Storia e Fede


1.

Le fedi religiose vanno rispettate perché esse assolvono una funzione di stabilizzazione psicologica, etica e culturale di cui il mondo contemporaneo avverte un acuto bisogno. Non sarebbe difficile attenersi a questo principio se i fedeli coltivassero le loro credenze come dogmi che solo il dono della fede permette di accettare. Purtroppo, le cose non vanno così. Profittando del prestigio ormai universale del Papa e della deriva conservatrice, che investe potentemente i mass-media, è in atto un tentativo di proporre la religione come la soluzione dei mali del mondo e le verità di fede come verità fattuali, che solo una scarsa profondità e onestà intellettuale impedisce di accettare.

Non avrei scritto questo articolo se, nella settimana precedente la Pasqua, non mi fossi sottoposto al difficile test di seguire ben tre trasmissioni televisive sui misteri della Pasqua. Le trasmissioni hanno avuto un taglio diverso, ma sono state accomunate dalla presenza in studio di un numero massiccio di credenti e di teologi che parlavano e commentavano gli eventi descritti dal Vangelo come fatti storici, misteriosi e difficili da interpretare, per alcune contraddizioni e imprecisioni dei testi evangelici, ma indubitabili. Le critiche di alcuni laici sono state accolte con sufficienza, come se essi, adottando un metro di misura razionale, non fossero in grado di capire ciò di cui si parlava: il mistero della Croce, vale a dire del Dio che si incarna e muore per riscattare l'umanità dai peccati, liberarla dal male e aprire ad essa le porte della felicità eterna.

Nel saggio sulla Bibbia (Facci un dio…) ho sottolineato la difficoltà di sottoporre ad analisi critica le credenze religiose, che sono ideologie la cui formazione avviene nel corso dei secoli sulla base di tradizioni popolari, testi, riflessioni teologiche, aggiustamenti legati agli eventi storici, ecc. Per quanto concerne il Cristianesimo, tale difficoltà è esasperata non solo dal fatto che esso sorge sullo sfondo di una religione già millenaria, l'ebraica, ma anche dallo scarsissimo rilievo storico della vita di Gesù, che è appena citata da alcuni storici pagani, e dall'assenza di documenti non confessionali che riguardano il primo secolo dopo Cristo, vale a dire l'epoca nel corso della quale sono stati scritti i testi del Nuovo Testamento e le verità di fede hanno assunto una configurazione pressochè definitiva. Il Cristianesimo delle origini è, nel suo complesso, un mistero storico molto denso, sul quale non si riuscirà mai a fare luce adeguatamente. Non per questo, però, occorre consentire ai credenti di sconfinare dall'ambito della fede con l'intento di avallare come fatti storici i racconti evangelici.

Non è superfluo ricordare che i Vangeli rappresentano testi redatti, da compositori praticamente ignoti, dal 70 (Luca) al 100 (Giovanni) dopo Cristo, vale a dire alcuni decenni dopo la morte di Gesù. Testi sacri, e dunque ispirati, secondo la Chiesa: verità di fede cui si può opporre solo la certezza che essi, almeno per quanto riguarda i sinottici, si siano articolati a partire da fonti orali e scritte preesistenti dovute alle originarie comunità cristiane. Riguardo a queste, si sa molto poco. Un fatto solo è certo: si trattava di comunità che avevano raccolto il messaggio apocalittico di Gesù e vivevano nell'aspettativa imminente della fine del mondo.

Se la confusione tra verità di fede, vale a dire convinzioni ideologiche, e fatti storici concerne gran parte degli eventi narrati dai testi neotestamentari, tale confusione è massima per la Passione, la Morte e la Resurrezione di Gesù.

2.

Cominciamo al solito dai fatti che si possono ritenere senza dubbio storici. Essi si riducono praticamente a due: l'ingresso a Gerusalemme di Gesù, osannato dalla folla, e la morte per crocifissione decisa da Ponzio Pilato. Tra i due eventi il legame è facilmente ricostruibile.

Gesù è un riformatore religioso, che ha in odio i Farisei e i Sadducei, ritenuti responsabili di avere ridotto la religione ebraica ad una sequela di pratiche rituali meramente formali, e di avere tradito dunque lo spirito della Bibbia e soprattutto dei profeti. Il suo messaggio è di sicuro unicamente religioso, privo di valenze politiche, se si esclude il riferimento alla giustizia sociale che, peraltro, è un tema portante della Bibbia ebraica. Nella misura in cui egli contesta i Farisei, che cercano di alimentare la fedeltà alla legge mosaica nonostante l'occupazione romana, e i Sadducei, che sono alleati di Roma, quel messaggio può essere stato facilmente equivocato, vale a dire ricondotto per un verso all'ideologia zelota, che non accetta la presenza dei Romani sulla Terra promessa da Dio agli Ebrei, e per un altro all'ideologia davidica, che aspetta il Messia capace di restaurare il regno di Israele.

Le folle che osannano Gesù sono di sicuro preda di questo equivoco. Esse, frustrate dal declino di Israele e sottoposte ad un duro regime fiscale dai Romani, vedono in lui il Messia davidico, il Liberatore. Interpretano cioè il suo messaggio come religioso e politico nello stesso tempo.

Questa circostanza permette di comprendere: primo, perché il Sinedrio si preoccupa di arrestare Gesù, ritenendolo un eretico; secondo, perché esso lo denuncia all'autorità romana. Pur considerando il fatto che il diritto di vita e di morte spettava ai Romani, Gesù si sarebbe potuto lapidare da parte del Sinedrio per motivi religiosi senza troppe preoccupazioni. I Romani di sicuro avrebbero chiuso un occhio sulla risoluzione violenta di un conflitto religioso, che era distante le mille miglia dalla loro comprensione. Il Sinedrio non ha osato tanto semplicemente considerando il credito popolare di cui godeva Gesù: in breve, per non correre il rischio di una sollevazione popolare.

La morte di Gesù è stata sicuramente decisa dall'autorità romana, l'unica capace di comminare la pena della croce. E' importante tenere conto che questa pena veniva applicata solo per i malfattori, gli schiavi ribelli o i rivoltosi politici. Gesù, agli occhi dei Romani, apparteneva presumibilmente a quest'ultima categoria. Osannato dalla folla come re dei Giudei, egli deve avere evocato nei Romani il dubbio di una rivolta contro l'occupazione mirante a restaurare il regno ebraico. E' dfficile pensare che i Romani, pragmatici e poco inclini a interessarsi di teologia, cogliessero la sottile distinzione tra una monarchia terrena e il regno dei cieli promesso da Gesù ai suoi adepti.

Gesù, dunque, inviso ai Farisei e ai Sadducei, che ne promuovono la cattura come eretico, di fatto viene processato e condannato a morte dai Romani come un rivoltoso politico, non già perché sostiene di essere figlio di Dio, bensì perché non recusa l'appellativo di Re dei Giudei. La scritta apposta sulla croce (JNRJ) è credibile, se la sua morte doveva servire come un monito rivolto agli Ebrei che non si arrendevano all'occupazione romana e continuavano ad aspettare il Messia davidico che avrebbe restaurato il regno d'Israele.

3.

Dopo la morte, Gesù viene sepolto in un sepolcro di pietra. Solo su sollecitazione degli Ebrei, che temono che il cadavere sia trafugato, i Romani decidono di montare la guardia al sepolcro. Il cadavere, stando ai vangeli, sparisce ugualmente. Ovviamente, la sparizione non avrebbe convinto nessuno della resurrezione. Sono le cristofanie, le apparizioni di Gesù a delle donne, agli Apostoli e ai discepoli a rappresentare la prova della Resurrezione. I testimoni cominciano a diffondere la buona novella, secondo la quale la Resurrezione conferma che Gesù era veramente figlio di Dio e che il suo sacrificio è valso a riscattare l'umanità dalla colpa originaria.

Posto in questi termini, il racconto evangelico non comporta grandi difficoltà interpretative. Gli unici "testimoni" della Resurrezione sono coloro che la morte di Gesù getta nella disperazione più nera, e che, nei tre giorni dopo la morte, si raccolgono in gruppo coltivando un lutto che, presumibilmente, è perpetuamente animato dal ricordo di Gesù, dalla ricostruzione delle sue vicende, e dal richiamare alla mente la sua predicazione. Una situazione del genere permette - trattandosi di brava gente - di escludere la simulazione, ma molto meno la suggestione e il contagio.

Sentendo parlare di suggestione, i credenti giustamente fanno riferimento all'adozione di una logica razionale, naturalistica, che sarebbe incapace di cogliere il senso di fenomeni soprannaturali. Essi confondono la suggestione con la simulazione e la menzogna. Per suggestione, s'intende oggi uno stato d'animo particolare, individuale o collettivo, in conseguenza del quale aspettative, desideri, bisogni premono per realizzarsi sotto forma di convinzione. Dato questo stato d'animo, che determina un'attenzione selettiva nei confronti della realtà, basta poco a trasformare le aspettative in una realtà vissuta. Nella vicenda in questione, l'evento suggestivo è il trafugamento del cadavere di Gesù. Non ne sapremo mai gli autori. E' evidente però che tale trafugamento, intepretato come prova della Resurrezione di Gesù, ha promosso le cristofanie che hanno corroborato la credenza.

Su questo punto, ovviamente controverso, non mi sembra il caso d'insistere. E' giusto che ciascuno difenda e accrediti le proprie convinzioni. Non ho scritto questo articolo, però, per riproporre l'ipotesi della suggestione, che è un luogo comune dell'analisi laica del racconto evangelico. Essa può essere rifiutata come razionalistica, e non può essere provata in alcun modo. E' molto più interessante discutere una serie di problemi inerenti quel racconto inquadrandolo nella storia della religione ebraica e tenendo conto del peso che esso ha assunto nella differenziazione del Cristianesimo. Questi problemi sono del massimo interesse, per quanto la tradizione ecclesiale sia riuscita a espungerne le contraddizioni, facendole rientrare in un quadro ideologico o in una dottrina sufficientemente coerente.

Il primo problema riguarda il tema della colpa da espiare, che dà senso al sacrificio di Gesù. Il Cristianesimo la identifica nel peccato originale di Adamo ed Eva, che avrebbe precipitato l'umanità in un destino di dolore e di morte. Ora, il mito del peccato originale è narrato nelle prime pagine della Genesi, ma non sembra avere avuto una particolare incidenza negli sviluppi della religione ebraica. Le colpe addotte nella Bibbia per giustificare l'ira di Dio contro il suo popolo sono sempre colpe attuali, e fanno costantemente capo alla tentazione idolatrica. Il pensiero profetico era giunto, tra l'altro, a ritenere incompatibile con la giustizia divina il principio per cui i discendenti dovessero pagare le colpe dei padri.

Il peccato originale viene riesumato dai Cristiani perché esso è necessario a trasformare una morte ignominiosa in una scelta consapevole di Gesù, figlio di Dio, che si sarebbe incarnato a tal fine. Il suo acrificio prelude la fine apocalittica del mondo, vale a dire il pentimento di Dio riguardo alle creature umane, e concede la salvezza solo a chi, in extremis, crede in Dio. La morte di Gesù è dunque una morte che inaugura l'apocalisse, la fine del mondo, e la giustizia definitiva: l'istaurazione del regno di Dio, che non è di questa terra.

Di sicuro, Gesù è un predicatore apocalittico, che non nutre speranza alcuna nell'orizzonte mondano, si avvia senza esitazione verso la morte, e invita coloro che credono in lui a seguirlo aspettando la fine del mondo imminente. Tanto è vero questo che le prime comunità cristiane sono comunità apocalittiche, che aspettano la fine del mondo promessa da Gesù entro una generazione.

Giustificare la terribile morte di Gesù come un sacrificio atto a rimediare all'ira divina implica però la contraddizione per cui il "nuovo" Dio, il Dio d'amore dei cristiani, sembra arcaico rispetto al Dio di misericordia dei profeti. Si tratta infatti di un Dio che, nell'ottica dell'antica tradizione biblica, non perdona se non al prezzo del sangue. Non importa che il sangue sia versato dal suo Figlio, e che dunque la Passione e la Morte di Gesù realizzino il paradosso di un Dio che prende su di sé i peccati del mondo e li sconta. E' la logica stessa del sacrificio che, esaltata dalla Chiesa come il mistero dei misteri, rappresenta di fatto una regressione teologica. Da cosa discende la necessità della morte come sconto della pena se non da un principio di giustizia atavico che sembra imporsi all'onnipotenza divina? Non avrebbe potuto Gesù semplicemente annunciare, con la sua venuta, il perdono del Padre e sollecitare i credenti ad essere degni di Lui astenendosi da ulteriotri peccati?

Il mistero imperscrutabile, in ultima analisi, sembra ricondursi semplicemente non ad un piano salvifico, ma, molto più modestamente, alla necessità di dare un senso sacrificale e teologico alla morte di Gesù, prodotta dagli uomini ma funzionale a soddisfare l'ira terribile di Dio.

Un secondo problema riguarda la necessità della Resurrezione. Se gli Apostoli e i discepoli credevano, com'è certo, nella divinità di Gesù, non sarebbe occorsa alcuna prova per convincerli del fatto che il figlio di Dio non poteva morire. Esaudita la volontà del Padre nel comunicare la buona novella, e incappato nell'insensibilità e nella crudeltà degli uomini, Gesù aveva esaurito il suo compito, ed era asceso in cielo. La diffusione della buona novella avrebbe richiesto, in quest'ottica, solo un atto di fede per essere accolta da coloro cui essa veniva comunicata. Perché dunque disperarsi?

Semplicemente perché all'epoca gli Apostoli e i discepoli erano convinti che il messaggio di Gesù riguardasse solo gli Ebrei, e sapevano bene che questi, che attendevano il Messia trionfante davidico, non avrebbero mai riconosciuto il figlio di Dio in un Ebreo messo a morte dai Romani. La possibilità che la buona novella fosse accolta riposava, dunque, sulla possibilitò di fornire agli Ebrei la prova dell'onnipotenza divina.

Una prova peraltro tendenziosa. La religione ebraica è stata sempre una religione del mondo, poco interessata ai problemi dell'aldilà. Solo tardivamente, la disperazione ha spinto alcuni Profeti e il Seracide ad ipotizzare una vita ultraterrena. All'epoca di Gesù, tale credenza non era però particolarmente diffusa. I sacerdoti sadducei, in particolare, la rifiutavano sprezzantemente. Riproporla, per i cristiani, era un modo per alimentare il conflitto con l'autorità religiosa costituita, come attesta il martirio di Stefano.

Un terzo problema, legato al secondo, concerne la valutazione del rapporto tra corpo e anima. Nella tradizione ebraica, si tratta di due dimensioni profondamente intrecciate, indistinguibili nella misura in cui il senso della vita, anche religioso, si riduce all'esistenza mondana, vale a dire alla vita corporale che alberga l'anima. La sopravvivenza dell'anima scissa dal corpo non avrebbe avuto per gli Ebrei alcun significato. Era pertanto necessario presentare loro la nuova fede come una fede che riconosceva l'immortalità dell'anima associata al corpo. Le gioie dello spirito, all'epoca, erano riservate a pochi privilegiati. Gli uomini sperimentavano nella carne il dolore, la malattia, la frustrazione del vivere. Era pertanto necessario proporre loro la felicità eterna come una dimensione che coinvolgesse il corpo.

Ciò che intendo dire, da ultimo, è che il racconto della Morte e della Risurrezione di Gesù va interpretato all'interno della storia della religione e del popolo ebraico. Esso serve a riscattare Gesù da una morte ignominiosa per mano dei pagani, ad annullare il senso di colpa gravante da sempre sul popolo ebraico, confermato dal suo declino politico e dalla subordinazione a Roma, ad alimentare la speranza di un riscatto dall'abiezione in virtù di un'apocalisse prossima che avrebbe inaugurato, in cielo e non sulla terra, il regno di Dio e della giustizia cui gli ebrei hanno sempre aspirato, a sancire il primato dell'anima su di un corpo che, però, è esso stesso immortale e destinato alla felicità eterna. Si tratta in breve di un mito, intessuto sulla verità storica di un predicatore ebreo messo a morte dai Romani come sobillatore politico, la cui funzione è di risolvere "magicamente" una serie di contraddizioni ideologiche proprie della religione ebraica. Un mito che si può interpretare solo storicamente, e riguardo al quale la citazione di Barthes, che ho posto come epigrafe del saggio sulla Bibbia ("il mito si costituisce attraverso la dispersione della qualità storica delle cose: le cose vi perdono il ricordo della loro fabbricazione"), appare quanto mai appropriato.

3.

Sarebbe oltremodo interessante riflettere sulla produzione di questo mito, nella misura in cui esso ha irretito la nostra civiltà. Qui si entra però nel campo degli eventi storici poco o punto sondabili per difetto di documentazione. L'unica certezza è che la trasformazione della morte di Gesù in un evento trionfante, la Resurrezione, è stato il prodotto di poche decine di persone, gli Apostoli e i discepoli. La fortuna e la diffusione universale di un prodotto culturale dovuto ad uno sparuto manipolo di persone, alcune delle quali incolte: questo è il mistero dei misteri della storia. La Chiesa non ha ovviamente difficoltà ad interpretarlo. Un'interpretazione storica urta contro l'esiguità dei dati di cui si dispone sul Cristianesimo primitivo, vale a dire su ciò che è accaduto tra la morte di Gesù e la composizione delle opere del Nuovo Testamento, che ancora oggi rappresentano il fondamento della dottrina cattolica. Per ora si rimane fermi al fatto che coloro che credevano in Lui ne hanno coltivato la memoria con una straordinaria efficacia, per quanto inesorabilmente incorrendo in contraddizioni di non lieve conto.

Aprile 2003