Ancora sul Super-Io

1.

Super-Io è, in assoluto, il termine che ricorre più frequentemente in tutta la mia opera. Per quanto, fin dal primo saggio (La Politica del Super-Io), ho sottoposto il termine, coniato da Freud, ad una revisione concettuale radicale, ricavando dall'attività superegoica, massimamente evidente nelle esperienze psicopatologiche, la prova dell'esistenza di un bisogno di appartenenza/integrazione sociale intrinseco alla natura umana, geneticamente determinato, e assegnando, di conseguenza, al Super-Io la funzione primaria di favorire la replicazione culturale attraverso le generazioni e di privilegiare l'adempimento dei doveri di ruolo funzionali al mantenersi dell'ordine e della coesione sociale rispetto ai bisogni e ai diritti individuali, la decisione di continuare ad utilizzarlo (anche per l'impossibilità di trovare un sinonimo ugualmente efficace[1]) ha pesato parecchio sulla diffusione del mio lavoro.

In parte ciò è dovuto al fatto che la sua assimilazione a livello di cultura comune, dovuta alle straordinarie capacità divulgative di Freud, è rimasta ferma al concetto originario di istanza psichica sostanzialmente rigida e repressiva, orientata a contenere le spinte pulsionali. Parecchi lettori dei miei saggi - me ne sono reso conto più volte - comprendono il nuovo significato concettuale del Super-Io nella cornice struttural-dialettica, ma, di fatto, continuano a fare riferimento al concetto freudiano.

Un altro aspetto va ricondotto alla progressiva affermazione del cognitivismo che, privilegiando gli aspetti funzionali (pensiero, memoria, emozioni, ecc.) rispetto a quelli strutturali, è giunto a gettare una luce di discredito sul sapere psicoanalitico. In questa nuova ottica, il Super-Io, in quanto istanza psichica o parte dell'apparato mentale differenziata rispetto all'Io, fino al punto di potersi autonomizzare in rapporto ad esso, è stato giudicato come un concetto incompatibile con il ruolo (totalizzante) che il cognitivismo assegna all'Io stesso.

A ciò va aggiunto che, anche nel contesto della psicoanalisi, clamorosamente stagnante sotto il profilo teorico, non pochi studiosi, influenzati dal pensiero di Kohut e protesi a perseguire l'integrazione dei principi cognitivi nella cornice della teoria analitica, sono giunti addirittura ad affermare che il Super-Io sarebbe tramontato con la cultura gerarchica e repressiva che lo ha prodotto.

Se fosse vero, ciò significherebbe che, anziché un'istanza strutturale, il Super-Io freudiano rappresenterebbe semplicemente l'espressione dell'influenza di una determinata cultura sull'organizzazione della psiche umana. Un'ipotesi del genere richiederebbe di ammettere una plasticità del cervello di gran lunga superiore a quella che oggi sembra ammissibile.

Al presunto tramonto del Super-Io, che sarebbe reso evidente soprattutto dalle esperienze psicopatologiche giovanili, ho dedicato già un articolo al quale rinvio il lettore.

Torno sull'argomento perché, riscrivendo La Politica del Super-Io (di cui ho pubblicato solo l'Introduzione, nutrendo la speranza di giungere ad una nuova edizione a stampa) e gli articoli sul significato funzionale dei sintomi, mi sono reso conto che, nel corso degli anni, la teoria del Super-Io è andata incontro a cambiamenti non radicali, ma di sicuro significativi. Che ne abbia preso coscienza a posteriori, prova semplicemente che il rimaneggiamento continuo dei contenuti concettuali, legato alla riflessione, avviene anche al di là della coscienza.

Nel saggio originario, che era in gran parte il frutto del lavoro di ricerca effettuato nel corso degli anni, a partire dal 1982, documentato dai Seminari, il Super-io, pur avendo le sua radici nel bisogno di appartenenza/integrazione sociale e rappresentando la matrice della replicazione culturale, assolveva una funzione univoca di controllo sociale sulla libertà individuale: era teorizzato, insomma, come l'espressione nel cuore della soggettività della tendenza conservatrice propria della cultura, orientata ad impedire il più possibile il cambiamento culturale.

Oggi tale funzione è ancora reperibile in numerose esperienze psicopatologiche, anche giovanili.

A differenza di quanto sostengono i cognitivisti e ormai anche alcuni analisti, la patologia da senso di colpa (conscio o inconscio che sia) non è affatto scomparsa dall'orizzonte della soggettività contemporanea.

G., per esempio, che ha ricevuto un'educazione rigorosa ma non moralistica, per la semplice influenza del catechismo, a 17 anni si chiude in casa perché, avendo lanciato per strada uno sguardo desiderante su di una donna adulta, che subito dopo si è accorta essere sposata, si sente investito, quando tenta di uscire, da occhiate rimproveranti che provengono da tutto il mondo.

M., che ha avviato con successo un'attività autonoma come ragioniere commercialista, si ritrova a falsificare qualche fattura, consapevole del fatto che se egli pretendesse far pagare ai clienti tutte le tasse che lo Stato esige, li perderebbe. Il problema è che egli ha un carattere estremamente scrupoloso, per cui, dopo alcuni mesi, comincia a sviluppare il timore che il suo comportamento ex-lege possa essere scoperto e punito. Nel giro di alcune settimane, il timore è confermato dal fatto che, per strada, egli avverte giudizi piuttosto pesanti nei suoi confronti e, distintamente, minacce che fanno riferimento al tribunale e al carcere.

In casi del genere, la funzione repressiva e moralistica del Super-Io, che difende l'ordine sociale dal disordine dei desideri e dei bisogni individuali, è del tutto evidente.

2.

E' pur vero, però, che, negli ultimi anni, sempre più spesso, la funzione del Super-io, oltre che punitiva, sembra sempre più spesso preventiva e protettiva.

La prevenzione si realizza quasi sempre allorché l'individuo, sotto la spinta della rabbia o di una cieca (quindi claustrofobica) rivendicazione di libertà, sta agendo comportamenti che potrebbero avere esiti catastrofici.

V., per esempio, che ha avuto sin da bambino un rapporto oppositivo e conflittuale con la famiglia e con la scuola, pur essendo dotato di grandi potenzialità, a 15 anni decide di darsi allo "sbraco", abbandonando lo studio e incentrando la sua vita sull'uso di marijuana. Tale uso si trasforma rapidamente in abuso. V. vive alleggerito dalle angosce e dalle paure che hanno contrassegnato la sua esperienza infantile, ma in una dimensione molto simile ad una trance. Ad un certo punto, data l'assuefazione, avverte il bisogno di una droga più incisiva, la cocaina. Si sta approssimando a questa ulteriore svolta della sua vita allorché uno stravolgente attacco di panico lo chiude in casa e pone fine all'uso delle droghe.

A. che, dall'adolescenza, ha ispirato la sua vita ad un modello di libertà totale, ritrovandosi in una ambiente universitario alternativo, assume un ruolo di leader della trasgressione, sollecitando gli altri a non aver paura di alcuna esperienza nuova. Per dare il buon esempio egli, oltre al fumo, sniffa cocaina e, ad un certo punto, comincia ad usare gli acidi e i funghi. Dopo un'assunzione di acidi, egli sviluppa un attacco di panico incentrato sulla paura di andare fuori di testa, sormontato il quale, assillato dalla convinzione di avere indotto un danno cerebrale grave e irreversibile, si trova "vaccinato" in rapporto al pericolo di usare droghe pesanti.

In casi del genere, pur considerando che l'attacco di panico e le paure che ad esso residuano, sono sicuramente di matrice superegoica, il riferimento ad un Super-Io repressivo sembra piuttosto ridicolo. l'attivazione della funzione superegoica sembra orientata non solo a proteggere l'integrità psicofisica dei soggetti, ma anche a porre termine ad un'esperienza alienata, vale a dire influenzata da motivazioni "ideologiche" che si sovrappongono ai bisogni individuali e li mortificano.

Si danno, però, esperienze ancor più significative.

A. fin da bambino si rende conto di essere dotato di una sensibilità sociale eccessiva. Vive tormentato da essa, che lo costringe ad essere un figlio e uno studente modello, finché non si realizza una circostanza particolare. Il padre viene ricoverato in Ospedale per un ictus. Alessandro, che si rende conto del pericolo di perderlo (destinato a realizzarsi), soffre le pene dell'inferno, finché una mattina la sua mente non è attraversata da una singolare fantasia incentrata sul "fregarsene" se il padre sopravvive o muore. Tale fantasia lo fa sentire immediatamente leggero, finché, dopo pochi minuti, non sopravviene un atroce senso di colpa che lo tormenterà per anni.

Il problema è che quella fantasia ha portato alla luce un desiderio che, nel corso degli anni, si radicalizza: giungere a non sentire più nulla per nessuno, ad essere totalmente indifferente nei confronti degli altri, per vivere bene. Oppresso dalla sensibilità, infatti, egli si sente fragile e vulnerabile: rimane, infatti, profondamente turbato dal dolore altrui e sollecitato a fare qualcosa per rimediare. Se se ne liberasse, diventerebbe sicuro, forte e onnipotente.

Per anni, dunque, vive all'insegna di una vera e propria fobia della sensibilità: quando non riesce a controllarla, infatti, repentinamente si sente crollare in una depressione profonda. Nei momenti in cui gli sembra di averla fatta fuori, tocca il cielo con le dita.

Il problema è che l'ossessione stessa di liberarsi dalla sensibilità, la incrementa fino a livelli intollerabili. Se A. va in un ospedale si identifica con coloro che soffrono fino a sentire un dolore lancinante, se incontra per strada un immigrato non può fare a meno di dargli tutti i soldi che ha, se si imbatte in un animale sperduto o ferito non dorme la notte.

E' evidente che la sensibilità esasperata compensa e punisce la sua volontà di liberarsene del tutto.

P. manifesta precocemente una iperdotazione introversa che si esprime in una carriera scolastica brillantissima, nella coltivazione di molteplici interessi culturali e nell'eccellere anche a livello sportivo. Attraversa l'adolescenza, muta sotto il profilo dell'interesse per l'altro sesso, senza rendersi conto della sua diversità, anzi disprezzando le coetanee che parlano solo di ragazzi, abiti, canzoni, ecc. A 19 anni, malauguratamente, il suo non avere ancora intrattenuto rapporti di alcun genere con gli uomini si configura repentinamente come un'espressione di intollerabile inferiorità. Anche se non se ne rende pienamente conto, questo vissuto riverbera una luce negativa sul passato eccezion fatta per il bisogno divorante di primeggiare. Ciò la induce a operare una scelta universitaria molto lontana dai suoi interessi umanistici, anche se funzionale ai fini di un'ascesa sociale, e ad installare la sua vita su di un registro "superficiale", caratterizzato dalla seduzione e dalla conquista di uomini importanti e di successo (per quanto psicologicamente e culturalmente mediocri) e dal culto delle apparenze (immagine estetica).

Questa sciagurata "scelta" di vita, che inaugura una serie fallimentare di rapporti sentimentali, il blocco di una carriera professionale avviatasi fin troppo brillantemente, e un dissesto economico dovuto a spese compusive inerenti oggetti di lusso (abiti, gioielli, ecc.),coincide con l'affiorare di una depressione che viene diagnosticata come disturbo dell'umore e avvia una carriera psichiatrica destinata a protrarsi negli anni.

E' evidente che la depressione segnala per un verso il tradimento dei valori piccolo-borghesi trasmessi dalla famiglia e, per un altro, il tradimento della sua vocazione ad essere, sostanzialmente intellettuale.

Purtroppo quella scelta di vita viene confermata nel corso degli anni e dà luogo all'incremento della depressione e dei sensi di colpa sino a livelli drammatici.

Esperienze del genere, incomprensibili e inspiegabili se non si ammette l'entrata in azione di un'istanza capace di contrapporsi all'Io e di inibire la sua libertà, non rientrano nella teoria formulata originariamente ne La Politica del Super-io, a cui ho fatto riferimento ancora, anche se in termini più articolati, in Star Male di Testa.

Esse costringono a pensare che il Super-Io è una istanza psichica il cui spettro funzionale va dall'estremo di un'intensa colpevolizzazione e di una dura punizione all'estremo opposto di un controllo sulla libertà personale che si può ritenere protettiva e preventiva rispetto ai pericoli di un esercizio alienato della stessa.

Non si tratta di un aspetto del tutto nuovo. Fin da Prassi terapeutica dialettica ho sottolineato che i sintomi psicopatologici, gran parte dei quali di fatto sono accomunati dal diminuire, in misura più o meno rilevante, la libertà personale, possono avere di volta in volta un significato punitivo, protettivo o preventivo. Non si può negare però che l'attribuzione al Super-Io di una capacità funzionale così ampia che, sia pure sulla base univoca del senso di colpa, comporta al limite la protezione dell'individuo dall'esercizio di una libertà alienata, pone di fronte ad una serie di problemi che costringono a rivedere la teoria struttural-dialettica del Super-Io stesso.

Mentre infatti la funzione punitiva, con i suoi eccessi, sembra confermare che il Super-Io, una volta interiorizzati determinati valori culturali, li assolutezza e li utilizza come metro di misura della conformità o meno ad essi del comportamento individuale (attività che conferma il suo ruolo di servomeccanismo di regolazione dell'ordine sociale culturalmente definito), la funzione protettiva e preventiva può essere, d'acchito, facilmente equivocata come una conferma della teoria pulsionale freudiana.

Questo equivoco, portato alle estreme conseguenze, invalida quasi totalmente la teoria struttural-dialettica. Certo la funzione protettiva e preventiva del Super-Io attesta che il suo radicamento avviene a partire da un bisogno sociale primario, dato che essa prescinde da qualsivoglia rappresaglia e sembra riabilitare, dall'interno della soggettività, un potere di controllo positivo sulla libertà che nessun essere in carne ed ossa sembra più in grado di agire sul soggetto. In un certo qual modo, essa sembra quasi sopperire alla perdita di potere di controllo delle figure genitoriali e vicariarla con l'entrata in azione di un loro rappresentante simbolico il cui intento è tuttíaltro che repressivo.

E' pur vero, però, che quella funzione argina, contiene e inibisce una libertà che sembra sottesa da incoercibili spinte pulsionali.

Freud dunque avrebbe sbagliato nel misconoscere la presenza nella natura umana di un bisogno sociale e nell'attribuire al Super-Io una valenza univocamente punitiva, ma avrebbe colto nel giusto nell'identificare una componente pulsionale anarchica, facente parte della natura umana, che si esprimerebbe attraverso l'esercizio di una libertà compulsava e senza limite.

Il problema è che un'interpretazione del genere è insostenibile in quanto contraddittoria. l'esistenza, infatti, nella natura umana di un bisogno sociale primario, vale a dire di un bisogno di appartenenza radicale, è incompatibile con quella di una libertà pulsionale anarchica, che implica un egocentrismo totale.

Come interpretare, dunque, lo spettro funzionale del Super-Io che si evince dalle esperienze psicopatologiche contemporanee?

3.

L'ipotesi più semplice consiste nel tenere conto che il Super-Io, nell'ottica struttural-dialettica, integra sempre e comunque due componenti, l'una psicobiologica e l'altra culturale. La componente psicobiologica è identificabile con una sensibilità sociale che, consentendo di sentire l'altro come dotato di bisogni e diritti, incide in due modi nella progettazione dell'autorealizzazione individuale: per un verso, infatti, essa definisce il legame sociale, intersoggettivo, come costitutivo dell'identità personale; per un altro verso, comporta anche una realizzazione sociale dell'Io. Su questo sfondo psicobiologico, l'interazione con l'ambiente, attraverso l'interiorizzazione dei valori culturali regola e modula la relazione sociale in termini di diritti e doveri dell'io nei confronti degli altri e degli altri nei confronti dell'Io.

Il problema è che questa regolazione, per i motivi più vari, non ultimo tra i quali è l'estrema influenzabilità dei bambini (e soprattutto di quelli dotati di una maggiore sensibilità), di fatto può giungere a rappresentare non già un canale che permette il dispiegamento dell'individuazione entro limiti rispettosi dei bisogni e diritti altrui, bensì un canale che mortifica l'individuazione, impedendo ad essa di dispiegarsi.

In circostanze del genere, come noto, il bisogno d'individuazione frustrato dà luogo allo strutturarsi di un Io antitetico che tende a promuoverne la realizzazione mortificando o reprimendo il bisogno sociale, che lo vincola, e giungendo di conseguenza ad assumere una configurazione più o meno intensamente anarchica e "pulsionale".

Il problema è che la rivendicazione di libertà si realizza non solo violando i valori culturali interiorizzati - circostanza che, in sé e per sé, non esclude un loro superamento in nome di nuovi valori riconosciuti come propri dall'io -, ma anestetizzando la sensibilità che ne ha consentito l'interiorizzazione. Il soggetto, insomma, si ritrova a vivere sì affrancato da valori che possono essere alienati o poco compatibili con la sua vocazione ad essere, ma anche al di fuori della propria pelle: su di un registro, dunque, alienato, espressivo di uno solo dei bisogni che sottendono la sua esperienza.

In casi del genere, non cíè da sorprendersi che il Super-Io entri in azione con una doppia valenza: l'una punitiva in rapporto alla trasgressione morale, l'altra protettiva e riparativa in rapporto ad una sensibilità sociale profondamente radicata nelle viscere dell'apparato mentale.

C'è ovviamente una contraddizione nell'attività superegoica: per un verso, infatti, per quanto concerne l'aspetto punitivo, essa tende a mantenere l'io in una condizione eterodiretta (dunque alienata); per un altro verso, essa, quando si contrappone ad un Io antitetico esasperato, mira a restaurare un bisogno autentico di socialità che la rivendicazione "pulsionale" di libertà ha anestetizzato, quindi a disalienare il bisogno stesso.

Mi rendo conto che riflessioni del genere non hanno alcun interesse per chi, pur adottando una logica psicodinamica, ritiene che il Super-Io sia tramontato e, a maggior ragione, per i cognitivisti, per i quali il concetto di Super-Io non ha senso alcuno.

Se si prescinde però dal ritenere la psicopatologia una scienza in senso proprio - statuto che, eccezion fatta per la linguistica, nessuna disciplina umana e sociale ha raggiunto e potrà raggiungere -, il suo obbiettivo non può essere altro che formulare teorie le quali consentono di interpretare sempre meglio i dati offerti dalle esperienze soggettive.

Per questo aspetto, a me sembra che la teoria del Super-Io come funzione il cui spettro di azione pone in luce le due componenti a partire dalle quali esso si struttura sia estremamente efficace.

E' o dovrebbe essere ovvio che tale teoria implica che anche l'Io antitetico sia una funzione a spettro, che va dall'estremo di una rivendicazione sostanzialmente giusta di una libertà intrinseca alla vocazione ad essere personale all'estremo opposto di una rivendicazione totale, anarchica e claustrofobia che porta il soggetto sul terreno dell'alienazione, dell'insensibilità ai suoi bisogni autentici e, al limite, della devianza.

La concezione del Super-Io e dell'Io antitetico come funzioni dinamiche a spettro danno alla teoria del conflitto strutturale un'estensione e una flessibilità che sembrano adeguate a comprendere e a spiegare il continuum psicopatologico. Fermo restando, ovviamente, che si tratta di substrutture dell'Io che con esso interagiscono.

Le forme diverse di tale interazione saranno analizzate in un ulteriore articolo.



[1] I sinonimi sui quali ho più riflettuto sono l'Altro generalizzato (coniato da Mead), il Noi (coniato nell'ambito della psicologia evolutiva degli ultimi anni) e il Sociale interiorizzato (o in alternativa l'Altro), che ho utilizzato in Miseria della neopsichiatria. l'Altro generalizzato è un concetto sovrapponibile per molti aspetti al Super-io. Esso però è inutilizzabile perché, almeno nella teorizzazione mediana, implica l'interiorizzazione delle originarie interazioni interpersonali: In breve, misconosce del tutto la matrice psicobiologica. Il Noi è efficace nella misura in cui implica l'appartenenza dell'Io ad un gruppo o ad una totalità sociale, di cui è membro e funzione, ma diventa confusivo laddove si devono analizzare esperienze psicopatologiche all'interno delle quali il Super-Io si contrappone all'Io e lo assume come oggetto. Il Sociale interiorizzato ha come limite l'alludere ad una condizione psicologica univocamente autodiretta e il non tenere conto che l'interiorizzazione delle influenze ambientali implica anche la sensibilità personale e l'interpretazione soggettive di esse.

Se fossi costretto ad optare per uno dei tre termini, opterei (come ho fatto) per il terzo.

Rimane il fatto che il termine Super-Io, pur nell'indeterminatezza di chi sovrasta l'Io, è il più suggestivo.