COLPA, FOLLIA, LIBERAZIONE


Introduzione alla lettura


L'articolo che segue è il testo di una conferenza tenuta nel 1982. Esso, che riassume molte delle riflessioni maturate nel corso di sette anni di lavoro in Ospedale Psichiatrico, contiene l'ipotesi sulla cui base si articolò, nei mesi successivi, il programma dei Seminari. Secondo tale ipotesi, la follia è comprensibile strutturalmente a livello psicologico - soggettivo e intersoggettivo - ma spiegabile, nella sua genesi, solo in virtù dell’inserimento dei tempi brevi delle esperienze individuali e familiari nei tempi lunghi della storia e, in particolare, dei fenomeni mentali collettivi inconsci che gli storici usano oggi definire col termine 'mentalità'. All'epoca, non essendo ancora pervenuto alla teoria dei bisogni intrinseci (che si definì nel corso della ricerca), riconducevo le polarità del conflitto a generiche istanze di liberazione e di controllo sociale. A posteriori l'impostazione appare piuttosto ingenua e fortemente influenzata dal pensiero antipsichiatrico

Riporto questo testo perché esso permette di capire quale sia stato l'avvio della ricerca e di valutare meglio il tragitto fatto e gli esiti cui essa è pervenuta


Conferenza

1. Così è se vi pare

2. Delirio privato, delirio culturale

3. L’universo della condanna

4. La crisi come rivoluzione privata

5. Le 'forme' della colpa

6. Soggettività, istituzioni, mentalità


1. Così è se vi pare

Quando l'ho conosciuta, la signora V. era un 'amabile e candida vecchina settantenne, quasi cieca, che viveva con estrema dignità in un silenzio quasi perpetuo. Profittando di un controllo farmacologico reso labile dalle precarie condizioni di salute, con una regolarità sconcertante, una volta l'anno, la signora V. faceva un breve viaggio delirante che esitava in un parto notturno perfettamente mimato. Un asciugamano annodato bastava a fingere il bambino, che veniva stretto al petto e cullato per qualche ora. Con le luci dell'alba il delirio si dissolveva e la signora V. tornava alla quieta vita di sempre.

Vedova di un uomo che non aveva potuto darle figli, con il delirio la signora V. rievocava un amore colpevole, forse tessuto solo di fantasia, che aveva sconvolto la sua vita mezzo secolo prima, destinandola al manicomio. Di lì, nonostante fosse stata dichiarata guarita, essa non aveva inteso più muoversi, per pagare la 'colpa'. La signora V. è volata in cielo col suo mistero - nessuno scoprirà mai se l’adulterio sia stato consumato - nel 1980, dodici anni dopo che la corte Costituzionale aveva invalidato la norma del codice penale che lo definiva un reato, e sanciva come pena - per le donne - la reclusione. Forse a lei non interessava molto del tribunale degli uomini: la sua fede, peraltro, così rigorosa, non le impedì comunque di partorire ancora una volta pochi mesi prima di morire. La signora V. ha scontato, dunque, per cinquanta anni, con una segregazione volontaria, una colpa, forse neppure commessa, senza per altro rinunciare, inconsciamente, a 'peccare'.

La storia, un po' retro', pone una serie di quesiti. L’adulterio è stato consumato o no? Cosa desiderava la signora V.: tradire il marito, o non piuttosto realizzare una maternità che quegli non poteva soddisfare? La sterilità del marito era a lui nota prima del matrimonio? E infine: è lecito moralmente ad un uomo tenere a sé vincolata una donna che desidera un bambino, che egli non può darle?

Ho scelto volutamente un 'caso' pirandelliano per avviare il discorso sulla colpa nella malattia mentale. Ciò che è certo è che, commesso o solo fantasticato l’adulterio, la signora V. si è punita con un rigore estremo in riferimento sia alla lettera della legge che allo spirito del Vangelo, e che, per quanto esemplare, questa punizione non l’ha posta al riparo da immaginarie 'ricadute', sicché la sua vita si è svolta nel duplice registro della colpa e dell’emendazione, in una sorta di circuito chiuso, insensibile al buon senso, all’assoluzione del confessore, alla riforma giuridica e al decadimento senile.

Cinquant’anni fa, allorché, forse, fu commessa la 'colpa' della signora V. configurava un reato per la giustizia, un peccato per la religione, un'ignominia per l'opinione pubblica. Occultandola con il delirio, e rendendola indecifrabile, la signora V. senza saperlo, si consegnava alla scienza, che si riteneva in grado di operare una sintesi di quelle diverse istanze. E’ noto, infatti, che, per secoli, religione, diritto e moralità pubblica hanno funzionato come strumenti di controllo dei comportamenti devianti, ma, spesso, in competizione tra loro.

La religione, infatti, concedeva il perdono a patto di un sincero pentimento; il diritto, la reintegrazione sociale, scontata che fosse la pena; la moralità pubblica, più inerte e rigida rispetto alle disquisizioni teologiche e giuridiche, spesso solo l’accettazione del ruolo di emarginato.

Con il manicomio, la psichiatria scopre l’uovo di Colombo: un deviante, posto che manifesti disturbi psicopatologici, può essere segregato come se fosse un criminale; tutelato per la sua 'pericolosità', resa innocua rispetto al corpo sociale; assoggettato ad un vero e proprio terrorismo psicofisico 'morale' con un obiettivo terapeutico, quello di indurlo a prendere 'coscienza di malattia', a riconoscere, cioè, di aver errato, di essersi abbandonato a fantasie, sentimenti, e comportamenti trasgressivi e colpevoli. Strutture mediche, carcerarie e correttive al tempo stesso, i manicomi hanno svolto ciecamente la loro funzione storica, di occultare, sotto il flatus vocis della malattia, la 'colpa' morale, giuridica e sociale.

La lotta antistituzionale ha avuto il merito di rimescolare le carte. Che i folli non siano malati, nel senso proprio, medico, del termine, né potenzialmente dei criminali, né, infine, moralmente degenerati, è ormai largamente condiviso. Si sa, dunque, che cosa essi non sono: ma - è inutile negarlo - nelle maglie della coscienza sociale si è aperto un vuoto che postula di essere colmato da un nuovo sapere. Cosa è la follia? Cosa essa esprime? Cosa significa nell’universo dei fatti umani?

C’è chi sostiene che i folli sono comunque - e ciò nonostante gli orrori della psichiatria tradizionali- 'malati': ma, come affermava il primo Laing, la psichiatria organista non può pretendere che si accetti come verità di ragione una verità che continua ad essere di fede.

C’è chi sostiene che essi sono solo il prodotto di una società alienante ed emarginante: questo postulato ideologico ha significato molto nella fase calda della lotta anticostituzionale, ma risulta povero quando si applica ad istituzioni non manicomiali - la famiglia, la scuola, l’ambiente di lavoro, ecc - perché esso postula mediazioni tra psicologico e sociale, individuale e collettivo, eventi e strutture che non sono affatto chiari.

C’è infine chi sostiene che la malattia mentale è l’espressione di disordini emotivi originari: questa ipotesi - psicologista - ha il difetto opposto rispetto a quella sociogenetica. Essa, infatti, che intende spiegare dei fatti psicologici con fatti dello stesso livello, rifiutando l’ancoraggio al reale e all’immaginario sociostorico, finisce nel gorgo di una spirale la cui origine affonda nelle buie viscere del ventre materno.

A mio avviso, c'è un'ulteriore ipotesi, sinora trascurata, che ha il vantaggio, fra l’altro, di essere verificabile. L’ipotesi è che la follia sia comprensibile strutturalmente a livello psicologico- soggettivo e intersoggettivo - ma spiegabile, nella sua genesi, solo in virtù dell’inserimento dei tempi brevi delle esperienze individuali e familiari nei tempi lunghi della storia e, in particolare, dei fenomeni mentali collettivi inconsci che gli storici usano oggi definire col termine 'mentalità'.

Prima di verificare questa ipotesi su di un materiale tratto da un esperienza comunitaria, tenterò di illustrarne la portata teorica, sottoponendo al suo vaglio uno dei lavori più famosi di Freud, il caso Schreber.

 

2. Delirio privato, delirio pubblico

Il delirio di Schreber., come è noto, si inaugura sotto la forma di delirio di colpa e di punizione: egli ritiene di essere destinato a morire (tenta anche il suicidio), anzi di essere già morto e putrefatto. Ciò nondimeno, si sente anche perseguitato, e rivolge accuse a varie persone, tra cui lo psichiatra, che appella 'assassino di anime'.

A partire da questo vissuto, che Freud riconduce nella sua genesi ad una colpa soggettiva, individuata in una fantasia omosessuale passiva rivolta alla figura del medico, sostitutiva di quella paterna, si edifica il delirio mistico in virtù del quale Schreber "ritiene di essere chiamato a redimere il mondo e a restituire ad esso la perduta beatitudine, a condizione però di trasformarsi da uomo in donna".

Accettando la castrazione come punizione, Schreber realizza la fantasia di una conjunctio col padre, pagandone però il giusto prezzo. L’interpretazione freudiana è, come sempre, persuasiva ma riduttiva: per elaborarla Freud ha utilizzato solo un materiale soggettivo e intersoggettivo inadeguato e fuorviante. Egli dà per scontato che il padre di Schreber, oltre che illustre, fosse un uomo adorabile, degno pertanto quant'altri di amore e di invidia, tanto da giustificare la fantasia omosessuale, che esprimerebbe il desiderio inconscio di Schreber di prendere dentro di sé e di far propria la sua potenza.

La verità ricostruita dai biografi è tutt'altra. Il padre di Schreber era un medico pedagogista, i cui trattati di educazione fisica per giovani, letti oggi, risultano, tra le righe, impregnati di asprezza e sadismo nei confronti di qualsiasi debolezza, ritenuta caratteristica intrinseca della natura infantile e di quella femminile. La logica che sottende gli esercizi del prof. Schreber è che solo con la mortificazione e le torture si può cavare dalla fragile 'materia prima' umana un uomo vero, secondo un modello schiettamente militarista. Il padre di Schreber, insomma, era affetto da un delirio di redenzione (che, en passant, ha intossicato la cultura tedesca sino all’esito, tragico, del nazismo). L’oggetto del delirio era la natura umana, intesa come la lega inquinata da elementi di debolezza, che, a qualunque costo, doveva essere purificata e forgiata fino a ricavarne un carattere d’acciaio.

In rapporto a questo 'delirio culturale', ampiamente approvato dall’opinione pubblica e facente leva sull’orgoglio nazionalista, il delirio privato di Schreber assume un significato nuovo: riconoscendo infatti di aver 'peccato' nell’identificarsi con un modello antropologico atrocemente maschilista, Schreber intuisce che la salvezza del mondo postula una castrazione, e cioè il recupero di quelle parti infantili e femminili perseguitate e sadizzate da quel modello.

Ciò non di meno, si tratta di un delirio, e dunque di una 'rivoluzione privata' destinata a ripiegare su una soluzione fittizia: idealizzando quel modello e trasformandolo da persecutore in adorabile, Schreber si assoggetta ad esso, godendo della sua debolezza. Il delirio di affrancarsi da una virilità distruttiva, dunque, anche per il contesto culturale in cui vive, non può realizzarsi in Schreber che sotto forma di colpa ed esitare, anziché in una liberazione, in un ulteriore umiliazione, apparentemente temperata dalla beatitudine mistica. Il paradosso per cui un’istanza di libertà si esaurisce nel mutare solo la forma della schiavitù è un accidente singolare o non piuttosto la struttura della stessa follia?

 

3. L’universo della condanna

In una comunità di ex degenti dell’O.P. residenti, come ‘ospiti’, in un padiglione aperto, si ha la prova che la follia, in sé e per sé, è una struttura dinamica chiusa: una condizione di radicale dipendenza paradossalmente rinforzata dalle istanze di liberazione che la sottendono, come se queste configurassero, per sempre, delle colpe soggettive, e quelle la condanna.

Claudia, ha trascorso gran parte della sua vita a fuggire da situazioni costrittive. E’ fuggita dalla famiglia originaria, sposandosi precocemente; dal vincolo matrimoniale, separandosi; dal ruolo di figlia separata che vive con i genitori, legandosi con un uomo sposato; dal ruolo di madre, abbandonando un figlio da questi avuto. Approdata al manicomio, la fuga si è perpetuata in un inarrestabile andirivieni; ricoverata, Claudia fugge dall’ospedale; stando fuori e sentendosi in colpa per le relazioni che intrattiene, rifugiandosi in manicomio. La comunità aperta non offre più alibi alle fughe e l’età matura rende improbabili nuove avventure. La smania di libertà, ancora urgente, ma oramai non più agibile, se non al prezzo di un’infinita solitudine, si confina negli arti inferiori sotto forma d’una patetica sindrome: la sindrome delle gambe ansiose. Claudia la smaltisce percorrendo, per ore, avanti e indietro, il breve spazio della camera come una leonessa in gabbia.

Luisella, insegue da sempre il sogno dell’autonomia. Anch’essa si è sposata precocemente, e precocemente si è separata. Ha tentato più volte in passato di affrancarsi dalla famiglia, andando a vivere in pensione; dopo un periodo più o meno lungo, repentine crisi d’astenia e di depressione l’allettavano riconducendola, bisognosa, alle cure dei genitori, delle cliniche, dell’ospedale psichiatrico. Nella comunità, Luisella conduce una vita apparentemente autonoma, ma soffre di violente vertigini, che insorgono ogni qualvolta tenta di uscire da sola. In virtù di ciò accetta, facendo finta di subirla, la compagnia di un ricoverato più anziano che la segue ovunque, spesso a distanza, come un fedele cagnolino, pronto, al minimo cenno di sbandamento, ad offrirle il sostegno del braccio.

Giovane, colto, benestante, Duilio ha molteplici interessi: dipinge, legge, scrive. Non gli manca nulla, apparentemente, per vivere fuori dall’ospedale. Ma la libertà di Duilio è condizionata, perché, quando egli si avventura nella città, è preda di intensi vissuti persecutori: gli 'altri' gli appaiono come giganti minacciosi, ed egli si sente inerme ed in loro balia. Tremante, torna al padiglione, e, non appena ne varca la soglia, l'angoscia si attenua fin quasi a scomparire.

Vito, un giovane studente di pedagogia, che rifiuta di riconoscersi malato e manifesta un'avversione radicale nei confronti di psicofarmaci, psichiatri, psicologi, vive da alcuni mesi letteralmente murato vivo nella sua camera. Ne esce solo per consumare pasti fuori orario, quando è certo di non incontrare quasi nessuno. Si vergogna della sua immagine e teme che tutti gli rinfaccino una debolezza e una viltà contro le quali lotta, con tutte le sue energie, quotidianamente.

Chi non ricorda l’angelo sterminatore di Bunuel? Nel vivo dell’esperienza comunitaria la metafora bunueliana si incarna, e impone di decifrare il problema di una maledizione sospesa su di una porta aperta. Si tratta - è ovvio - di un varco simbolico, che divide, con un taglio netto, l'aldiquà di una frustrante dipendenza dall'aldilà di una libertà paurosa. Per taluni, il confine fisico è invalicabile anche realmente, per altri è invalicabile psicologicamente. E’ dunque un confine interiore: chi tenta di forzarlo, in virtù di un acting-out o di una crisi, ricade nel dominio della sanzione punitiva.

 

4. La crisi come rivoluzione privata

Nella comunità, l’intuizione dell’antipsichiatria inglese –secondo la quale ogni 'crisi' è un tentativo di uscire fuori da una situazione invivibile, e, dunque, un tentativo di guarigione - assume un’evidenza clamorosa e si conferma. Ma se ne conferma anche la parzialità: lasciare che una crisi segua il suo corso significa assistere ad una lotta di liberazione il cui esito è scontato, perché, nonostante la fenomenologia ribelle trasgressiva ed anarchica della crisi, l’istanza paradossale, che prima o poi affiora, è quella di una repressione, di un contenimento esterno atto a restaurare l’equilibrio precedente, l’ipercontrollo interno, e, se possibile, a rafforzarlo. All’apparenza, insomma, sembra che il folle, quando si ribella alla schiavitù della dipendenza, infrange le catene che gli impediscono di sentirsi libero per denunciare, a se stesso e agli altri, il pericolo della sua libertà.

Pina, vive nel perenne tormento di ossessioni religiose che la inducono a punirsi di colpe reali ed immaginarie. Si innamora di Duilio ma oppone un’accanita resistenza a tutti i tentativi di approccio erotico che questi esercita. Vinta, infine, dalla paura di perderlo, cede. Ma ciò avviene nel giorno meno propizio: di Venerdì Santo. Pina ne prende coscienza solo dopo, ma ormai il 'sacrilegio' è consumato e incomberà per mesi, come una nuvola minacciosa, sulla sua anima, imponendole pratiche di purificazione che comportano l’astensione da ogni tipo di piacere, compreso il più banale: il fumo di una sigaretta

Caterina, una donna di quarant’anni, separata dal marito, madre di due figli, vive trincerata in un suo ruolo dignitoso e severo, nobilitato da elevati interessi intellettuali. Quando viene a sapere, casualmente, che il marito 'se la spassa' con un amante, ha una reazione violenta di gelosia e, per vendicarsi, si concede ad un giovane.

Cade, dapprima, in un delirio di colpa, poi, repentinamente, reagisce con un eccitamento lucido e rabbioso che ratifica e razionalizza le trasgressioni comportamentali che essa pone in atto per mesi. Al culmine dell’eccitamento provoca un ricoverato e riesce a farsi picchiare selvaggiamente. In virtù di quest'episodio è possibile concludere un assiduo lavoro di analisi e restituirle la sua rabbia come un tentativo anarchico, e colpevolizzato, di affrancarsi dalla feroce dittatura interiore su cui si fonda la sua normalità. Caterina comprende, accetta le cure farmacologiche che ha reiteratamente rifiutate e recupera un equilibrio da cui essa sa, ormai, che dovrà liberarsi per altre vie.

Giuseppe, che da sempre ha ricoperto nella comunità e nella vita il ruolo di perenne bambino, da qualche mese minaccia di andare in crisi. Da remissivo che era diventa arrogante, provocatore, prepotente. Dice di voler diventare un vero uomo, ma le sue minacce verbali, che fantasmatizzano teste spaccate e corpi smembrati, testimoniano la sua identificazione con un modello adulto, violento e soprafattore. Il desiderio di crescere di Giuseppe, insomma, si proietta nel vicolo cieco di un comportamento colpevole che egli non riesce ad agire perché teme l’esclusione dalla comunità. Cionondimeno, continua a minacciare, scongiurandoci, qualora si dovesse realmente comportare 'male', di non cacciarlo.

In tutte e tre le esperienze, la contraddizione tra istanze di liberazione e istanze di controllo, è clamorosa e ci affranca, se ancora ce ne fosse bisogno, dall’attribuire alla 'crisi' un significato ingenuamente rivoluzionario. Si tratta, formalmente, di rivoluzioni, di tentativi, cioè, di sovvertire un ordine soggettivo mortificante, ma di rivoluzioni private che contrappongono bisogni individuali e istanze di controllo sociali interiorizzate, col solo risultato di mettere in luce la forza formidabile di queste. Per quanto significative, infatti, le istanze di liberazione, che denunciano un arresto dello sviluppo soggettivo, non possono essere vissute intrapsichicamente che sul registro della colpa. E’ questa che impedisce loro di esprimersi in termini di crescita e le forza a tradursi in comportamenti soggettivamente e/o oggettivamente sanzionabili. Sicché, in ultima analisi, la follia sembra configurare una condizione drammatica a circuito chiuso, tale che l'ipercontrollo interno, che assicura un apparente normalità, alimenta il desiderio di liberazione, e questo, che può esprimersi solo sotto forma di ribellione colpevole, mira a restaurare l’equilibrio perduto.

Perciò, qualunque prassi teorica terapeutica deve confrontarsi col problema della liberazione e della colpa, e, per dare ordine al discorso, specificherò: di una liberazione mancata, e di una colpa che la ratifica, attribuendone la responsabilità al soggetto.

 

5. Le "forme" della colpa

Cogliere nella follia il dramma di una vicenda umana che può svolgersi, spontaneamente, solo sui registri - intrapsichici e/o comportamentali - di una normalità coatta o di una trasgressione colpevole significa definire una struttura non dialettica, e cioè capace, nonostante la conflittualità che la sottende, di mantenersi indefinitamente in equilibrio, senza evolvere, parassitando la vita del soggetto. Questa struttura, singolare per la sua inerzia, pone due problemi.

Il primo concerne, appunto, la non evolutività spontanea della struttura: quale è il fattore che cristallizza il conflitto e chiude la polarità in un circuito che si autoalimenta? Sappiamo già che questo fattore è la colpa soggettiva, che incombe sulle istanze di liberazione, contenendole e, quando queste si esprimono, punendole. Non è improprio definire questo regime intrapsichico una feroce dittatura interiore. Ma, in ultima analisi, è l'anarchia dei desideri incontrollabili a postularla, o non piuttosto essa, con la sua rigidità, a scatenare la ribellione? La psicoanalisi, che si è edificata su questo problema, ne fornisce una soluzione apparentemente neutrale, individuando nel senso di colpa e cioè nella criminalizzazione dei desideri vissuti come realizzati, il fattore che sblocca l’integrazione da parte dell’Io delle istanze pulsionali e di quelle etico-sociali. E’ superfluo sottolineare che, a questo riguardo, la psicoanalisi svela la sua matrice ideologica riconducibile ad una concezione sostanzialmente pessimistica della natura umana. La 'materia prima' psichica non è di certo una tabula rasa, la sua struttura biopsicologica originaria è complessa e disordinata: ma, da un punto di vista scientifico, si tratta pur sempre di un prodotto dell'evoluzione, e quindi di un prodotto che ha un significato funzionale. La demonizzazione freudiana dell'Es, che viene descritto come un caotico serbatoio di impulsi feroci e passionali, sempre incombente, quali che siano gli effetti della civilizzazione, sui destini umani, è null'altro che mediocre filosofia. Da un punto di vista scientifico, il disordine originario della 'materia prima' psichica non può avere altro significato che quello di costringere, in virtù di una necessità naturale, la cultura ad edificarsi e, in particolare, ad impegnarsi, a partire dalle istituzioni pedagogiche, in un lungo e paziente lavoro di liberazione dai 'pericoli' interni non meno che dalla dipendenza che questi impongono. Con ciò giungiamo al cuore dell'altro problema, che affronta la genesi della struttura: lo scacco dalla liberazione individuale, che è l’essenza della follia, è causa o effetto della colpa? In altri termini: il folle diventa tale perché si ribella colpevolmente, o si ribella perché si sente condannato a dipendere indefinitamente?

Rousseau affermava che l’uomo nasce libero, e la società lo riduce in catene. Oggi noi sappiamo che la premessa è erronea: l'uomo nasce infinitamente dipendente, letteralmente in catene, vittima innocente e indifesa - come dice Szaz - delle passioni interne e delle costrizioni esterne, ed è la società, con tutte le sue istituzioni, a partire naturalmente da quelle pedagogiche, a doverlo aiutare a liberarsi. Se ciò non avviene, egli rimane incastrato in una condizione di dipendenza non evolutiva, e, prima o poi, manifesta un disagio psichico. E’ un arresto dello sviluppo, o, in termini analitici, una fissazione, la causa ultima del disagio. Riguardo a questo problema, Freud ha colto precocemente una verità dalla quale si è progressivamente allontanato: la teoria della seduzione infantile attribuiva la fissazione a traumi ambientali, ma, successivamente, Freud ha valorizzato dinamiche intrapsichiche (per es. la paura del nuovo) ed è giunto infine ad ipotizzare fattori costituzionali (una presunta 'viscosità' lipidica).

La mia opinione è che l'arresto dello sviluppo possa essere sempre ricondotto ad una colpa soggettiva, drammaticamente elaborata, che l'individuo è costretto a commettere da circostanze intersoggettive e ambientali che oppongono alle sue esigenze di crescita ostacoli insormontabili. Più precisamente, si può dire che la colpa soggettiva assume sempre la forma di una vendetta, sia essa una rivendicazione, un'esigenza di giustizia secondo la legge del taglione, una minaccia anarchica. La rivendicazione si realizza quando il bambino si ribella ad una situazione carenziale o deprivativa sotto il profilo affettivo; la vendetta secondo la legge del taglione quando egli è indotto a troncare precocemente i legami affettivi perché si sente tradito; la minaccia anarchica quando subisce, senza accettare, l’imposizione di un modello di crescita che risulta frustrante rispetto ai suoi bisogni.

In tutti e tre i casi, il bambino, vivendo la vendetta come una colpa soggettiva, si condanna a non crescere e si cristallizza in una sorta di manierismo psicologico che lo obbliga ad una interminabile dipendenza, cioè alla schiavitù.

Esemplificherò le tre situazioni con materiale ricavato dall’esperienza comunitaria e dal set terapeutico privato.

A nove anni, in seguito alla morte del padre, Luigi, che è il terzo di sei figli, viene internato in collegio, a 500 km da casa. La scelta, effettuata da uno zio sacerdote, ricade su di lui per meriti scolastici: è il più dotato intellettualmente, il più studioso, e, pertanto su di lui si puntano le speranze di 'buona riuscita' sociale, che riscatti la famiglia dalla miseria. Al momento della separazione, Luigi prova un violento 'strappo' nelle viscere, e, per alcune settimane, accusa difficoltà a digerire. Poi si adatta alla nuova situazione. Le aspettative familiari vanno però deluse: la carriera scolastica di Luigi è mediocre e stentata. Uscito dal collegio, va a vivere in una grande città e si adatta ad un modesto lavoro di pulizie. A venticinque anni, comincia a soffrire di violente coliche addominali sine materia, nell’intervallo tra le quali vive nel terrore che esse possano ripetersi: la paura lo costringe ad organizzare la sua vita in maniera tale da non allontanarsi mai più di due o tre km da un ospedale; e da non trovarsi mai in situazioni che gli impediscano di raggiungere il pronto soccorso in pochi minuti. Nonostante l’apparente autonomia - riesce infatti a vivere da solo - Luigi è schiavo di una parte di sé che rivendica 'cure' e si oppone con l’angoscia ad ogni situazione di separazione da chi può erogarle.

A sette anni Duilio è internato in collegio. I suoi, nonostante la modesta condizione sociale, desiderano che divenga un 'signorino'; sono convinti di non essere in grado di educarlo adeguatamente e, vivendo in un paese, temono che egli, continuando a frequentare i ‘ragazzacci’ - i bambini del paese sono dediti al gioco all’aria aperta, alle bande, alle monellerie - possa fuorviarsi. Duilio non è in grado di comprendere queste preoccupazioni e attribuisce l'internamento al disamore dei suoi. Fin dal primo giorno di collegio giura in cuor suo che si vendicherà di loro e li farà soffrire. Dopo trent’anni, Duilio, la cui cultura, la cui personalità e il cui comportamento risultano pienamente rispondenti al modello del 'signorino borghese', vive in una comunità dalla quale non può separarsi se non al prezzo di terrificanti angosce persecutorie. Egli è dunque schiavo di una fantasia vendicativa che la dipendenza da un istituzione, cui attribuisce significati parafamiliari, serve a punire. Punendosi, Duilio consegue anche l’effetto di far soffrire i suoi, i quali sono sconvolti per il fatto che un figlio educato, colto, intelligente e pieno di capacità debba finire la sua vita in 'manicomio'.

Mario nasce in una famiglia di intellettuali, tutti preda del mito di un’astratta autonomia, con un carattere molto dipendente - un mammone - e al tempo stesso esuberante fisicamente, irrequieto e ribelle. Viene assoggettato ad un’educazione apparentemente molto tollerante, ma di fatto severa e stigmatizzante, che mira a frustrare i suoi bisogni di dipendenza - ridicolizzandoli - e a contenere la sua esuberanza fisica, per piegarlo alla cultura e alle tradizioni familiari. Per paura, Mario, subisce, ma, nella fantasia aspetta di diventare grande e di sentirsi affrancato dalla dipendenza per 'scatenarsi'. Questa fantasia di scatenamento, associata alla crescita, si traduce nella duplice paura di diventare un criminale e di impazzire. Non appena diventa adolescente, Mario inizia a soffrire di terrificanti angosce di morte che lo paralizzano in casa, inducono una regressione infantile e vanificano il desiderio di vivere senza freno.

Sul piano intrapsichico, dunque, la vendetta, qualunque forma essa assuma, è vissuta come una colpa soggettiva e determina un arresto dello sviluppo. Ma gli esempi provano, con evidenza, che l’individuo è indotto a vendicarsi da circostanze che comportano responsabilità oggettive. Adottando un linguaggio giuridico si direbbe che il 'reato', psicologico è commesso su istigazione. Il problema delle responsabilità oggettive investe la famiglia, ma è ingenuo ritenere che il sistema familiare sia un sistema chiuso, necessario e sufficiente a spiegare il disagio che esso produce. Nei casi riportati - esemplari, non eccezionali - le responsabilità vanno ricondotte a 'quadri mentali' che le famiglie veicolano. Nel primo caso, c’è la concezione del figlio come 'capitale' da sfruttare per il bene supremo della condizione socio-economica della famiglia; nel secondo, il desiderio di dare al figlio un educazione superiore, di farlo diventare un 'signorino'; nel terzo, la paura di un traviamento rispetto ad una tradizione intellettuale che oserei definire illuministica.

Il discorso può essere ulteriormente elaborato: si può ammettere, infatti, che nei rapporti interpersonali familiari, così come in ogni gruppo, quei ‘quadri’ funzionino come alibi ideologici atti a coprire e razionalizzare vissuti soggettivi inconfessabili. Ma ciò che è certo è che essi non sono prodotti dalle famiglie che li adottato: preesistono tra le pieghe inconsce della cultura e configurano quei 'recinti mentali' di cui parla Braudel , all’interno dei quali, per periodi la cui durata è definita dalla dialettica tra istanze di conservazione e istanze di cambiamento, si elaborano, come variazioni su tema, le esperienze soggettive, intersoggettive e di gruppo. Lo studio di questi 'recinti' che, nel loro complesso, integrano quella che gli storici francesi definiscono una 'mentalità', e cioè un sistema di valori trasmessi inconsapevolmente da una generazione ad un'altra, è destinato a radicare la scienza della soggettività nel terreno delle scienze storiche.

 

6. Soggettività, istituzioni, mentalità

Se la 'mentalità', intesa come inconscio sociale storico, può e deve divenire oggetto di studio privilegiato per una scienza del disagio psichico, occorre mettere a punto una metodologia di ricerca, e, anzitutto, definire gli agenti che la veicolano. Non si va lontano dal vero asserendo che tali agenti sono identificabili nelle istituzioni pedagogiche.

Per esemplificare l’importanza di integrare lo studio delle vicissitudini soggettive con l’analisi delle 'mentalità' che sottendono tali istituzioni, mi avvarrò di un materiale ricavato da una ricerca svolta nella comunità degli ospiti, che concerne il gruppo di coloro che hanno avuto esperienze di internamento in collegio.

La ricerca si articola su quattro punti:

1. individuazione delle cause di internamento

2. ricostruzione delle carriere istituzionali dei soggetti

3. analisi della 'mentalità' che sottende l’istituzione-collegio,

4. formalizzazione delle conseguenze psicologiche dell’internamento.

I risultati della ricerca sono sintetizzati nelle tavole allegate.

(Le tavole in questione sono andate perdute. Ciononostante, il discorso che segue appare comprensibile)

Il rilievo storico della ricerca sta nel suo oggetto: affidando un materiale umano ancora poco strutturato, eppure già profondamente segnato da esperienze negative, ad una istituzione il cui fine è di sostituire la famiglia nei compiti educativi, si realizza una convergenza, quasi sperimentale, tra individuale e collettivo. Il vantaggio, rispetto alla situazione normale familiare, è dato dal fatto che il collettivo qui si esprime in virtù di tradizioni culturali che trascendono gli agenti educativi - gli istitutori -, e dell’impegno a qualunque prezzo, e quindi anche a prezzo di una mortificazione affettiva del rapporto educativo, nel raggiungimento degli scopi istituzionali. Naturalmente, questi scopi non coincidono con quelli espliciti -assistenza ed educazione dell’infanzia - ma vanno ricostruiti sulla base di indizi forniti dall’organizzazione interna e dal funzionamento dell’istituzione. Tali indizi permettono di definire una 'mentalità' caratterizzata da una concezione sostanzialmente negativa della 'natura umana', tale, che l’educatore non può mirare che ad una normalizzazione forzata la cui severità che giunge, talora, al sadismo, viene ad essere giustificata dalla irriducibile resistenza, che, per l’appunto, oppone una natura in se e per se selvaggia e anarchica alla civilizzazione. Prima ancora di aver commesso una qualunque colpa, il bambino, per essere tale, è colpevole: e da questa condizione di colpa 'naturale' può riscattarsi nella misura in cui accetta mortificazioni e costrizioni sociali.

Individuata questa 'mentalità' che permette di comprendere, non di giustificare la crudeltà del collegio, si pone il problema di ricostruirne la genesi, ma questo problema è di stretta competenza dello storico. A me interessa piuttosto soffermarmi sul rapporto tra la 'mentalità' del collegio e le conseguenze psicologiche dell’internameto. E’ fuori dubbio che se la separazione dalla famiglia e l’inserimento in un ambiente estraneo esasperano nei bambini i vissuti persecutori, anziché farsi carico di questi problemi, il collegio, colpevolizzando e punendo, li usa, orientandoli verso l’interiorizzazione. Ciò non significa, ovviamente, che l’internamento in collegio produce fatalmente dei disagiati; è certo però che la 'mentalità' che ne sottende il funzionamento, fondata sulla concezione della natura umana come una malapianta da raddrizzare al fine di produrre i frutti della normalità, borghese o cattolica, oppone allo sviluppo individuale degli ostacoli spesso insormontabili.

In maniera molto più manifesta rispetto alle altre istituzioni pedagogiche, e anzitutto alla famiglia, nell’ambito della quale i rapporti interpersonali ed affettivi spesso mascherano i valori sociali che si trasmettono, il collegio risulta una vera e propria 'fabbrica' antropologica. Per quanto questa definizione possa suonare un po’ fastidiosa, essa serve a mettere a fuoco un dato di fatto costantemente rimosso dall’ideologia delle istituzioni pedagogiche: la psiche è una 'materia prima' che, quale che sia la struttura biopsicologica originaria, va 'elaborata' per ricavarne un prodotto, la normalità, assunta come indice di buona salute mentale. Come ogni prodotto, la salute mentale è un bene che serve a soddisfare bisogni individuali e collettivi, ma questi bisogni, non riconoscendo una corrispondenza univoca, possono congiungersi o disgiungersi, secondo una gamma di possibilità che, secondo una terminologia di Fromm , spazia dalla salute antropologica, intesa come benessere degli individui, alla salute sociale intesa come normalità e cioè conservazione dello status quo.

Perciò il discorso sul disagio psichico si articola necessariamente con l’analisi del modo di produzione antropologica propria di ogni sistema e postula che la coscienza sociale si interroghi su di esso, su ciò che antropologicamente produce e su come lo produce. Fatta eccezione, infatti, per la materia prima psichica il cui corredo è affidato al gioco genetico, e per la condizione naturale di assoluta dipendenza del bambino che non potrà mai essere riscattato da nessun momento di liberazione, tutto il resto -organizzazione e funzionamento delle istituzioni pedagogiche, tecniche di 'lavorazione', obiettivi e fini a cui tende la produzione antropologica - è storicamente determinato. Ciò non significa ch’esso sia riducibile all’ambito della sovrastruttura. Una nuova scienza del disagio psichico postula, ed è destinata a confortare, una concezione dell’organizzazione sociale biunivoca, articolata, cioè, da due strutture perpetuamente interagenti tra di loro: le strutture socioeconomiche e le strutture mentali. Ancorato sterilmente al concetto dell’ideologia come sovrastruttura, il discorso su quest’ultima si è ravviato, rinnovandosi, da alcuni decenni, dacché esse sono divenute oggetto privilegiato delle scienze storiche. La difficoltà insormontabile di spiegare le dinamiche storiche - le inerzie, le rotture - tenendo conto solo delle strutture materiali ha prodotto un interesse vivace per i fenomeni mentali collettivi inconsci, per quei 'quadri', o 'schemi', o 'recinti' mentali caratteristici di un epoca che, ormai, vanno sotto il nome di 'mentalità'. Collocandosi sul punto di congiunzione dell’individuale e del collettivo, dello strutturale e del congiunturale, del tempo lungo e del quotidiano, del centrale e del marginale, lo studio della mentalità offre oggi agli storici, che lavorano con i documenti, e agli studiosi del disagio psichico, che lavorano con testimonianze incarnate, la possibilità di colmare lo scarto che tuttora esiste tra scienze storiche e scienze psicologiche.

E’ lecito chiedersi se quest’approccio metodologico, che fa di ogni esperienza psicopatologica un oggetto di indagine microstorica, e pertanto preziosa, possa evitare di tradursi in un ennesimo esercizio di raffinata cultura della follia. Il discorso articolato in questo saggio mira a scongiurare questo pericolo.

Se la struttura della follia è chiusa e resa non dialettica dalla colpa soggettiva, la sua genesi ultima è da ricondurre ad un codice morale introiettato in maniera mortificante. Ciò non sorprende, dato che l’intervento delle istituzioni pedagogiche sulla 'materia prima' psichiatrica è volto, essenzialmente, ad improntare in essa un sistema di valori che accordi i desideri del soggetto con le istanze della convivenza sociale. Quando questa impresa fallisce si genera il disagio psichico.

Se si assume, come fa la psicoanalisi, il codice morale come legge universale che subordina l’accesso al sociale al controllo delle pulsioni e alla rinuncia alla loro soddisfazione, non può discenderne che una sorta di refrattarietà - biologica o psicologica - dei folli all'educazione. Se, invece, si assume il codice morale come oggetto storico, facente parte della 'mentalità', il discorso sulla follia può divenire scientifico: ché si tratta, di esperienza in esperienza, di contesto in contesto, di ricostruire la struttura, i contenuti, ciò che esso, di fatto, vieta o autorizza, prescrive o proscrive, impone o incentiva, stigmatizza o valorizza. Da questo punto di vista , la forma del codice, il cui fine è la civilizzazione, può risultare ideologica rispetto ai contenuti, la cui funzione normativa o normalizzante può avere significati politici piuttosto che etici: l’indizio di questa strumentalizzazione, peraltro formidabilmente potente, del codice morale sarebbe rappresentato dal danno che i folli ricavano dalla sua introiezione.

Altre considerazioni impongono di valutare attentamente questa ipotesi. Un codice morale è un sistema di valori condiviso socialmente: è, dunque, una struttura mentale collettiva. Ma come si produce, dove è depositato, chi lo custodisce, come esso cambia? La natura inconscia è attestata inconfutabilmente dalle difficoltà di rispondere a questi quesiti. Nessuno sembra produrlo, eppure esso sottende ogni organizzazione sociale. Fatta eccezione per le società ierocratiche, non è mai scritto, bensì depositato nella tradizione e veicolato di generazione in generazione sotto forma di cultura orale. Nessun individuo potrebbe definirlo in maniera coerente: pure esso funziona all’interno di ogni esperienza soggettiva. A differenza del codice legale, che regola e sanziona i comportamenti, esso è totalizzante, poiché controlla questi non meno che i pensieri, le emozioni, le fantasie. Non è immutabile, come attestano i cambiamenti dei costumi, ma nessuno apparentemente decide come e quando esso debba mutare. Oltre ad essere inconscio, dunque, il codice morale rappresenta, nel campo della 'mentalità' una struttura misteriosa. Pure, esso è la trama su cui si giocano le esperienze soggettive, talora perdendovisi.

In uno dei momenti in cui ha sfiorato la verità, senza approfondirla, Freud ha scritto che la causa di ogni disagio psichico è da individuare nel sadismo e nella crudeltà del Super-Io e che la cura ha come fine di allentare questa morsa feroce che schiavizza l’individuo. Questa intuizione va ripresa, storicizzata e resa operativa. Sadismo e crudeltà sono termini moralistici: sotto un profilo storico, essi denunciano la sopraffazione che un sistema di valori tradizionali attua nei confronti di una soggettività che li subisce senza farli propri. Questa violenza, che si esercita a livello intrapsichico, ed è veicolata dalle istituzioni pedagogiche, va ricondotta alla sua matrice: il codice morale, e i significati politici cui esso viene piegato all’interno di un sistema sociale.

Lavorare per allentare la severità con cui esso schiavizza i folli è un compito imprescindibile. Ma ciò significa anche assumerlo costantemente come oggetto di ricerca di psicologia storica: decifrarlo pertanto,e denunciarlo.

Per questa via, la psichiatria può continuare ad essere una prassi impegnata sull’hic et nunc degli eventi psicopatologici senza rinunciare a porsi come scienza: scienza microstorica, che, in virtù delle prove inconfutabili che produce, alimenta la necessità di un cambiamento del modo di produzione antropologica. Una scienza politica, infine: altro da qualsivoglia tecnica.

 

Roma, febbraio 1982