Ronald David Laing

L'IO DIVISO

Einaudi, Torino 1969

Scritto quando l'autore aveva poco più di trent'anni, pubblicato nel 1959 e tradotto in italiano nel 1969, L'io diviso rappresentò un sasso lanciato nello stagno della mediocre psichiatria dell'epoca, pervicacemente vincolata al paradigma kraepeliniano della schizofrenia come malattia organica. Non per caso esso divenne uno dei punti di riferimento dell'antipsichiatria e del movimento di contestazione giovanile nato nel '68.

Spiegare il successo incredibile di un libro affascinante ma "tecnico" e scritto con un linguaggio, almeno a tratti, filosofico, non è difficile. Nel '67 era già stata pubblicata, di Laing, La politica dell'esperienza che, denunciando esplicitamente lo svuotamento di senso della vita e l'anestesia emozionale e affettiva imposta dalla società borghese, attaccava il mito della normalità e qualificava ogni forma di protesta contro di essa, compresa la sofferenza mentale, come un indizio di una vocazione potenziale ad una vita fatta a misura d'uomo.

Il tema centrale di un io diviso perché in conflitto col mondo, il cui nucleo più autentico - l'io vero - deve rifuggire dal contatto con la realtà e ripiegarsi su se stesso, difendendosi in virtù dell'adozione di una maschera - il falso io - funzionale alle richieste della vita sociale, ma svuotata di emozionalità partecipativa, corrispondeva all'epoca ad un vissuto molto diffuso a livello giovanile. Nella temperie del '68, il libro, orecchiato da molti più che letto, venne interpretato collettivamente come una denuncia, sub specie psicologica, dell'alienazione e della falsificazione imposta dalla cultura borghese.

A posteriori, riesce chiaro che, se La politica dell'esperienza è un manifesto ideologico e filosofico, di stampo esistenzialista più che politico, contro l'inautenticità della vita quotidiana che si realizza inesorabilmente in una società che privilegia l'essere rispetto all'avere, L'io diviso è di fatto un libro tecnico che affronta, in un'ottica fenomenologica e esistenzialista, il problema della psicosi schizofrenica, che Laing ritiene possa essere compresa, come qualunque altro modo di essere al mondo di un soggetto umano. Rileggerlo oggi, in un'atmosfera culturale profondamente cambiata, impone di capire che cosa di esso rimane vivo.

Viva e da rivitalizzare, indubbiamente, è la critica nei confronti della psichiatria tradizionale e di ogni psichiatria che fa dell'uomo un oggetto o estrapola dalla sua viva esperienza la malattia come oggetto, vale a dire come espressione di un processo morboso che egli alberga e che va curato. Questa critica ne L'io diviso è radicale, ma il fatto che essa sia stata etichettata come antipsichiatrica tout-court (vale a dire come una negazione dell'esistenza di fenomeni psicopatologici) non corrisponde alla verità né alle intenzioni dell'autore. Primo, perché l'etichetta presume che non possa esistere che una psichiatria, quella tradizionale che, attraverso un accurato lifting, si ripropone oggi come neopsichiatria. Secondo, perché implica che ogni tentativo di comprendere i fenomeni psicopatologici prescindendo dalla nozione di malattia equivalga a negarli. Che le cose non stiano così si ricava dalla prefazione scritta da Laing in occasione della seconda edizione:

"La psichiatria può mettersi dalla parte della trascendenza, della libertà vera, del genuino sviluppo umano: alcuni psichiatri sono già di fatto da questa parte. Ma è estremamente facile per la psichiatria ridursi ad essere una tecnica di lavaggio del cervello: un metodo per produrre, mediante torture preferibilmente non dolorose, degli esseri dalla condotta ben adattata. Nei luoghi di cura migliori, dove la camicia di forza è stata abolita, dove le porte sono senza chiavistelli, dove le leucootomie non si fanno quasi più, si usano tuttavia mezzi di aspetto più innocuo, lobotomie e tranquillanti che ri-istituiscono, questa volta dentro il paziente, le sbarre e i catenacci del manicomio" (p. 16)

Laing distingue dunque due psichiatrie: una che, nella sua accanita lotta contro la malattia, finisce col porsi contro l'uomo, oggettivandolo e squalificandone l'esperienza, l'altra che sta dalla parte dell'uomo e del suo bisogno di senso e di pienezza dell'essere che, per una somma di variabili riconducibili all'interazione con l'ambiente familiare e socio-culturale, può finire nel vicolo cieco della "follia". Stare dalla parte dell'uomo non implica, in Laing una motivazione umanitaristica, bensì semplicemente, da parte di chi cura, la consapevolezza che egli sarebbe potuto essere dall'altra parte e, in qualche misura, lo è.

Ciò non significa, però, rinunciare ad agire il proprio ruolo sociale e le responsabilità che esso comporta. Scrive Laing:

"Quando dichiaro che un certo paziente è malato di mente, che può essere pericoloso a sé e agli altri, e che ha bisogno di ricovero in ospedale, non intendo equivocare sulle cose che scrivo. Al tempo stesso, però, sono anche cocviente del fatto che a mio avviso vi sono in giro altre persone, considerate sane, la cui mente è altrettanto gravemente ammalata; che possono essere altrettanto pericolose - o anche di più - a sé e agli altri, e che invece la società non considera psicotici da rinchiudere in manicomio." (p. 33)

All'epoca di Laing, come oggi, essere antipsichiatra non porta a negare le evidenze psicopatologiche - che peraltro sarebbe assurdo laddove sono in gioco dei deliri -, bensì solo a contestare che i fatti psicopatologici non rappresentino altro che l'espressione di una malattia del cervello e, ancor più decisamente, che si dia un salto qualitativo tra la normalità e la follia. Il prefisso non riguarda, dunque, la realtà della sofferenza psicopatologica, ma solo il modo in cui essa viene affrontata dalla sedicente scienza psichiatrica in nome della delega, che essa recepisce e su cui specula, di porre la normalità al riparo da qualunque critica.

Contestare la reificazione della normalità, vale a dire la sua sacralizzazione come indizio di buona salute mentale e di piena realizzazione delle potenzialità umane, non significa negare il fatto che ogni società, per i suoi bisogni di coesione e di riproduzione, ha bisogno di promuovere un adattamento che faccia confluire la diversità umana verso un modello comportamentale medio, né affermare univocamente che chiunque si adatta e consegue uno status di normalità sia un essere mediocre. Posta l'esigenza dell'adattamento, il problema sta nel capire se e in quale misura il modello di riferimento proposto dalla società realizza le potenzialità e i bisogni umani. Non è uno sterile pregiudizio ideologico ritenere, alla luce delle scienze umane e sociali, che il modello borghese, che pure ha i suoi valori, mortifica in misura rilevante quelle potenzialità e quei bisogni, inducendo spesso la realizzazione di una personalità mistificata.

Sempre nella prefazione, Laing scrive:"…voglio ripetere che il nostro stato "normale" e "ben adattato" non è, molto spesso, che… un tradimento delle nostre più vere potenzialità; e che molti di noi riescono fin troppo bene a costruirsi un falso io, per adattarsi a false realtà."

La critica della psichiatria tradizionale, sviluppata da Laing nei primi capitoli del libro, verte proprio sul fatto che essa, assumendo come metro di riferimento una normalità che, nel nostro come in ogni contesto sociale, andrebbe sempre nello stesso tempo rispettata e criticata, finisce col misurare con esso esperienze la cui specificità, almeno sul piano dell'evidenza, è uno scacco adattivo e, in conseguenza di ciò, col pregiudicarle e con l'etichettarle.

La rivoluzione teorico-pratica proposta da Laing consiste nell'uovo di Colombo: nella necessità che un uomo, investito socialmente di competenze che lo definiscono psichiatra, si rapporti ad un altro uomo, che in nome del suo disagio ricopre il ruolo del paziente, prescindendo dall'obbiettivo primario di definire in termini diagnostici cos'ha, ma interessandosi anzitutto a capire come egli è e come vive la sua esperienza:

"Guardare e ascoltare un paziente e vedere in lui i "segni" della schizofrenia come "malattia", e guardarlo e ascoltarlo semplicemente come essere umano, sono due cose radicalmente diverse." (p.40)

Questo semplice criterio, di ritenere la psichiatria critica un esercizio intersoggettivo che mette in comunicazione due mondi di esperienza diversi e tenta di stabilire una sintonizzazione comunicativa e emozionale, anziché ridursi alla consueta oggettivazione del malato da parte dello psichiatra, è il fondamento dell'approccio fenomenologico-esistenziale che Laing adotta.

E' utile spendere due parole su quest'approccio, che si contrappone sia a quello clinico-descrittivo della psichiatria tradizionale che a quello interpretativo della psicoanalisi classica. Nonostante le sue matrici filosofiche, che risalgono ad Husserl per un verso e ad Heidegger e Sartre per un altro, siano piuttosto complesse, la sua applicazione in ambito psicopatologico lo è molto meno. Adottato già da Binswanger e da Minkosky, esso infatti comporta da parte dello psichiatra la sospensione di ogni giudizio di valore sull'esperienza del paziente e il tentativo di ricostruire il suo modo di essere e il suo vissuto così come egli li sperimenta. Si tratta, in breve, di comprendere, nel senso lato della parola, più che di interpretare. Privilegiare la comprensione rispetto all'interpretazione, che richiede il ricorso a presupposti teorici estranei all'esperienza del paziente, è il tratto distintivo tra approccio fenomenologico e approccio psicoanalitico. Pure avendo una preprazione analitica, Laing, in nome della sua adesione alla fenomenologia e all'esistenzialismo, questo tratto lo difende e lo sottolinea:

"I termini del vocabolario tecnico corrente hanno l'una o l'altra di queste qualità: o si riferiscono ad un uomo in isolamento rispetto agli altri e al mondo… o si riferiscono ad aspetti falsamente elevati a sostanza di questa entità isolata. Termini come mente e corpo, psiche e soma, psicologico e fisiologico; o come personalità, l'io, l'organismo sono delle astrazioni. Invece dle legame originale di Io e Tu, si prende un signolo uomo isolato e si concettualizzano i suoi vari aspetti: L'Io, il Super-Io, l'Es. L'Altro diviene un oggetto, interno od esterno, oppure interno ed esterno assieme… Questa difficoltà non si presenta solo nella metapsicologia freudiana classica, ma in ogni teoria che parta dall'uomo, o da una sua parte, astraendola dal suo rapporto con gli altri nel suo mondo personale… Soltanto il pensiero esistenziale ha tentato di esprimere l'esperienza originale che si ha di se stessi in rapporto agli altri, nel proprio mondo personale, con un termine che rifletta adeguatamente questa globalità: nel linguaggio esistenziale la cosa concreta è l'esistenza di un uomo, il suo essere-nel-mondo." (pp. 23-24)

Non esiste un'esperienza mentale isolata dal mondo sociale, né una soggettività nella cui trama il rapporto con gli altri non sia il nodo centrale della sua stessa definizione e del suo porsi nel mondo. Questo è l'assunto centrale del metodo fenomenologico-esistenziale. Valido nel contestare l'orientamento psicoanalitico tradizionale, che riduce l'esperienza soggettiva all'intrapsichico, esso non può essere portato alle estreme conseguenze di ritenere possibile che un soggetto, sia pure esso uno psichiatra critico, entri in relazione con un altro soggetto, il paziente, sospendendo, in nome della comprensione fenomenologica, ogni attività intepretativa. Ne L'io diviso, Laing invece ritiene che ciò sia possibile. Questo spiega il fascino e i limiti di un libro che rivela le straordinarie capacità dell'autore di ricostruire fenomenologicamente l'esperienza dei pazienti, ma che comporta un tessuto concettuale interpretativo non del tutto condivisibile.

I nuclei concettuali, intimamente correlati, sono tre. Il primo - l'insicurezza ontologica primaria - definisce il background da cui si sviluppano le psicosi. Il secondo - il sistema del falso io - descrive l'organizzazione della personalità che, con varie modalità, si realizza sulla base dell'insicurezza ontologica. Il terzo riguarda gli sviluppi psicotici del sistema del falso io, vale a dire la schizofrenia.

L'articolazione del discorso comporta, come assunto di fondo, che non si dà una malattia come fatto primario. Il fatto primario è un modo di essere, di sentire se stessi e di sperimentare il mondo su di un registro, prodotto dall'esperienza personale e sociale del soggetto, caratterizzata dall'angoscia, che è il segno dell'insicurezza ontologica primaria, vale a dire del mancato raggiungimento di un obbiettivo di straordinaria importanza sotto il profilo psicologico-esistenziale: un senso, solido e centrale, della realtà, dell'identità di se stesso e degli altri.

L'angoscia legata all'insicurezza ontologica si traduce in tre vissuti che Laing definisce con i termini: risucchio, implosione, pietrificazione. Il risucchio si realizza quando "l'individuo teme ogni rapporto in quanto tale, con chiunque e persino con se stesso, perché l'incertezza che prova, il senso di instabilità che ha nei confronti della propria autonomia, gli fa continuamente temere di perderla nel rapporto." (p.53) In conseguenza di questa paura "in luogo dei due poli di un'esistenza fondata sull'autonomia individuale: la separazione dagli altri e il rapporto con gli altr, si ha un'antitesi: la completa perdita dell'essere, attraverso un assorbimento nell'altra persona (cioè il risucchio), o la completa solitudine (l'isolamento)." (p.53)

L'implosione è "il terrore di sentire il mondo come qualcosa che da un momento all'altro può sfondarci, e cancellare qualunque traccia della nostra identità come un gas che irrompe in un vuoto. L'individuo si sente appunto "vuoto"." (p. 54) E la realtà, minacciando di inghiottire o d'implodere, è il persecutore.

La pietrificazione significa varie cose: "una forma particolare di terrore o incubo, nel quale si è trasformati in pietra; il timore che ciò accada, cioè il timore di diventare o di essere trasformati, da persona viva, in una cosa morta: una pietra, un robot, un automa, una cosa senza soggettività e autonomia personale; l'atto magico con il quale qualcuno può tentare di trasformare qualcun altro in pietra; e, per estensione, l'atto in cui uno nega o cancella l'autonomia dell'altro, ignora i suoi sentimenti, lo considera un oggetto, uccide la vita che è in lui." (p. 55) Un processo dunque di spersonalizzazione che, nelle persone ontologicamente insicure, può avvenire in due sensi: sia sentendosi spersonalizzati dagli altri sia spersonalizzando gli altri.

L'analisi fenomenologica di Laing riguardo a questi vissuti è finissima, ma egli, nel rispetto della metodologia fenomenologica, non si chiede come si producano. Li riconduce all'insicurezza ontologica primaria, che è un dato vicino all'esperienza dei soggetti che la sperimentano. Ma - c'è da chiedersi - si tratta di una condizione ontologica o non piuttosto di una condizione che rivela uno stato di conflitto tra soggetto e mondo sociale di cui egli non si rende conto, e in conseguenza del quale il rapporto del soggetto con sé e con gli altri diventa inquietante, temibile, angoscioso e reciprocamente persecutorio? Se Laing avesse tenuto conto che ciò che affiora a livello soggettivo, e viene vissuto con immediatezza è il frutto di processi inconsci e dell'interpretazione che la coscienza dà delle turbolenze emozionali legate a quei processi, sarebbe giunto alla conclusione che la comprensione fenomenologica non è né può essere l'apprensione di ciò che avviene nella coscienza di un altro soggetto bensì solo il presupposto di un'interpretazione che necessariamente deve tenere conto di quello che avviene nella totalità della mente, che comporta livelli consci e livelli incosci.

Assunta dunque l'insicurezza ontologica primaria come fondamento angoscioso di una condizione di paura e di diffidenza nei confronti del mondo (e di sé) che Laing riconduce al modo di essere schizoide, egli passa ad illustrarne le conseguenze sull'organizzazione della personalità, riconducibili al sistema del falso io. Data la difficoltà d'intrattenere con il mondo un rapporto interattivo aperto, fondato sulla capacità di separarsi dagli altri e di relazionarsi con loro, la personalità schizoide non può non organizzarsi che in maniera dissociata. L'io vero, reale, interiore, o almeno quello che il soggetto sente come tale si separa, si ritira dal mondo e diventa inosservabile. Nella relazione col mondo, il soggetto indossa costantemente una maschera, una facciata che mira in parte ad adattarlo agli altri e in parte a renderlo impenetrabile.

Questa difesa, che dovrebbe arginare l'angoscia legata all'insicurezza ontologica, in realtà diventa un rimedio peggiore del male perché la sua conseguenza è che il soggetto si sperimenta come vuoto e futile, sente di ingannare gli altri e vive perennemente nell'angoscia del giudizio sociale

"Nessuno, più dell'individuo schizoide, si sente vulnerabile e esposto allo sguardo di un'altra persona. Se non prova un acuto imbarazzo, una "consapevolezza" di essere guardato dagli altri, vuol dire soltanto che ha temporaneamente evitato il manifestarsi dell'ansia, e ciò con due possibili modi: o ha trasformato in un oggetto l'altra persona, spersonalizzando quindi i sentimenti nei suoi confronti, ho ha assunto un'aria indifferente." (p. 87).

"Per l'individuo schizoide ogni paio di occhi di un suo simile significa una testa di Medusa, dotata del potere effettivo di uccidere o spegnere quel po' di vita che è in lui. Egli cerca perciò di prevenire la sua pietrificazione pietrificando gli altri." (p. 88)

In breve:

"Nella struttura caratteriale dello schizoide troviamo un'insicurezza delle fondamenta, e in compenso una rigidità della sovrastruttura." (p. 88-89)

Se si ammette che l'insicurezza non sia un fatto primario, ma l'espressione di una conflittualità sottostante che, non potendo essere decifrata, viene percepita a livello cosciente come angoscia, la struttura risulterebbe più complessa. Essa infatti comporterebbe un'infrastruttura inconscia, dominata dal conflitto tra soggetto e mondo sociale, un livello subcosciente o cosciente caratterizzato dal recepire drammaticamente le turbolenze emozionali determinate dal conflitto e un livello cosciente, sovrastrutturale, governato da esigenze difensive che irrigidiscono e spersonalizzano il soggetto e gli altri.

L'indizio che rivela questa struttura complessa è, peraltro, fornito da Laing stesso, che scrive:

"Il suggello finale alla prigione che l'io si è costruita viene messo dal senso di colpa." (p.106)

L'origine di questo senso di colpa è da ricondurre ad un'autoattribuzione di distruttività:

"Se c'è qualcosa di cui lo schizoide può essere convinto, è proprio della sua natura distruttiva… Il suo isolamento non è provocato soltanto dal bisogno di difendersi, ma nasce anche da una preoccupazione per gli altri." (p. 107)

Il problema che si pone a questo punto sta nel capire se il paradosso di un'autoattribuzione di distruttività associato alla paura di danneggiare gli altri sia una conseguenza delle difese adottate in rapporto all'insicurezza ontologica primaria, che comporta una relazione recirpocamente persecutoria tra il soggetto e gli altri, o non sia piuttosto, in quanto espressione di un conflitto tra rabbia sociale e senso di colpa, il fatto primario che determina l'insicurezza e le sue conseguenze. In questo secondo caso, infatti, occorrerebbe ammettere che la scissione schizoide avviene, in conseguenza dell'interazione con il mondo, a livello del patrimonio di bisogni a partire dal quale si avvia lo sviluppo della personalità, e che comporta per un verso un bisogno irrinunciabile di socialità e per un altro un bisogno altrettanto irrinunciabile di libertà e di identità personale. Se ciò fosse vero, il livello fenomenologico sarebbe indiziario di un dramma che si svolge al di fuori della coscienza, rimane al di fuori di essa e che lo psichiatra può ricostruire solo andando al di là della comprensione, vale a dire avanzando delle ipotesi sulla struttura del conflitto.

Nel capitolo sesto (pp. 108-121) Laing fornisce delle prove a riguardo, nelle quali però non coglie ciò che esse significano. Egli ricostruisce una delle carriere che più di frequente portano alla definizione di un carattere schizoide, una carriera incentrata su di un'accondiscendenza e una sottomissione totale alle intenzioni e alle aspettative altrui ("questa docilità porta ad essere eccessivamente "buoni", a non fare mai altro che quello che viene detto di fare, a non combinare mai nessun "guaio", a non affermare e svelare mai la propria volontà, tanto più se questa, eventualmente, è contraria a quella altrui." (p. 112) Escludendo una patetica debolezza, che significa una carriera del genere se non che il soggetto è dotato originariamente di una sensibilità sociale che lo porta a privilegiare gli altri in rapporto a sé e a sacrificare la sua individualità in nome di questo sacrificio? Che cosa significa il fatto che essa, ad un certo punto, s'interrompa in conseguenza di un indurimento e di un incattivimento ("il falso io può anche essere assurdamente cattivo." p. 115), se non che la rabbia e l'esasperazione, accumulate negli anni, fanno affiorare una rivendicazionne di libertà individuale che sembra non potersi realizzare se non in conseguenza di un'anestesia morale?

Anche se Laing non ne fa cenno, un'altra carriera evolutiva, più rara, porta ugualmente ad una struttura di carattere schizoide: è la carriera di bambini tendenzialmente oppositivi, ribelli e contestatari, che rifiutano ostinatamente di assoggettarsi alla volontà altrui, e pongono di continuo problemi ai familiari finché non incappano nell'angoscia, spesso impregnaata di terribili sensi di colpa.

Questi dati portano a pensare che se l'accondiscendenza sacrifica, sull'altare del bisogno sociale, un bisogno di differenziazione e di libertà personale che poi affiora drammaticamente, sotto forma di indurimento e incattivimento, anche l'opposizionismo, che sacrifica la sensibilità sociale in nome della libertà e della volontà personale, giunge poi a riabilitare la prima attraverso il senso di colpa.

La clinica dunque fornisce numerosi indizi che depongono a favore di una programmazione, che sottende l'evoluzione della personalità ed è incentrata su due bisogni elementari o intrinseci (quello di appartenenza e quello di individuazione) che, nell'interazione con l'ambiente, possono scindersi , dando luogo ad un conflitto strutturale, e diventare entrambi disfunzionali.

Il problema è che Laing, in nome della fenomenologia, non ama parlare di conflitti strutturali che, nell'ottica freudiana, pongono in gioco il mondo delle pulsioni. Ma il conflitto tra i bisogni intrinseci non ha nulla a che vedere con le pulsioni poiché essi veicolano istanze - la socialità per un verso, la libertà individuale per un altro - che sono radicalmente umane.

Il rifiuto del punto di vista strutturale rende conto del fatto che la parte più debole del libro è la terza, ove Laing tenta di analizzare le circostanze che portano dallo stato schizoide alla psicosi, vale a dire alla schizofrenia. Tali circostanze si riducono all'evoluzione del sistema del falso io: "Il falso io si estende sempre di più; diventa sempre più autonomo; viene "disturbato" da frammenti di attività involontaria; tutto ciò che gli appartiene si fa sempre più irreale, falso, morto, meccanico." (p. 164)

Come spiegare questa evoluzione se non ammettendo un'intensificazione del conflitto strutturale? Certo, l'intensificazione del conflitto dipende dalle difese che il soggetto adotta che, come si è detto, sono rimedi peggiori del male e non fanno altro che alimentarlo. Ma in conseguenza di cosa si realizzano queste difese se non dell'incapacità del soggetto di capire il significato intrinseco del conflitto? E qual è infine questo significato se non una drammatica scissione tra una sensibilità sociale e una rivendicazione di libertà individuale che si oppongono irriducibilmente?

Non cogliendo questo aspetto che, per essere interpretato, richiede una teoria della personalità che associ alla sensibilità sociale e alla libertà individuale delle funzioni psichiche inconsce (rispettivamente il super-io e l'io antitetico), Laing non può che enfatizzare il conflitto tra falso io e io vero, che, ad un certo punto, pone il soggetto di fronte a due sole possibilità:

"1. Egli può decidere di "essere se stesso" nonostante tutto. 2.Può tentare di uccidere il suo io." (p. 168)

Nel primo caso, tentando di rafforzare al massimo grado il sistema del falso io, che gli assicura un'immagine e uno status sociale normale, il paziente si espone al rischio di una più o meno repentina destrutturazione psicotica. Nel secondo caso, la decisione di uccidere l'io non fa altro che realizzare un'ulteriore dissociazione in seguito l'io vero, che rappresenta il soggetto, e il falso io, che rappresenta il mondo, giungono ad esprimersi sotto forma di allucinazioni e di deliri

Entrambe queste circostanze di fatto si realizzano, ma in termini diversi da quelli descritti da Laing. Il soggetto non decide, di solito, un bel nulla. E' l''intensificazione del conflitto strutturale che, superata una certa soglia critica, determina una catastrofe strutturale. Questa può sopravvenire in forma acuta, confusionale, ma via via che l'acuzie si placa ciò che viene fuori sono due nuove organizzazioni della personalità: l'una pateticamente sottomessa al controllo e alla manipolazione sociale attraverso le allucinazioni, l'altra apparentemente affrancata da ogni controllo e da ogni paura in virtù dell'onnipotenza. Si dà uno spettro di possibilità combinatorie tra queste due organizzazioni deliranti, ma esse sono significative delle polarità in gioco nel conflitto strutturale, che alla fine affiorano autonomamente.

L'io diviso è dunque un libro suggestivo, ma incompiuto: eccellente nella critica del paradigma psichiatrico tradizionale, finissimo nella ricostruzione dei vissuti soggettivi, efficace nella descrizione delle esperienze cliniche e della loro evoluzione, è un po' carente teoricamente. La carenza, come si è detto, è da ricondurre essenzialmente all'uso del metodo fenomenologico e ad una certa preclusione nei confronti di un approccio psicodinamico e soprattutto del punto di vista strutturale. All'epoca, dato lo stato dell'arte a livello psicoanalitico, Laing non avrebbe potuto fare di più.

I meriti del libro comunque prevalgono nettamente sui suoi limiti. Ponendo tra parentesi la critica alla psichiatria tradizionale, il merito principale, troppo in anticipo su tempi per essere recepito, consiste nell'affermazione senza riserve che non esiste la schizofrenia come malattia primaria, bensì come evoluzione di un disagio che, originariamente, è di natura psicologica, investe la relazione vissuta del soggetto col mondo sociale, nella quale si riflette la sua intera storia interiore, e ha sempre criteri di comprensibilità.

Nel libro sulla schizofrenia (La miseria della neopsichiatria) ho tenuto conto di quest'intuizione assolutamente geniale, che la neopsichiatria ormai trascura ritenendola farneticante. Ho cercato anche, salendo sulle spalle di un pensatore di grande levatura, di spingere lo sguardo al di là.