto di coppia tradizionale. Continua ad aggrapparsi alla speranza di poter costruire una relazione e arginare con essa l’angoscia di solitudine che la opprime. Un nuovo rapporto la pone di fronte alla dinamica consueta. Si aggrappa all’uomo come se lo amasse infinitamente, poi lo attacca in maniera sempre più violenta sino a provocare l’abbandono. La consapevolezza della scissione le si impone, ma associata all’intuizione che essa ha bisogno di sentirsi libera di stare in relazione e di poterne uscire. Nella ambivalenza dei suoi comportamenti, insomma, legge l’espressione di una libertà che ritiene incompatibile con qualsivoglia definizione irreversibile di sè.

C’è da considerare infine la resistenza opposta dal bisogno inconscio di punizione e di riparazione, che spesso è molto difficile da sormontare poichè evoca il timore di una rappresaglia superstiziosa.

Allevata da una madre religiosissima, la cui vita è stata un perenne sacrificio incentrato sul dovere di assistere il marito malato, Orietta F., nata ultima figlia senza essere stata desiderata, ha sempre sentito incombere su di sè l’aspettativa della madre di indurla a farsi suora. A Tal fine, ha frequentato per anni la parrocchia subendo infinite mortificazioni e repressioni da parte di un anziano sacerdote in odore di santità impregnato di un cupo moralismo. Diventata adolescente Orietta si è ribellata al prete e al sacerdote e ha sviluppato reattivamente un orientamento di vita edonistico. Sposa infine senza esserne innamorata un agiato artigiano che dovrebbe consentirle di fare la ‘signora’. Si distacca dalla madre e dalla famiglia e tenta in effetti di cambiare vita, concedendosi lussi e consumi di ogni genere. Comincia però a soffrire di disturbi psicosomatici seri che spesso assumono la configurazione di attacchi di panico. Nel giro di alcuni mesi Orietta è relegata in casa, depressa, incapace di prendersi cura di sè. Deve fare i conti con i sensi di colpa legati al tradimento del modello sacrificale interiorizzato e alla consapevolezza dello stato di bisogno in cui vive la sua famiglia. Via via che esce dalla depressione, le riesce evidente il rapporto tra i disturbi psicosomatici e i piaceri che si concede, che vengono regolarmente pagati. Come pure che, ogniqualvolta se li concede, la sua mente è attraversata dal fantasma rabbioso e rimproverante del prete.


Cap. IX CRISI ACUTE E PSICOSI

La neopsichiatria fonda gran parte della sua credibilità sui successi terapeutici che vanta nell'ambito delle situazioni psichiatriche gravi: le crisi acute e le psicosi. Tali successi sono legati all'uso massiccio degli psicofarmaci, la cui adozione, che risale ormai a circa cinquant'anni fa, viene proposta come l'unica autentica rivoluzione avvenuta in ambito psichiatrico che avrebbe realizzato i sogni dei precursori, i padri fondatori della psichiatria come branca della medicina. Il tentativo attualmente in atto di estendere a tutto l'universo del disagio psicologico il paradigma organicistico, privilegiando in assoluto la terapia farmacologica, fa leva su quei successi.

Occorre intanto restaurare una verità storica. L'uso dei neurolettici negli ospedali psichiatrici negli anni '50 conseguì effettivamente dei risultati rilevanti. Ma intanto tali risultati, a posteriori, vanno riferiti solo in parte agli effetti allucinolitici: l’agitazione psicomotoria da cui molti pazienti furono liberati era infatti meno il prodotto della malattia che dell’istituzionalizzazione. In secondo luogo, essi furono dovuti agli effetti sintomatici dei neurolettici, che resero i pazienti più trattabili e più comunicativi, non meno che al mutato atteggiamento degli operatori nei loro confronti. Gli psichiatri ripresero a frequentare i padiglioni e a parlare con i pazienti per verificare l'effetto delle nuove cure; ricominciarono, sia pure in un'ottica oggettivante, a interessarsi a loro. Gli infermieri furono impegnati a redigere con maggiore cura i loro diari e, quindi, ad osservare con più attenzione i comportamenti dei pazienti. La maggiore docilità e comunicatività di questi indusse inoltre in loro un atteggiamento più umano. Esauritasi la ‘sperimentazione’ farmacologica, che tra l’altro costò un numero imprecisato di vittime degli effetti tossici, la standardizzazione delle cure e il disinteresse degli operatori sanitari e parasanitari indusse una regressione _ tanto grave da promuovere, nel corso degli anni sessanta, il movimento antistituzionale. Il potere limitato degli psicofarmaci è attestato dal fatto che, all’avvio di questo movimento, nonostante l’uso corrente negli ospedali psichiatrici di dosaggi farmacologici massicci, il ricorso alle contenzioni fisiche, sintomo dell’insufficienza della camicia di forza chimica, era diffusissimo.

L' equivoco di attribuire al trattamento farmacologico tutti i miglioramenti riscontrati trovò la sua massima espressione nel corso della sperimentazione coeva dell'insulinoterapia, che, dopo eclatanti successi, venne abbandonata allorchè risultò chiaro che la cura funzionava solo per effetto del 'maternage' cui essa obbligava gli operatori: maternage che, animato in una prima fase dall'interesse sperimentale, si era poi tradotto in un trattamento tecnico, standardizzato, che ne aveva ridotto nettamente gli effetti terapeutici.

Questi richiami storici, che attestano l'importanza del rapporto psichiatra-paziente e in senso lato dei fattori ambientali, sono stati del tutto rimossi dalla neo-psichiatria che ripropone per le psicosi un trattamento oggettivante, incentrato per un verso sul difetto di coscienza di malattia e per un altro sull'identificazione dei sintomi con il processo morboso. Alla luce di questi presupposti, il trattamento standardizzato prevede l'uso massiccio di psicofarmaci nelle prime crisi al fine di ottenere la remissione dei sintomi. Sia che questa si realizzi o meno, il trattamento con psicofarmaci va comunque proseguito. Per os, se il paziente non si ribella al trattamento ad oltranza o se gli psicofarmaci possono essere somministrati dai familiari; per via iniettiva, utilizzando i farmaci depôt, altrimenti. I dosaggi vengono aggiustati in rapporto al decorso. Solitamente elevati, essi vengono incrementati ogniqualvolta si dà una riaccensione più o meno critica dei sintomi. La qualità di vita del paziente è ritenuta del tutto secondaria in rapporto all'esigenza di contenere e ritardare il decorso progressivo delle psicosi. Di conseguenza gli effetti collaterali degli psicofarmaci maggiori, soprattutto l'aumento di peso e il rallentamento delle funzioni psichiche, vengono ritenuti mali minori. E’ vero che la ricerca e la immissione sul mercato di nuovi antipsicotici mira alla riduzione degli effetti collaterali, i quali promuovono spesso un difetto di compliance da parte dei pazienti. Ma questo intento sembra riguardare esclusivamente gli effetti collaterali soggettivi. Per quanto concerne quelli oggettivi tende piuttosto ad affermarsi il principio per cui il fine - il contenimento del processo psicotico - giustifica i mezzi. Due esempi bastano a confermarlo. In ordine al presupposto per cui, in quasi tutti i casi di psicosi, sono presenti disturbi dell’umore, ai neurolettici viene associata la carbamazepina a dosaggi che incrementano il rischio di un’agranulocitosi fatale. Sempre più spesso inoltre, tra i neurolettici, si fa ricorso alla clozapina, una sostanza scoperta negli anni ‘80 ma non utilizzata clinicamente sino a pochi anni fa per la sua tossicità a tal punto elevata da comportare una mortalità statistica oscillante intorno allo 0,5% dei pazienti!

Dal punto di vista dialettico, questa impostazione del trattamento delle psicosi è _ irrazionale per molteplici aspetti. In primo luogo essa fa di tutt'erba un fascio. Nonostante le sottili distinzioni del DSM, che recepiscono l'esistenza di crisi psicotiche acute che non hanno un significato prognostico negativo, l'impostazione del trattamento neopsichiatrico standardizzato è univoco, e muove sempre dall'assunto che a sintomi maggiori corrispondano processi morbosi gravi. In secondo luogo, la remissione dei sintomi viene perseguita con un accanimento terapeutico del tutto fuori luogo allorchè la strutturazione psicopatologica, per esempio di un delirio, lascia pensare che esso abbia una funzionalità psicodinamica che lo rende refrattario ai farmaci. In terzo luogo, l'uso di dosaggi elevati e il loro incremento nel corso degli anni determina rapidi viraggi verso forme precoci di cronicizzazione che esitano, anche a livello giovanile, in uno stato di rassegnazione animato da una rivendicazione assistenzialista. La produzione di psicotici cronici di trent'anni che premono, con le famiglie, sulle strutture pubbliche per ottenere sussidi, pensioni di invalidità, redditi da lavori fittizi e assistenza continuativa ecc. sta diventando un problema sociologico di grande portata.

Opporre al modello standardizzato di trattamento neopsichiatrico delle psicosi un modello psicoterapeutico non ha gran senso. Se in tutto l'ambito del disagio psichico lo scarto tra potere esplicativo psicodinamico e efficacia terapeutica è rilevante, poichè l'efficacia dipende da una serie di variabili soggettive, familiari e socio-culturali non codificabili, al punto che essa si può definire in parte casuale, nell'ambito delle psicosi questo scarto diventa massimale. La strutturazione delle psicosi è tale da rendere quasi sempre trasparente la trama psicodinamica che le sottende. Ma questa trasparenza richiede solitamente un lungo lavoro per approdare a cambiamenti rilevanti, e ciò avviene piuttosto di rado. Ci si deve anzitutto interrogare su tale scarto.

Un primo problema di fondo è rappresentato dall’orientamento ingenuamente realistico della coscienza, avallato dalla cultura corrente d’impronta spiccatamente pragmatica. Il realismo ingenuo della coscienza, in conseguenza del quale pressochè tutti i vissuti soggettivi vengono immediatamente riferiti al mondo esterno e interpretati come rispecchiamento della realtà oggettiva, è un fatto universale. Cionondimeno è assolutamente sorprendente il fatto che la nostra cultura, nella cui storia la messa in crisi dello statuto della coscienza, avviata dalla filosofia e portata a compimento dalla psicoanalisi, data ormai da due secoli, rimanga vincolata alla banalità del senso comune irretito dall’affacciamento della coscienza sul mondo percettivo. Il superamento di questa banalità, per cui esse est percipi, dovrebbe avvenire a partire dalla scuola. Ma di una riforma che avvii una costruzione critica della coscienza e promuova la consapevolezza del suo essere un’interfaccia tra un mondo esterno e un mondo interno capace di produrre fenomeni mentali di ogni genere, comprese percezioni senza oggetto che sono peraltro onnipresenti a livello onirico, non v’è traccia anche nelle proposte più recenti. Ci si può chiedere se una riforma del genere varrebbe a rendere più semplice l’accesso alle psicosi predisponendo i pazienti a non ritenere squalificante il fatto di produrre delle allucinazioni. Si possono avanzare dubbi legittimi a riguardo ma sarebbe comunque meglio, per tutti, che la coscienza sociale e individuale assumesse, in rapporto ai fenomeni mentali, una flessibilità di cui attualmente difetta.

Un secondo problema è da ricondurre all’incombenza culturale del fantasma della follia e all’incidenza sociale di tale fantasma. Nonostante il contributo delle scienze umane e sociali, e in primis della psicoanalisi, che relativizzano il rapporto tra normalità e anormalità e ammettono uno spettro continuo tra di esse, la cultura corrente, per effetto soprattutto della psichiatria, continua a qualificare le due dimensioni come antitetiche e qualitativamente affatto diverse. In conseguenza di ciò la difesa della propria normalità viene a coincidere con la difesa della propria dignità e dell’appartenenza sociale. Non occorre molto a capire che numerosi psicotici, pur consapevoli delle loro sofferenze, devono negarle per paura di essere etichettati. La neo-psichiatria porta avanti, riguardo a questo problema, una propaganda inutile fondata sulla naturalizzazione della malattia mentale che andrebbe vissuta e affrontata come qualunque altra malattia. Il superamento del pregiudizio sociale nei confronti della malattia mentale sarebbe, da questo punto di vista, un progresso destinato a promuovere la compliance dei pazienti. Ma, indipendentemente dal fatto che tale compliance espone questi al rischio di subire accanimenti terapeutici di ogni genere, è assolutamente banale ritenere che le persone non siano in grado di distinguere tra le conseguenze di una malattia del fegato e di una attribuita al cervello. Tali conseguenze, per quanto riguarda quest’ultima, sono di certo pregiudiziali ma in gran parte riconducibili all’incidenza della cultura psichiatrica tradizionale.

Un terzo problema è infine rappresentato dalla funzionalità dinamica del delirio in qualunque sua espressione fenomenica. Tale funzionalità è da ricondurre agli assetti profondi della personalità che riconoscono scissioni conflittuali in rapporto alle quali il delirio, per quanto ciò possa apparire paradossale, rappresenta una soluzione di equilibrio anche se instabile. Un delirio persecutorio per esempio, pure protestato dal soggetto come invasivo e lesivo della sua dignità e della sua libertà, fa riferimento spesso ad un misconosciuto bisogno di controllo sociale, punitivo, riparativo o preventivo a seconda dei casi, che da un punto di vista dinamico rappresenta un bisogno assoluto. Un delirio di onnipotenza, per fare un altro esempio, rimedia di solito ad una persecuzione superegoica annichilente che, se non fosse compensata, porterebbe facilmente all’autodistruzione. Se ciò è vero la decapitazione farmacologica dei sintomi deliranti, quando essa non viene utilizzata per affrontare i conflitti di base, è un vantaggio relativo e transitorio. La persistenza dinamica del conflitto induce infatti necessariamente, a distanza di intervalli temporali più o meno rilevanti, recidive di maggiore gravità.

Questi aspetti, come sottolineano la necessità di un approccio culturale e psicodinamico alle psicosi, così consentono di comprendere le difficoltà oltremodo rilevanti che la pratica psicoterapeutica incontra. Solo di rado, per un insieme di circostanze congiunturali favorevoli, quegli aspetti possono essere affrontati e sormontati con successo. Per quanto rare comunque le esperienze psicotiche che ricavano un vantaggio rilevante dall’approccio terapeutico dialettico sono estremamente significative perchè contestano la natura processuale del disagio e realizzano delle possibilità che nulla vieta di pensare siano presenti in tutti i casi. Di una di tali esperienze occorre fornire un resoconto dettagliato.

Alessia P., insegnante di matematica, che vive con la famiglia in una cittadina marchigiana, a ventisette anni comincia a star male. All’inizio appare solo più silenziosa e inibita del solito. Poi, sia a scuola che a casa, manifesta comportamenti inadeguati. Rimane bloccata in piedi, emette strani risolini, spesso fissa insistentemente il vuoto. Non ha alcuna consapevolezza di ciò che le sta avvenendo per cui è la famiglia a farla mettere in malattia. Visitata da uno psichiatra, che non riesce a cavarle una parola di bocca, viene dichiarata brutalmente schizofrenica e aggredita con il solito cocktail di neurolettici. Non si ribella alle cure, manda giù tutto quello che le danno, ma, ciononostante, la situazione peggiora. A. si chiude in un mutismo assoluto e comincia a rifiutare il cibo. Smagrisce, ha il colorito cereo e una mimica nel contempo atonica e disperata per via dello sguardo perduto nel vuoto. Il decorso sembra confermare una diagnosi senza scampo.

Il contatto comunicativo non è rifiutato, ma appare improduttivo perchè la coscienza di A. sembra immersa in un vuoto assoluto. Si trova un solo spiraglio. A. da alcuni anni ha una relazione con un giovane del paese. Originariamente tale relazione è stata vivamente ostacolata dal padre, per via del fatto che il giovane in questione è notoriamente ateo e di sinistra. Ma, nonostante il padre abbia esercitato tutta la sua autorità nell’imporre alla figlia di desistere, questa, per la prima volta nella sua vita, si è impuntata e lo ha sfidato. Dopo circa due anni, la famiglia ha accettato lo stato di fatto. Ma è proprio poco dopo che A. ha cominciato a star male. Si è resa conto di essersi messa in un vicolo cieco. Il giovane con cui sta è decisamente anticlericale. Si è parlato di matrimonio, ma ha fatto onestamente presente che non potrà mai accettare il rito religioso. Pur essendo credente, A. non avrebbe difficoltà a contrarre un matrimonio civile. Ma sa che la famiglia, di tradizione rigorosamente cattolica, subirebbe un’offesa mortale e sarebbe disonorata agli occhi del paese. Sa anche che lei non potrebbe in alcun modo agire un comportamento a tal punto dissacrante. Dunque la sfida è stata inutile, e la relazione è a vicolo cieco. Ma quella sfida è la punta di un iceberg. A. alberga un segreto imbarazzante, che ha il coraggio di comunicare solo dopo alcuni mesi di incontri. Ha avuto una doppia vita nel corso degli anni, un sacco di uomini, anche sposati, e un numero imprecisato di figli naturali. Tutti nel paese, tranne i suoi familiari, lo sanno e perciò la guardano male e la rimproverano. E’ un delirio florido vissuto con una convinzione totale che si è sviluppato qualche mese prima che si manifestassero i disturbi comportamentali.

Appare immediatamente evidente una contraddizione clamorosa. Per un verso A., avendo operato la scelta di un partner non conforme alle aspettative familiari, è pronta a sacrificare la sua felicità in nome dell’onore familiare; per un altro il delirio attesta che tale onore è già stato infangato da comportamenti molto più trasgressivi rispetto al matrimonio civile in questione.

L’atteggiamento di A. nei confronti dei contenuti deliranti è ambivalente. Per un verso, alla luce della fede, si sente terribilmente in colpa e nutre l’aspettativa di una punizione mortale; per un altro, rivendica i suoi diritti di donna libera e adulta che non deve dar conto a nessuno. Questa ambivalenza è l’indizio di una scissione tra due parti della personalità che, a livello inconscio, veicolano due diverse visioni del mondo. La prima assegna alla comunità, alle sue tradizioni e ai suoi costumi, un valore predominante e assoluto, al quale la libertà individuale deve essere sacrificata in nome dell’equilibrio sociale e del bene comune; la seconda, viceversa, privilegia la libertà individuale come diritto assoluto il cui esercizio non può essere inibito seppure esso entra in contrasto con le convenzioni sociali. Questa scissione spiega a sufficienza il delirio nella misura in cui questo condensa una sfida radicale ai valori religiosi, morali e culturali propri del gruppo di appartenenza e un terribile senso di colpa. Spiega anche il fatto che, quando è "normale", A. è totalmente connivente con la prima visione del mondo; quando sta male, aderisce e difende la seconda. Il passaggio dalla normalità alla patologia coincide dunque inconsciamente con una rabbiosa rivendicazione di libertà anarchica che viene immediatamente pagata.

Dove affonda le sue radici questa cieca volontà di trasgredire, di sfidare l’ordine sociale e trascendente? Il contesto socio-culturale in cui vive A. é un contesto provinciale, tradizionale, conservatore. I pochi giovani che rifiutano di adattarsi in nome di un crescente benessere e si sentono soffocare dal controllo sociale se ne vanno senza nostalgia. Anche A. lo ha progettato dopo la laurea, rinunciando poi per non dare un dispiacere ai genitori. Su questo sfondo, la famiglia di A. si caratterizza per un conservatorismo assoluto incentrato su di una comune fede religiosa dai tratti marcatamente integralisti. Si tratta intanto di una famiglia allargata. I vari gruppi parentali vivono a stretto contatto in un regime di solidarietà comunitaristica e di controllo reciproco. Il principio dell’uno per tutti e del tutti per uno è un vangelo che nessuno ha mai osato contestare. Il valore dominante il gruppo è l’onore, un patrimonio comune ereditato dagli avi che hanno condotto a memoria d’uomo una vita specchiata, e che, rappresentandone l’eredità, va conservato. In questa ottica culturale, la libertà individuale va naturalmente sacrificata se essa entra in contrasto con l’onore, il sacrificio essendo compensato dal vantaggio di essere partecipi di un gruppo che assicura a ogni membro una rilevante sicurezza e protezione.

Il debito nei confronti della famiglia e dei genitori in particolare, che hanno sacrificato la loro vita per i figli, A. lo ha sempre avvertito. E’ in nome di questo debito che il suo comportamento è stato sempre docile, assecondante e pienamente rispondente alle aspettative familiari. A. insomma non ha mai dato problemi di alcun genere. Il problema però è di essere venuta al mondo con uno spirito critico e contestatore che, nel suo intimo, ha cominciato ad avvertire nettamente dall’adolescenza in poi. Impregnata dei valori tradizionali, non ha mai concesso ad esso spazio alcuno, identificandolo con un germe maligno la cui presenza nella sua anima era perfettamente spiegabile in termini religiosi. Questa convinzione si è incrementata via via che, col passare degli anni, A. ha cominciato ad avere dei sintomi inapparenti sotto il profilo sociale. Di cosa si è trattato? Di pensieri, fantasie e coazioni ossessive parassitarie. Le capitava insomma di guardare la madre e di pensare: ma quando muore?; di trovarsi in chiesa e di sentirsi spinta ad urlare o a colpire la testa di chi stava nel banco davanti; di trovarsi per strada e di sentire il bisogno di denudarsi e via dicendo. A chi poteva mai A. ricondurre questi pensieri e queste fantasie se non al demonio? Per liberarsene, ha adottato la strategia propria dei credenti: la preghiera, la contrizione, la mortificazione. Niente da fare: le fantasie parassitarie l’hanno tormentata per anni.

Paradossalmente, esse si sono attenuate solo allorché A. ha sfidato l’autorità paterna entrando in relazione con il giovane inaccettabile per la famiglia. Per due anni, pur altercando con il padre, è stata bene come non mai. Poi si è resa conto che quella sfida, portata alle estreme conseguenze, l’avrebbe posta in rotta con tutta la famiglia e l’avrebbe costretta a disonorarla. In conseguenza di ciò, le fantasie si sono ripresentate e con esse è fiorito il delirio della doppia vita. E col delirio, l’isolamento animato da vissuti persecutori, dall’aspettativa della giusta punizione e dall’anoressia, che rappresenta nel contempo un’espiazione delle colpe, una purificazione e la volontà inconsapevole di affrancarsi dal mondo.

Di per sé, la storia di A. può apparire banale se la si riconduce ad un conflitto con una famiglia e una cultura repressiva. Banale e poco esplicativa, poiché da essa si dovrebbe ricavare la legge per cui, dato un contesto culturale repressivo, un soggetto impazzisce: legge, per fortuna, manifestamente infondata. Questo è l’ostacolo metodologico su cui si è arrestato, negli anni ‘70, il tentativo di costruire un modello psicopatologico alternativo a quello della psichiatria tradizionale. Tale ostacolo viene meno se si adotta un’ottica che non rinuncia, in nome della sociologia, a confrontarsi con la soggettività. Ricondurre la scissione che si è instaurata in A. a un’ambivalenza tra amore e odio nei confronti della famiglia è riduttivo. Quella scissione di fatto fa capo a due orientamenti ideologici, a due visioni del mondo, a due modi di pensare, sentire e agire incompatibili. La prima privilegia il debito che il soggetto ha nei confronti del gruppo di appartenenza, e riconosce in esso, in quanto inestinguibile, il limite dell’esercizio della libertà personale. In caso di conflitto, da questo punto di vista, la libertà va sacrificata in nome dell’indebitamento. E tale sacrificio non è una schiavitù, bensì un valore, una virtù sociale. La seconda, viceversa, privilegia la libertà individuale come bene sommo e irrinunciabile che, per nessun motivo, deve piegarsi ad una volontà esterna al soggetto, tranne il caso che essa sia riconosciuta come coincidente con la propria. In A., queste due visioni del mondo sono entrambe rappresentate e attive sia emotivamente che cognitivamente. Finche A. è inconsapevole di ciò, quanto accade è che la prevalenza dell’una o dell’altra o la brusca alternanza tra di esse si traducono in comportamenti e vissuti sintomatici. Ma che cosa accade via via che essa si rende conto di questa scissione? Paradossalmente che si ritrova coscientemente a ragionare con due teste.

Un esempio tra tanti è il seguente. Una sorella sposata aspetta il suo primo bambino. A. ha deciso di passare il Capodanno a Praga con un’amica. Si configura, pochi giorni prima della partenza, una minaccia di aborto. A. sa che il suo dovere sarebbe quello di stare accanto alla sorella per solidarietà, come fanno tutti i parenti. Nel contempo pensa che, se le cure mediche non valgono a scongiurare quella minaccia, l’assistenza dei parenti è inutile. Riconosce il valore della solidarietà di gruppo, avendolo sperimentato e sperimentandolo ogni volta che sta male; nel contempo, pensa che la partecipazione del gruppo alla sofferenza di un membro debba avere, per non ridursi ad un rituale, un significato concreto di aiuto. Decide di fare il viaggio, e al ritorno ricomincia a star male. E’ depressa e ha degli strani sogni, in alcuni dei quali compaiono dei parenti che la proteggono e le tendono la mano, in altri gli stessi parenti e il padre, che nel frattempo è morto, che proferiscono nei suoi confronti velati rimproveri e oscure minacce.

Un altro esempio concerne il lavoro. In quanto insegnante, A. sa che il suo dovere è di mantenere in classe una certa disciplina funzionale alla realizzazione dei programmi. Ciononostante, essa nel suo intimo condivide, rievocandolo, il disagio di un gruppo di adolescenti di stare fermi e composti per ore e ore spesso annoiandosi a morte. Il suo comportamento di conseguenza è ambivalente: talora apertamente permissivo, talaltra rigidamente repressivo. Quando però accade che essa punisce gli alunni, rimproverandoli o mettendo loro delle note, finisce poi con lo stare male pensando che qualcuno tra di loro potrebbe reagire drammaticamente, suicidandosi, alla punizione.

Il conflitto tra i due modi di essere investe anche la quotidianità domestica. La casa di A., nel pomeriggio, è un luogo consueto di ritrovo per gli zii e per le zie. Si passa il tempo a parlare del più e del meno, a giudicare un mondo che diventa sempre meno comprensibile agli occhi di una famiglia conservatrice e integralista. Alessandra sente il dovere di essere presente anche se si annoia mortalmente e non condivide quasi nulla di ciò che viene detto. D’istinto le verrebbe da ritirarsi nella sua camera e di dedicarsi alle letture o al computer. Ma sa che tale atteggiamento sarebbe colto dai parenti come uno sgarbo o, peggio ancora, come un sintomo di peggioramento. Si costringe a stare presente, ma più spesso sta in piedi bloccata come una statua di sale e emette ogni tanto, quando le cose che vengono dette dai parenti le riescono ridicole, dei risolini che destano un grave imbarazzo.

Nonostante il suo spirito intrinsecamente critico e tendenzialmente contestatore, A. collabora al trattamento con una partecipazione totale. Non appena lo stato quasi stuporoso indotto dai farmaci si attenua e la sua storia viene ricostruita per sommi capi nei suoi significati, essa comincia a prendere dopo ogni incontro degli appunti e li elabora autonomamente. Ha difficoltà ad accettare l’ipotesi di essere stata sempre visceralmente critica nei confronti della cultura ambientale e familiare. Ma tale difficoltà è da ricondurre al fatto che, riconoscendo la dedizione dei suoi nei confronti dei figli e la loro coerenza assoluta, non intende attribuire loro alcuna colpa. La difficoltà viene sormontata attraverso l’analisi delle mentalità familiare che consente di capire come i suoi possano averla danneggiata senza averne alcuna intenzione e consapevolezza. A. si dedica con passione alla lettura di alcuni testi di storici francesi che hanno illuminato il problema e ne ricava una profonda suggestione. Riesce a sentirsi in grado di dare voce alle sue proteste contro una cultura angusta senza sentire di profanare l’affetto nei confronti dei genitori e dei parenti. Riesce anche a capire in quale misura i suoi vani tentativi di soffocare quelle proteste possono avere contribuito ad indurre, a livello inconscio, una rivendicazione di libertà anarchica tradottasi nel delirio della doppia vita.

Dopo due anni di trattamento il delirio sorprendentemente muta forma fenomenica. A. non rivendica più di avere avuto relazioni con molti uomini e un numero imprecisato di figli bensì di essere stata sposata una volta e di avere avuto un solo figlio. Occorrono alcuni mesi per decifrare questo delirio come un sorprendente delirio riparativo. Nell’ottica della tradizione familiare il dovere assoluto della donna è di dedicarsi agli altri o come madre e moglie o come suora. Da questo punto di vista il non essersi sposata e il non avere ceduto da bambina alle sollecitazioni familiari di entrare in convento rappresentano una colpa che il nuovo delirio serve a rimediare.

Dopo quattro anni di terapia, A. continua ad avere alcune fantasie parassitarie e talora dei pensieri deliranti ma è in grado di criticarli. Parla di essi come un sottofondo della sua esperienza il cui senso le riesce, a freddo, del tutto chiaro. Ha sviluppato anche, nei confronti del suo ambiente culturale, una straordinaria tolleranza. Cionondimeno pensa che, se fosse stata libera di scegliere, avrebbe preferito nascere e vivere in un contesto più articolato e stimolante.

Assume solo qualche goccia di ansiolitico la sera prima di andare a dormire per stare al riparo da sogni ricorrenti che continuano ad avere un carattere punitivo.


Cap X L'USO "TERAPEUTICO" DEGLI PSICOFARMACI

Il titolo del capitolo non è paradossale. Tutti i farmaci hanno una doppia potenzialità: terapeutica l'una, nociva l'altra, riconducibile - quest'ultima - alla tossicità, agli eventuali effetti collaterali e alla possibilità, per alcuni, di produrre assuefazione e dipendenza. L'uso degli psicofarmaci da parte della neo-psichiatria sembra quasi mirato a privilegiare la nocività. Di fatto esso corrisponde all'intento univoco di debellare completamente la malattia di cui il paziente è portatore, e dà luogo ad un corpo a corpo tra lo psichiatra, novello San Giorgio, e il Male. Il problema è che il paziente, anzichè da parte come nell'iconografia e nell'immagine che ne hanno gli psichiatri, si trova tra la lancia e il drago. La guerra, che richiede al paziente di essere compiacente e fiducioso ma, soprattutto, di lasciar fare a chi sa, comporta correntemente prescrizioni di dosi massicce di farmaci diversi (i cocktails), la minimizzazione degli effetti collaterali, soggettivamente spesso molto penosi, una valutazione approssimativa della tossicità (in ordine al principio per cui a mali estremi si oppongono estremi rimedi), e una pressochè completa indifferenza nei confronti dei fenomeni di dipendenza e di assuefazione.

Riguardo a quest'ultimo aspetto, si può parlare di una vera e propria induzione. Tranne rari casi, nei quali la scomparsa dei sintomi dà luogo alla sospensione del trattamento farmacologico, l'ideologia della malattia di natura genetica promuove la tendenza a far assumere al paziente consapevolezza della sua condizione di malato a vita. Tale consapevolezza si ritiene sommamente importante poichè le fasi intervallari tra gli episodi, imprevedibili nella loro durata, possono facilmente indurre la falsa coscienza di guarigione. Indotta la consapevolezza di malattia, si consigliano di solito ai pazienti dosi farmacologiche di mantenimento o, in caso di rifiuto, di tenersi sotto controllo psichiatrico periodico. Accade perciò sempre più spesso che i pazienti, talora su prescrizione, talatra di testa propria, avendo appreso la lezione, assumano per anni ansiolitici, antidepressivi e neurolettici. Il trattamento terapeutico vita natural durante che, un tempo, era riservato agli psicotici, si sta ormai estendendo a tutti coloro che, manifestando dei sintomi, incappano nella trappola diagnostica e prognostica, fatalistica, della neo-psichiatria. Non potrebbe essere altrimenti. L’assunto della predisposizione genetica fa riferimento ad un disturbo biochimico che, laddove non si esprime sotto forma di sintomi franchi, è sempre e comunque latente. La cura e la prevenzione farmacologica sono, di conseguenza, le due facce di una stessa medaglia.

Occorre riconoscere che l'induzione della dipendenza dai farmaci è facilitata da circostanze psico-sociologiche. Nonostante, da un secolo e mezzo a questa parte, la filosofia, la psicoanalisi e le scienze umane e sociali abbiano radicalmente criticato lo statuto della coscienza (cfr. cap. XI) e il concetto di normalità, la cultura comune è rimasta preda dell'ossessione normativa e del coscienzialismo. Sempre più spesso di conseguenza l'affiorare dei sintomi, il precipitare nella malattia vengono vissuti, dai pazienti e dai parenti, come fulmini a ciel sereno. Volendo adottare una metafora naturalistica, le crisi di disagio psichico corrispondono piuttosto a violenti sommovimenti sismici che segnalano l'instabilità strutturale degli assetti profondi della personalità e tendono a porre ad essa rimedio. La percezione dei pazienti, che precipitano da un apparente benessere nella malattia, in effetti è di essere terremotati. Il panico che consegue a tale percezione li spinge a reificare il benessere presistente e a non desiderare null'altro che di recuperarlo. Se tale recupero, sia pure relativo, avviene per effetto di una terapia farmacologica, non sorprende che si definisca una farmacodipendenza.

La neo-psichiatria peraltro specula sulle debolezze umane. Il falso pietismo di cui essa si ammanta, per dare alla lotta contro la malattia mentale il carattere di una crociata umanitaria, coincide con un sottile ma perverso terrorismo. E' fuor di dubbio che il panico e la depressione siano stati soggettivi di grande sofferenza. Ma, nel momento in cui tali condizioni vengono descritte dagli psichiatri come invivibili, come equivalenti dell'inferno, come abissi smisurati di dolore, sembra che essi siano del tutto inconsapevoli del fatto che i pazienti soffrono, più che dei sintomi in atto, delle previsioni catastrofiche, associate a i sintomi o ricavate da essi, di morire, di impazzire, di non guarire mai più o di finire soli. Di fatto, il loro rozzo realismo li porta ad ignorare la differenza tra sofferenza attuale e sofferenza previsionale. Non è cosa da poco perchè talora aiutare la persona a prenderne atto, come si è detto in precedenza, è un'ottima medicina. Ma, al di là dell'ignoranza psicopatologica, c'è da considerare il fatto che, connotando il disagio psichico come invivibile, essi tendono a promuovere nell'immaginario collettivo una sorta di allergia al dolore, funzionale a promuovere in coloro che ammalano la richiesta di un aiuto immediato e risolutivo: in pratica la cura farmacologica. In questa opera di terrorismo, i neo-psichiatri coinvolgono pateticamente un drappello di ex-pazienti, tra cui alcuni personaggi noti al pubblico, pronti a testimoniare la miracolosa guarigione avvenuta con i farmaci e a sollecitare i ‘malati’ ad affidarsi senza remora alle mani degli esperti.

Per quanto l'esigenza soggettiva dei pazienti di essere affrancati dai sintomi, di soffrire di meno, debba essere presa sempre in considerazione e, nella misura in cui è possibile, soddisfatta, il pietismo neo-psichiatrico, che assume il paziente come vittima di un male oscuro da cui va liberato ad ogni costo, è ipocrita e nefasta. L'ipocrisia consiste nel fatto che la neo-psichiatria si accredita un potere che non ha. Valutati alla luce dei fatti, i risultati delle terapie farmacologiche sono nel complesso modesti. Non più di un quarto delle depressioni, trattate solo con i farmaci, guariscono. Tranne rari casi, quasi tutte peraltro recidivano. Sindromi di attacchi di panico o nevrosi ossessivo-fobiche guarite con la sola terapia farmacologica rappresentano delle eccezioni. I disturbi dell'umore, trattati con gli equilibratori, si attestano di solito su un registro di depressione frusta. Le psicosi deliranti cronicizzano e tendono a strutturarsi. Del tutto nefasto, poi, è l'orientamento della neo-psichiatria sul decorso delle malattie. I conflitti strutturali che sottendono le esperienze di disagio psichico si definiscono dinamici poichè evolvono incessantemente. Se tale evoluzione avviene del tutto al di fuori della coscienza soggettiva, o perchè essa li ignora o perchè ne è messa al riparo dallo scudo farmacologico, i conflitti tendono inesorabilmente ad assumere una configurazione più strutturata, a radicalizzarsi e a diventare più penetranti. Tranne rari casi, dovuti a circostanze di vita favorevoli, il trattamento farmacologico determina, a lungo termine, recidive di maggiore gravità.

L'uso terapeutico dei farmaci richiede anzitutto che i pazienti vengano informati del reale e unico potere che quelli hanno di alleviare i sintomi. Ciò non significa togliere loro l'illusione di poter guarire con i farmaci. Si danno di fatto numerose situazioni nelle quali è evidente che gli equilibri raggiunti dalla personalità sono compromessi da circostanze occasionali, da eventi o situazioni di vita negative. Le sindromi reattive rappresentano statisticamente una quota non insignificante della patologia psichiatrica. In tali casi, se il paziente intende sperimentare una cura farmacologica prima di affrontare una psicoterapia, non si dà alcun motivo per rifiutare questa richiesta. Negare il diritto delle persone di cercare di recuperare farmacologicamente un equilibrio adattivo perduto significa contrapporre al terrorismo neo-psichiatrico un terrorismo psicoterapeutico, diffuso soprattutto tra gli psicoanalisti ortodossi. Posto che sia chiaro che, in caso di insuccesso della cura farmacologica, si può intervenire in altro modo, l'orientamento spontaneo dei pazienti va sempre favorito. Occorre considerare infatti che, in alcune situazioni la valutazione psicodinamica non consente di prevedere il potenziale evolutivo del conflitto in questione, e che tale previsione, laddove risulta possibile, non deve trascurare la possibilità, che esiste per un quarto circa delle sindromi psicopatologiche (psicosi comprese), di una remissione spontanea. Cionondimeno, la valutazione psicodinamica è comunque essenziale. Ciò significa che il terapeuta dialettico, a differenza del neo-psichiatra, non si limita mai a prendere atto dei sintomi, ma, anche solo per prescrivere dei farmaci, ricostruisce sempre la storia interiore e sociale del paziente e la sua situazione complessiva di vita. La prescrizione farmacologica rientra dunque nell’ambito di una valutazione diagnostica che è non può non essere psicodinamica.

L'approccio è diverso laddove il disagio si configura come espressione di una matrice conflittuale strutturale che, scompensandosi di solito dopo un periodo piuttosto lungo di evoluzione, si pone come poco o punto reversibile. Gran parte della finezza diagnostica che si richiede nella pratica clinica si fonda sulla capacità di differenziare le situazioni di scompenso reversibili da quelle irreversibili. Il criterio per cui le prime sono meno gravi delle seconde e hanno un carattere prevalentemente reattivo a eventi o situazioni di vita immediatamente individuabili e attuali non ha infatti un valore assoluto. In rapporto alla struttura della personalità, che può essere ben organizzata ma piuttosto rigida, le reazioni ad alcuni eventi di vita sono immediatamente catastrofiche sotto il profilo vissuto ma destinate ad estinguersi. Viceversa, alcuni conflitti strutturali di antica data si rivelano con una sintomatologia sfumata, subentrante, che poi nel tempo diventa franca. In alcuni casi, poi, la sintomatologia può essere oggettivamente la stessa, ma il suo significato, in rapporto alla storia interiore del soggetto, del tutto diversa. I sintomi, in breve, in sè e per sè non dicono molto se non vengono inquadrati nel contesto significativo dell'esperienza soggettiva.

Nei casi in cui la valutazione psicodinamica porta a pensare ad un trattamento di lunga durata, la terapia farmacologica deve attenersi a tre criteri elementari: utilizzare gli psicofarmaci solo in caso di reale necessità; utilizzarne il minor numero possibile (al limite uno solo, al massimo due) in maniera tale da poter valutare ragionevolmente il loro effetto, e prescrivere le dosi minime necessarie a conseguire un vantaggio soggettivo minimizzando gli effetti tossici e quelli collaterali.

Lo stato di necessità si pone in termini oggettivi o soggettivi. Oggettivamente, il ricorso agli psicofarmaci è indispensabile in tutti i casi in cui la fenomenologia del disagio psichico è tale da far pensare che gli squilibri psicosomatici indotti dall'attivazione del conflitto stiano evolvendo o possano evolvere con una modalità a spirale; che essi, in altri termini, si siano autonomizzati rispetto all'esperienza soggettiva. La valutazione è agevolata dal fatto che, in tali casi, si hanno segni certi di 'vitalizzazione' del disagio quali l'insonnia, l'inappetenza, l'irrequietezza psicomotoria, l'astenia grave, la ruminazione ideativa su temi catastrofici, il delirio. La prescrizione farmacologica, in questi casi, va fatta anche sormontando le resistenze soggettive. Questo in genere riesce più semplice che nella pratica neo-psichiatrica, poichè non si tratta di fare accettare dal paziente con la cura l'assunto implicito di essere malato di mente (che è il motivo principale per cui la cura viene rifiutata), bensì dei rimedi che, arginando dei sintomi penosi e potenzialmente pericolosi, possono permettergli di soffrire di meno.

Occorre soffermarsi un po’ sul problema delle resistenze opposte al trattamento farmacologico da parte dei pazienti gravi, gli psicotici maniaco-depressivi e gli psicotici deliranti. Tali resistenze possono presentarsi sia all’epoca della prima crisi sia nel corso del trattamento. Le resistenze opposte all’epoca del primo intervento farmacologico vengono tradizionalmente ricondotte ad un difetto di coscienza di malattia. Ciò è senz’altro vero in rapporto alla definizione neo-psichiatrica della malattia, ma l’analisi di quelle resistenze mette in luce costantemente per un verso il rifiuto dell’etichetta di malati di mente, le cui conseguenze sociali sono universalmente note, e per un altro una paura viscerale di essere danneggiati. Tranne nei casi in cui l’acuzie della crisi impone un intervento contro la volontà del paziente, che non va drammatizzato tanto più se esso viene realizzato con fermezza ma rispettando la dignità della persona, le resistenze possono essere affrontate sul piano analitico ed esse tendono a risolversi via via che si realizza un buon rapporto tra paziente e terapeuta.

Per quanto riguarda le resistenze che intervengono nel corso del trattamento, che vengono anch’esse ricondotte solitamente ad un difetto di coscienza di malattia, non si può non tenere conto di alcuni dati ricavati dalla sperimentazione neurobiologica. Come noto, in laboratorio gli animali, dai roditori ai primati, possono essere addestrati ad autosomministrarsi o meno delle sostanze chimiche premendo una leva. E’ interessante rilevare che pressocchè tutti i neurolettici danno luogo a delle reazioni avversative più o meno rilevanti. Ciò significa nè più nè meno che essi producono degli effetti neurobiologici spiacevoli. Di questi dati non si può non tenere conto sul piano terapeutico nel senso di riconoscere nelle resistenze dei pazienti un significato che va al di là del problema della coscienza di malattia, un significato oseremmo dire viscerale. La compliance che va perseguita pertanto non può essere un’accondiscendenza passiva, bensì una partecipazione consapevole ad un trattamento terapeutico la cui eventuale necessità può consentire di tollerarne la spiacevolezza. Negare questo aspetto da parte dei cultori della neopsichiatria rivela, tra l’altro, la loro scarsa attenzione ai dati della neurobiologia sperimentale alla quale pure fanno spesso clamorosamente riferimento.

Dal punto di vista soggettivo, occorre poi considerare il fatto che alcuni pazienti, terremotati dall'affiorare del disagio psichico e non avendo ancora acquisito alcuno strumento atto a dare ad esso senso, si sentono in una situazione di totale impotenza, anche quando la loro sintomatologia in sè e per sè è tollerabile. In casi del genere la prescrizione farmacologica funziona soprattutto come una rassicurazione, come un paracadute, il cui effetto principale è un effetto placebo. Per conseguire questo effetto si può prescrivere anche un solo psicofarmaco commerciale a basso dosaggio, casomai frazionato nel corso della giornata. Sarebbe possibile raggiungere lo stesso effetto, in alcuni casi, anche con un placebo. Ma è noto che esistono vincoli legislativi per cui nessun prodotto è in commercio come placebo e, se lo fosse, occorerrebbe far presente al paziente la composizione chimicamente inerte dello stesso. Il problema può essere facilmente sormontato. Ormai molte farmacie sono in grado di confezionare farmaci galenicamente. Si possono pertanto prescrivere anche farmaci nei quali è presente una quantità minima di sostanze psicofarmacologiche, siano esse ansiolitiche, antidepressive o neurolettiche. Nella nostra esperienza, da qualche anno a questa parte, ciò avviene piuttosto spesso, e i risultati sono ottimi.

Nei casi in cui non si dà una necessità oggettiva o soggettiva, si può soprassedere alla prescrizione farmacologica. In rapporto alla sociologia psicopatologica, questi casi rappresentano la maggioranza. E' una cattiva abitudine della neo-psichiatria, dovuta all'ideologia organicista che la sottende, quella di prescrivere farmaci sempre e comunque. Questa abitudine corrisponde in genere alle aspettative del maggior numero di pazienti che, condizionati culturalmente, rimangono delusi se la visita non si conclude con una prescrizione di cura. Ma la delusione può essere facilmente rimediata dalla spiegazione dei motivi per cui non si ritiene necessaria, almeno immediatamente, una cura farmacologica. Nei casi in cui quella richiesta, nonchè un condizionamento culturale, esprime una esigenza psicodinamica riconducibile ad un vissuto di precarietà psicologica, in pratica alla paura di soffrire e di impazzire, il terapeuta dialettico non può non tenerne conto. La prescrizione di preparati galenici a base di dosaggi infraclinici di benzodiazepine e/o antidepressivi e/o neurolettici può soddisfare l’esigenza del paziente realizzando un effetto placebo.

Riguardo agli altri criteri, il discorso è semplice. Identificando la sintomatologia con la malattia, la neo-psichiatria spara a pallettoni. Per quanto i neo-psichiatri si arroghino una grande competenza diagnostica e psicofarmacologica, di anno in anno le loro prescrizioni divengono sempre meno razionali. I farmaci vengono spesso associati e prescritti in dosi massimali. Non è raro che si prescrivano contemporaneamente più ansiolitici, più antidepressivi, più neurolettici. I neurolettici a basse dosi vengono sempre più di frequente consigliati a pazienti nella cui sintomatologia non si dà alcun indizio di psicosi per sfruttare il loro potere sedativo. La somministrazione di equilibratori dell'umore, in particolare del Tegretol e del Depakin, è una procedura corrente, quasi sempre indifferente ai rischi di effetti collaterali anche seri. Cosa ci sia di razionale in questo bailamme che costringe anche il più modesto nevrotico ad ingurgitare almeno sei-sette compresse al giorno è difficile dire.

La terapia dialettica, perseguendo un intento meramente sintomatico, mira a valutare la reale efficacia sintomatica dei farmaci. A tal fine essa prescrive uno o due al massimo psicofarmaci, e assegna al paziente un ruolo attivo. I dosaggi sono infatti sempre indicati con una banda di oscillazione che comporta un minimo e un massimo. Di solito si consiglia di cominciare dalla dose minima e di aumentarla progressivamente fino all'effetto desiderato. Nei casi in cui il paziente è molto ansioso, si può cominciare dal massimo dosaggio. La collaborazione richiesta al paziente consiste nell'individuare, con piccoli e progressivi aggiustamenti, la dose ottimale a ridurre il suo disagio al minimo.

In rapporto alla pratica corrente, questo modo di procedere può sconcertare ed essere interpretato come un'insicurezza del curante sul da fare. Ma di ciò, per fortuna, si può parlare, e quasi sempre il rispetto profondo per la soggettività viene ad essere apprezzato. La procedura comporta tra l'altro il vantaggio di non indurre effetti collaterali che, talora, sono di gran lunga peggiori dei sintomi di base.

Al di là di questi principi di ordine generale occorre tener conto dei vissuti dei pazienti in rapporto ai farmaci. Si possono facilmente individuare tre diversi modi di porsi: l'uno neutrale, l'altro farmacofilico, l'altro ancora farmacofobico.

Alcuni pazienti si attengono scrupolosamente alle prescrizioni terapeutiche senza opporre alcuna resistenza. Ciò può essere dovuto sia ad un rapporto reale di fiducia che si instaura nei confronti del curante sia alla tendenza ad affidarsi ciecamente a chiunque abbia conseguito uno status professionale più o meno prestigioso. Questo secondo aspetto spiega la carriera di alcuni pazienti, come Renato P., che si sottopongono per anni a trattamenti irrazionali, e l'ambizione degli psichiatri neo-organicisti che mirano a salire in cattedra o a conseguire un primariato perchè sanno bene che, nell'immaginario sociale, il Professore e il Primario detengono più di altri il il sapere e il potere di curare. L'affidamento cieco è un'aspettativa umanamente comprensibile ma è anche una delega che implica, da parte del paziente, l'oggettivazione medica della sua condizione e, spesso, la volontà di mettere tra parentesi la sua esperienza interiore. In questi casi, la compliance va criticata sia perchè reifica un potere terapeutico magico-religioso inesistente sia perchè tende a separare la malattia dalla vita reale e soggettiva del paziente stesso.

L'atteggiamento farmacofilico ha due diversi significati. In alcuni casi pone in luce la convinzione del paziente che non ci possano essere sofferenze non rimediabili farmacologicamente. Ciò implica un'adesione conscia o inconscia all'ideologia medica, che spesso espone a frustrazioni molteplici e comporta il rifiuto di riconoscere nei sintomi dei messaggi in bottiglia, degli S.O.S che devono necessariamente essere decifrati perchè se ne dia il superamento. Talora le conseguenze di questo atteggiamento sono gravi. La propaganda neo-psichiatrica tende, come si è detto, ipocritamente a promuovere nell'opinione pubblica la convinzione che ormai quasi tutte le condizioni psichiatriche possano essere guarite con cure adeguate. In particolare per quanto riguarda la depressione lo slogan per cui essa è una malattia che si può e si deve curare con i farmaci è stato ripetuto negli ultimi anni in tutte le salse. E' uno slogan pernicioso, poichè un numero rilevante di depressioni risulta pressochè insensibile ai farmaci. Cosa può pensare un depresso che non guarisce se non che le sue previsioni di essere condannato per sempre a soffrire sono comprovate, di essere, in breve, inguaribile? Alcuni suicidi degli ultimi anni sono di sicuro dovuti alla stolta propaganda neo-psichiatrica, e le andrebbero addebitati. En passant, basterebbe pubblicare le statistiche sui trattamenti farmacologici per ristabilire la verità, informare correttamente l'opinione pubblica e perseguire chiunque affermi, attraverso i mass-media, il falso.

In altri casi, l'atteggiamento farmacofilico esprime una reazione di panico nei confronti di qualunque sommovimento interiore vissuto come indizio di catastrofe. E', in altri termini, l'espressione di una paura di impazzire che definisce un rapporto fobico del soggetto con il suo mondo interno. L'incontrollabilità della paura è tale da spingere il paziente a ingurgitare gocce e compresse ben al di là delle prescrizioni, con i rischi conseguenti a tale comportamento.

L'atteggiamento farmacofilico si traduce anche nella tendenza di alcuni pazienti a continuare a prendere farmaci a tempo indeterminato dopo la risoluzione di un episodio clinico. In tali casi, la memoria della sofferenza alimenta il terrore di una ricaduta. A volte tale paura è infondata, più spesso è fondata, e corrisponde all'intuizione che i conflitti soggettivi sono ancora attivi. Tali situazioni, spesso avallate dalla neo-psichiatria come se esse attestassero una salutare coscienza di malattia, hanno degli sviluppi singolari. Dopo anni di trattamento alcuni pazienti si risvegliano dalla compliance, cercano di sospendere i farmaci, scoprono di sviluppare immediatamente dei sintomi, e prendono penosamente coscienza della loro schiavitù. Talora chiedono aiuto per risolvere il problema. Talaltra tendono ad arrendersi all'evidenza, ma l'avversione nei confronti dei farmaci ne estingue l'effetto, e si disperano.

La dipendenza farmacofilica ha un'altra modalità di realizzazione di un qualche interesse. Alcuni pazienti, particolarmente quelli affetti da attacchi di panico, ricavano talora un beneficio magico da modeste dosi di ansiolitici. Verso la fine del trattamento dialettico, si pone il problema dell'affrancamento dal farmaco. Talora lo scalaggio riesce efficace, talaltra si realizza un fenomeno sorprendente. Lo scalaggio procede senza grandi difficoltà sino a dosaggi minimali - frammenti di compresse, una o due gocce -, ma quest'ultima dose non può essere sospesa per l'insorgenza dei sintomi. Al paziente riesce chiaro che non è in gioco un effetto chimico. Il problema chiarisce il significato della dipendenza simbolica, che si pone come una condanna tale per cui gli equilibri interiori si mantengono solo in virtù dell'accettazione da parte del paziente di un continemento dall'esterno. Su questo piano va affrontato.

L'atteggiamento farmacofobico si esprime in due modi: l'uno inconscio, l'altro conscio. Alcuni pazienti non si oppongono alla prescrizione se essa viene argomentata, ma, assumendo i farmaci, accusano immediatamente effetti collaterali a tal punto imponenti che li costringono alla sospensione. Se il loro orientamento cosciente è favorevole al trattamento farmacologico, di solito chiedono di cambiare cura. Ma gli effetti collaterali sono costanti, e alla fine occorre prendere atto che essi attestano un rifiuto inconscio del paziente. In ambito neo-psichiatrico, questa circostanza promuove o l'indifferenza da parte del curante, che consiglia di proseguire egualmente la cura, o un turn-over insignificante di prescrizioni, o, infine, un'irritazione che si traduce nell'accusa rivolta al paziente di non voler guarire. Nell'ambito della terapia dialettica, il rifiuto inconscio del farmaco è l'indizio di un vissuto profondo che va interpretato. Di solito esso è riconducibile alla paura che il farmaco, anzichè indurre dei miglioramenti, possa danneggiare gravemente o ulteriormente squilibrare degli equilibri già precari; in altri termini, attesta una paura viscerale di morire e/o di impazzire. Il prendere coscienza di questo è importante anche ai fini del trattamento psicoterapeutico, poichè la paura che qualunque influenza esterna possa risultare nociva (vissuto opposto a quello analizzato in rapporto alla dipendenza farmacofilica) può, anche se non necessariamente, estendersi all'influenza del terapeuta e dar luogo ad un ascolto attento che non si traduce mai però nell'appropriazione emozionale della verità.

A livello cosciente, la farmacofobia si realizza in due circostanze diverse. Talora è un atteggiamento ideologico, argomentato con largo sfoggio di cultura psicologica, nell'attesa di trovare da parte del terapeuta una connivenza totale. Nei casi in cui l'intervento farmacologico appare oggettivamente necessario, tale atteggiamento va posto in discussione. Stigmatizzarlo come un orientamento psicologista o spiritualista, che identifica la mente con una dimensione totalmente altra rispetto alla materia, e ricondurre il soggetto a riflettere sui rapporti tra corpo e spirito non è insignificante. Ma è ancora più importante capire che quell'atteggiamento rivela un vissuto di scacco. Esso si manifesta di solito infatti in pazienti acculturati che, fino all'avvento dei sintomi, si sono sentiti padroni di sè, e comporta la minimizzazione degli stessi come espressione di un incidente di percorso facilmente rimediabile con "quattro chiacchiere". La realtà è quasi sempre diversa, poichè, in tali casi, il disagio è dovuto ad errori gravi di valutazione dei propri bisogni, e il disagio stesso, al di là delle apparenze, è serio.

L'altra circostanza, che merita particolare attenzione, è riconducibile al rifiuto dei farmaci da parte di pazienti psicotici, caratteristicamente nelle fasi critiche ma talora anche al di fuori di esse. Questa circostanza è interpretata dalla neo-psichiatria come un sintomo del processo morboso, e adottata come un cavallo di battaglia per contestare la psicoterapia che, a questo livello, rivelerebbe la sua impotenza. Il problema è di grossa portata sia teorica che pratica, ma va affrontato ad un livello più complesso rispetto a quello su cui lo pone la neo-psichiatria. Occorre considerare anzitutto che le crisi acute sono sottese quasi sempre da vissuti persecutori. Ciò significa che il rifiuto dei farmaci fa riferimento alla paura di essere danneggiati, e dunque corrisponde alla stessa motivazione presente in pazienti farmacofobici che hanno piena consapevolezza di star male. In sè e per sè dunque esso non è affatto patognomonico di un processo morboso.

Ma c'è di più. In una civiltà in cui la coscienza è enfatizzata e tutti sono condizionati a prendere per buoni i loro vissuti immediati, al punto che pregiudizi di ogni genere, credenze religiose, superstizioni, ecc. sono equivocati come modi di vedere e di sentire realistici, non c'è da sorprendersi che tale orientamento ingenuo sia condiviso da coloro che incorrono in crisi acute. Il delirio talora ha dei contenuti apparentemente assurdi, ma non più dei contenuti di coscienza di alcuni credenti che vedono dappertutto gli indizi dell'esistenza di Dio e si sentono in contatto e in comunicazione con Lui. L'educazione critica delle coscienze, rivolta ad abituare le persone ad assumere le loro convinzioni come interpretazioni della realtà e a mantenere in rapporto ad esse un atteggiamento dubitativo, potrebbe essere di aiuto a chi delira più dello sforzo di persuaderli di essere malati.

Infine non si può negare che l'accettazione delle cure farmacologiche implica non già solo l'accettazione di star male bensì quella di essere affetti da una malattia mentale. Con buona pace dei neo-psichiatri, nella storia e nell'immaginario sociale, la malattia mentale, per merito dei loro predecessori, non è una malattia come le altre. E' uno stigma che evoca la minaccia dell'emarginazione, della segregazione, della perdita dei diritti civili, ecc. Non è insomma una diagnosi bensì una condanna alla morte civile. La negazione della malattia di mente, quasi sempre, è una protesta contro un verdetto che viene vissuto come insultante e implicitamente obbrobrioso. Non lo è di meno in virtù della crociata neo-psichiatrica che, se tende a far passare la malattia mentale come una malattia qualunque, nondimeno ritiene che le psicosi sanciscono, dal loro esordio, una condizione sostanzialmente cronica e inguaribile.

Alla luce di questi aspetti, il terapeuta dialettico non si impegna più di tanto a far ragionare i deliranti in fase acuta o i pazienti affetti da un grave eccitamento maniacale. Egli cerca di stabilire comunque un rapporto con loro, di capire il loro vissuto, di entrare nel loro mondo. Il contatto interpersonale è ritenuto importante anche laddove si renda necessario somministrare i farmaci contro la volontà, circostanza rara ma che non va demonizzata poichè essa non pregiudica lo stabilirsi di un rapporto terapeutico. Al di là delle fasi acute, è invece imperativo tentare di ridurre il più presto possibile le dosi dei neurolettici per non avviare un processo di cronicizzazione. Dato che, come in tutte le forme di disagio, anche le psicosi in trattamento psicoterapeutico procedono per crisi, non è importante mantenere una cura farmacologica a dosaggi elevati al fine di prevenirle. Importante piuttosto è stabilire un'alleanza con il paziente che gli consenta di affidarsi al terapeuta e di accettare eventuali prescrizioni farmacologiche che dovessero rendersi necessarie nel corso del trattamento. Questa alleanza si stabilisce molto più facilmente laddove, nei periodi di intervallo, il paziente ha la prova che il curante non intende usare i farmaci come una camicia di forza e si prefigge, da ultimo, l'obbiettivo di aiutarlo a giungere a poterne fare a meno.


Cap. XI PROBLEMATICHE FILOSOFICHE

Come risulta chiaro dalle esperienze riportate, spesso la terapia dialettica si imbatte in problematiche che, in senso stretto e in senso lato, sono di ordine filosofico. Nelle pratiche terapeutiche correnti, tali problematiche vengono di solito trascurate, ritenuti insignificanti ai fini del trattamento o addirittura non pertinenti. Dal punto di vista dialettico, viceversa, esse rappresentano spesso i presupposti ideologici su cui poggia il conflitto strutturale, sicchè è difficile pervenire ad un cambiamento comunque inteso senza metterli in discussione. Non si tratta peraltro di presupposti dello stesso livello e dello stesso significato. Alcuni affondano le loro radici nel corredo psicobiologico soggettivo, altri nei valori culturali trasmessi consciamente o, più spesso, inconsciamente dall'ambiente di interazione, altri ancora vanno ricondotti all'educazione scolare e in senso lato all'apprendimento sociale, altri infine rappresentano il frutto dell'elaborazione soggettiva conscia e inconscia orientata a dare senso all'esperienza personale. Affronteremo ora alcuni di questi nodi filosofici per porre in luce la loro pregnanza nell'ambito delle esperienze di disagio psicopatologico. Tale pregnanza significa nè più nè meno che almeno uno di essi, ad un certo punto dell’intervento terapeutico, va affrontato perchè dalla sua soluzione dipende l’ulteriore sviluppo dell’intervento stesso. Non esitiamo ad affermare che, nella pratica psicoterapeutica corrente, non poche esperienze, dopo progressi più o meno rilevanti, ristagnano perchè si insiste da parte dei terapeuti ad interpretare psicologicamente, sul piano individuale e/o relazionale, resistenze la cui matrice è da ricondurre a problematiche filosofiche.

Riuscire esaurienti significherebbe scrivere un libro a parte. Ci limiteremo a ciò che si può ritenere essenziale ai fini del presente saggio.

1) Lo statuto della coscienza

Ogni analisi parte ovviamente dai livelli di coscienza soggettivi, i vissuti e l'interpretazione che il soggetto dà della propria condizione, e urta immediatamente contro i limiti propri della coscienza: funzionali, strutturali e culturali.

Lo statuto della coscienza umana è caratterizzato da alcune modalità di funzionamento sue proprie, che possono essere identificate con il realismo ingenuo, la tendenza alla generalizzazione (matrice, tra l’altro, del pregiudizio), la scarsa capacità di distinguere eventi interni, soggettivi e esterni, oggettivi, l’attenzione selettiva e il bisogno di coerenza. Queste modalità hanno un significato preciso, attestando che la nascita della coscienza umana corrisponde ad una finalità adattiva al mondo esterno. Esse concorrono a mantenere la soggettività affacciata sulla realtà, consentendole di semplificarla, di categorizzarla e di costruire, con dati inesorabilmente parziali, una visione del mondo totalizzante, atta a progettarsi e ad agire in esso, dotata di una notevole stabilità. Questo immane lavoro costruttivo non avviene, per ogni singola coscienza, in presa diretta con la realtà, essendo per molti aspetti mediato dall’ambiente culturale che offre una serie indefinita di intepretazioni codificate riconducibili al senso comune.

Natura e cultura, insomma, concorrono a mantenere la coscienza integrata, adattata alla realtà e normalizzata, vale a dire incline ad assumere il senso comune come un insieme di verità evidenti. I limiti dello statuto della coscienza sono agevolmente ricavabili dalla sociologia e dalla psicologia generale e sociale. Ma le esperienze psicopatologiche li mettono in luce drammaticamente. Alcuni aspetti in particolare vanno rilevati.

Il primo concerne il fatto che, affacciata sulla realtà esterna, la coscienza ha una percezione solitamente povera, approssimativa e confusa del mondo interno e della sua realtà che, per essere psicologica, comporta leggi diverse rispetto a quella esterna. L’esempio più immediato, da questo punto di vista, è fornito dalle allucinazioni. La mente dispone di una capacità allucinatoria che si realizza quotidianamente nella produzione dei sogni. Il senso comune, spogliatosi delle interpretazioni remote che attribuivano i sogni ad agenti extraumani (gli spiriti), riconosce ormai in essi un prodotto dell’attività mentale. C’è da sorprendersi che questa accettazione sia banale, e che nessuno tenda a rimaner sorpreso dalla capacità, incommensurabile a quella della coscienza, di dar vita in tutti i dettagli a persone, situazioni, eventi, ambienti conosciuti talora molti anni prima. Quando però si esperisce un’allucinazione, per esempio acustica, anche se si danno tutte le condizioni oggettive atte a rendere incredibile la ricezione di un messaggio, come per esempio l'assenza o la distanza dell'emittente, non affiora alcun dubbio. Si può obbiettare che l'assenza di un oggetto è la caratteristica propria delle allucinazioni, quella che ne definisce il carattere patologico. Ma la cosa è più complessa. L'allucinazione acustica, a ben vedere, non comporta solo la ricezione di un messaggio percettivo, bensì l'attribuzione di tale messaggio ad un emittente individuabile o non individuabile. Essa cioè si fonda su di un pregiudizio realistico per cui un messaggio acustico o, più banalmente una voce non può essere emessa che da un soggetto umano. Tale pregiudizio non è molto diverso da quello che porta i bambini a domandare chi parla nella scatola del televisore. La possibilità che un messaggio acustico non sia emesso da un soggetto altro rispetto al ricevente - circostanza che si realizza a livello onirico - o che esso possa essere riprodotto senza partecipazione alcuna di un soggetto umano - come accade nei computer che simulano la voce umana - è del tutto estranea alla coscienza dell'allucinato così come è estranea alla coscienza di un soggetto normale. Ciò non significa ovviamente che l'allucinazione è frutto di ignoranza, quanto piuttosto che, date alcune circostanze per cui una produzione mentale inconscia - identica a quella onirica - entra nel campo della coscienza, ciò viene interpretato alla luce del pregiudizio realistico.

Non si possono avere dubbi riguardo al fatto che tale pregiudizio è costitutivo della coscienza umana. C'è da chiedersi però in quale misura esso sia avallato o posto in crisi dalla cultura. Posto di fronte ad una contestazione critica, un allucinato risponde che le voci non sono un prodotto della sua immaginazione perchè le sente veramente. La risposta implica che egli riconosce che la mente possa produrre fenomeni percettivi senza oggetto, ma nega che ciò accada a lui. Costui - si dice - non ha coscienza di malattia. La verità è che egli si difende dall'equazione implicita per cui scambiare l'immaginazione con la realtà significa essere pazzo. Ma quella equazione non è costitutiva della coscienza umana, è un prodotto culturale.

L'altro aspetto, complementare al primo, concerne il fatto che l'io cosciente tende sempre a identificare come suoi i contenuti del campo della coscienza. In pratica eccezion fatta per le allucinazioni, i pensieri e le fantasie coatte, tutto ciò che accade in tale campo viene vissuto immediatamente come espressivo della sua attività. Per esempio, nel momento in cui una paura fobica, quale quella di essere affetti da una malattia fatale, entra nel campo della coscienza e la ingombra fino al punto di ridurre il potere critico dell'io, realizzando uno stato di coscienza omologabile a quello ipnotico, il soggetto nondimeno se ne appropria, la vive come suo prodotto e la riferisce ad un pericolo reale. Anche in questo caso si fa riferimento ad una sregolazione biologica dei centri emozionali. Ma, a ben vedere, il problema è più complesso. Esso è riconducibile al fatto che l'io non vive il campo di coscienza come una funzione che, in quanto tale, può essere invasa e ingombrata da contenuti che si producono al di sotto di essa. Esso identifica nel confine della coscienza il suo confine, sicchè tutto ciò che entra nel campo della coscienza non può derivare che dal mondo esterno - come nel caso delle allucinazioni - o dall'attività dell'io stesso. I pensieri e le fantasie parassitarie, che non riconoscono nè l'una nè l'altra origine, risultano terrificanti perchè non possono essere interpretate che come espressioni di storture mentali o di possessioni demoniache.

Un terzo aspetto non meno significativo concerne il fatto che il bisogno di stabilità strutturale proprio della coscienza fa riferimento solo ai contenuti esperienziali e alla visione del mondo dell'io, trascurando le esigenze di stabilità strutturale inconsce che, avendo le loro radici nei bisogni fondamentali e nella loro economia, sono più radicali. Laddove si dà un conflitto strutturale, che coincide con una situazione di squilibrio attuale e potenziale, i bisogni frustrati premono nella direzione di un dispiegamento, che rimedierebbe all'instabilità. Ma, preda delle sue esigenze, la coscienza avverte questa pressione nè più nè meno come una minaccia sismica e interpreta i sintomi attraverso i quali essa si esprime in termini univocamente negativi. Ciò spesso induce il soggetto ad agire strategie che sono rimedi peggiori del male, perchè tendono a reprimere anzichè far evolvere la crisi.

Un quarto aspetto infine è riconducibile al coscienzialismo individualista, che è un tratto specifico della nostra civiltà. Per coscienzialismo individualista si intende la presunzione soggettiva per cui il proprio modo di vedere, di pensare e di agire è un prodotto nel quale si esprime la libera volontà dell'individuo. Questo aspetto è sorprendente intanto per la sua novità. Gli uomini hanno sempre avuto una qualche consapevolezza di partecipare di un fondo di credenze comuni, di tradizioni e di opinioni collettive. Nel nostro mondo, questa consapevolezza sembra essersi ridotta ai minimi termini. In parte ciò è dovuto all'enfatizzazione liberale dell'individuo come causa sui, che il cognitivismo ha recepito definendo il potere autopoietico del soggetto, in parte è da ricondurre all'intensità degli scambi comunicativi interpersonali, nettamente aumentati negli spazi urbani, e ai flussi informazionali dovuti ai mass-media. Com'è noto, questi flussi ricadono nell'ambito dell'attenzione selettiva, che tende a memorizzare solo quanto concorre a corroborare le credenze individuali già acquisite. Ma, benchè selezionate, l'entità delle informazioni possedute da ogni soggetto è tale da confermarlo nella convinzione che tali credenze sono state da lui prodotte e, ovviamente, corrispondono alla realtà. In conseguenza di ciò la visione del mondo soggettiva viene accanitamente difesa anche quando essa risulta incompatibile con i dati dell’esperienza vissuta.

La messa in discussione, la critica e il superamento di questi aspetti propri del modo di essere e di funzionare della coscienza sono importanti in tutte le esperienze di disagio psichico. Il senso comune, infatti, che salvaguarda la normalità corrente, è incompatibile con la necessità, intrinseca a quelle esperienze, di interpretare i sintomi, i vissuti e i comportamenti attraverso i quali si esprime un conflitto strutturale.

2) Soggettivo/oggettivo

Tra gli aspetti legati al funzionamento immediato della coscienza, la discriminazione sempre precaria del soggettivo e dell'oggettivo è pressochè costantemente in gioco nella pratica terapeutica. La psichiatria stessa è preda di questo problema: alla tendenza oggettivante della psichiatria neo-organicistica, che ritiene praticamente senza referente tutti i sintomi e i vissuti psicopatologici, fa riscontro la tendenza soggettivizzante della psicoanalisi che li ritiene tutti spiegabili sulla base di dinamiche profonde fantasmatiche. Il contrasto tra empirismo e idealismo, che attraversa tutta la storia della filosofia, impregna di sè inesorabilmente anche una scienza che, per molti aspetti, pretende di essere rigorosa.

La terapia dialettica assume questo problema criticamente. Come si dà per scontato che non esiste alcun contenuto psichico, neppure la più semplice delle percezioni sensoriali, che non comporti un qualche processo interpretativo, conscio o inconscio, così si ritiene che non ne esista alcuno senza una qualche matrice esperienziale. Il problema, di volta in volta, consiste nel ricostruire questa matrice nel passato, nel presente soggettivo e nella rete delle interazioni, e nell’illuminare i codici che presiedono all'interpretazione.

L'esempio più semplice è fornito da un qualunque vissuto claustrofobico. Come noto, l'aspetto reale che induce la crisi di panico non è il trovarsi chiusi in un qualunque spazio, bensì l'impossibilità di uscirne. E' l'impotenza assoluta della volontà soggettiva in riferimento ad una situazione vissuta come senza scampo la matrice dell'angoscia. L'assenza di una via d'uscita spinge il soggetto a vivere le situazioni come destinate a non finire mai. La distorsione temporale, per cui la loro transitorietà si eternizza sul registro dell'essere bloccati per sempre, le rende invivibili.Tale interpretazione della situazione è chiaramente dovuta ad una distorsione soggettiva dei dati reali. Diverse sono le matrici di esperienza che sottendono tale distorsione. Possono essere remote, e rievocare il modo penoso in cui è stata sperimentata la dipendenza infantile, situazione di assoggettamento all'ambiente senza scampo; attuali, in rapporto a situazioni familiari o lavorative intollerabili e per le quali il soggetto non vede soluzione; o strutturali, legate per esempio ad una gabbia perfezionistica o ad un regime di vita riparativo/espiatorio. L'angoscia rappresenta la spazializzazione di questi vissuti che, nella realtà, sono interpersonali.

Il problema si pone in termini più sottili all'interno di altre situazioni. Per esempio, talora i soggetti affetti da crisi di angoscia incentrate sulla paura di morire si chiedono come sia possibile escludere razionalmente la probabilità di una morte improvvisa. Con ciò, cercano di giustificare realisticamente la paura. Di fatto, per loro come per tutti gli esseri umani, quella probabilità sussiste statisticamente. Il problema è che, a livello soggettivo, tale probabilità si è trasformata in una fatalità, in un evento destinato inesorabilmente a realizzarsi, in un destino oggettivo, scritto da qualche parte: in breve, in una condanna a morte. Il panico concerne non già il poter morire ma il dover morire. La probabilità oggettiva, statistica è insignificante in rapporto all'angoscia che trova il suo fondamento in un’aspettativa inconscia profondamente radicata nella soggettività.

Ancor più difficile è l'analisi delle valenze soggettive e di quelle oggettive nei vissuti relazionali. Sia nei rapporti tra genitori e figli che nei rapporti di coppia si sviluppano spesso complesse interazioni che vengono lette diversamente dagli agenti. La tendenza assolutamente prevalente è quella di incolpare l'altro, anche se non di rado un soggetto attribuisce a sè tutte le colpe. La possibilità che, nel corso di rapporti di lunga durata, si commettano delle colpe da parte degli agenti in interazione sussiste realmente. Se la nozione di colpa viene però ristretta, come è pertinente, all’agire comportamenti orientati a danneggiare, ferire, far male all’altro, i casi in cui essa può essere adotta in ambito psicologico sono piuttosto rari. I danni, quasi sempre presenti nelle personalità affette da un disagio psicologico, sembrano più spesso riconducibili ad interazioni congiunturali negative che implicano tutt’al più responsabilità oggettive non colpe. E’ vero pure che i danni che talora le persone affette da un disagio psicologico arrecano agli altri sono quasi sempre animate da motivazioni rivendicative di giustizia piuttosto che dalla volontà di fare male. Il superamento della logica causale intrinseca alla mente umana per cui un danno, inteso come effetto negativo, non può non riconoscere come causa un comportamento colpevole, e l’accettazione che ad esso consegue di una logica congiunturale interattiva casuale e spesso dovuta ad aspetti inconsci della personalità, si configura quasi sempre come un passaggio obbligato nel corso dell’analisi dialettica.

3) Identità individuale/alienazione

In molte esperienze psicopatologiche la guarigione viene vissuta, dai pazienti e dai parenti, come un ritorno allo status quo presistente la crisi. Ciò significa che i soggetti identificano in quel modo di essere la loro identità individuale che sentono in qualche misura compromessa dal disagio psichico. In questi termini, l’aspettativa di guarigione solo molto raramente può essere corrisposta. Le crisi psicopatologiche, in particolare quando sono di ordine strutturale, sono dovute alla pressione di una quota di bisogni intrinseci la cui frustrazione attesta che il modo di essere presistente della personalità era in una qualche misura alienato. Coincideva, in altri termini, con una normalizzazione giunta a sovrapporre alle potenzialità di sviluppo proprie della personalità un modello poco o punto compatibile con esse. Non è facile persuadere di ciò i pazienti dato il carattere ingannevole dei vissuti e delle memorie riferite alla perduta normalità. Non si tratta peraltro di persuaderli quanto piuttosto di arricchire quei vissuti e quelle memorie degli aspetti che essi tendono a rimuovere. Infatti anche quando le crisi sopravvengono ex-abrupto, a ciel sereno, la loro maturazione è sotterraneamente lenta. E’ sempre possibile, ricostruendo il passato, reperire tutta una serie di indizi attestanti una condizione psicologica di precarietà. Non di rado la ricostruzione fa affiorare anche vissuti, sintomi e comportamenti che, a posteriori, assumono un significato psicopatologico inequivocabile.

Il problema dell’identità individuale si pone, a livello psicopatologico, in termini ancora più drammatici allorchè, come accade nel corso di non pochi attacchi di panico, la catastrofe temuta coincide con la perdita definitiva di quell’identità, con l’impazzire. Anche in questi casi la paura, peraltro terribile, fa riferimento ad una necessità dinamica di cambiamento incoercibile che viene comunemente misconosciuta.

Com’è possibile che le persone identifichino la loro identità individuale in un modo di essere alienato e non intuiscano mai che la crisi di tale identità rappresenta un passaggio obbligato del loro tragitto esistenziale? Sul piano psicopatologico la risposta è semplice. I sintomi e i vissuti nei quali quella crisi si esprime, in misura direttamente proporzionale alle quote di bisogni frustrati, sembrano orientare la personalità verso un modo di essere asociale, anarchico, amorale nel quale è difficile cogliere soggettivamente un senso progettuale. Cionondimeno la confusione ricorrente in psicopatologia per cui i pazienti difendono, talora con disperazione, la loro alienazione scambiandola con l’identità individuale è tale da rendere spesso necessaria una riflessione sul problema.

L’esito costante di questa riflessione è che l’identità individuale, la cui matrice prima è un’emozione innata autoreferenziale, è un mito della coscienza che, respingendo o minimizzando le contraddizioni, rimuovendo e negando i vissuti che lo contestano, giustificando e appropriandosi di comportamenti la cui origine è conflittuale e inconscia, tende a perpetuarsi finchè non affiorano dei sintomi che rendono inefficaci le sue difese. Identificandosi nella normalità presistente e dando ai sintomi un significato meramente negativo, la coscienza continua ad alimentare quel mito anche dopo l’avvento della crisi di disagio. Essa va allargata per recuperare e dare senso a ciò che è stato rimosso e per riconoscere nei sintomi le istanze di cambiamento che li sottendono.

4) Istintualità/razionalità

Ogni cultura si fonda su una concezione, più spesso implicita, della natura umana che influenza profondamente il modo in cui i soggetti leggono e interpretano il proprio e l’altrui modo di essere. Non si va lontano dal vero affermando che la nostra cultura paga ancora un tributo pesante ad una concezione sostanzialmente istintualista che vede nell’uomo un animale animato da pulsioni aggressive e sessuali, in sè e per sè asociali e amorali, che la razionalità fatica a tenere sotto controllo. L’originaria matrice cristiana di questa concezione non è stata scalfita nel corso dei secoli dal pensiero filosofico che, a più riprese, ha contrapposto ad esso una concezione ottimistica incentrata su di una sociabilità naturale. L’irrazionalismo, il liberismo e infine la psicoanalisi freudiana hanno portato alle estreme conseguenze il pessimismo cristiano avallando l’attribuzione alla natura umana di un egoismo primario, assoluto e coercibile solo repressivamente.

In quasi tutte le esperienze psicopatologiche ci si imbatte in questo problema. Non c’è da sorprendersi. La fenomenologia pulsionale che le sottende, come si è detto più volte, è la conseguenza della ridondanza dei bisogni frustrati, ma la percezione soggettiva delle spinte pulsionali, prima che esse possano essere interpretate, dà luogo o ad una reazione fobica, che sovrappone ad esse un ipercontrollo razionale, o alla definizione di un ideale dell’Io che identifica la libertà individuale nella loro espressione immediata. Nell’uno e nell’altro caso la concezione istintualista della natura umana è adottata dai soggetti più o meno implicitamente. E’ evidente che il lavoro terapeutico, imbattendosi in questo problema, non ha alcuna possibilità di successo se non riesce a mettere in crisi tale concezione e a sormontarla.

I presupposti teorici sulla cui base può avvenire il superamento sussistono. La concezione istintualista e pulsionale, quotidianamente confermata dalle guerre, dai fatti di cronaca, dalla crescita esponenziale delle perversioni sessuali, ecc., è un’interpretazione superficiale e errata dei comportamenti umani. Il passaggio dagli animali all’uomo è caratterizzato dall’allentamento dei vincoli istintuali e dal definirsi di una libertà, di pensare e di agire, sconosciuta alle altre specie. E’ l’esercizio della libertà, vale a dire il contrario del determinismo istintuale, a sottendere i comportamenti umani. Ma tale esercizio per un verso è fortemente condizionato dalla cultura e dall’ambiente e per un altro dal giustificazionismo della coscienza individuale, quasi sempre incapace di decifrare le motivazioni del comportamento ma incline a riconoscere in questo l’espressione della volontà personale o a giustificarlo in nome delle circostanze.

Ma la contestazione della concezione istintualista è intrinseca alla tessitura delle esperienze psicopatologiche quando esse vengono analizzate dinamicamente. In alcune, infatti, caratterizzate dall’alleanza dell’Io con il Super-io, riesce del tutto evidente che la fenomenologia pulsionale corrisponde ad una quota di bisogni frustrati e per ciò ridondanti.

Fabrizia S. a 22 anni è sul punto di allontanarsi dalla famiglia. L’allontanamento corrisponde ad un nodo di rancori inespressi e inconsci nei confronti di un padre autoritario, irascibile e poco responsabile, e di una madre che si è supinamente assoggettata a lui e che F., nel suo intimo, disprezza. L’unica remora è di abbandonare la medre inerme e infelice. Il sopravvenire di una sindrome da attacchi di panico impedisce l’allontanamento e induce una umiliante regressione in una dipendenza totale dalla famiglia. Dopo un anno di terapia, la trama dell’esperienza è sufficientemente chiara. F. ha compreso che il padre è un uomo socialmente frustrato nelle sue aspirazioni sociali e che la sua irascibilità è indotta dalla madre, la cui apparente passività cela in realtà un bisogno di dominare gli altri che si realizza mettendosi a loro disposizione e rendendoli dipendenti. Ha compreso anche che una maggiore serenità nei confronti della famiglia postula che essa se ne allontani. Progetta di andare a vivere con il fidanzato, ma esita e lascia passare il tempo. Un giorno la madre, in crisi, le confessa il suo intimo desiderio che ella vada a vivere da sola e, pur concedendosi qualunque esperienza, non si assoggetti mai ad un uomo. Il messaggio è clamorosamente in contrasto con gli insegnamenti tradizionali che la madre le ha impartito sin da bambina. F. intuisce che il suo essere è scisso tra la dipendenza, cui è stata condizionata, e l’autosufficienza. La notte stessa si sveglia preda dell’ossessione compulsiva di dovere uccidere la madre. Per tre giorni vive in una condizione di panico totale. La paura di far male alla madre la spinge infine ad andare fuori di casa. Dopo alcuni mesi capisce che l’orribile fantasia è risultata funzionale a promuovere un salto di qualità nella sua vita.

In altre esperienze è l’alleanza dell’io con un ideale dell’Io forte e capace di qualunque cattiveria ad alimentare coscientemente un mondo di fantasie antisociali e amorali che servono a reprimere e a negare una sensibilità sociale, a volte addirittura scrupolosa, vissuta come una debolezza temuta in quanto capace di rendere il soggetto preda delle aspettative altrui.

Lorenzo C. è sempre stato esile, vulnerabile e introverso. Dotato di una natura artistica con spiccate attitudini per il disegno, si è ritirato nel suo mondo coltivando il sogno di diventare un grafico di successo. L’interazione con i coetanei è stata sempre difficile e caratterizzata dalla derisione. Giunto all’adolescenza, L. avverte un senso di straordinaria superiorità rispetto alla gente comune. La mediocrità del modo di vivere dei coetanei lo esaspera. Diventa nel suo intimo sprezzante. Legge Nietzsche, Evola e aderisce infine all’ideologia nazista. Il contatto con il mondo gli riesce sempre più difficile per via di una rabbia cieca che in alcune circostanze lo induce a temere di potere perdere il controllo. Il problema è risolto da una sintomatologia addominale caratterizzata dal dolore e da una nausea persistente che induce in L. il terrore di potere vomitare in pubblico. La fobia del vomito lo costringe a stare a casa. La sua rabbia richiede una qualche espressione. Lorenzo la individua nel chattare sulla rete Internet. Protetto dall’anonimato egli si cala nel ruolo del vampiro e terrorizza con le sue idee radicali, per le quali è giusto che i forti succhino il sangue dei deboli e li sterminino, coloro con cui comunica. E’ un’interlocutrice a smascherarlo. Lo vuole conoscere. L. cede. Si avvia un rapporto sentimentale. Letta dall’esterno, da una persona che gli vuole bene, l’esperienza di L. è quella di un essere sensibile terrorizzato dalla paura di subire danni, e che, avendo sperimentato sulla pelle la crudeltà del mondo nei confronti dei ‘deboli’, si è alleato con gli aggressori. Ma con quale vantaggio se di fatto non riesce a vivere? La ragazza lo aiuta ad accettare di fare terapia. L. deve smantellare tutta la sovrastruttura dell’Io antitetico per recuperare la sua originaria sensibilità e l’identificazione che essa promuove con gli esseri deboli.

5) Caso/Necessità

L'incidenza del caso nelle vicende umane è attestata, tra l'altro, dal fatto che ogni esperienza soggettiva si definisce a partire da una situazione congiunturale: l'interazione tra un patrimonio genetico dovuto ad un gioco combinatorio e un determinato contesto familiare e socio-culturale con cui esso interagisce. L'intuizione del carattere congiunturale della propria esperienza è universale. Non c'è essere umano che, almeno una volta nel corso della sua vita, non sia giunto a chiedersi che cosa egli sarebbe potuto essere date altre circostanze ambientali. Pur prescindendo dal determinismo ambientale, il problema del carattere congiunturale della esperienza soggettiva non è di poco conto. Esso infatti determina non solo un certo modo di essere e di rapportarsi al mondo che, una volta definitosi, sembra configurare una necessità o, se si vuole, un destino, bensì anche delle scelte di vita inerenti lo studio, il lavoro, l'affettività che, alla luce dell'analisi, risultano espressive più che di una libera scelta di quella necessità. Accettare l'incidenza del caso e delle sue conseguenze, quando queste sono negative, non è facile. Tre aspetti incidono con una certa frequenza in ambito psicopatologico: lo status sociale di appartenenza; il corredo genetico; il difetto di affinità con il gruppo parentale.

La difficoltà di accettare lo status originario di appartenenza si rileva raramente a livello di ceti sociali abbienti e più frequentemente a livello di ceti sociali non abbienti.

Nascere privilegiati paradossalmente per taluni è un fattore di rischio. Si danno varie circostanze. Talora che il privilegio non meritato debba essere pagato dall'individuo é implicito nel tipo di educazione che viene impartito; talaltra corrisponde a un vissuto di indebitamento, che viene indotto dagli educatori, in nome del quale il soggetto, per sdebitarsi, non ha altro modo che rispondere in maniera ottimale alle loro aspettative, quali che siano; talaltra ancora il privilegio, mal vissuto dagli stessi genitori, quasi sempre per via del conflitto con dei valori religiosi, deve essere pagato con uno stile di vita mortificante.

La prima circostanza é ormai a dire il vero piuttosto rara. Uno studioso di storia sociale l'ha individuata nell'educazione cui venivano sottoposti in passato gli eredi al trono d'Inghilterra, cui era toccata la sorte di assumere un giorno un potere di vita e di morte su tutti i sudditi. Per prepararli a tale onore, erano affidati a pedagogisti che oggi definiremmo sadici, che li tormentavano giorno e notte e gli infliggevano, per qualunque errore, pene corporali severe e non di rado autenticamente crudeli. Un regime educativo al di là del limite della sopportazione umana. Tant'è che qualche erede é impazzito prima di ascendere al trono e qualche altro dopo (Giorgio III). Quelli che non impazzivano manifestavano con una certa frequenza nell'esercizio del potere non poche bizzarrie e una tendenza ad incrudelire sui sudditi. Acqua passata, di certo. Ma la storia sociale ha uno scorrimento sotterraneo (inconscio) che spesso le cose le fa scomparire nella forma originaria e le fa comparire sotto altre che non vengono colte dalle coscienze. I danni fatti, fino a qualche tempo fa, dalle terribili benché accreditate istitutrici tedesche e inglesi a carico di rampolli della nobiltà e dell'alta borghesia sono ancora quantificabili: esemplari di questo scempio se ne trova più d'uno nelle cliniche svizzere.

La seconda circostanza é viceversa attuale. Gran parte dei genitori usa oggi far leva sull'indebitamento per ottenere che i figli rispondano alle loro aspettative. Dato il benessere, il nodo scorsoio (che, ovviamente, cattura gli esseri emotivamente più dotati) sta diventando un dramma rispetto a prima, quando in genere il debito si riduceva al fatto di essere stati messi al mondo. Fino ad un certo livello della scala sociale, il tasto batte sui sacrifici, sulle rinunce genitoriali. Al di là di un certo livello, batte sul fatto che se uno, avendo avuto tutto dalla sorte, non si dà da fare, é colpevole nei confronti di quelli che prima di lui si son dati da fare e dei coetanei che hanno avuto molto meno. La storia di Maurizio B. esemplifica il primo caso, quella di Attilio B. il secondo.

Nella storia di Attilio si relizza anche la terza circostanza che é, sotto il profilo della storia sociale, la più singolare. Si realizza infatti sulla base di una condensazione di valori culturali incompatibili. La storia della cruna dell'ago la sanno tutti, ma é incredibile quante famiglie di tradizione cattolica e di condizione agiata non la prendono sul serio. O meglio, la prendono sul serio, ma pensano che, dando al lavoro il significato di una virtù sociale, per la cruna alla fin fine si riesca a passare. Tanto più se il denaro, pure prodotto a più non posso, non viene utilizzato per fare la bella vita, e il lusso - ch'è roba da parvenus - viene disprezzato.

Il dramma di chi convive con l’intuizione di essere stato svantaggiato ingiustamente dalla sorte e dalla struttura sociale, nascendo e vivendo in condizioni oggettive non adatte ad assicurare il pieno sviluppo delle potenzialità individuali, è reperibile in molteplici esperienze psicopatologiche. I livelli di coscienza a riguardo sono però molto diversi, e vanno da una rabbia e un odio sociale indifferenziati a un orientamento ipercritico e contestatario. Due esperienze esemplari sono le seguenti.

Ignazio S. è il terzo figlio di un operaio edile. La famiglia, pienamente adattata alla sua condizione di decorosa modestia, ha un orizzonte che prescinde, per quanto riguarda i figli, da ogni aspettativa di ascesa sociale. Il problema, anche per Ignazio, sorge alla fine delle scuole medie inferiori. Egli ha un indubbio talento creativo. Si interessa di letteratura, di teatro e di cinema e a scuola organizza spesso delle rappresentazioni satiriche. Ha l'intuizione di disporre di capacità superiori alla media e nutre vaghe ambizioni di grandezza. Il padre lo pone di fronte ad un'alternativa senza scampo: o va a lavorare con lui o frequenta l'istituto tecnico-industriale. Le scienze esatte per Ignazio sono arabo. Si risolve infine a continuare gli studi, perchè non ha argomenti da opporre al padre che col suo lavoro riesce appena a tirare avanti. L'esperienza scolastica è disastrosa. Ignazio se la cava appena per il rotto della cuffia, risultando tra i peggiori. L'ingiustizia subita e l'umiliazione lo orientano verso la politica. Ignazio trascura l'elettronica per leggere i classici del marxismo e per dedicarsi sempre con maggior passione al cinema. Cova una sorda ribellione nei confronti della società che non dà a tutti pari opportunità di sviluppo. Alla fine delle superiori, conseguito uno stentato diploma, rifiuta di andare a lavorare, pretende di iscriversi alla facoltà di lettere e si impone di contribuire al proprio mantenimento svolgendo dei lavori occasionali e riducendo al massimo i consumi personali. Tra studio, lavoro e sacrifici fa una vita da cani che rinfocola le sue rabbie. L'ambiente accademico gli è odioso con le sue gerarchie baronali e l'insegnamento del tutto avulso dalla vita reale. Profitta del fremito della Pantera per assumere una funzione di leader e sparare a zero contro i baroni, le caste e i privilegi sociali. Viene fermato dalla polizia per un controllo, forse non casuale. Risponde aggressivamente imbattendosi per fortuna in un agente piuttosto comprensivo. Ma ormai la sua rabbia è fuori controllo, e, a livello di fantasia, investe tutti, compresi i familiari che Ignazio giudica colpevoli di essersi rassegnati a vivere come bestie da soma e di aver tentato di indurre alla rassegnazione anche i figli. Insorgono i primi sintomi: un'insonnia piuttosto seria e agitata, uno stato di allarme perpetuo, la vaga paura di una rappresaglia. Il disagio infine esplode sotto forma di un attacco di panico al quale segue un delirio persecutorio, che destina Ignazio agli arresti domiciliari per un anno.

Patrizia A. nasce da una famiglia molto modesta. Il padre lavora saltuariamente, la madre si rompe la schiena in casa facendo la sarta in nero. Fin dalle elementari, Patrizia dimostra un'eccellente attitudine agli studi, primeggiando senza alcuno sforzo. Il risultato, piuttosto sorprendente data la timidezza e la scarsa comunicatività della bambina, attiva nella madre un'aspettativa di riscatto sociale che Patrizia recepisce nettamente. Si instaura così un circolo vizioso destinato a durare negli anni. La madre si sacrifica sempre di più giungendo a lavorare anche di notte, Patrizia si sente obbligata a sdebitarsi studiando sempre di più. Le gratificazioni che riceve dai brillanti risultati le impediscono di rendersi conto del regime anomalo di vita che conduce, e che diventa più evidente dall'adolescenza in poi. Patrizia, che è pure corteggiatissima, non frequenta nessuno, non partecipa alle feste, disprezza le sue amiche sempre in bambola per qualche ragazzo. E' entrata insomma già nel tunnel di un'esperienza competitiva che ha come unica finalità l'affermazione sociale. Quest'orientamento si radicalizza nel corso dell'esperienza liceale. Avendo conseguito una borsa di studio, Patrizia frequenta un istituto privato elitario. Nonostante la stima di cui gode presso i docenti, la sua inferiorità sociale è resa evidente da molte circostanze, e le compagne, irritate dalla sua superiorità intellettuale, non mancano occasione per sottolineare impietosamente la sua non appartenenza al loro ceto. Questo atteggiamento "razzista" rinfocola in Patrizia il progetto di riscatto sociale, che assume una configurazione vendicativa. A questa epoca, Patrizia è ancora convinta che il mondo sia sostanzialmente ingiusto ma meritocratico. Una delusione la ha alla maturità, laddove consegue il massimo dei voti alla pari di tre compagne di classe di buona famiglia che sono molto meno preparate di lei. Ma il dramma sopravviene all'Università. La madre, che ormai è preda di una logica sacrificale, decide di iscrivere la figlia ad un'Università privata prestigiosa, purchè essa accetti di fare giurisprudenza. Patrizia, in cuor suo, desidererebbe frequentare lettere o addirittura l'Accademia di Belle Arti. Valuta a lungo la situazione prima di decidersi per giurisprudenza. Avvia la carriera con la morte nel cuore, ma subito si imbatte nel peso delle differenze sociali. capisce che, nonostante la serietà dell'Università, si dà una rete sottile di conoscenze e di frequentazioni tra famiglie benestanti, per cui i "rampolli" sono comunque trattati con un certo riguardo, mentre lei, che veste casual, viene costantemente trattata come un'intrusa e guardata dall'alto in basso. La presa di coscienza si estende lentamente anche al futuro, alle prospettive professionali, alla sistemazione. Il mito meritocratico crolla, e la rabbia sociale di Patrizia divampa. Insorge in questa fase un sintomo che la tormenterà per alcuni anni: un dolore violento e trafittivo ad entrambi gli occhi pressochè continuo, che rende il proseguimento degli studi un calvario. Non c'é alternativa che impegnare sempre più tempo sui libri e sottrarlo alla vita, con una prospettiva che non è più esaltante come in passato. Il vissuto di debito nei confronti della madre, il dolore, l'autocostrizione, la rabbia cieca nei confronti del mondo giungono a configurare un cocktail micidiale. Oltre al dolore agli occhi, Patrizia sperimenta un'infinità di sintomi psicogeni e psicosomatici. E a ventidue anni, andando all'Università sul motorino, ad un incrocio vede benissimo una macchina che le taglia la strada. Sa d'avere ragione e non prova neppure a frenare. Quando si risveglia dal coma con varie fratture, stranamente ricorda tutto. Ma non sa perchè, per amore della giustizia,ha tentato di uccidersi.

In non poche esperienze psicopatologiche le circostanze ambientali in tanto incidono in quanto interagiscono con un corredo individuale iperdotato. Nascere iperdotati, emozionalmente e/o intellettivamente, è un fattore costante di rischio dato che le istituzioni educative e gli educatori fanno costante riferimento al bambino medio. Prendere coscienza di questo dato, a partire dal quale si riesce a spiegare ciò che altrimenti rimane incomprensibile - come per esempio il definirsi del disagio in uno solo dei figli - è doloroso. La presa di coscienza riduce le responsabilità dell’ambiente familiare e socio-culturale, ma quando ciò avviene in persistenza del disagio, è inevitabile che insorga una sorta di rabbia cieca e impotente contro la casualità della natura, vale a dire la lotteria genetica. Quasi sempre tale rabbia si associa ad un’invidia astiosa nei confronti dei ‘normali’ in quanto privilegiati dalla sorte. Non si dà alcuna possibilità di razionalizzare il problema. Nascere iperdotati e dovere pagare per questo un ingiusto prezzo in termini di sofferenza è l’espressione assoluta della casualità statistica. Non di rado l’essere vittime del caso, e della congiuntura interattiva che ne è una conseguenza, si configura come una consapevolezza di cui è difficile prendere atto. Il problema si risolve solo allorchè l’iperdotazione produce i suoi frutti: una ricchezza umana nel modo di sentire, di pensare e di agire che, una volta maturata, estingue l’invidia nei confronti dei normali e il risentimento nei confronti della natura.

Strettamente associato al problema del corredo genetico, e comunque dipendente dalla casualità, è un difetto di affinità con il gruppo parentale tale per cui il soggetto si sente, in misura più o meno rilevante, estraneo ad esso e diverso. Nonostante un’antica tradizione, porti a pensare che il legame di sangue implichi, oltre alla somiglianza fisica, un qualche grado di affinità psicologica, tale affinità sia pure di rado, e per effetto della lotteria genetica, difetta del tutto. Questo difetto, quando è reale e non attribuibile a errori comunicativi o a incomprensioni, si traduce nell’impossibilità di sintonizzazione sia emozionale che cognitiva. Se le cose stanno così, non rimane che prenderne atto. Ma il prenderne atto dipende in larga misura dalle conseguenze di quel difetto.

A 22 anni, Riccardo A. è immerso in un totale isolamento psicotico. Vive in casa e, quando non è preda di angosce violente, si dedica agli studi di Lettere che porta avanti stentatamente. In quattro anni ha dato solo tre esami. Riccardo è venuto al mondo con una vocazione letteraria. Nonostante una precoce e grave miopia, i libri più che gli esseri umani lo hanno affascinato sin dai primi anni delle elementari. Suo padre purtroppo non è mai stato in grado di dare un qualsivoglia senso a quella vocazione. E’ un malavitoso, un piccolo ma temuto boss di quartiere. Riccardo, suo figlio unico, era destinato nelle sue aspettative ad esserne l’erede. Ritrovandosi tra le mani un bambino esile, vulnerabile e socialmente piuttosto pauroso ha tentato di salvarlo e di salvare se stesso dall’ignominia con metodi piuttosto spicci: picchiandolo quando rientrava piagnucolante dalla scuola, ove veniva sistematicamente deriso, strappandogli i libri sotto il naso e inviandolo nelle palestre di arti marziali ove egli finiva regolarmente per avere la peggio. Si è arreso per disperazione ma non ha mai perdonato al figlio di essere divenuto la ‘favola’ del quartiere, e, dall’adolescenza in poi, lo ha investito di un muto ma inappellabile disprezzo. Riccardo è ammalato a 18 anni in seguito ad un sogno nel quale egli sparava alla nuca del padre e la pallottola, rimbalzando, lo centrava al cuore.

6) Giustizia/Ingiustizia

Si dibatte ancora oggi sul fatto che la giustizia sia un prodotto della civilizzazione che assegna al potere il compito di tutelare i diritti dell’individuo dall’arbitrio della legge del più forte, che rappresenterebbe la vocazione naturale dell’uomo, o se viceversa essa sia rappresentata nel corredo genetico sotto forma di intuizione della pari dignità degli esseri umani. La psicologia evolutiva offre delle prove a favore della seconda ipotesi. Il senso della giustizia sembra presente nel bambino a partire da fasi precoci dello sviluppo quando l’attrezzatura cognitiva è ancora molto lontana dal consentire la definizione concettuale della giustizia. Esso si manifesta sotto forma di reazioni rabbiose, espresse o inespresse, a comportamenti altrui che vengono vissute come arbitri, sopraffazioni o torti. L’intimo rapporto tra la rabbia e il senso della giustizia è un nodo denso di suggestioni. Filogeneticamente la rabbia serve a predisporre l’animale a reagire ad una minaccia o a tentare di assumere un ruolo gerarchicamente dominante. Nell’uomo, pur mantenendo tali funzioni, essa sembra visceralmente associata col senso della pari dignità tra gli esseri umani che difetta negli animali. La prova di ciò è data dal fatto che un bambino di due-tre anni che subisce un grave torto da parte di un adulto che appare ai suoi occhi onnipotente cionondimeno sviluppa nel suo intimo una rabbia cieca associata a fantasie di vendetta.

Nella sua componente primaria, viscerale, il senso di giustizia appare direttamente proporzionale alla ricchezza del corredo emozionale. Esso dunque è più o meno intenso da individuo a individuo. Nei bambini iperdotati esso è in genere spiccatissimo e appare precocemente generalizzato. Le reazioni rabbiose vengano infatti evocate anche da torti o prepotenze inflitti agli altri.

Problematico di per sè nelle sue manifestazioni primarie che mettono in luce una componente emozionale di gran lunga prevalente su quella cognitiva, il senso di giustizia rimane tale anche allorchè esso assume una configurazione cognitiva per una serie di motivi.

Un primo motivo è legato allo scarto tra l’intensità emozionale del senso di giustizia e il corredo cognitivo, la cui carenza, destinata talora a persistere anche in età adulta, comporta degli automatismi reattivi che ignorano la complessità motivazionale dei comportamenti umani. Tale scarto è reso ancora più problematico dal fatto che il bambino interpreta i comportamenti degli altri, e in particolare dei grandi, come consapevoli, intenzionali, volontari e quindi colpevoli.

Un secondo motivo è da ricondurre viceversa ad aspetti del mondo reale che vengono comunemente accettati dai più ma che di fatto rappresentano delle ingiustizie, e come tali vengono vissute da alcuni.

Un terzo motivo infine è data dal fatto che la sensibilizzazione alle ingiustizie va incontro, in epoca adolescenziale, ad un processo di generalizzazione emozionale, spesso inconscio, tale per cui l’interazioni con situazioni ingiuste dà luogo ad una reazione emozionale massimale priva di qualunque componente discriminativa e valutativa.

A questi motivi occorre aggiungere il fatto che la nostra cultura, pur riconoscendo la giustizia come un valore supremo, tende a restringere il suo ambito di applicazione alla legalità. Nei confini della legalità borghese, che serve a regolare e a convogliare la competitività interpersonale, i rapporti privati, soprattutto quelli domestici, tutelati da una privacy che li sottrae ad ogni controllo sociale, si realizzano spesso, nonostante le componenti affettive che li caratterizzano, sul registro della legge del più forte.

L’intensità del senso di giustizia, i suoi limiti cognitivi e l’organizzazione reale del mondo che, sia a livello pubblico che privato, è ben lontano dal realizzare l’aspirazione scritta nella natura umana rendono conto del fatto che, in ambito psicopatologico, ci si confronta spesso con un senso di giustizia astratto che, incentrato sul riferimento al mondo così come dovrebbe essere, finisce con il rendere il mondo reale per molteplici aspetti invivibile e ad alimentare una rabbia intensa che produce fantasie e talora comportamenti vendicativi e sempre più o meno rilevanti sensi di colpa. La colpevolizzazione del senso di giustizia astratto si ritrova costantemente nelle esperienze di pazienti il cui modo di essere originario, sensibile e carente di aggressività, li espone per anni a subire le ‘angherie’ dei coetanei e degli adulti.

Elda B. avvia a 14 anni una dieta molto rigida per rimediare al fatto di essere grassottella e imbocca rapidamente il tunnel dell’anoressia. La catastrofe viene evitata in virtù del fatto che, giunta a 40 chilogrammi, legge la disperazione sul volto dei suoi e acconsente ad un compromesso suggerito da un medico, accettando una dieta che le consente di sopravvivere. Tale compromesso comporta però per un verso dei rituali estenuanti dovuti alla necessità di pesare gli alimenti e per un altro la tendenza a imporre ai suoi di mangiare più di quanto essi vogliano. Obbligata insomma a vivere da loro E. si vendica come può. Il non potere lasciarsi morire per non dare un dispiacere ai suoi è un vissuto assolutamente consapevole. Il desiderio di morire deriva da un’esperienza di vita molto dolorosa. Figlia unica di due genitori entrambi perfezionisti, ossessionati dall’ordine, dalla pulizia, dal dovere e dalla moralità, E. non ha mai goduto di un briciolo di libertà. Da piccola ha interagito vivacemente con le loro richieste che, soprattutto in rapporto alla limitazione dei giochi, giudicava eccessive. Poi, con l’avvio della scolarizzazione, si è lasciata irretire dal loro perfezionismo e lo ha progressivamente interiorizzato giungendo a primeggiare. Forse non sarebbe riuscita odiosa ai coetanei se, oltre a primeggiare, li avesse frequentati. Ma tale frequentazione, per i motivi più vari, è stata sempre interferita dai genitori. Gli insegnanti poi, gratificati dal suo rendimento, l’hanno sempre portata ad esempio agli altri alunni, esponendola al rischio di diventare facile bersaglio della loro invidia e del loro senso di inferiorità. Nelle medie capita in una classe turbolenta ed è assoggetta, dai maschi, a scherzi piuttosto pesanti che vertono sui suoi modi da ‘suorina’. E. reagisce isolandosi sempre di più nello studio e nella pratica religiosa, disprezzando aspramente nel suo intimo quei ‘selvaggi’. L’isolamento, il perfezionismo, l’angoscia di deludere i suoi realizzano uno stato interiore di grave disagio che viene compensato dalla bulimia. Anche questa sregolatezza, peraltro incoercibile, incorre nelle critiche e nei rimrpoveri dei suoi. Nel suo intimo, E. comincia ad odiarli. Rivendica di consumare i pasti nella sua camera. Le viene vietato in nome dei doveri familiari. Via via che cresce , essa scopre però che i genitori che le impongono di essere perfetta non lo sono affatto. La madre ha essa stessa una tendenza bulimica. Il padre, che la sgrida regolarmente se trova la sua stanza minimamente in disordine, ha una scrivania sempre sottosopra. All’avvio delle superiori, vedendo davanti a sé un impegno di molti anni difficile da sormontare, E. comincia a sentire che la vita non vale tanto sforzo. Comincia la dieta su sollecitazione della madre, che la porta da una dietologa, e scopre rapidamente che si lascerebbe volentieri morire.

Il senso di giustizia astratto è drammaticamente rappresentato in molte esperienze femminili animate da un risentimento atavico e personale nei confronti della condizione subordinata e talora servile della donna. La rabbia vendicativa che sottende queste esperienze è tale da orientare alcune donne a frustrare il loro bisogno di relazione con l’uomo. In altre il bisogno relazionale rimane fin troppo vivo ma esso è contaminato da un bisogno di fare giustizia che si traduce in un atteggiamento perpetuamente diffidente e inquisitorio nei confronti dell’uomo, che mira a dimostrare che gli uomini sono fatti tutti allo stesso modo e meritano non l’amore ma la punizione.

Alessandra N. ha avuto infinite storie relazionali ma continua ad essere sola. La diversità degli uomini con cui è stata in rapporto rende incredibile il fatto che, comm’essa dice, non abbia trovato mai l’uomo giusto. Di fatto le sue relazioni si sono svolte tutte secondo un univoco canovaccio. A. seduce gli uomini assumendo un atteggiamento disponibile e accondiscendente. Ella sa che gli uomini sono tutti un po’ bambini e che godono di sentirsi importanti e che una donna conceda loro il dominio. Si presta al gioco ma rimane vigile, inquisitoria e pronta a cogliere nel comportamento dell’altro l’abuso di potere. In conseguenza della sua ingannevole disponibilità, un errore, grave o veniale, prima o poi viene commesso dal partner. A. diventa una furia, lo aggredisce verbalmente e fisicamente con una violenza inaspettata. Quando il partner fugge terrorizzato, si sente esaltata e appagata dall’avre fatto giustizia. Cade poi in depressione e ricomincia ad alimentare il bisogno di cercare il partner ideale.

Sempre più di frequente il senso di giustizia appare il fattore dinamico che quando non le avvia determina drammatici peggioramenti delle depressioni. La sofferenza depressiva, esasperata dalla previsione di non guarire, e avvertita spesso o come frutto del caso o come punizione immeritata, porta i pazienti a confrontare la propria condizione con quella dei normali e a leggere nello scarto tra il loro malessere e il benessere di quegli l’espressione di un intollerabile ingiustizia che evoca, per un verso, intense fantasie invidiose e, per un altro, fantasie di malaugurio che mirano ad azzerare quello scarto nell’ottica del mal comune. Quasi sempre questa dinamica fa capo ad una logica superstiziosa che implica inconsciamente un potere impersonale o personale che distribuisce il male in maniera iniqua e postula una correzione.

Qualcosa di analogo accade a molti pazienti ossessivi la cui esperienza è governata da regole scrupolose o rituali incentrate sulla paura di danneggiare gli altri che determinano un comportamento socialmente inappuntabile e tendenzialmente inibito. L’interazione continua con le infinite trasgressioni che caratterizzano la vita sociale quotidiana e che mettono in luce, in misura più o meno rilevante, l’insensibilità morale e sociale dei normali, dà luogo ad una rabbia smisurata incentrata sulla presa d’atto che le regole coercitive per il paziente, e alle quali egli spesso accorda un significato oggettivo e assoluto, non valgano universalmente. Tale rabbia comporta spesso l’assunzione da parte del paziente del ruolo interiore del giustiziere che rimette ordine nel mondo con terribili fantasie di rappresaglia e di punizione dei trasgressori.

Un’altra circostanza ricorrente in ambito psicopatologico riguarda poi i soggetti che prendono coscienza del ruolo svolto nel determinare il loro disagio dall’iperdotazione genetica che ha prodotto interazioni drammatiche con circostanze ambientali oggettivamente normali. In tali casi è in gioco la casualità genetica che, finchè non si risolve il disagio psicologico, non viene accettata e ritenuta ingiusta.

Drammatiche sono poi le conseguenze del senso di giustizia nel corso di alcune esperienze psicotiche che rimangono insabbiate nello spazio domestico e familiare. In queste circostanze infatti l’intuizione di avere subito un danno frequentemente porta il paziente ad assumere i familiari come colpevoli e a riversare su di essi, in misura direttamente proporzionale alla sofferenza soggettiva, una rabbia vendicativa che viene di solito arginata solo dal bisogno che il paziente ha del sostegno familiare. Molti drammi che si svolgono in spazi domestici tiranneggiati da psicotici cronici e che alimentano lo stigma della follia come condizione di cieco egoismo e di incoercibile cattiveria sono purtroppo da ricondurre ad un malinteso senso di giustizia. Queste situazioni pongono in luce, tra l’altro, un difetto proprio della mente umana riconducibile alla tendenza a interpretare i fatti della vita in termini causali. Una delle conseguenze di questa tendenza è di portare spontaneamente a pensare che laddove si produce un danno psicologico, sia esso caratterizzato dal dolore o dall’incapacità di vivere, si debba necessariamente dare una causa efficiente che lo ha prodotto, una colpa e un colpevole. Questo automatismo interpretativo consente di comprendere la genesi della rabbia vendicativa.

Il senso di giustizia astratto, fortemente rappresentato in ambito psicolpatologico, si fonda quasi sempre su tale automatismo. La sua elaborazione postula il superamento della logica causale che solo molto raramente trova conferma nella ricostruzione della storia personale e familiare esitata in un disagio psichico. Quasi sempre infatti il danno prodotto è da ricondurre a interazioni colpose e/o preterintenzionali. La responsabilità oggettiva dei genitori, i cui comportamenti hanno di fatto posto le premesse per la genesi di un conflitto strutturale, prescindono quasi sempre dall’intenzione di danneggiare i figli.

Il senso di giustizia astratto fa riferimento ad un mondo perfetto nel quale non si diano ingiustizie di alcun genere, nè piccole nè grandi. E’ un’utopia anche se essa contiene l’aspirazione ad un mondo possibile, migliore di quello attuale che non si può ritenere insensata. Il superamento dialettico del senso di giustizia astratto postula che il riferimento al mondo così come dovrebbe essere venga sostituito dalla presa d’atto del mondo così com’è. Tale presa d’atto non significa che la realtà debba essere accettata o che ci si debba adattare ad essa, bensì che, considerando la realtà stessa come un prodotto storico, ci si interroghi sul perchè essa è così com’è e non piuttosto come potrebbe di fatto essere o divenire. Interrogarsi su questo aspetto porta a conclusioni interessanti e paradossali. L’aspirazione alla giustizia è universale, essendo rappresentata sia pure in misura diversa in tutti i corredi genetici individuali. Ma per effetto dei limiti della coscienza umana essa tende spesso a tradursi nella rivendicazione dei propri diritti che tiene poco conto di quelli altrui e nel giustificazionismo che diminuisce il potere critico.

7) Libertà/Costrizione

I conflitti psicopatologici, nella misura in cui oppongono irriducibilmente diritti individuali e doveri sociali, incidono sempre sul modo soggettivo di intendere la libertà e sul suo esercizio. Non si va lontano dal vero affermando che tutte le esperienze psicopatologiche, per questo aspetto, possono essere ricondotte a due tipologie dinamiche: le une caratterizzate da una fobia della libertà che si traduce in forme consce e inconsce di autorepressione e di ipercontrollo; le altre viceversa caratterizzate da una fobia della costrizione la cui intensità determina una rivendicazione di libertà più o meno anarchica. Queste tipologie rivelano uno spettro di significazione della libertà che va dall’estremo di associare ad essa ogni male possibile all’estremo opposto di vivere ogni limite ad essa opposto come un’intollerabile coercizione.

La fobia della libertà è solo raramente rappresentata a livello cosciente. In genere essa è quasi sempre riconducibile ad una concezione istintualista della natura umana che vede nella libertà la condizione in virtù della quale gli istinti - l’aggressività, la sessualità - possono esprimersi senza freno. Soggettivamente tale concezione trova continue conferme nel modo fenomenico ridondante con cui si esprimono i bisogni frustrati. La sua conseguenza costante è un ipercontrollo sui comportamenti che, in casi estremi, si associa all’esigenza di controllare anche le emozioni, i desideri e i pensieri e a pratiche varie di mortificazione.

Gerardo F. che si è diplomato con il massimo dei voti dopo quattro anni è riuscito a dare solo tre esami di medicina. Egli lamenta una difficoltà estrema di concentrazione per cui, pur stando inchiodato tutto il tempo libero alla scrivania, il rendimento è pressochè nullo. Nonostante formalmente egli assolva ossessivamente il suo dovere, nutre profondi sensi di colpa e, se non fosse per la fede religiosa che lo sorregge, avrebbe da tempo messa a termine la sua ‘vita da parassita’. G. è il primo di sette figli. Essendo il padre anziano, il ruolo di primogenito, investito del dovere di subentrare al padre nella sua attività medica, di dare il buon esempio ai fratelli e di provvedere eventualmente ad essi, gli è stato fatto sempre pesare. In cuor suo, egli ha sempre contestato la prolificità dei genitori, ma una viva sensibilità religiosa lo ha indotto a farsi carico della croce assegnatagli da Dio. Nella sua invincibile pigrizia legge, nonchè un tradimento nei confronti delle aspettative genitoriali, anche un imperdonabile peccato. C’è dell’altro. Dacchè ha avviato gli studi universitari, G. ha deciso di escludere dalla sua vita ogni distrazione. Non ha frequentato più gli amici, e ha allontanato da sè una ragazza manifestamente interessata a lui. In seguito a questo regime di vita ascetico ha cominciato ad avere delle fantasie parassitarie di natura sessuale sempre più violente che ha vissuto come tentazioni diaboliche. Ha intrapreso una dura lotta contro di esse con l’aiuto di un padre spirituale che gli ha consigliato di mettersi al riparo dagli stimoli (il televisore, i giornali). La lotta è stata vana. Periodicamente G. ha ceduto alla tentazione e si è masturbato, sviluppando intensissimi sensi di colpa e un atroce disgusto di sè. Ha pensato infine che l’unico modo per reprimere le fantasie fosse di immergersi totalmente nello studio senza concedersi un attimo di respiro. Da quando però lo studio ha assunto questo significato improprio purificatore G. non è riuscito più a dare esami.

Più spesso la fobia della libertà è inconsapevole ed è espressa da sintomi - gli attacchi di panico, i rituali ossessivi, la depressione, il controllo persecutorio - che la realizzano. Ciò è attestato sia dal fatto che i sintomi si ripresentano dopo intervalli nel corso dei quali il soggetto giunge a toccare con mano la paura della libertà sia da comportamenti paradossali che sopravvengono in assenza dei sintomi.

In Alessandro S., di cui si è parlato, la fantasia di potere scendere in strada e uccidere il primo che gli capitasse a tiro è comparsa a ciel sereno dopo alcuni giorni del tutto affrancati dai rituali. Questa circostanza che ha prodotto prontamente una riattivazione dei sintomi gli ha permesso tra l’altro di rievocare un ricordo che non era mai affiorato. A 17 anni, allorchè egli si stava orientando verso l’ideale dell’Io onnipotente, capace di agire qualunque azione malvagia senza provare rimorso, egli più di una volta ha confidato agli amici la convinzione che solo la paura del carcere, data la sua claustrofobia, gli impediva di uccidere qualcuno. Questa convinzione, all’epoca, non evocava in lui angoscia alcuna poichè aveva assunto una connotazione ideologica. Alessandro la riferiva, in altri termini, non solo a sè ma alla natura umana, la riteneva insomma universalmente vera, e si vantava addirittura di ammetterla laddove in genere gli uomini sono, a riguardo, ipocriti.

Sergio R., che convive da alcuni anni con un vissuto persecutorio incentrato sulla convinzione di essere tenuto sotto controllo dalla polizia e dai servizi segreti, una mattina uscendo di casa scopre di non essere più sotto controllo. Non vede individui sospetti appostati, non ode più farfuglii che lo identificano, non coglie dalle finestre occhi che lo spiano. D’acchito è piacevolmente sorpreso, poichè attende da anni questa liberazione, ma non gli riesce facile crederci. Pensa che è una nuova strategia per farlo cadere in trappola. Aguzza gli occhi e le orecchie, percorre le strade del quartiere guardando nelle macchine e girandosi su se stesso all’improvviso. Tutto è tranquillo poichè i fenomeni allucinatori sono magicamente scomparsi. Alla fine Sergio deve arrendersi all’evidenza di essere libero. Ma è proprio allora che lo assale un’inquietudine crescente. E se lo avessero lasciato libero per spingerlo a fare del male e incastrarlo? Dopo anni di adattamento al controllo, egli di fatto non si sente più sicuro nè padrone di sè. Potrebbe per esempio andare a Montecitorio a fare una piazzata contro i politici che non pensano ai disoccupati come lui, o entrare in un bar e ubriacarsi. Terrorizzato da ciò che può fare in regime di libertà, si sequestra in casa e si tranquilizza solo dopo qualche giorno allorchè capisce che il telefono è di nuovo sotto controllo.

In alcune esperienze la fobia della libertà si presenta nella sua forma più pura, come paura riferita al fatto che la mente umana può pensare tutto ciò che è pensabile e l’emozionalità esprimersi nella pienezza dei suoi registri. In questi casi il presupposto implicito è che cio che si pensa e si sente si può realizzare. Ma tale presupposto, che qualche volta rievoca esperienze del passato sul filo della devianza, non sempre è fondato. Ci sono pazienti ossessivi le cui fantasie antisociali non potrebbero mai realizzarsi essendo esse inibite dalla sensibilità.

Nicola D. a 16 anni, in un periodo di rabbia cieca e convulsa, ha spinto per una discesa un pesante carrello della nettezza urbana che è stato per poco evitato da una macchina. L’impresa, che coronava un periodo vissuto all’insegna della trasgressione, ha dato fine ad esso e inaugurato un disagio intessuto di ossessioni scriupolose e di sensi di colpa. Egli ha adottato come strategia purificatoria quella di inibire il più possibile il pensiero e l’emozionalità e, per questa via, è giunto a vivere come un ‘tronco’. Chiarite le ragioni della rabbia adolescenziale, egli non intende abbandonare quella strategia. Gli si fa presente che la mente è un congegno strutturato con leggi sue proprie tal che essa continua a fare il suo mestiere, a sentire e a pensare tutto ciò che è possibile lo voglia o no l’individuo. L’idea lo sconvolge. Egli si rende conto che le cose stanno così, ma riesce a farsene una ragione solo quando giunge a pensare che la libertà umana comporta l’accettazione e la regolazione di questo rischio.

Federica R. ha il pensiero ossessivo di dovere uccidere i suoi figli e gli amichetti che le mamme le affidano fiduciosamente e girano spesso per casa. Quando legge sul giornale fatti di cronaca inerenti infanticidi sta malissimo, pensando di appartenere al mondo dei ‘mostri’ anche se non è stata ancora scoperta. Non riuscendo a parlare a nessuno delle sue ossessioni, ha adottato tutta una serie di strategie scongiuratorie. Si tiene lontana dai cassetti ove sono i coltelli, fa fermare in casa almeno un’amica. Nei momenti di massima tensione, esce di casa per alcuni minuti. Fa riferimento alla possibilità di un raptus. E’ come se non riuscisse a tenere conto delle emozioni che prova a contatto diretto con i bambini che sono di straordinaria tenerezza e di protezione. Impiega parecchio tempo a capire che quelle orribili fantasie tendono a compensare un coinvolgimento emozionale che, in particolare per quanto riguarda i suoi figli, le toglie il respiro. Un valido aiuto le viene allorchè prende un cucciolo in casa. Lo cura come un figlio e gli si affeziona intensamente. Poi lo investe delle sue cure ossessive. Lava più volte al giorno il pavimento di casa, gli cucina i cibi scrupolosamente, lo porta ogni settimana dal veterinario, ecc. Il cucciolo ha tre mesi quando viene anch’egli investito dalle orribili fantasie.

La fobia della costrizione, che implica un orientamento libertaristico e anarchico, ha molteplici espressioni psicopatologiche. Le nevrosi claustrofobiche in senso proprio rappresentano la punta di un iceberg. Per quanto possano essere riferite a situazioni specifiche (l’ascensore, l’aereo, il treno, ecc.) esse infatti attestano univocamente la difficoltà di tollerare emotivamente qualunque situazione dalla quale non si possa uscire immediatamente. La claustrofobia comporta la necessità di disporre di un’alternativa di scelta. Essa però identifica la libertà nell’alternativa e non già nella scelta. La libertà claustrofobica è pertanto una libertà potenziale che viene perduta nel momento in cui la si attualizza. E’ infine solo libertà dai vincoli e dagli impegni e non libertà di riconoscersi in quelli volontariamente assunti. Quando non dà luogo a sintomi inequivocabili essa si traduce in una serie di strategie spesso inconsapevoli miranti a mantenere tutte le scelte in sospeso sia quelle relazionali che professionali.

Roberta R. si è lamentata per anni della precarietà lavorativa che le impediva di fare progetti di lunga gittata, per esempio di impegnarsi nell’acquisto di una casa. Dopo dieci anni il suo desiderio viene esaudito. L’ntusiasmo iniziale cede poi il passo ad un malessere che solo lentamente prende corpo. Il lavoro - questa è la verità che appare a Roberta - non le piace più. Deve trovarne un altro. Prende atto del problema, che peraltro trova molteplici riscontri nella sua esperienza di vita, solo quando si rende conto di cercarne uno precario. Dopo pochi mesi, adattasi alla nuova condizione in virtù della possibilità di potersi dimettere, si lancia in un progetto che è un azzardo. Acquista casa e propone all’uomo che frequenta da anni di sposarsi. Lo fa perchè, preso atto del limite claustrofobico, non intende rispettarlo configurandosi esso paradossalmente come un limite della sua libertà. Procede senza esitazioni ma, sposata e accasata, si sente orribilmente oppressa. Come ha potuto mettersi in una trappola del genere?

In questa esperienza la fobia della costrizione si traduce in una dinamica ricorrente a livello psicopatologico per cui una decisione, una volta presa liberamente, diventa una gabbia per uscire dalla quale il soggetto deve annullarla. E’ come se egli si sentisse libero nel momento in cui la prende, ma subito dopo ciò che è stato deciso diventa un dovere che assume la forma coercitiva del tu devi come fosse imposto da una volontà altrui. La rivendicazione della libertà che diventa un miraggio che sta sempre dall’altra parte rispetto a dove il soggetto si trova dà luogo a comportamenti paradossali di ogni genere e, in non pochi casi, sottende le psicosi ossessive.

Paolo F. che in casa dei suoi soffoca ed è affetto da crisi claustrofobiche chiede e ottiene di andare a vivere da solo. La famiglia acconsente anche se, per tutta una serie di strani comportamenti, gli consiglia di farsi vedere da qualcuno. La proposta viene rifiutata sdegnosamente. Nella nuova casa P. sta bene per alcuni giorni poi, sentendo di avere assunto con se stesso e con i suoi un impegno serio, ricomincia ad avere crisi claustrofobiche. Torna a casa dai suoi. Il ciclo di allontanamenti e di ritorni si ripete infinite volte in un anno, e solo alla fine, per disperazione, Paolo prende atto che l’unico momento in cui si sente libero è nell’uscire da una casa per andare nell’altra. Non ce la fa più a vivere sul piede di fuga.

Raimondo Z. è un alcolista ricoverato infinite volte per disintossicarsi che ricostruisce con minuziosa precisione il suo rapporto con l’alcool. Anzitutto sa che gli disgusta. Cionondimeno quando si trova di fronte alla bottiglia il divieto di bere lo obbliga all’infrazione. Egli si propone di bere solo due bicchierini, ma, mandato giù il secondo, si chiede: perchè no un terzo? E la storia va avanti fino all’ubriachezza. Solo dopo qualche tempo di eccessi, vissuti come rivendicazioni di libertà, egli giunge a sentirsi repentinamente schiavo dell’alcool. Questo vissuto gli consente di astenersi da un giorno all’altro anche per lunghi periodi finchè non sente di essere schiavo di un divieto che egli stesso si è dato. E deve infrangerlo.

Temuta e rivendicata dagli uni e dagli altri, la libertà umana è in sè e per sè un paradosso. Sempre molto relativa per un verso, per i condizionamenti che ogni soggetto subisce in nome della sua apprtenenza ad un contesto storico-sociale e ad una cultura, essa è peraltro infinita poichè nessun contesto può impedire all’uomo di pensare e di sentire tutto ciò che è possibile. La mediazione tra queste antitesi, per realizzare l’unica autentica libertà praticabile dagli esseri umani, quella che Rousseau identifica con la capacità di rimanere fedeli alla legge che ci si è data, è possibile solo in nome dell’uso da parte dell’Io di un potere legislativo e organizzativo delle diverse parti di cui è fatto e delle diverse istanze che lo sottendono.

8) Debito/Credito

Se è vero, come ha intuito Nietzsche, che i doveri sociali sono i diritti degli altri sull’individuo, ciò che essi possono esigere da lui, e che i diritti dell’individuo sono i doveri degli altri nei suoi confronti, ciò che egli può esigere dagli altri, riesce evidente che ogni esperienza soggettiva comporta, a un qualche livello più o meno consapevole, una valutazione del rapporto con il mondo in termini di debito e di credito. Per quanto tale valutazione, intimamente connessa con il senso di giustizia, possa riconoscere delle valenze emozionali soggettive, essa non prescinde mai dal contesto storico culturale. In ogni cultura in effetti si danno criteri, norme e regole - legali, morali, religiose, consuetudinarie, ecc. - che tendono a definire i diritti e i doveri dei membri a livelli molteplici: tra Dio e le sue creature, tra coloro che detengono il potere e i subordinati, tra le classi e i ceti sociali, tra genitori e figli, tra l’uomo e la donna, ecc. I criteri valutativi variano a seconda delle culture e delle epoche storiche. L’incombenza dei doveri nei confronti degli avi, di Dio e del potere politico - questi ultimi due spesso identificati o alleati - ha segnato profondamente la storia configurando i diritti dell’individuo come ciò che gli era dovuto in conseguenza della sua sottomissione. L’esistenza di diritti naturali, universali, inviolabili è una tematica relativamente recente che coincide con l’avvento della cultura borghese. La sopravvivenza a livello di organizzazione sociale e di mentalità di tradizioni secolari gerarchiche e la consapevolezza acquisita dagli individui di essere depositari di diritti caratterizza la nostra cultura come instabile. E l’instabilità si riflette, in misura più o meno rilevante, all’interno di tutte le esperienze soggettive.

L’ambito psicopatologico fornisce, per questo aspetto, degli indizi di inestimabile valore in rapporto a questa instabilità che non di rado è la matrice di scissioni e di conflitti tra bisogni intrinseci.

L’indebitamento patologico è piuttosto frequente e si presenta in una notevole varietà di forme. Più spesso esso concerne i figli in rapporto ai genitori e si definisce sulla base di vari motivi. Talora esso si fonda sul riconoscimento dei sacrifici operati dai genitori, talaltra fa riferimento ai privilegi di nascita identificabili in uno status economico agiato, talaltra ancora alla loro dedizione e alle cure erogate. La dimensione patologica dell’indebitamento, indotta spesso dall’atteggiamento dei genitori o da valori religiosi, è da ricondurre al fatto che esso, vissuto come inestinguibile, azzera la libertà individuale trasformando l’esperienza soggettiva in una pratica continua di sdebitamento.

Rosaria B., ultima di quattro figli, viene allevata dalle zie perchè la madre è malata di cuore. All’età di cinque anni viene a sapere che la malattia è stata prodotta dalla gravidanza che la madre ha voluto portare avanti nonostante i medici le avessero proposto di abortire. La comunicazione attiva intensi sensi di colpa e induce in R. un vissuto di indebitamento inestinguibile. Quand’è adolescente torna a casa e, rinunciando a proseguire gli studi, si cala nel ruolo di vice-madre. E’ efficiente, infaticabile e ostentatamente serena. A 20 anni sviluppa una cupa depressione che i parenti attribuiscono alle fatiche domestiche e tenta il suicidio.

Priscilla V. sa che la madre ha lasciato il lavoro per dedicarsi a lei e alla sorella maggiore e che, in conseguenza di tale decisione, non è stata mai più bene. Vive da bambina nell’incubo del danno arrecato in una condizione paradossale di abbandono dovuta al fatto che, per i frequenti episodi depressivi, la madre non è in grado di alzarsi dal letto. Il senso di colpa si attenua via via che crescendo comincia a capire che essa ha uno spirito di indipendenza incompatibile con i doveri familiari. E’ infatti una donna poco donativa, astiosamente ostile al marito, rigida e anaffettiva con le figlie. Non si sorprende del fatto che riesce a fare il vuoto intorno a sè. Il marito prima e la sorella maggiore poi si allontanano di casa. Anche P. ha delle fantasie di fuga precoci associate a un odio tremendo nei confronti di una madre che le ha fatto sempre pesare il suo sacrificio ma che, nella realtà, rifiuta di preparare un pasto caldo. Una sindrome da attacchi di panico impedisce a quelle fantasie di realizzarsi e obbliga la madre a prendersi cura della figlia. Ma è una presa in carico formale al di sotto della quale P. avverte il disprezzo della madre per la sua debolezza. Quando il panico si risolve e giunge a disporre di un reddito, P. decide di andare via. La madre cade in una profonda depressione e implicitamente la ricatta. Ha già tentato una volta il suicidio dopo la separazione del marito. P. è in trappola. Deve continuare a pagare il suo debito non potendo farsi carico di un danno fatale.

In altre esperienze il vissuto di indebitamento è generalizzato e si traduce in una tendenza donativa che deve essere sempre di gran lunga maggiore rispetto a ciò che il soggetto riceve dagli altri. In questi casi la dinamica dell’indebitamento fa riferimento a oscuri sensi di colpa sociali, riconducibili quasi sempre a vissuti di ostilità, che vengono riparati dalla donatività. Questa dinamica configura un circolo vizioso poichè, esponendo il soggetto al rischio di sentirsi e di essere sfruttato dagli altri, alimenta le rabbie e i sensi di colpa.

Serena D., che soffre di una grave nevrosi ossessiva, avvia un’attività professionale autonoma nell’ambito sanitario. La sua clientela è costituita da conoscenti e amici e si allarga progressivamente in virtù del fatto che costroro le indirizzano i loro conoscenti e amici. S., che ha un bisogno esasperato di sentirsi confermata, è appagata dal rapido successo finchè non si avvede che, nonostante la mole di lavoro, il suo bilancio è in rosso. I clienti infatti, per via della familiarità che si instaura, non pagano quasi mai la parcella. S. comincia a sentirsi sfruttata e a leggere nei volti dei clienti l’intenzione maliziosa di farsi curare gratuitamente. Avvampa di rabbia poichè questa circostanza è una costante della sua vita. Tutti gli amici di fatto l’hanno sfruttata, ed essa ha dovuto ripetutamente troncare i rapporti. Lo stato di cose esistente nel mondo la esaspera e promuove fantasie vendicative. Perchè l’essere disponibili nei confronti degli altri non promuove mai una risposta adeguata? La risposta la si ricava dal suo modo di porsi professionale. Tranne rarissimi casi, i clienti di fatto le chiedono come debbano regolarsi dal punto di vista economico. E’ lei che, imbarazzatissima, lascia cadere la questione come fosse insignificante e non la pone più. La conferma che ricava dal loro rivolgersi a lei le sembra già, in rapporto all’immagine negativa che ha di se stessa, un dono incredibile.

Un’espressione estrema dell’indebitamento patologico riconosce come matrice l’ideologia cristiana dell’altruismo sacrificale. Tale ideologia facilmente si radica in personalità particolarmente sensibili, ma produce di solito effetti negativi. Le origini storiche di quell’ideologia sono infatti comunitaristiche e fanno capo al principio per cui se in un gruppo ciascuno si sacrifica per gli altri il bene comune è assicurato. La pratica unilaterale di tale ideologia in un contesto culturale dominato dall’interesse privato espone di fatto il soggetto ad essere sfruttato, ad arrabbiarsi e a sviluppare un’ideale dell’Io antitetico insensibile e antisociale.

Maurizio S., di umili origini, ha trovato da sempre nella fede praticata con intensità un conforto estremo. Frequenta una comunità evangelica nella quale ha la funzione di leader. Non potendo frequentare l’università, è divenuto infermiere professionale vedendo in questo ruolo un’occasione di esprimere i suoi valori. In ospedale è stato subito identificato, dai medici e dai colleghi, come uno su cui contare. L’entusiasmo cristiano e le gratificazioni lo hanno portato avanti per tre anni. Poi lentamente M. ha cominciato ad incupirsi. I medici delegano a lui, in nome della sua efficienza, compiti che spettano a loro, i colleghi si asentano spesso o si sottraggono ai loro doveri certi di essere rimpiazzati. Le festività M. le trascorre sempre in corsia. I malati stessi, che lo identificano come una mosca bianca, gli rivolgono richieste sempre più pressanti. M. si appella alla fede, parla in comunità del nervosismo che comincia a invaderlo. Il sacerdote che guida la comunità fa appello all’imitazione di Cristo. Il messaggio ha un effetto paradossale. M. comincia ad essere aggressivo, litiga con il primario, alterca con i colleghi, maltratta i malati, minaccia di denunciare tutte le disfunzioni di cui è testimone. Dopo un periodo di incubi ricorrenti sviluppa un delirio persecutoeio incentrato sul fatto di essere controllato dalla polizia nell’attesa che commetta qualcosa di grave.

La patologia del credito muove dalla convinzione di non avere ricevuto dal mondo ciò cui si ha diritto o di avere subito un danno, e si traduce in un atteggiamento rivendicativo più o meno consapevole che si manifesta in modi molteplici.

In alcuni casi la carenza di affetto e di cure viene invocata coscientemente come causa originaria del disagio. La rivendicazione si realizza sotto forma di una dipendenza prolungata dalla famiglia imputata che talora si associa ad atteggiamenti tirannici.

Nicola D. rievoca dolorosamente la sua infanzia vissuta, a partire dall’età scolare, in una condizione di pressochè totale abbandono. I genitori lavoravano entrambi, ma, al di là degli impegni lavorativi, in nome dei loro trascorsi sessantottini e di un’ideologia pedagogica incentrata sull’autonomizzazione precoce dei figli, trascorrevano gran parte del tempo libero fuori di casa. Il loro modo di essere assegnava poca importanza all’abbigliamento, al cibo e alle cure mediche. N. rievoca la paura repressa delle sere passate in casa con la sorella di due anni maggiore, il disagio dei lunghi pomeriggi risolto, a partire dai dieci anni, precipitandosi per le vie del quartiere alla ricerca di compagni. Lo stato di ansia perpetua in cui è vissuto e la rabbia che per tanti anni non è riuscito a decifrare hanno inciso negli studi che sono andati avanti in maniera molto stentata. Lo scarso rendimento lo ha esposto ai rimproveri e al disprezzo dei genitori che oscillvano tra il ritenerlo pigro o poco dotato. Con l’adolescenza N. ha imboccato una via comportamentale, caratterizzata da una crescente aggressività e dall’uso di droghe, che lo avrebbe portato sicuramente a finire male se non fosse stato arrestato dall’insorgenza di una nevrosi ossessiva. A 29 anni vive ancora in casa con i suoi rivendicando il diritto di essere mantenuto e imponendo loro di assolvere i doveri inevasi in passato.

In altri casi, all’opposto, la rivendicazione verte su di una libertà lungamente negata.

Paolo C., figlio unico, vive per anni in un regime di dipendenza e di soggezione rispetto ad una madre che riversa su di lui un’ansia iperprotettiva incoercibile e delle aspettative molto elevate. Sempre primo della classe, egli trascorre in casa gran parte del tempo libero perchè si rende conto che solo avendolo sott’occhio la madre è tranquilla. Ritiene giusto comportarsi così per ripagarla dei sacrifici che essa fa per lui. Una balbuzie che lo perseguita sin da bambino giunge infine, a 18 anni, a renderlo consapevole della insicurezza e dell’angoscia sociale prodotta dal modo in cui è vissuto. Diventa aggressivo nei confronti della madre. Comincia ad uscire tutte le sere con la motocicletta, rientra tardi e affronta impavidamente le ire della madre che, in sua assenza, non riesce a dormire. Si sente in colpa ma la motivazione rivendicativa di libertà è incoercibile al punto che egli talora si ritrova a non avere nulla da fare fuori di casa ma cionondimeno, sia pure annoiandosi, aspetta l’alba per provare a se stesso che non ha più alcuna soggezione. Un incidente di moto, quasi provocato, pone fine a questa stagione di ribellione e di sensi di colpa.

In molte esperienze femminili la motivazione rivendicativa ha un peso rilevante. La rivendicazione ha sempre un riferimento concreto dato che ancora oggi l’evoluzione della personalità femminile è assoggettato a limitazioni più o meno rilevanti della libertà individuale. Non di rado essa sembra peraltro associarsi ad una componente atavica. L’espressione più frequente di questa rivendicazione è il tradimento del partner che avviene talora a freddo, per una sorta di fatale necessità. Il carattere rivendicativo di questo comportamento riesce massimamente chiaro quando esso si associa ad un’intensa gelosia che, vietando al partner qualunque libertà, ripropone a rovescio la tradizionale configurazione del rapporto di coppia. Altre volte la rivendicazione si traduce nell’assunzione di un ruolo relazionale dominante e maltrattante che dà luogo a furibonde reazioni quando esso viene interagito.

In non poche esperienze psicotiche giovanili, caratterizzate da un’intensa sofferenza soggettiva e da un insabbiamento domestico, la rivendicazione nei confronti dei familiari muove dalla convinzione di non riuscire a vivere in conseguenza di danni subiti. In tali casi essa si traduce in molteplici strategie di risarcimento che vanno dal tiranneggiare i parenti, assoggettandoli ai propri bisogni, al coinvolgerli nella condivisione della propria sofferenza.

Eleonora G. di 24 anni vive ormai perpetuamente in casa preda di rituali ossessivi che la occupano da mattina a sera e la cui esecuzione è estremamente complicata. La necessità di eseguirli è dovuta ad un delirio incentrato sulla paura di potere essere posseduta dal demonio che solo i rituali valgono a scongiurare. Più volte, dall’inizio della malattia che risale all’età di 19 anni, E. ha accusato i suoi di esserne loro i responsabili facendo riferimento all’essere bigotti, all’averla costretta a studiare in un istituto di suore e all’averle infarcito la testa dei loro dogmi. La volontà di essere risarcita si esprime nel coinvolgimento dei genitori nelle pratiche rituali. E., affinchè tali pratiche vadano a buon fine, ha definito una serie di implacabili regole comportamentali che riguardano i gesti, l’uso degli oggetti, la modalità di preparazione e di consumo dei cibi, ai quali essi devono attenersi scrupolosamente. Nei rari casi in cui i genitori, ridotti a vivere come manichini, trasgrediscono tali regole sono investiti da una rabbia verbale e fisica cieca motivata dalla disperazione di E. di dovere eseguire ex-novo i rituali.

9) Nocività/Cattiveria

L’incidenza del senso di colpa a livello psicopatologico è nota dacchè la psicoanalisi lo ha messo inequivocabilmente in luce. La scoperta sarebbe dovuta valere a rilevare l’intreccio tra il disagio psichico e una complessa problematica morale, quella sempiterna del bene e del male, se Freud stesso non lo avesse squalificato identificando in esso l’espressione interiorizzata di un’angoscia sociale rivolta ad arginare l’anarchia degli istinti. L’abbaglio di Freud è comprensibile se si tiene conto della fenomenologia pulsionale aggressiva che sottende le esperienze psicopatologiche.

Il problema oggi deve essere impostato in termini più articolati. Ciò che appare inconfutabile non è tanto l’interazione tra una natura umana sostanzialmente amorale e asociale e la cultura che si impegna a civilizzarla, bensì una trappola mentale che sembra avere un fondamento innato e che la cultura, per molti aspetti, ha alimentato. Tale trappola è riconducibile alla categoria della causalità che se per un verso ha promosso un’incessante attività interpretativa dalla quale è nata la cultura, per un altro, nell’ambito morale, ha determinato l’univoca identificazione della colpa, e quindi di un colpevole, come causa del male, del dolore, del danno. La psicopatologia è totalmente impregnata da questa logica che riconosce solo due possibilità: la colpa del soggetto o di qualcun altro nei suoi confronti.

Se per colpa si intende l’effetto dannoso a carico di qualcuno di un comportamento agito intenzionalmente a tale fine è ovvio che, in psicopatologia come peraltro nella vita sociale quotidiana, di colpe se ne trovano. Ma nell’una con minore frequenza che nell’altra. Perchè mai dunque accade di imbattersi con estrema frequenza, nel corso dell’attività terapeutica, in vissuti di colpa o di danno subito? La risposta si ricava dall’analisi di tale fenomenologia.

I vissuti di colpa soggettiva sembrano originarsi in conseguenza di due presupposti ‘ideologici’: l’identificazione dei pensieri e delle emozioni - rabbiosi, vendicativi, distruttivi - con le azioni, e la confusione tra nocività e cattiveria. Quanto al primo aspetto è noto che la psicoanalisi lo attribuisce alla persistenza dell’onnipotenza del pensiero che sarebbe un’espressione propria dell’inconscio infantile. Ma l’ipotesi è smentita dal fatto che nella cultura umana la traduzione dei pensieri e delle emozioni in azioni ha richiesto l’invenzione della magia, vale a dire di una pratica esoterica atta ad assicurarla. Nel nostro contesto culturale non si può trascurare peraltro l’influenza del cristianesimo che, fin dall’epoca del catechismo, suggerisce l’esistenza del peccato mortale di pensiero, e l’influenza dell’ideologia borghese che, pure autorizzando l’egoismo nei confini della legalità, ha squalificato le emozioni negative - la rabbia, l’odio, la vendetta - come immorali e volgari per tentare di arginare la loro espressione sociale sotto forma di protesta. Si danno in psicopatologia infinite prove di entrambe le influenze.

Emanuela V. sta vivendo da anni una crisi di coppia, che coinvolge pesantemente anche i figli, per la quale non vede altro rimedio che la separazione. Non riesce però ad agirla poichè è cronicamente depressa. Quando sopravvengono degli attacchi di panico incentrati sulla paura di morire per un infarto o un ictus, essa si ripiega su se stessa, abbandona il lavoro e cade in un’incessante ruminazione ipocondriaca. Nutre oscuri ma implacabili sensi di colpa che vengono testimoniati da terribili incubi religiosi. La crisi di coppia riconosce una causa esogena. La suocera, rimasta vedova prima del matrimonio di E. col figlio unico, non le ha mai perdonato il rifiuto di andare a vivere con lei. Il rifiuto non è stato pregiudiziale bensì fondato sulla valutazione del carattere dominante, geloso e invadente della suocera. Perduto il suo primato sul figlio, la donna, che soffre di ipertensione e di una lieve cardiopatia, lo ha recuperato sviluppando delle angosce ipocondriache che obbligano il figlio ad accorrere giorno e notte e si acutizzano regolarmente nei giorni festivi. La proposta di essere assistita da una governante o da un’infermiera è stata sempre respinta con la motivazione di non sopportare estranei per casa. Essa non manca occasione di parlare male col figlio della moglie che, secondo lei, lo ha sposato per interesse. Nelle rare occasioni in cui la famiglia si riunisce manifesta apertamente la sua predilezione per il figlio ignorando i nipoti ai quali non ha mai concesso una carezza. Una donna insomma oggettivamente odiosa anche se ha i suoi motivi per esserlo chiusa com’è nell’alterigia del suo status altolocato e nella presunzione che nessun’altra potrà mai amare il figlio quanto lei. Il problema è che E., che è tornata alla pratica religiosa dopo un lungo distacco per trovare in essa conforto, e alla quale il padre spirituale consiglia di sopportare la croce come una dura prova imposta da Dio, non può concedersi di odiarla a morte. Si rende conto che la morte della suocera risolverebbe tutti i problemi poichè il feeling col marito è ancora vivo ed essa ne comprende il comportamento coercito dal ricatto materno. Ma, in nome degli scrupoli religiosi, non può accettare di sentire ciò che, date le circostanze, è impossibile non sentire.

Michele A., figlio di un magistrato e di un insegnante liceale, entrambi laici, vive in un ambiente familiare impregnato del mito delle buone maniere. In casa non si alterca mai nè si dicono parolacce. L’educazione dei figli si ispira ad un modello liberale e si fonda sulla persuasione. M. cresce contento del privilegio di appartenere ad una famiglia colta, illuminata, che rifiuta la volgarità corrente e la ritiene frutto dell’ignoranza. Ha difficoltà a legare con i coetanei poichè, pur frequentando una scuola d’élite, essi esibiscono comportamenti per lui incomprensibili in rapporto al loro status. L’isolamento non gli pesa: scopre precocemente di avere un’attitudine spiccata per il disegno e dedica ad esso il tempo libero dagli studi, che procedono peraltro con ottimi risultati. Solo verso la fine del liceo comincia ad avvertire una vaga, incomprensibile inquietudine. E’ il presagio di un conflitto imminente. I suoi non hanno mai contrastato la sua vocazione artistica, ma danno per scontato che essa sia e debba rimanere un hobby. In quanto primogenito M. deve continuare la tradizione di famiglia liberoprofessionale nell’ambito della giurisprudenza. Egli non ha alcun interesse per gli studi di diritto, progetta di fare architettura o di iscriversi all’Accademia di Belle Arti e pensa che i suoi alla fine acconsentiranno. Lo scontro invece, sia pure formalmente corretto, è durissimo. Il padre infine si appella all’autorità di chi sa più di lui, ai vantaggi di un nome affermato e al culto delle tradizioni familiari. M. è sorpreso da questo atteggiamento conservatore ma, sensibile alle sottili argomentazioni paterne, infine cede. Non riesce però a combinare molto all’Università per via di una serie di ‘tics’ che si attivano e raggiungono la massima intensità quando egli si accinge a studiare. I tics sono in realtà dei rituali inequivocabili. M. deve distendere i muscoli della faccia facendo ripetutamente delle smorfie e digrignando i denti, scaricare una tensione dolorosa alla spalla destra proiettando violentemente davanti a sè il pugno, sgranchirsi le gambe scalciando. Si vergogna della sua incapacità di controllare con la volontà tali movimenti inconsulti. Una volta che per curiosità esegue i rituali di fronte allo specchio gli viene da associare alle sue smorfie il protagonista di Shining. La situazione precipita allorchè ai rituali si associano pensieri parassitari caratterizzati da insulti, parolacce e volgarità del tutto inconsuete. Non potendo riconoscere dentro di sè le emozioni negative, squalificate dalla cultura familiare come volgari, cos’altro può accadere se non che egli cominci a pensare di essere influenzato da qualcuno che si serve di lui cime di un burattino?

Si è già accennato alla necessità, imprescindibile nell’ambito della pratica terapeutica, di risolvere la confusione tra nocività e cattiveria. La possibilità di fare o subire danno è intrinseca alle relazioni interpersonali, ma essa, più spesso di quanto si pensa, è il prodotto meno di comportamenti intenzionali e volontari che di congiunture che appaiono talora fatali.

A 32 anni Fabrizio V. si lega ad una ragazza di due anni più giovane. La relazione rimane sentimentalmente viva per due anni poi, nell’anima di F., comincia a declinare. Egli prende atto di differenze troppo profonde tra la mentalità sua, quella della ragazza e del suo gruppo familiare. Egli, pur responsabile e serio (è uno studente universitario lavoratore), ha una concezione della vita aperta al rischio e all’avventura. Nel tempo libero (poco ma intensamente utilizzato) coltiva una miriade di interessi, pratica il volontariato, l’esplorazione subacquea e la speleologia. La ragazza, viceversa, erede della tradizione familiare, ha un orientamento di vita piccolo-borghese del tutto avverso ad ogni orizzonte che ecceda la sicurezza e il vivere tranquilli. Pure essendosi affezionato a lei per la sua onestà e affidabilità, F. si rende conto che il vivere insieme risulterà drammatico. Egli si sente però impegnato nei suoi confronti e nei confronti della sua famiglia. Considera poi l’età della ragazza non giovanissima e comincia ad avvertire la colpa di averle fatto perdere del tempo. Sa infine che lei, che è vissuta diffidente nel suo quieto mondo domestico, si è affidata a lui. Lasciarla significherebbe dunque infliggerle una ferita mortale. Si rimprovera di essere cattivo ed egoista: accuse incompatibili con l’immagine che ha di sè. Si vota pertanto al sacrificio. Approssimandosi la data delle nozze egli cade però in una depressione profonda che svuota la sua vita di senso e lo rende indifferente a tutto e a tutti. Paradossalmente la depressione rimuove la problematica relazionale e lascia affiorare al suo posto un’incomprensibile angoscia di solitudine che elegge la ragazza al ruolo di salvatrice. Un rapporto esaurito, e al quale F. non riesce a dare fine per la paura di danneggiare l’altra, viene restaurato e reso indispensabile dai sensi di colpa.

Serena D. si è sentita fin da piccola di peso. Questo vissuto l’ha indotta a tollerare di sentirsi poco amata, a ritenere immeritato il poco che le veniva dato e a sentirsi in debito. Il debito è stato pagato comportandosi da bambina perfetta e non avanzando mai alcuna richiesta. A livello adolescenziale viene a sapere d’essere nata per errore e che la madre, rifutando l’aborto, ha pianto per tutta la gravidanza. Immediatamente questa scoperta produce solo un grande dolore. Ma essa lavora sotterraneamente. Via via che S. prende atto della sua presunta inadeguatezza sociale, della sua incapacità di contrastare la volontà altrui, del suo perfezionismo che assume una configurazione progressivamente ossessiva e la rende infine schiava dell’ordine e della pulizia, la rabbia nei confronti della madre, ritenuta colpevole di tutti i problemi che ha, esplode senza limiti traducendosi in un incoercibile atteggiamento accusatorio, rivendicativo e tirannico. Le sfugge del tutto che il rifiuto della madre di abortire è un condizionamento culturale che l’ha portata a non tenere conto di ciò che essa sentiva: di avere esaurito nell’allevare i suoi primi due figli il suo bisogno e la sua disponibilità materna. Essa associa razionalmente al ruolo genitoriale dei doveri imprescindibili, non tenendo conto che il riferimento a tale ruolo è esso stesso uno stereotipo culturale. La disponibilità genitoriale, intendendo con ciò un capitale affettivo da investire nei compiti dell’allevamento, riconosce un limite all’interno di ogni personalità. Limite che la cultura di matrice religiosa non riconosce identificandola con l’egoismo e spingendo le persone, per non sentirsi in colpa, ad agire inintenzionalmente comportamenti nocivi.

10) Dipendenza/Indipendenza

La dipendenza dell’essere umano dall’ambiente esterno riguarda sia l’organismo biologico che la soggettività. Assolutamente vincolante per il primo aspetto, essa, per quanto concerne il secondo, riconosce, in conseguenza dell’evoluzione della personalità, la possibilità di acquisire un certo grado di indipendenza identificabile con la capacità di operare scelte libere, vale a dire di differenziare il proprio comportamento rispetto ai codici normativi offerti dall’ambiente. Pur potendosi definire straordinaria in rapporto alla natura sociale dell’essere umano, questa capacità che, nella sua espressione più radicale, comporta la possibilità che un soggetto pensi, senta e agisca in opposizione al gruppo cui appartiene, è nondimeno relativa poichè si definisce solo in conseguenza di un processo di socializzazione che, per alcuni aspetti, assimila la soggettività all’ambiente culturale e alle sue tradizioni, e si realizza sempre e comunque nell’interazione con un determinato gruppo sociale cui l’individuo è legato geneticamente, affettivamente e culturalmente. Nel corso dell’evoluzione storica, la tensione intrinseca tra appartenenza e individuazione si è espressa per un lungo periodo sotto forma di differenziazione sociale tra classi, una delle quali, l’aristocrazia, rivendicava il suo diritto al dominio della società. Solo con l’avvento della borghesia nasce il riferimento all’individuo dotato di diritti suoi propri tra i quali la libertà e l’indipendenza. Originariamente giuridici e politici, atti a porre l’individuo al riparo dagli arbitri del potere statale e ad allentare i vincoli parentali gerarchici, tali diritti, nel corso del tempo, sono venuti ad assumere un significato psicologico in virtù del quale l’indipendenza ha assunto il significato di padronanza di sè, capacità di operare scelte libere anche in contrasto con i doveri parentali, autonomia di giudizio, ecc. L’accentuazione progressiva dell’individuazione, che trova un limite nel bisogno di appartenenza, ha prodotto infine nella nostra cultura il mito dell’individuo causa sui. Tale mito ha contribuito a definire una tensione conflittuale tra libertà individuale, vincoli di appartenenza e bisogni di relazione che si può considerare specifica del nostro tempo. Tale tensione è attestata genericamente dalla frequente drammaticità delle crisi adolescenziali, che appaiono caratterizzate dal bisogno di affermare l’indipendenza attraverso la negazione dei vincoli familiari e la rimozione dell’esperienza infantile, vissuta a posteriori come un’umiliante esperienza di assoggettamento, e dalla fobia degli affetti che identifica in essi l’espressione di una persistente minaccia di intrappolamento e di perdita di libertà.

In ambito psicopatologico il conflitto tra dipendenza e indipendenza è molto frequente e definisce in maniera inequivocabile, al di là delle vicissitudini soggettive, lo stato di confusione culturale che caratterizza la significazione del bisogno di appartenenza/integrazione sociale e del bisogno di individuazione. La fenomenologia del conflitto esprime tutte le possibili configurazioni di questa confusione.

Di rado ormai la dipendenza dal contesto familiare, intesa come devozione, rispetto e accondiscendenza, è vissuta come un dovere assoluto al quale la libertà individuale va sacrificata nonostante tale dovere contrasti con la vocazione ad essere del soggetto.

Saverio N., figlio di commercianti che dal nulla hanno creato un piccolo impero commerciale nell’ambito dei materiali edili, è affascinato fin da bambino dal sogno di diventare pilota di aerei. Tale sogno contrasta con le aspettative familiari che danno per scontato che entrambi i figli, S. e il fratello minore di tre anni, subentrino nell’attività familiare. S. è un ragazzo molto rispettoso e vivamente affezionato ai genitori, dei quali apprezza l’onestà e la capacità di sacrificio. Pur iscrivendosi all’Istituto aereonautico, egli lascia in sospeso la decisione sul da fare dopo poichè presagisce l’entità del conflitto di coscienza. Il fratello, più intraprendente, decidendo irreversibilmente di fare medicina, lo incastra. S. sente incombere su di sè l’aspettativa dei genitori e, nel momento in cui, alla fine delle superiori, tenta di affrontare il problema, coglie il loro strazio legato alla sorte dell’azienda che dovrà essere venduta. Si iscrive nondimeno all’Accademia aeronautica, ma è tormentato. Comincia a non dormire, a mangiare poco, ad avere varie avvisaglie psicosomatiche. Gli viene concesso un periodo di malattia. S. progetta di fare un viaggio negli Stati Uniti per scrollarsi di dosso l’angoscia che si associa a vaghi, inquitanti presagi. Sulla scaletta dell’aereo viene folgorato da un attacco di panico che lo riporta, per così dire, con i piedi a terra.

Più spesso la dipendenza psicopatologica è imposta al soggetto dalla paura catastrofica della solitudine dovuta o a dei sintomi o ad un vissuto di insufficienza ontologica tale che il soggetto identifica nel mantenersi di una relazione significativa la sua sussitenza psicofisica. In entrambi i casi si tratta di una dipendenza simbolica, vale a dire di una dipendenza che non fa riferimento nè a dei bisogni autentici nè alla struttura della personalità del soggetto, bensì ad una convinzione profondamente radicata di insufficienza ontologica. In conseguenza di questa convinzione la relazione significativa funziona come una protesi necessaria a sopravvivere. La dipendenza simbolica vale a connotare l’identità individuale come funzione della relazione. Che si tratti di una dipendenza simbolica è attestato negli attacchi di panico dal fatto che il soggetto regredisce e perde drammaticamente livelli di autonomia già raggiunti e agiti, e attribuisce alla figura di riferimento un potere salvifico che essa in realtà non può avere.

Lucio S., all’approssimarsi del compimento della maggiore età, ha un attacco di panico catastrofico nel corso del quale vive la paura di morire per un infarto. L’attacco determina una regressione drammatica. Per alcuni mesi L. non abbandona il letto terrorizzato dall’idea che ogni sforzo possa scatenare l’infarto. Poi comincia ad uscire di casa ma per pochi minuti e pateticamente aggrappato al padre. La situazione lentamente migliora ma non la dipendenza dal padre. In sua presenza L. sente di essere in una botte di ferro. E’ costretto pertanto a seguirlo nel suo lavoro di rappresentante. In assenza del padre si ripresentano violenti dolori precordiali che attivano l’angoscia. L., che, per via dell’autoritarismo paterno, ha chiuso emotivamente i rapporti con lui a partire dalla scuola media e non aspettava altro che il compimento della maggiore età per confrontarsi con lui alla pari, non sa dare alcuna spiegazione di ciò che gli accade. Si rende conto che, se dovesse sopravvenire un infarto e posto che egli non muoia di colpo, il padre potrebbe tutt’al più accompagnarlo in ospedale come potrebbe fare chiunque altro. Ma le cose stanno come stanno, e nè l’umiliazione nè l’orgoglio valgono a restituirgli la perduta indipendenza.

Il vissuto di insussistenza ontologica che condanna le donne a dipendere da un partner maschile determina molto spesso dei comportamenti paradossali. Di rado ormai tale dipendenza dà luogo ad un atteggiamento di sottomissione servile e di accondiscendenza. Sempre più spesso essa, vissuta come una condanna, viene compensata da comportamenti che attestano la pressione del bisogno di indipendenza frustrato. Talora tali comportamenti si riducono al ritiro emozionale dal rapporto e al rifiuto della sessualità. Talaltra si traducono in un’aggressività più o meno spiccata nei confronti del partner che sembrano manifestamente orientati a sciogliere il rapporto o a costringere l’altro a farlo. L’escalation termina bruscamente allorchè il pericolo della perdita di rapporto si configura come reale e viene sostituita dal terrore della solitudine.

Elena B. non perdona al marito, iperimpegnato nel lavoro, un menage sessuale insoddisfacente. Pur godendo dell’agiatezza che egli le ha permesso non ha mancato nel corso degli anni di aggredirlo verbalmente, di ridicolizzarlo in tutte le situazioni sociali e di sparlarne con le amiche. L’apparente inscalfibilità del marito, che reagisce cercando di proporle di valutare i suoi pregi piuttosto che i difetti, la esaspera. Incapace di prendere lei la decisione di separarsi, mira con i suoi comportamenti a costringerlo a farlo. Dopo venti anni ci riesce. Una sera, dopo un ennesimo alterco, il marito fa la valigia. Il terrore spinge Elena ai suoi piedi. Il giorno dopo, quando il pericolo è scongiurato, tenta vanamente di giustificare se stessa sentendo in fondo di volergli bene. La sua furia di fatto riguarda meno il marito che non la sua incapacità di vedersi senza di lui.

La fobia della dipendenza, che si fonda su un’ideale dell’io che identifica l’indipendenza con l’autosufficienza, ha delle espressioni fenomeniche diverse a seconda che essa concerna il legame con la famiglia originaria o nuovi legami.

La fobia della dipendenza familiare, che mira a rimuovere l’esperienza infantile, a negare ogni debito affettivo, a misconoscere qualunque somiglianza con i familiari, comporta una gamma di espressioni fenomeniche che va dalla chiusura comunicativa all’aggressività, dall’anoressia al ripiegamento psicotico.

Nicola F. è stato un figlio d’oro sino a quindici anni. E’ cominciato poi un lento ma progressivo cambiamento di carattere e di stile di vita. E’ divenuto chiuso, scostante e mutacico in famiglia. Ha cominciato a trascurare gli studi nei quali eccelleva sino alla decisione di abbandonarli. Si è isolato nella sua camera rifiutando qualunque contatto con i suoi. Infine ha vietato minacciosamente alla madre di entrare in camera sua per fare le pulizie. Si è realizzata per ciò una singolare situazione. Nel contesto di una bella casa alto-borghese, nel cui ordine e nella cui pulizia si riflettono le ossessioni di una madre di umili origini ma completamente assimilata allo status di appartenenza del marito, la camera del figlio è, nè più nè meno, la stanza di un barbone. Trascurandosi, vivendo in mezzo alla lanugine e in un letto le cui coperte sono incartapecorite dalla sporcizia, Nicola rivendica il suo bisogno di non avere nulla in comune con la gabbia dorata in cui è vissuto. Questa drammatica rivendicazione di indipendenza è smentita dai rituali di abluzione che lo obbligano infinite volte al giorno a recarsi nel bagno di servizio che ha riservato a sè. Essi riguardano rigorosamente solo le mani che sono scarificate dal sapone. Cionondimeno quei rituali attestano che la guerra d’indipendenza, pur portata avanti con implacabile determinazione, è perduta.

La fobia dei legami affettivi si va diffondendo a macchia d’olio. Essa, quando non dà luogo ad una totale chiusura, si traduce in continui tentativi di stabilire dei legami che assumono più o meno rapidamente un significato coercitivo, d’ingabbiamento tale che il soggetto non può fare altro che tirarsene fuori.


Cap. XII PER UN PROGETTO DI PREVENZIONE

La necessità e l’urgenza della prevenzione psichiatrica sono attestate da varie ragioni. Anzitutto dall’incidenza statistica dei fenomeni di disagio psichico, che non consente di progettare e di realizzare una rete di assistenza territoriale adeguata. I dati epidemiologici sono inequivocabili: le forme cosiddette minori di disagio psichico - in particolare gli attacchi di panico, le depressioni e le malattie psicosomatiche - sono in costante aumento da almeno quindici anni a questa parte e interessano ormai non meno del 10% della popolazione dei paesi occidentali (recenti statistiche statunitensi riportano addirittura il 25%). Per quanto riguarda le forme maggiori - schizofrenia e psicosi maniaco-depressive -, si sostiene, per avallare l’ipotesi genetica, che la loro incidenza (rispettivamente dell’1% e dello 0,5%) è costante. Ma ciò è smentito per un verso dall’aumento delle diagnosi di nevrosi atipiche o di confine, e per un altro dalla prescrizione, strisciante ma massiccia, di psicofarmaci maggiori nelle forme minori. Un dato non meno importante concerne l’evoluzione delle forme di disagio psichico, molte delle quali, in misura relativamente indipendente dalla diagnosi, tendono alla cronicizzazione, realizzando, a livello di servizi territoriali, un effetto di sovraccarico che eccede e frustra gli intenti degli operatori più impegnati. Tra costoro, che non sono di certo la maggioranza (come peraltro accade in tutti i servizi pubblici), c’è da considerare la diffusione crescente della sindrome burn-out, che attesta l’esaurirsi delle energie di fronte ad un compito che si configura immane.

Il disagio psichico, in ultima analisi, si pone ormai come un fenomeno sociologico di tale portata da rendere insensato qualunque progetto di intervento che non privilegi la prevenzione rispetto alla cura e alla riabilitazione. Se si accetta questo assunto, il tecnicismo imperante in ambito psichiatrico dall’inizio degli anni ‘80, soprattutto (ma non solo) di matrice organicistica, rivela il suo limite. Solo adottando un criterio riduttivo, il problema psichiatrico può essere considerato come la somma di numerose esperienze individuali. Di fatto, per la sua incidenza statistica, esso si pone immediatamente come un problema di politica sanitaria.

Questo aspetto è confermato anche dal danno economico, individuale e collettivo, prodotto dalle esperienze di disagio psichico. E’ vero che non tutte le esperienze psicopatologiche incidono sulle capacità lavorative. Ma la quota di invalidità dovuta al disagio psichico è comunque imponente, e in crescita. Basta pensare che, tra le forme minori, incidono sempre di più le sindromi da attacco di panico e le depressioni, che sono invalidanti per periodi più o meno lunghi. Se si tiene conto poi del fatto che tali sindromi colpiscono in prevalenza soggetti femminili, al problema dell’invalidità lavorativa in senso stretto occorre aggiungere gli scompensi che esse producono a livello di equilibri familiari con conseguenze rilevanti soprattutto a carico dei figli. La quantificazione economica del danno prodotto all’economia familiare e a quella nazionale dal disagio psichico non è facile da fare. Ma, anche tenendo conto solo delle assenze per malattia psichica dei dipendenti pubblici, e pur considerando che metà delle certificazioni può non corrispondere alla realtà clinica, il dato è assolutamente inquietante.

Un altro aspetto è legato al disagio adolescenziale e giovanile, che incide in un’epoca della vita di formazione, e, quando non pregiudica del tutto le possibilità di inserimento, costringe le persone, superato il disagio, ad accettare prospettive di vita che sono molto al di sotto delle loro potenzialità. Anche da questo punto di vista, lo spreco, quantificabile, risulta enorme. Occorre inoltre considerare il fenomeno della precocizzazione progressiva del disagio psichico che colpisce sempre più di frequente la popolazione adolescenziale. Parecchie esperienze psicopatologiche adolescenziali per fortuna si risolvono per effetto dell’intervento terapeutico e dell’evoluzione stessa della personalità. Ma un numero considerevole di tali esperienze, di solito le più gravi, non solo non si risolvono ma, per effetto di massicci interventi psicofarmacologici, evolve rapidamente verso forme di cronicizzazione che comportano la necessità di prevedere un’assistenza continuativa vita natural durante, vale a dire in media per cinquant’anni!

Ciò posto, c’è da chiedersi quali possano essere i fondamenti teorico-pratici di un progetto di prevenzione e come esso possa essere realizzato. La migliore prevenzione possibile (se si prescinde dall’ipotesi del determinismo genetico) consisterebbe nell’offrire a tutti gli esseri umani adeguate opportunità di sviluppo, muovendo dal presupposto che qualunque corredo genetico è predisposto contemporaneamente alla salute e alla malattia, e che quest’ultimo pericolo può essere sempre scongiurato dal dispiegamento delle potenzialità ad esso intrinseche. Al di là del fascino che esercita questa formulazione, occorre riconoscere che, per renderla operativa, difettano ancora, oltre che la volontà politica e le condizioni socio-economiche e culturali minimali, molti dati conoscitivi. Ancora poco si sa delle potenzialità genetiche, meno ancora di come valutare l’ambiente culturale sotto il profilo dell’adeguatezza o inadeguatezza. Non è possibile fare sperimentazioni, perchè esse potrebbero comportare dei danni eticamente riprovevoli. Occorre dunque ascrivere quella formula nel libro dei sogni? Non necessariamente. Basta considerare che la storia sociale, nella sua totalità, non è altro che un’ininterrotta sperimentazione sulle possibili interazioni tra il corredo genetico umano e l’ambiente culturale prodotto dall’uomo. Si potrebbe (e si dovrebbe) dunque rivolgersi alla storia sociale e ricavare, dalle esperienze di disagio psichico, tutti gli indizi che esse offrono riguardo a situazioni interattive disfunzionali ai fini di un dispiegamento delle potenzialità proprie di ogni individuo. Il primo passo verso la prevenzione dovrebbe essere l’istituzione di un archivio (nazionale) di casi clinici esplorati sino al livello che pone in luce la causalità interattiva tra quelle potenzialità, l’ambiente culturale e la storia sociale. La documentazione scritta dei casi clinici potrebbe risultare infinitamente più utile della pratica, estremamente diffusa in tutti i C. S. M., di discutere verbalmente degli stessi: pratica che, in genere, serve a dare spazio a interpretazioni gratuite e a perdere tempo.

Prevenire significa letteralmente intervenire prima che il disagio si manifesti. La possibilità della prevenzione si fonda dunque sull’assunto implicito che le cause del disagio siano attive prima del definirsi di una sintomatologia clinica e che esse possano essere identificate allo stato latente. Il problema che spiega la difficoltà cui si è fatto cenno è da ricondurre al disaccordo pressoché totale che ancora vige in ambito psichiatrico sulle cause del disagio. E’ evidente che se si dà un peso preminente ai fattori genetici, prevenire significa identificare i markers biochimici che segnalano la predisposizione ad ammalare e intervenire con cure farmacologiche prima dell’avvento dei sintomi. Se, viceversa, si dà un significato preminente ai fattori soggettivi, individuali, prevenire si traduce nell’identificazione dei soggetti a rischio attraverso la pratica a tappeto dei test psicologici. Se si adotta un punto di vista relazionale, microsistemico, la prevenzione postula l’identificazione delle famiglie a rischio, vale a dire delle famiglie che adottano moduli comunicativi destinati, a lungo andare, a indurre la patologia di uno dei membri. Se, infine, si valorizzano causalmente i fattori sociologici, l’aspetto più importante ai fini della prevenzione è la definizione statistica delle situazioni o degli eventi di vita - tipo lutti, separazioni, perdita di lavoro, sfratti, ecc. - che significativamente precedono i fenomeni clinici. Pur trattandosi di approcci teorici radicalmente diversi al problema, nulla vieta di tentare di integrarli in un progetto di prevenzione allargato all’intero corpo sociale. Se si tenta di farlo, però, il progetto che vien fuori è però un po’ mostruoso. Non è possibile sottoporre ad esami biochimici tutta la popolazione, nè somministrare test a tutti gli studenti, nè operare uno screening relazionale di tutte le famiglie. Quanto agli eventi di vita dotati di potenzialità psicopatologiche, le tabelle statistiche sono poco significative. Alcuni (come i lutti, le malattie, gli incidenti invalidanti) fanno parte della lotteria della vita, altri (come la disoccupazione, la perdita del posto di lavoro, gli sfratti) fanno capo all’organizzazione sociale complessiva della nostra società, sulla quale è sempre più difficile intervenire a ragione della crisi e dell’attacco in atto al Welfare State.

E’ evidente dunque che c’è un nodo teorico da sciogliere per definire e realizzare un progetto di prevenzione. Ma non lo si può sciogliere a tavolino, ideologicamente, perchè i diversi approcci presenti nel campo della psichiatria difendono ciascuno i propri assunti di fondo con un vigore un po’ cieco che impedisce una valutazione oggettiva. Occorre dunque muovere dalla realtà, dalla pratica clinica e vedere se è possibile individuare circostanze macro- e microsistemiche di sicuro significato causale e sulle quali sia possibile di fatto intervenire concretamente. L’obiezione tradizionale nei confronti di questo approccio, che muove dalla neo-psichiatria non meno che dalla psicoanalisi, verte sul fatto che ciò che è oggettivabile, in pratica i cosiddetti fattori ambientali, non è mai dotato di valore patogeno in sè e per sè poichè le stesse circostanze danno luogo a esperienze normali e a esperienze psicopatologiche. Tranne rari casi, riconducibili ad ambienti sociali e familiari disgregati, il determinismo ambientale di fatto non è sostenibile. Occorre di fatto tenere conto della variabile soggettiva e accettare il carattere sostanzialmente congiunturale della patogenesi. Ma, alla luce del nostro modello psicopatologico, che appare capace di correlare i livelli sociostorici dell’esperienza umana e i livelli psicologici, soggettivi, intersoggettivi e microsociali, le situazioni congiunturali non si pongono come assolutamente casuali: la maggior parte di esse sono ipotizzabili e prevedibili a seguito del loro ricorrere nella pratica terapeutica. La loro oggettivabilità dipende dunque dalla capacità di individuarle prima che esse diano luogo a una fenomenologia clinica.

Senza alcuna pretesa di risultare esaurienti, tenteremo ora di illustrare alcune di queste circostanze sulle quali, con un’adeguata programmazione, si potrebbe intervenire immediatamente.

Il figlio immaginario

Nonostante il principio per cui l’educazione deve mettere in grado il bambino di sviluppare la sua personalità autentica, molti educatori oggi sono prede di un’ideologia fuorviante riguardo all’essere e ai bisogni infantili. E’ doloroso, ma onesto, riconoscere che tale ideologia è in gran parte il prodotto delle scienze psicologiche, in primis della psicoanalisi. Per promuovere una sensibilizzazione pedagogica, si è infatti adottata, da parte di tali scienze, l’arma peggiore: la costruzione del fantasma del bambino come esserino infinitamente bisognoso di cure e attenzioni in quanto estremamente vulnerabile sotto il profilo psicologico. E’ lecito parlare di un fantasma poiché se è inconfutabile che la vita emozionale del bambino è molto più intensa, drammatica e squilibrata di quanto appare in superficie, non è affatto vero che essa si svolge nel segno di una precarietà tale per cui basterebbe un trauma psicologico anche di modesta entità a segnare l’esperienza ulteriore. Lo squilibrio emozionale infantile non è tanto l’espressione di una tremenda vulnerabilità quanto di un processo evolutivo che la postula e procede, a salti, anche in virtù di essa. Quel fantasma, infatti, trascura del tutto che l’evoluzione della personalità infantile avviene parallelamente allo sviluppo delle strutture cerebrali, e che questo sviluppo, che comporta fasi critiche di dilatazione della vita emozionale che solo successivamente vengono integrate a livello cognitivo e comportamentale, riconosce lo squilibrio come indispensabile requisito. L'incidenza educativa di questo fantasma è restituita genericamente dai livelli di ansia genitoriale incentrati, più o meno ossessivamente, sulla paura di sbagliare e di danneggiare il figlio. In particolare, poi, occorre rilevare che esso ha concorso a riproporre l’assoluta necessità, ai fini di uno sviluppo sano e armonioso dell’infante, di un rapporto diadico madre-bambino il più intimo e partecipe possibile, inducendo molte madri, negli ultimi anni, a cimentarsi in un'impresa che, quando avviene sul registro dell’isolamento nucleare, è inesorabilmente nevrotizzante per la madre e molto spesso perniciosa per il bambino, che ne ricava un condizionamento a dipendere.

Ma il fantasma in questione, che assegna allo squilibrio emozionale il significato di una malattia che può guarire in conseguenza di una totale dedizione genitoriale, ha prodotto un’altra conseguenza negativa di straordinaria importanza: l’aspettativa che una cura ottimale dia luogo ad uno sviluppo lineare, caratterizzato da un equilibrio precocemente raggiunto che si mantiene e si arricchisce nel tempo, risultando immune da regressioni e squilibri. Il bambino stereotipizzato da questa ideologia è il bambino sano, sereno, spigliato, comunicativo, socializzato e adeguatamente interattivo. Niente di male, se non che questo stereotipo, che, nella migliore delle ipotesi, si realizza per alcuni aspetti solo nel corso delle fasi evolutive di equilibrio che seguono a quelle di squilibrio e ne anticipano altre, non coincide con il modello programmato dalla natura. Non si stenterebbe a capire questo se si tenesse conto che un processo di crescita lineare renderebbe incomprensibile il lungo periodo di tempo programmato per lo sviluppo della personalità umana.

Gli effetti negativi di questa ideologia sono molteplici. Le fasi di squilibrio che si presentano nel corso dell'evoluzione danno luogo ad un’intensa attivazione dell'ansia genitoriale, che si rivolge a cercarne le cause in errori commessi o in una qualche incomprensione dei bisogni del figlio. Tale ansia porta ad adottare soluzioni che sono rimedi peggiore del male: per esempio, caratteristicamente, ad incrementare le pressioni educative nelle fasi di opposizione, che rendono i bambini ininfluenzabili o addirittura negativisti. Ciò basta talora a trasformare le crisi di opposizione in un opposizionismo cronico. Di peggio accade ai bambini tendenzialmente introversivi il cui comportamento sociale, più o meno differenziato rispetto agli altri, viene colto solitamente con l’avvio della scolarizzazione come abnorme. L’ansia genitoriale in questi casi si traduce in una serie di strategie che, non riconoscendo i modi e i tempi propri di sviluppo dei bambini introversivi, mirano ad una normalizzazione del comportamento che riproduce - mutatis mutandi - i disastri che, fino a qualche decennio orsono, determinava la correzione del mancinismo.

Una seconda conseguenza è identificabile nel fatto che una buona crescita viene ritenuta una conseguenza naturale degli stimoli e delle opportunità di sviluppo offerte ai bambini. C’è naturalmente del vero in questo assunto. Ma la sua esasperazione, dovuta al fantasma del bambino immaginario, comporta spesso una sovrastimolazione e un iperimpegno la cui conseguenza è che la vita dei bambini, a partire dai sei-sette anni, tra impegno scolastico, attività sportiva, scoutismo, catechismo, videogiochi, festicciole ecc., assume spesso un ritmo frenetico che li rende tesi e irrequieti. E’ incredibile in quale misura, dacchè questo modello pedagogico si va diffondendo e viene considerato ottimale (nonostante lo stress cui sottopone anche i genitori), siano reperibili a livello di analisi di adolescenti e di giovani allevati in ambienti oggettivamente privilegiati vissuti claustrofobici di una drammatica intensità che fanno riferimento a terribili coercizioni che sembrano non avere fondamento

La dedizione dei genitori infine, indubbiamente maggiore rispetto al passato sia quantitativamente che qualitativamente, determina, come effetto inevitabile la loro aspettativa, conscia e inconscia, di essere contracccambiati: effetto che si riverbera nei figli, in misura direttamente proporzionale alla loro sensibilità, sotto forma di indebitamento, conscio e inconscio. In questo aspetto si può, forse, riconoscere la trappola più insidiosa e inafferrabile che incombe, oggi, sul processo educativo, e una delle chiavi che spiega l’incomprensibile diffusione del disagio in generazioni che godono di privilegi incommensurabili in rapporto anche solo a quella dei padri. Il debito dei figli nei confronti dei genitori, sia pure riferito solo all’avere ricevuto la vita, è un valore e un obbligo riconosciuto da tutte le culture, oggettivato tra l’altro dal quarto comandamento biblico. Ma, al di là degli aspetti formali quali il rispetto e la devozione, esso è stato sempre vissuto in conseguenza di una valutazione realistica dei sacrifici genitoriali. Appena qualche generazione fa gran parte dei bambini, divenuti appena grandicelli, cominciavano a guadagnarsela la vita o collaborando con la famiglia o andando sotto padrone. Rimanevano, data la cultura dominante, più rispettosi nei confronti dei genitori dei figli di oggi, ma, altrettanto sicuramente, erano meno oppressi dall’indebitamento. L’investimento delle famiglie contemporanee nell’allevamento, in termini di tempo, di comunicazione, di affetto, di denaro, è enorme rispetto al passato. Non sorprende che esse sviluppino, consciamente e inconsciamente, l’aspettativa di essere contraccambiati, e cioè che i figli soddisfino le loro aspirazioni, realizzando i valori (anzitutto uno status sociale elevato) in cui credono. I figli più sensibili incappano inesorabilmente in un indebitamento che non di rado ha una configurazione drammatica, e quando la loro vocazione ad essere non coincide con le aspettative genitoriali si ritrovano solo a scegliere tra il sentirsi in colpa assecondandola o il vivere male frustrandola.

I bambini difficili

La nostra civiltà si fonda sull’assunto per cui ogni individuo è unico e irripetibile. Su tale assunto, inconfutabile, si è costruito un modello pedagogico che, sulla carta, è orientato a valorizzare la variabilità genetica, ad offrire ad ogni bambino opportunità di sviluppo adeguate alle sue potenzialità specifiche. Proprio per ciò si rimane sorpresi dal fatto che, nella pratica pedagogica, l’esaltazione della diversità individuale sembra non comportare affatto una distinzione categoriale che si impone con la forza dei fatti. Mettendo tra parentesi il problema della predisposizione genetica alla malattia mentale, la pratica clinica pone di fronte ad un dato costante e inquietante. Una percentuale rilevante di pazienti affetti da forme di disagio strutturate - per esempio attacchi di panico, nevrosi ossessive, psicosi distimiche, psicosi dissociative - hanno delle potenzialità emozionali e/o intellettive superiori alla media: sono insomma iperdotati. E’ difficile ritenere che si tratti di una circostanza casuale, inessenziale ai fini del prodursi del disagio. Da un punto di vista genetico, i corredi iperdotati rappresentano al massimo il 5-7% di quelli prodotti dalla natura, una minoranza dunque. A livello di disagio psichico, l’iperdotazione viceversa è riscontrabile nella maggioranza dei pazienti. Che cosa dedurne, escludendo che iperdotazione e predisposizione alla malattia mentale si associno frequentemente, se non che venire al mondo iperdotati è un fattore di rischio? Capire perchè è un problema. Nell’ attesa che siano svolte ricerche serie a riguardo, si può procedere sul piano delle ipotesi. Un dato assolutamente importante è di ordine socio-culturale. Il superamento dei privilegi di casta e di sangue ha inaugurato l’ideologia ugualitaria. Tale ideologia è sacrosanta per quanto concerne la pari dignità degli esseri umani e l’attribuzione ad essi di pari diritti. Ma essa è andata un po’ al di là del segno, comportando il misconoscimento del fatto che i bambini non sono affatto tutti eguali. Questo misconoscimento ha determinato la produzione di un’ideologia e di una pratica pedagogica incentrate sul bambino medio. Gli scarti tra bambini - in termini di potenziali emozionali e intellettivi - sono riconosciuti, ma vengono ricondotti ad uno spettro continuo. Questo è un errore. Lo spettro continuo riconosce di sicuro una discontinuità qualitativa, al di qua della quale si danno i bambini medi, al di là i bambini iperdotati. Essendo questi una minoranza assoluta, il problema non viene mai colto sul piano sociologico. L’importanza di questa diversità categoriale da un punto di vista psicologico è notevole.

Per la loro stessa costituzione genetica, che li rende estremamente recettivi nei confronti dell’ambiente educativo e capaci di cogliere tutte le valenze inconsce che lo attraversano, i bambini iperdotati sono difficili da educare. Sia perchè, in maggioranza, imponendosi quasi sempre uno sforzo di iperadattamento alle aspettative degli educatori, li fuorviano, apparendo come bambini d’oro la cui esperienza interiore é invece intensa e spesso drammatica; sia perchè, in minoranza, entrano facilmente in conflitto con l’ambiente, manifestando atteggiamenti opposizionistici e negativisti incoercibili. Gli spazi e gli stili educativi, modellati in rapporto ai bambini medi, determinano insomma o un’ipernormalizzazione costrittiva, animata dalla paura di deludere le aspettative dei grandi, di dar loro un dispiacere, di perdere le conferme, ecc., o un’interazione disadattiva, ribelle e aggressiva. Queste due carriere - dei bambini d’oro per un verso e dei diavoletti per un altro - esitano con una frequenza notevolissima in esperienze di disagio adolescenziali e giovanili.

Qual’è la difficoltà di intervenire preventivamente sui bambini difficili che non presentano precocemente disturbi sintomatici? Per quanto riguarda quelli opposizionistici e ribelli, c’è una costante tendenza dei familiari a minimizzare i loro comportamenti attribuendoli alla ’vivacità’ e a ritenere che essi si risolvano con la crescita. Gli insegnanti, oggettivamente in difficoltà perchè i rimproveri e le punizioni non conseguono altro effetto che esasperare i comportamenti oppositivi, finiscono in genere con il chiudere gli occhi.
Per quanto riguarda i bambini d’oro, che molto spesso primeggiano nel rendimento scolastico, il dubbio che una crescita lineare non sia normale ma frutto della paura di deludere le aspettative dei grandi non sfiora mai gli educatori. Famiglie e insegnanti anzi di solito si alleano nel gratificare questi bambini che li gratificano, portandoli come esempio agli altri e richiedendo loro sempre di più. E’ sorprendente in quale misura essi pensino che l’essere perfetti non costi loro uno sforzo che invece è terribile.

La famiglia nucleare

La famiglia è un’istituzione universale, presente o comunque riconoscibile in ogni società nota. La forma che assume questa istituzione, e dalla quale discendono i ruoli e le funzioni dei membri, varia invece nel corso della storia. Il passaggio dalla famiglia allargata, tipica della cultura contadina, alla famiglia nucleare, tipica della cultura urbana, borghese, si è realizzato gradualmente nel nostro sistema sociale ed è tuttora in corso. Tale trasformazione ha risolto alcuni problemi intrinseci alla struttura della famiglia allargata (sostanzialmente patriarcale, gerarchizzata, caratterizzata da un rilevante difetto di intimità tra i membri), ma di sicuro ne ha creati di nuovi, la cui incidenza psicopatologica è fuori di dubbio.

La privacy di cui gode la famiglia nucleare è una medaglia a due facce. Per un verso essa ha reso più intimi i rapporti tra i membri, meno rilevanti le gerarchie, più ricche le interazioni interpersonali soprattutto sotto il profilo comunicativo. La privacy ha anche affrancato il nucleo familiare dal rigido controllo esercitato dalle generazioni precedenti e quindi dalle tradizioni, consentendo ad ogni famiglia di diversificarsi e di produrre un suo modo di essere culturale, un suo stile di vita e un suo modello pedagogico. Ma occorre considerare che la privacy comporta di fatto un affrancamento totale da qualunque tipo di controllo sociale e che tale affrancamento viene vissuto solitamente dai membri come un diritto. Questo diritto non sussiste, poichè l’ordinamento giuridico non prevede lo spazio privato domestico come un’area franca. Si danno diritti e doveri giuridici che riguardano i coniugi e i figli. Ma in difetto di un controllo comunitario o statale, tali diritti e doveri possono essere facilmente ignorati. Ciò apre la via ad ogni possibile arbitrio, conscio e inconscio, nel rapporto tra i coniugi e tra i genitori e i figli. I casi, peraltro non rari, di violenze fisiche tra le pareti domestiche rappresentano la punta di un iceberg di violenze di ogni genere, consce e inconsce, che avvengono in virtù della privacy e le cui conseguenze, per quanto concerne i figli, si realizzano talora a distanza di anni. Ma la stessa privacy comporta anche il fatto che i figli, dall’adolescenza in poi, possono agire essi stessi violenza sui genitori. Ciò avviene di solito quando i figli sono affetti da una qualche forma di disagio psichico. E’ noto però che anche in tali casi l’arbitrio comportamentale è fortemente vincolato al percepire lo spazio privato domestico come un’area franca da ogni controllo sociale.

Un secondo aspetto che rende la famiglia nucleare un’istituzione a rischio è legato all’allevamento dei bambini. Molteplici influenze, da quelle di ordine religioso a quelle di ordine psicologico, hanno prodotto il mito per cui un allevamento ottimale comporta un rapporto pressochè esclusivo tra genitori e figli, e in particolare tra madre e bambino. La nuclearizzazione della famiglia sembra oggettivamente la migliore organizzazione pedagogica. Si tratta invece di un sistema precario e a rischio in rapporto ai compiti dell’allevamento. Per il suo essere dipendente e bisognoso per un periodo smisuratamente lungo, l'infante umano rappresenta un bel peso. Se si considera l'organizzazione della famiglia allargata, che a sua volta si inscrive nell'ambito di una comunità solidale, è evidente che essa quel pesorisultava distribuito su più persone. Con la nuclearizzazione della famiglia il peso dell'allevamento ricade inesorabilmente su due persone, e, in misura sempre più rilevante, sulla madre. Accade così sempre più spesso che una giovane madre si ritrovi col suo bambino ventiquattro ore su ventiquattro, giorno dopo giorno, mese dopo mese. La relazione diadica madre-bambino, socialmente isolata, è l'espressione propria della nuclearizzazione della famiglia. Stando alle conseguenze, si tratta di una sperimentazione sociale a vicolo cieco.

Questa asserzione può sorprendere in rapporto a quanto viene sostenuto da parte delle scienze psicologiche, e in primis dalla psicoanalisi. I meriti della psicoanalisi sono pari ai suoi demeriti, i quali ultimi però hanno inciso più profondamente nella mentalità collettiva. Oltre ad avere contribuito a creare il fantasma del bambino di cui si è parlato, la psicoanalisi infatti ha sacralizzato il rapporto diadico madre-bambino destoricizzandolo. La dedizione totale della madre al bambino é divenuta un obbligo morale, l'espressione la più elevata dell'amore materno e una necessità assoluta in nome dello sviluppo sano e armonioso dell'infante. Questo codice, avallato dalla Chiesa, non tiene in alcun conto lo sfondo sociale sul quale si realizza l’esperienza dell’allevamento, uno sfondo caratterizzato il più spesso dall’isolamento sociale. In conseguenza di ciò, quello che é un prodotto storico, il risultato di profonde modificazioni nell'organizzazione sociale, l'isolamento della diade madre-bambino, é venuto a porsi come condizione naturale dell’allevamento, sicché la virtù materna viene misurata dal modo in cui una donna se la cava nel portare avanti questa esperienza.

L'isolamento sociale può essere dovuto a due fattori: alla carenza di sostegni parentali o al rifiuto da parte della madre di utilizzarli, in ordine al ritenere essa naturale cavarsela da sola. La dedizione materna é segnata dalla percezione del bambino come essere vulnerabile, che richiede un'attenzione continua per non disintegrarsi e disperarsi. Questa percezione ansiogena obbliga la madre a decifrare tutte le richieste del bambino e ad essere pronta a rispondere. Essa inoltre, via via che si instaura un rapporto significativo, impedisce alla madre di separarsi dal suo bambino, con il quale ha un rapporto comunicativo privilegiato. Anche se la disponibilità del partner é significativa, non allenta mai la tensione del rapporto poiché la madre comunque si sente responsabile diretta del benessere del figlio. Che cosa accade in questa situazione, che sembra realizzare condizioni di sperimentazione dei limiti delle capacità umane di tollerare la costrizione interpersonale, di rinunciare a un minimo di libertà, e di praticare la virtù del sacrificio totale di sé a favore dell’altro? Accade che, più o meno rapidamente, quasi sempre a livello inconsapevole, il rapporto diadico si configura come una gabbia soffocante e il bambino come un persecutore. L'incapacità della madre di dare un senso umano, e non patologico, ai segnali molteplici che attestano il suo disagio, determina poi una strategia perdente. Per soffocare tali segnali, la madre si impegna sempre di più nel rapporto col bambino. E’ ovvio che questa strategia non può fare altro che incrementare il disagio stesso e portarlo alle estreme conseguenze: la nevrotizzazione e l’affiorare dei sintomi.

Il problema é che se i sintomi che affiorano rientrano nell'ambito della stanchezza e del nervosismo da stress, essi possono essere confessati. Ma allorché - ed é molto più frequente di quanto si pensi - assumono una configurazione drammatica, sotto forma di fantasie e di coazioni a far male al bambino, risultano inconfessabili, poiché la madre si sente snaturata, se non addirittura pazza, e, in riferimento all’ideologia dominante della diade madre-bambino, si sente unica nella sua mostruosità che è invece sempre più frequente.

C’è da considerare inoltre un terzo aspetto. L’economia della famiglia nucleare richiede spesso che la donna sia produttrice di un reddito. La conquista del lavoro femminile è avvenuta a partire da circostanze storiche che l’hanno trasformata in una matrice costante di stress. Uomini e donne hanno sempre condiviso il lavoro, fino all’avvento della civiltà borghese, che ha relegato la donna in casa. L’affrancamento dal lavoro, all’epoca, appariva un privilegio dovuto al censo, al reddito maschile. Ma la nuclearizzazione della famiglia e l’isolamento sociale hanno ben presto trasformato quel privilegio in una jattura. La reclusione domestica è uno dei motivi storici che spiegano l’esplosione delle sindromi isteriche nella seconda metà dell’700. Agli occhi delle lavoratrici nell’artigianato o nell’industria, quella condizione appariva però privilegiata. Tant’è che, con il progresso, c’è stato, a partire dai primi del ‘900, un lento e graduale domesticamento delle donne, vissuto come una liberazione dagli orari e dai ritmi di lavoro. La nevrosi delle casalinghe, da ricondurre in gran parte alla nuclearizzazione della famiglia e all’isolamento sociale, ha prodotto poi, a partire dal dopoguerra, un flusso inverso, nel nome della rivendicazione della parità con l’uomo. Ma la strutturazione della famiglia sul modello borghese ha prodotto l’effetto di definire una nuova e più penosa schiavitù rispetto al passato: quella caratterizzata da un ciclo continuo lavorativo domestico e extradomestico. Il contributo che questa nuova forma di schiavitù ha portato alla diffusione del disagio psichico femminile è inconfutabile.

Infine, un aspetto di minore importanza che però in alcuni casi diventa decisivo è legato al rapporto tra famiglia nucleare e gruppo parentale. La convinzione che la nuclearizzazione della famiglia comporti uno statuto privilegiato del rapporto dei coniugi rispetto ai legami di consanguineità contrasta con una tradizione ancora viva a livello delle generazioni precedenti che, viceversa, assegna a quei legami uno statuto privilegiato rispetto a quelli acquisiti. E’ noto che questo conflitto di mentalità segna profondamente l’esperienza di alcune famiglie e determina spesso conseguenze psicopatologiche.

L’educazione religiosa

Il rispetto delle credenze religiose non dovrebbe indurre a chiudere gli occhi sul fatto che il contatto con i simboli religiosi talvolta segna profondamente le coscienze infantili, anche in questo caso in particolare i bambini iperdotati. L’insegnamento religioso, sia nelle scuole che nelle parrocchie, si pone ormai sul piano della trasmissione di valori di solidarietà, di altruismo, di comunitarismo che sembra connotarli come strumenti essenziali di civilizzazione, tanto più importanti quanto più quei valori appaiono minacciati da un’organizzazione sociale fondata sull’individualismo competitivo. E’ questo il motivo per cui la stragrande maggioranza delle famiglie, comprese quelle dichiaratamente laiche, optano a livello scolastico per l’insegnamento religioso. L’educazione religiosa - è un leit-motiv - non può far male fondandosi su valori universali che mantengono la loro validità anche se il soggetto poi abbandona la fede e la pratica cultuale. La psicopatologia attesta che questo leit-motiv non corrisponde alla verità.

Per quanto aperto e aggiornato, l’insegnamento religioso non può prescindere da un nocciolo duro dogmatico che comporta il riferimento ad un Essere trascendente che va amato non meno che rispettato e che, in caso di trasgressione, dispone di un potere punitivo. Per quanto questo potere non sia più proposto in termini biblici, il timor di Dio è ritenuto comunque complementare al riconoscimento della sua misericordia, che lo rende un Padre amoroso e amabile. Non potrebbe essere diversamente. Nessuna religione può prescindere dalla categoria del sacro intrinsecamente ambivalente.

E’ incredibile in quale misura questa simbologia che, evidentemente, tocca aspetti molto profondi della mente umana, impregni le esperienze soggettive di alcuni bambini, e continui ad agire sotterraneamente anche quando eventualmente sia avvenuto un distacco dalla credenza e dalla pratica religiosa. La religiosità, intesa come riferimento al sacro, ad un ordine se non ad un essere che trascende il potere del soggetto, sopravvive a livello inconscio alla perdita della fede, all’abbandono di ogni pratica religiosa e anche all’adesione ad un’ideologia di vita del tutto laica e mondana. E purtroppo sopravvive quasi sempre in termini di soggezione e di terrore com’è attestato, per esempio, dalle nevrosi fobico-ossessive che, a livello giovanile, riguardano quasi sempre persone capaci di razionalizzazioni estremamente sottili. Si tratti di credenti o di non credenti infatti, il vissuto che le sottende, reso immediatamente evidente dai rituali, è un vissuto superstizioso, che fa riferimento, anche senza che il soggetto se ne renda conto, ad un Essere supremo che impone l’esecuzione dei rituali e, in caso di inadempimento, dispone di un terribile potere punitivo. Si potrebbe obbiettare che questa simbologia è archetipica, inconscia. E’ un fatto però che la ricostruzione delle esperienze soggettive approda sempre a ricostruire un incontro educativo con tali simbologie religiose e a riattivare il ricordo di un impatto emozionale traumatico.

Occorre considerare inoltre, al di là dell’insegnamento religioso scolastico e del catechismo, la percentuale sempre maggiore di bambini che in età asilare e elementare frequentano istituti di suore. La diffusione di questa pratica, oltre che alle insufficienze delle strutture pubbliche, corrisponde ad un orientamento delle famiglie che tende ad identificare in quegli istituti ambienti ottimali sotto il profilo pedagogico per via del clima protetto e della dedizione missionaria delle suore. Tale dedizione è fuori discussione. Ma occorre pur riconoscere che le suore, per la loro cultura e i loro orientamenti inconsci, sono le ultime persone a cui i bambini dovrebbero essere affidati. Esse infatti leggono la realtà dell’anima infantile come un campo conteso tra forze angeliche e forze demoniache. In conseguenza di ciò, propongono ai bambini un modello di sviluppo angelicato che non corrisponde in alcun modo alla loro vita interiore, e che, al solito, cattura i più sensibili tra di essi, e si impegnano, per il loro bene, a depurarli dei germi maligni che potrebbero soffocare una sana evoluzione della personalità. I germi maligni sono identificati in tutti i comportamenti oppositivi o ribelli, e danno luogo talora a vere persecuzioni educative oggettivamente intrise di sadismo.

Un terzo aspetto che va considerato in tema di educazione religiosa, forse in assoluto il più importante, riguarda l’induzione di una significazione negativa delle emozioni di rabbia, di odio e di vendetta resa ancora più drammatica dal principio che definisce peccaminosi non solo le azioni ma anche i pensieri e le fantasie da esse ispirate. Tale induzione si può ritenere psicologicamente catastrofica poichè le emozioni cosiddette negative fanno parte del naturale corredo emozionale umano e rappresentano in sè e per sè l’espressione primaria del senso di giustizia. Esse vanno indubbiamente elaborate cognitivamente e tradotte in comportamenti compatibili con la vita sociale. Ma la loro squalifica comporta per un verso la necessità di una rimozione che le rende ridondanti e per un altro la loro identificazione con l’aggressività sociale. Tale nesso è smentito dal fatto che la reattività emozionale ispirata al senso della giustizia può coincidere, e di fatto spesso coincide, con una sensibilità sociale che da sola scongiura il passaggio all’atto.

Indipendentemente da ogni dibattito ideologico, l’affrancamento delle emozioni negative dallo stigma religioso, al quale spesso si somma lo stigma borghese che ne postula l’ipercontrollo, sembra essenziale ai fini della prevenzione del disagio psichico nella cui dinamica quelle emozioni, quasi sempre colpevolizzate, sembrano onnipresenti.

Il lavoro

Molteplici sono le situazioni di rischio psicopatologico legate all’attività lavorativa. Una prima situazione è da ricondurre alle prospettive di lavoro a livello giovanile. Di solito, questo problema viene identificato con lo spettro e con la realtà della disoccupazione, della sottoccupazione, della dipendenza protratta dalla famiglia, ecc. E’ difficile minimizzare questi aspetti e la loro incidenza psicologica. Ma un problema che di solito non viene rilevato, e che a noi appare più importante, concerne l’ambivalenza diffusissima tra i giovani riguardo al lavoro. Tale ambivalenza è restituita pienamente da due diverse situazioni. La prima è più diffusa a livello di provincia che di città. Di fatto, nelle province, in relazione ad un tessuto produttivo diverso rispetto ai centri urbani, l’inserimento lavorativo, a livello agricolo o edile o nell’attività familiare, non è molto difficile. Questa prospettiva, certa e scontata, demotiva la frequentazione scolastica (e, en passant, anche l’impegno degli insegnanti). Si realizza di solito una vera e propria smania dell’adolescente per liberarsi dell’obbligo scolastico e per cominciare a lavorare. Gli effetti del lavoro precoce - soprattutto per quanto concerne la disponibilità di denaro in un regime di dipendenza familiare che, tranne rari casi, lo rende del tutto fruibile per i bisogni personali - sono esaltanti e caratterizzati da un marcato consumismo (motorino, abbigliamento, divertimento, ecc.). Ma essi si esauriscono nel giro di pochi anni e, particolarmente, quando il giovane si apre alla prospettiva della vita adulta. Allora, le prospettive di solito limitate di incremento dei guadagni, la qualità del lavoro sostanzialmente strumentale, la necessità di mettere su famiglia e di provvedere al suo mantenimento, e il difetto di orizzonti e strumenti culturali realizzano un’inversione di tendenza psicologica, che in molti casi coincide con uno svuotamento di senso dell’esistenza e con l’approdo all’ideologia dello sballo (discoteca, alcool, droga).

La seconda situazione, tipicamente urbana, è omologabile, ma per alcuni aspetti più seria. Anche in città, l’aspirazione precoce al lavoro produce l’abbandono della scuola esaurito l’obbligo. Ma quell’aspirazione rimane spesso sospesa in aria, e dà luogo per alcuni anni ad un ‘bivacco’ sociale noioso e frustrante, con il rischio di un’adesione all’ideologia dello sballo. Dopo alcuni anni, del tutto inutilizzati sotto il profilo della preparazione culturale e professionale, la possibilità di un inserimento lavorativo qualunque si pone nel contempo come un desiderio e come un incubo. La propettiva è infatti quella di un lavoro alienato, privo di interesse, produttore di un reddito mediocre.Tale prospettiva associa alla necessità di autonomizzarsi e di mettere su famiglia il significato negativo di un sacrificio vita natural durante praticamente senza senso. E’ inutile dire che la depressione strisciante che ne consegue è acutizzata dalla disparità sociale e dal confronto con modelli e stili di vita abbienti e consumistici.

L’inserimento lavorativo però non risolve tutti i problemi, e questo può essere comprovato a due diversi livelli della scala sociale: a livello di dipendenti privati e a livello di libere professioni.

La crisi recessiva che ha colpito i paesi industrializzati dal 1991 al 1993 ha dato luogo, negli ambienti di lavoro privati, ad una ristrutturazione psicologicamente poco tollerabile. L’ideologia della qualità totale e della flessibilità copre una realtà poco o punto corrispondente ai bisogni umani. Di fatto, la ristrutturazione è avvenuta all’insegna del principio per cui per dare il massimo in termini produttivi i dipendenti devono vivere la loro condizione lavorativa come perennemente precaria. I licenziamenti hanno agito come una frusta sul rendimento dei ‘fortunati’ che hanno conservato il posto di lavoro. Ma in tutte le aziende, anche in quelle ampiamente in attivo, si è istaurato un clima che fa incombere perennemente la minaccia di ulteriori licenziamenti. La produttività di fatto è aumentata ma il prezzo che i dipendenti pagano in termini di stress è enorme. A ciò occorre aggiungere l’adozione, da parte dei managers, di sottili strategie psicologiche, la più insidiosa delle quali è fondata sugli incentivi. Gli incentivi di avanzamenti di carriera sono specchietti per allodole. In nome di essi, si richiede ai dipendenti di dar prova di totale dedizione alle esigenze aziendali (per esempio di superare di gran lunga il tetto degli straordinari): in pratica di accettare di essere sfruttati. Solo quando la delusione delle aspettative li porta sull’orlo della disperazione, essi vengono premiati. Ma ciò significa solo dover continuare a correre senza remore dietro il miraggio di nuovi incentivi. Non si va lontano dal vero definendo tale strategia terroristica, e non occorre molta fantasia per capire le sue conseguenze psicopatologiche. A ciò si aggiunga il fatto che tali conseguenze - psichiche e psicosomatiche - devono spesso essere celate all’azienda, poichè, in caso di certificazione psichiatrica, scatta immediatamente lo stigma della inaffidabilità.

I lavoratori autonomi sono esposti a rischi psicopatologici in rapporto a due diverse circostanze. Alcuni, come i piccoli commercianti, in conseguenza dei processi di incessante ristrutturazione del mercato, che tende a privilegiare catene distributive e centri commerciali dotati di grandi capitali e di grandi impianti, vivono una condizione di perenne precarietà, consapevoli del fatto che la loro clientela può vanificarsi da un anno all’altro. Tale precarietà coincide quasi sempre con uno stato di allarme più o meno somatizzato. Il numero crescente dei fallimenti, particolarmente nei grandi centri urbani, determina costantemente depressioni la cui entità dipende dalla possibilità di progettare e realizzare un’altra attività.

I liberi professionisti, la cui condizione economica in media è abbastanza rassicurante, non sono affatto immuni dai rischi psicopatologici. Nonostante i guadagni infatti essi (e in particolare alcune categorie come gli avvocati, i commercialisti, i medici) fanno una vita da cani, lavorando dalle dieci alle dodici ore al giorno. Si pensa di solito che ciò sia dovuto ad una inesauribile sete di denaro. E’ vero solo in parte. A livello di libere professioni si è di fatto istaurata una mentalità che postula una dedizione totale al lavoro al fine di scongiurare la temuta catastrofe della perdita della clientela. E’ incredibile in quale misura persone sostanzialmente garantite vivano una perenne angoscia di precarietà, oggettivamente ingiustificata, che si traduce in sintomi psicosomatici di ogni genere, che vengono spesso curati con l’abuso di tabacco, alcool, psicofarmaci e droghe (in particolare la cocaina).

La condizione femminile

Un discorso a parte merita la condizione femminile poichè, se si escludono ipotesi genetiche che fanno riferimento alla naturale precarietà dell’equilibrio emozionale delle donne dovuta ai loro particolari assetti ormonali, il loro tributo al disagio psichico che statisticamente ammonta al 60/70% implica l’incidenza di fattori socioculturali e ambientali. Si è già accennato in precedenza al carico di responsabilità che grava sulle donne in rapporto alla maternità e alla necessità, oggettiva e soggettiva, di un lavoro extradomestico che solitamente si aggiunge a quello domestico. E’ appena il caso di aggiungere, essendo di dominio comune, che le casalinghe, con le loro emicranie ricorrenti, le cicliche depressioni, le angosce ipocondriache, l’ossessione rupofobica, non sono esposte a rischi minori. Spiegare questo disagio in rapporto ai cambiamenti del sistema familiare e dell’organizzazione della società non compensati da una nuova cultura e da adeguati servizi sociali non è certo difficile. Ma se ad esso si aggiungono i disturbi del comportamento alimentare, drammatici nelle adolescenti ma presenti anche a livello adulto, le sindromi da attacchi di panico, e i drammi affettivi incentrati sulla ricerca perpetua di un partner maschile o su relazioni prematrimoniali, coniugali ed extraconiugali perennemente insoddisfacenti e in stato di crisi, sembra veramente che il disagio femminile affondi le sue radici in un malessere epocale di non facile analisi.

Un fattore esplicativo di carattere generale riguarda la carriera di vita femminile nel suo complesso che continua ad essere gravata da lacci e lacciuoli di ogni genere. Se esse sempre più di frequente sfuggono alla nascita al rifiuto che in passato le accoglieva, e sempre meno spesso devono confrontarsi con il privilegio accordato dai genitori ai fratelli maschi, difficilmente si ritrovano a vivere un’esperienza paritaria. Solo alle bambine in genere si insegnano i lavori domestici, solo ad esse si richiede precocemente da parte delle madri una collaborazione. Le adolescenti sono assoggettate a limiti nell’esercizio della loro libertà molto più rilevanti di quelli posti ai maschi. La loro vita affettiva e sessuale deve costantemente realizzarsi nel rispetto di forme la cui trasgressione le espone a duri giudizi sociali, espliciti e impliciti. Lo spettro della solitudine e dello zitellaggio impone loro di peseguire la sistemazione matrimoniale molto più precocemente rispetto agli uomini. La soglia dei trent’anni che per costoro ormai è una soglia minimale per rinunciare allo scapolaggio, per le donne è una soglia massimale e inquietante. L’isolamento domestico delle casalinghe, con le frustrazioni che esso produce, è pagato spesso al prezzo di un ristagno o di una regressione culturale che induce sempre più spesso, oltre al consumo di teleromanzi e di mediocri riviste, l’abuso di alcool. L’attività lavorativa viceversa le espone all’assalto, sempre meno rifiutato, della seduzione maschile. Ed è superfluo aggiungere che nelle grandi città la libertà di muoversi da sole di sera e di notte è molto rischiosa.

Ma tutto ciò, per quanto estremamente significativo e incisivo a livello psicologico, non basta a spiegare la rabbia smisurata che sottende le esperienze femminili e che affiora sempre nel corso dei trattamenti terapeutici sia essa repressa o riversata sui familiari. Tale rabbia fa riferimento ad una condizione di totale impotenza che, nella sua drammaticità, non è giustificata dalle condizioni oggettive di vita pur gravose. Essa in realtà fa capo ad una maledizione di antica data che i cambiamenti culturali non hanno rimosso: la condanna di dovere comunque dipendere da qualcuno (la famiglia originaria, l’uomo, il marito, lo psicologo, al limite il sacerdote) che trova il suo fondamento ultimo non già in un’imposizione sociale bensì nella convinzione, profondamente radicata a livello soggettivo, della propria insufficienza ontologica. L’identità femminile ancora oggi è vissuta come funzione di una relazione, come un essere con o un essere per qualcuno. I bisogni di indipendenza, alimentati dalla cultura femminista e dal progresso sociale, non sembrano avere inciso su questo aspetto: essi anzi lo hanno esasperato.

Il malessere femminile è, da ultimo, un travaglio di parto che oppone, nelle pieghe della soggettività, ad un antico modo di vedere, incentrato sulla naturale dipendenza femminile, che stenta a morire, un nuovo modo di vedere, incentrato sull’indipendenza, che stenta a nascere.

Il sincretismo culturale

Nella storia della civiltà non esistono culture coerenti e omogenee che non riconoscano nella loro organizzazione qualche contraddizione riconducibile a valori non integrati, in tensione fra di loro. Ciò è dovuto al fatto che, tranne rare e poco significative eccezioni legati a gruppi umani vissuti in uno stato di quasi assoluto isolamento, tutte le culture sono sincretiche e si edificano sulla base di scambi e di apporti esogeni. Per la sua durata plurisecolare e la sua estensione geografica la cultura occidentale non potrebbe rappresentare un’eccezione. Ma essa pone di fronte ad un fatto forse nuovo e di grande impatto psicologico: la convivenza di due sistemi di valore, stratificatisi nel corso del tempo, che oggettivamente non appaiono compatibili. Parliamo naturalmente della religione cristiana e del liberalesimo. Gli sforzi sincretici operati dall’una e dall’altra parte, che hanno finora assicurato ad entrambi la sopravvivenza, non sembrano destinati a buon fine. L’incompatibilità, per quanto sia minimizzata o rimossa, di fatto è assoluta. Basti pensare, per averne la misura, al diverso concetto di libertà cui fanno riferimento i due sistemi. Per la religione cattolica la libertà autentica si esprime nella sottomissione della volontà propria a quella divina, imperscrutabile e pertanto da accettare comunque. Per il liberalesimo, viceversa, la libertà è definita dalla capacità, propria di ogni individuo, di operare delle scelte razionali, e dunque dal rifiuto di sottomettersi a qualsivoglia potere sacro.

L’incompatibilità sembra non avere dato luogo sinora a violente collisioni, nonostante numerose frizioni, poichè i due diversi sistemi di valore riguardano sfere diverse dell’esperienza umana: il privato, lo spirituale, il senso dell’esistenza l’uno; il pubblico, il civile, il sociale l’altro. Ma, benchè diverse, quelle sfere riguardano entrambe l’esperienza delle persone. E, nonostante il tentativo reciproco di non interferire l’uno con l’altro per non giungere alla collisione, trattandosi di sistemi di valore totalizzanti, ciascuno dei quali integra una visione del mondo in sè e per sè compiuta, è chiaro che essi mirano a catturare l’adesione e il consenso soggettivo. Essi di fatto sono rappresentati nelle combinazioni più varie e più o meno contraddittorie in tutte le esperienze soggettive, inducendo in misura più o meno rilevante una impercettibile schizofrenia nel sentire, nel pensare e nell’agire. Così, per fare due esempi, il cattolico praticante, ligio nei suoi doveri rituali e generoso con i poveri, non si astiene dal giocare in borsa senza alcuna preoccupazione riguardo al fatto che il suo guadagno può provenire dallo sfruttamento della manodopera minorile nel terzo mondo; l’imprenditore che non esita a licenziare gli operai per il bene dell’azienda può in buona fede investire parte dei suoi proventi nella beneficienza.

La schizofrenia della nostra cultura penetra profondamente nella soggettività individuale perchè, a livello di pratica educativa, i due sistemi di valore vengono trasmessi entrambi. Si insegnano prima i buoni principi cristiani che sembrano corrispondere ai bisogni dell’anima infantile, e poi i principi della competitività, dell’ egoismo, della sana aggressività che sembrano funzionali a vivere nel mondo così com’è. Apparentemente, il danno è irrilevante. Ma esso risulta evidente laddove, a livello psicopatologico, ci si imbatte in conflitti che risultano strutturati a partire dalla contraddizione esistente tra i due sistemi di valore e che si esprimono in una perenne oscillazione tra il sentirsi in colpa per la propria presunta cattiveria e il sentirsi umiliati dalla propria debolezza, accondiscendenza e arrendevolezza.


Appendice VERSO UNA SCIENZA DELLA SALUTE MENTALE INTERDISCIPLINARE

Dopo quanto s’è detto potrebbe sembrare quasi superfluo ribadire la necessità della fondazione di una psichiatria interdisciplinare, di una scienza profondamente rinnovata nelle sue fondamenta, negli strumenti teorici e nella pratica che potrebbe nascere solo dalla confluenza della neurobiologia, della psicopatologia dinamica e delle scienze umane e sociali. Non c’è molto da illudersi a riguardo data la forza della corporazione psichiatrica e della nascente corporazione psicoterapeutica che si vanno suddividendo le aree di intervento (la grande psichiatria alla prima, la piccola psichiatria alla seconda) e mirano entrambe alla psichiatrizzazione della società. Ciononostante un salto di qualità culturale è imposto dai fatti. Il vantare da parte dell’una e dell’altra eclatanti successi, tentare di influenzare l’opinione pubblica e i mass-media esibendo adepti e fans, corroborare l’organizzazione corporativa nell’intento di influenzare il potere politico non valgono a minimizzare un dato di realtà. Della popolazione di pazienti, che è in continua crescita, poco più di un quarto ricava vantaggio dai trattamenti siano essi farmacologici o psicoterapeutici. Il bilancio è sconfortante ma ricava la sua ragione d’essere dal difetto di qualunque progetto di prevenzione e dall’ottica riduttiva, sia pure per diversi motivi, con cui le esperienze di disagio psichico vengono affrontate nella pratica corrente. Tale ottica non è la conseguenza dello stato insufficiente delle conoscenze riguardo ai fenomeni psicopatologici bensì della preparazione generalmente rabberciata, lacunosa, scarsa degli psichiatri e degli psicoterapeuti. Questo a sua volta dipende dall’organizzazione dei corsi di studi e dei corsi di specializzazione che, nel loro impianto teorico-pratico, sono del tutto inadeguati in rapporto all’oggetto in questione.

L’organicismo e lo psicologismo sono un letto di Procuste per la psicopatologia e la pratica terapeutica che devono confrontarsi con una realtà sovradeterminata dalla storia e dalle tradizioni culturali, dall’organizzazione sociale, dai codici normativi, dai limiti della coscienza umana, dalle trappole emozionali e cognitive dell’attività mentale, dalla gabbia delle mentalità, dalla casualità genetica, dall’interazione tra corredo genetico e ambiente, dalla dialettica dei bisogni intrinseci, dalle dinamiche psichiche. L’estensione interdisciplinare della nuova scienza del disagio psichico dovrebbe tenere conto di tutte queste variabili.

Per non risultare velleitario, il progetto non può rimanere allo stato di intenti. La nuova facoltà, un cui nome proponibile sarebbe di Scienza integrata del disagio psichico, potrebbe articolarsi nel modo seguente:

I° anno

Biologia

Anatomia umana e Istologia I

Chimica inorganica e organica

Antropologia culturale

Psicologia generale I

Sociologia I

Filosofia tematica I

II° anno

Neuroanatomia

Fisiologia umana

Biochimica

Psicologia generale II

Sociologia II

Filosofia tematica II

III° anno

Patologia generale

Farmacologia

Genetica

Psicopatologia I

Psichiatria clinica I

Psicologia clinica I

Sociologia III

IV° anno

Patologia medica e chirurgica I

Neurobiologia I

Psicologia dell’età evolutiva

Psicologia sociale

Psicopatologia II

Psichiatria clinica II

Psicologia clinica II

V° anno

Patologia medica e chirurgica II

Psichiatria sociale

Neuropsichiatria infantile

Tecniche terapeutiche in psichiatria I

Psichiatria clinica III

Psicologia clinica III

VI° anno

Patologia medica e chirurgica III

Faramacoterapia medica

Psicofarmacologia

Psichiatria interculturale

Sociologia, psicodinamica e patologia del sistema familiare

La prevenzione psichiatrica I

Tecniche terapeutiche in psichiatria II

VII° anno

Patologia medica e chirurgica IV

Diagnostica di laboratorio e strumentale

Psichiatria adolescenziale e giovanile

Psichiatria della terza età

Psichiatria e devianza sociale

La prevenzione psichiatrica II

Tecniche terapeutiche in psichiatria III

Il corso dovrebbe essere integrato da un certo numero di esami complementari tra i quali:

Teorie della personalità

Medicina psicosomatica

Criminologia

Sessuologia

Psicodiagnostica

Epistemologia

Linguistica

Semiotica

Statistica

Teoria dei sistemi complessi

Storia contemporanea

Tradizioni culturali e visioni del mondo

Storia della filosofia contemporanea

Storia della psichiatria

Informatica medica

Epidemiologia

Statistica

Metodologia della ricerca scientifica e sociale

Bioetica

Psichiatria e mass-media

Psicopatologia e arte

Economia sanitaria

Diritto alla salute

La bozza progettuale richiede appena qualche commento. La durata di 7 anni e il numero di esami appaiono proibitivi. Ma c’è da considerare che il corso di studi, integrato dai tirocini, porterebbe a conseguire il titolo di Psichiatra/ Psicoterapeuta. Tale titolo si consegue attualmente, frequentando Medicina, con almeno 10 anni di studio (6 di facoltà, 4 di specializzazione integrata da un trainig psicoterapeutico che, peraltro, è facoltativo). Frequentando la facoltà di Psicologia si diventa semplicemente psicoterapeuti dopo 9 anni (5 di facoltà, 4 di training). In entrambi i casi la preparazione, salvo rare eccezioni, è lacunosa e insufficiente.

Il progetto è indubbiamente impegnativo: per il ministero della Pubblica Istruzione anzitutto che dovrebbe sormontare non poche resistenze a livello accademico, e per gli studenti. La necessità di una seria formazione medica può essere contestata. Ma, fermo restando che, allo stato attuale delle conoscenze, insistere a considerare la psichiatria una branca della medicina appare ridicolo, è fuor di dubbio che i rapporti tra soma, cervello e mente richiedono una profonda preparazione biologica. Si potrebbe contestare anche il carattere interdisciplinare della facoltà in riferimento al fatto che il suo ordinamento postula candidati dotati di una straordinaria versatilità. Ma la versatilità è richiesta dall’oggetto in questione, ed è ora che, nell’ambito psichiatrico, sia la scienza ad adattarsi al suo oggetto diversamente da quanto è accaduto dagli albori della Psichiatria ad oggi.

La facoltà sarebbe infine in linea con lo spirito della legge 180, e non da ultimo con il modello multidimensionale proposto dalla neopsichiatria. Essa però, anzichè limitarsi al flatus vocis, lo prenderebbe sul serio.