La politica del Super Io

Introduzione alla lettura

L'ipotesi di fondo della ricerca avviata nel 1982 su un nuovo modello psicopatologico verteva sulla possibilità di dimostrare, partendo dai dati clinici, l'importanza dei fattori storico-sociali e culturali nella struttura profonda della personalità. Si trattava di un'ipotesi azzardata perché la tradizione psicoanalitica, recependo peraltro un pregiudizio proprio della mentalità corrente, dava per scontato che, allontanandosi dalla sfera della coscienza, l'esperienza psichica dovesse essere caratterizzata e determinata da aspetti ancestrali, filogenetici, poco o punto permeabili ai fattori storico-sociali. L'ES freudiano ha ufficializzato questo pregiudizio. E Jung, pur contrario all'ipotesi pulsionale, ha dovuto cedere alla presunta evidenza dell'rrazionalità dell'inconscio introducendo il concetto di Ombra.

Per quanto azzardata, l'ipotesi di fondo della ricerca non era ideologica, vale a dire non si riconduceva ad un principio sociologista, bensì ad una lunga riflessione su Darwin e su Marx. Gli esiti di questa riflessione erano sostanzialmente due. Primo: come essere naturale, vale a dire dotato di un cervello evoluto, l'uomo deve avere una maggiore affinità con le specie animali sociali, in primis le scimmie, che non con le specie governate dagli istinti. Secondo: come animale culturale, l'uomo non nasce dal ventre della natura, bensì dal ventre della società: come ente sociale, dunque, prima che individuo.

Per dare corpo all'ipotesi , occorreva solo identificare la funzione psichica che attestasse la presenza del sociale nella struttura psichica profonda della soggettività umana. L'identificazione era già avvenuta con la scoperta del Super-io da parte di Freud, ma questi, fermo ad una concezione pulsionale della natura umana, aveva adattato quella scoperta a questa concezione ideologica, giungendo a sostenere che il sociale viene interiorizzato contro la resistenza della natura umana, votata in sé e per sé all'anarchia, unicamente per effetto dell'angoscia di un'esclusione o di una rappresaglia.

La teoria di Freud ha una comprensibilità storica. Se si parte dal presupposto che l'individuo, col suo innato egoismo, preesiste alla società, la vita associativa non può nascre che in virtù di una frustrazione e di una repressione dei desideri individuali. Il problema è che la preesistenza dell'individuo rispetto al sociale è una proiezione del presente nel passato. L'uomo non nasce come individuo, bensì come ente sociale. La definizione dell'individualità, vale a dire l'acquisizione della consapevolezza di un'identità distinta da tutte le altre, è un fatto storico che sopravviene dopo un lunghissimo periodo caratterizzato dal primato pressochè assoluto del sociale. Alla luce di questa evidenza, comprovata da tutti gli studi antropologici sulle comunità primitive, la teoria del super-io postulava di essere riformulata dalle fondamenta.

La riformulazione, che rappresenta l'asse portante de La politica del Super-io, non può prescindere dall'attribuire all'uomo un bisogno innato di socialità, che promuove l'organizzazione sociale e l'interiorizzazione della cultura prodotta collettivamente. Dato che la socializzazione e l'interiorizzazione dei valori culturali propri di un determinato contesto storico è il presupposto dell'affiorare della coscienza individuale, il primato del sociale nell'organizzazione psichica umana riesce evidente. Tale primato pone però un problema di ordine teorico. Se esso infatti è profondamente radicato nell'inconscio, comportando il riferimento all'individualità solo come parte di un tutto, da dove proviene la coscienza dell'individualità come entità distinta, dotata di suoi bisogni, di suoi diritti e di una volontà propria?

L'ipotesi più semplice porterebbe a pensare che l'individualità sia un prodotto storico, vale a dire il prodotto di una società - quella borghese - che ha giuridicamente definito i diritti dell'individuo. Si tratta però di un'ipotesi insostenibile. Primo, perchè essa misconosce un'evoluzione storica sotterranea che risale almeno alla civiltà greca. Secondo, perché la storia è una levatrice che non può fare venire nulla alla luce che non sia rappresentato nel corredo genetico umano sotto forma di potenzialità. Tenendo conto di questo, riesce evidente che la natura umana, oltre al bisogno di socialità, deve contenere un altro bisogno che promuove la definizione e la differenziazione dell'identità individuale. Tale bisogno era già stato scoperto da Jung sotto forma di principio d'individuazione. Si trattava dunque di darne solo una più precisa definizione teorica, di illustrarne le modalità con cui si realizza nel corso dell'evoluzione della personalità e di sottolineare il ruolo dinamico che svolge nella personalità adulta.

Queste riflessioni, corroborate dalla pratica clinica, portarono, a dire il vero lentamente, ad attribuire alla natura umana due bisogni intrinseci, cioè geneticamente determinati: il bisogno d'appartenenza/integrazione sociale e il bisogno d'opposizione/individuazione.

La teoria dei bisogni, formulata autonomamente a partire da frammenti di verità già presenti nella tradizione analitica, rappresenta la chiave del nuovo modello psicopatologico messo a fuoco ne La politica del Super-io. Il modello comporta una tensione dialettica tra il bisogno di socialità e il bisogno d'individuazione, che sottende l'evoluzione della personalità e la struttura della soggettività adulta. Tale tensione, in conseguenza delle interazioni con l'ambiente, può dare luogo ad una scissione e ad un'opposizione irriducibile tra i bisogni, vale a dire ad un conflitto strutturale che, contrapponendo la volontà altrui a quella propria, i doveri sociali ai diritti individuali sul registro dell'incompatibilità, produce a livello fenomenico la sintomatologia psicopatologica.

Tale sintomatologia, data la struttura del conflitto che la sottende, si riconduce a due configurazioni elementari: l'una caratterizzata dalla prevalenza dinamica del super-io, l'altra dalla prevalenza dinamica dell'opposizionismo.

All'epoca in cui è stata redatta La politica del super-io, mentre la teoria dei bisogni era sufficientemente chiara, il problema delle funzioni psichiche che si edificano sulla base dei bisogni giungendo a strutturare l'inconscio non lo era che parzialmente. In particolare non mi riusciva di trovare una denominazione adeguata per la funzione psichica edificata sulla base del bisogno d'individuazione. Solo dopo qualche anno sarei riuscito a denominare - come io oppositivo o antitetico - e a concettualizzare adeguatamente questa funzione. Ciò spiega una certa confusione del saggio laddove si affronta questo problema, che viene ricondotto agli ideali dell'Io o al bisogno d'individuazione frustrato.

Per rimediare a questa confusione, consiglierei il lettore di consultare anticipatamente il capitolo de La miseria della neopsichiatria che espone in forma compiuta la teoria struttural-dialettica della personalità.

Pur con questo limite, linguistico più che concettuale, La politica del super-io rimane, a mio giudizio, un saggio di grande suggestione. In particolare l'analisi delle strutture psicopatologiche e dei codici mentali neoliberali risulta, a distanza di anni, sorprendentemente precisa. La previsione che la diffusione sociologica del codice anestetico avrebbe prodotto un cambiamento piuttosto rilevante della psicopatologia, soprattutto a livello giovanile, è stata ed è confermata, in maniera inquietante, dalla clinica e si riflette in un progressivo degrado delle relazioni sociali e interpersonali all'interno della nostra società. In conseguenza di questo codice culturale, funzionale a a mantenere un equilibrio sociale fondato sulla legge del più forte, i valori superegoici, di origine religiosa e laica, risultano sempre più astratti in rapporto al modo concreto in cui le persone si rapportano reciprocamente, contrassegnato dall'oggettivazione dell'altro e dalla tendenza a considerarlo un rivale piuttosto che un sodale.

Nonostante la suggestione, La politica del super-io è un saggio di ardua lettura in conseguenza di una forma stilistica troppo densa e a tratti decisamente poco comprensibile. Questo limite non va ricondotto ad un'esplicita volontà di misurarmi su di un registro accademico, bensì alla necessità di sintetizzare in poche pagine una ricerca teorica di parecchi anni. Il lettore che, prima di consultare l'antologia de la politica del super-io, avrà la pazienza di leggere, nella sezione Archivio , i seminari che hanno preceduto, dal 1982 al 1986, la stesura del saggio, se ne renderà conto.

Indice


Introduzione

Capitolo primo

La scoperta del Super-Io e il problema della doppia identità

Capitolo secondo

Il mito gerarchico

Capitolo terzo

Integrazione sociale e opposizione

Capitolo quarto

Dialettica dei bisogni

Capitolo quinto

Eteronomia, antinomia, autonomia

Capitolo sesto

Strutture psicopatologiche

Capitolo settimo

Ideologie sociali, codici di normalizzazione e psicopatologia

Capitolo ottavo

Sistemi interattivi ed esperienze psicopatologiche

Capitolo nono

La politica del Super-Io

Glossario

Bibliografia

La Politica del Super-io


Dal Capitolo primo

La scoperta del Super-Io e il problema della doppia identità

Il termine Super-Io è introdotto da Freud nel 1923. L'intuizione dell'esistenza di questa istanza risale però al 1914. Nella Introduzione al narcisismo, Freud scrive:

"I moti pulsionali libidici incorrono nel destino di una rimozione patogena quando vengono in conflitto con le rappresentazioni della civiltà e dell'etica proprie del soggetto. Con ciò non abbiamo mai inteso che l'individuo abbia una nozione meramente intellettuale di queste rappresentazioni, ma sempre piuttosto che egli le riconosca come normative e si sottometta alle sollecitazioni che da esse gli pervengono. Abbiamo detto che la rimozione procede dall'Io. Potremmo essere più precisi e sostenere che procede dalla considerazione che l'Io ha di sé... Possiamo dire che un individuo ha costruito in sé un ideale rispetto al quale misura il proprio Io attuale... La formazione di un ideale sarebbe da parte dell'Io la condizione della rimozione".

Poco più oltre nel testo Freud aggiunge:

"Non ci sarebbe niente di strano se riuscissimo ad identificare una speciale istanza psichica che assolva il compito di vigilare affinché a mezzo dell'ideale dell'Io sia assicurato il soddisfacimento narcisistico, e a tal fine osserva costantemente l'Io attuale commisurandolo a questo ideale. Se tale istanza esiste, non è possibile che ci accada di scoprirla: possiamo solo riconoscerla come tale e ci è lecito dichiarare che ciò che chiamiamo la nostra "coscienza morale" ha questa prerogativa. Riconoscere l'esistenza di tale istanza ci rende intellegibile il cosidetto "delirio di essere notati" o, più precisamente, di essere "osservati", delirio che si manifesta con tanta evidenza nella sintomatologia delle affezioni paranoidi... I malati di questo tipo si lamentano del fatto che tutti i loro pensieri sono conosciuti, e le loro azioni sono osservate e inquisite... Tale lamentela è giustificata poiché corrisponde al vero. Una forza di questo genere che osserva, scopre e critica tutte le nostre intenzioni esiste davvero, e precisamente nella vita normale di ciascuno di noi".

La genesi di questa istanza che, nei deliri di osservazione, sembra parlare in nome del mondo, appare ovvia:

"...L'esigenza di formare un ideale dell'Io, su cui la coscienza morale è incaricata di vigilare, è scaturita nell'individuo per opera delle critiche che i suoi genitori gli hanno rivolto a voce, alle quali, nel corso del tempo, si sono associati gli educatori, i maestri e l'incalcolabile e indefinita schiera di tutte le altre persone del suo ambiente (il suo prossimo e la pubblica opinione)".

Ovvia è anche l'interpretazione del carattere persecutorio che quell'istanza assume in quanto rappresentante della norma sociale:

"Sia le voci, sia la moltitudine di persone la cui identità è lasciata nel vago sono... riportate in primo piano dalla malattia; e con ciò viene riprodotta regressivamente la storia evolutiva della coscienza morale.

Ma la ribellione contro questa "istanza censoria" dipende dall'intenzione del soggetto... di liberarsi da tutti gli influssi che sono seguiti a quelli dei genitori...

... La sua coscienza morale gli si fa dunque contro in forma repressiva, assumendo le sembianze di qualcosa di ostile che agisce all'esterno".

Già in questa fase, la linearità dell'ipotesi occulta un nodo di problemi su cui Freud non riuscirà mai a far luce. Nel Compendio di psicoanalisi, redatto nel 1938, egli ribadisce che la genesi del Super-Io concerne "effettivamente non solo la personalità degli stessi genitori ma anche le tradizioni razziali, nazionali e familiari trasmesse ai figli per loro tramite come pure le esperienze dell'ambiente sociale immediatamente circostante che essi rappresentano", e che essa "raccoglie ogni sorta di contributo da parte di eventuali successori o sostituti dei genitori come i maestri, di primo piano nella vita pubblica e certi nobili ideali sociali".

Ma, nonostante questa funzione di rappresentanza sociale del Super-Io rimanga sempre evidente nel pensiero freudiano, Freud non ne ricava mai l'ovvia ipotesi che essa attesti la predisposizione sociale della natura umana.

In nome della moltitudine che rappresenta — sterminata, in quanto comprende i vivi e i morti — quella funzione, introiettata in virtù di identificazioni, è deputata a piegare la natura umana, in sé e per sé ribelle alle norme e ai valori sociali, alle esigenze della vita collettiva in virtù non degli affetti che legano il soggetto al gruppo di appartenenza bensì del principio del più forte: i molti contrapposti all'uno...

Freud ha, dunque, scoperto nella struttura della personalità, un'istanza che sembra funzionare come una seconda identità rispetto all'Io, essendo dotata di un codice di valori, che può risultare del tutto estraneo alla coscienza personale... Non è per caso che in questo periodo Freud abbandona ogni riserva e comincia ad utilizzare, per definire tale istanza, termini antropomorfici, parlando di Censore e di Giudice. L'antropomorfismo superegoico rappresenterà, per Freud stesso e per il movimento psicoanalitico, come vedremo, un nodo gordiano di insolubile difficoltà. Di fatto, l'ipotesi di una doppia identità psichica è perturbante, tanto più se si tiene conto che l'istanza superegoica, in quanto espressione della tradizione culturale, veicolata dai genitori, dagli educatori e dalla società nel suo complesso, dovrebbe avere l'effetto di integrare socialmente la personalità, di "familiarizzarla" con il mondo rendendo ad essa "familiare" il mondo.

Ciò che invece risulta chiaro a Freud è che quell'istanza rende familiare il mondo — interno ed esterno — solo se ad essa l'individuo si assoggetta, accettandone passivamente gli ideali che veicola; se l'individuo si ribella, l'istanza superegoica da protettiva diventa persecutoria e mortificante. L'antropomorfismo superegoico è confermato da Freud in un saggio, Il perturbante, del 1920, a torto ritenuto minore. Esso è percorso da un'inquietudine che sarebbe ingenuo attribuire all'argomento, che, in apparenza, concerne l'estetica. Freud intende dimostrare che una delle forme più inquietanti di angoscia, quella significata dal termine tedesco unheimlich è dovuta al riaffiorare, dopo una lunga rimozione, "di ciò che un giorno fu heimlich (patrio), familiare", e che, in seguito alla rimozione, diventa perturbante, lugubre, sinistro. Uno dei temi sui quali Freud sofferma l'attenzione è

"il motivo del sosia in tutte le sue gradazioni e configurazioni, ossia la comparsa di personaggi che, presentandosi con il medesimo aspetto, debbono venire considerati identici; l'accentuazione di questo rapporto mediante la trasmissione immediata di processi psichici dall'una all'altra di queste persone... così che l'una è compartecipe delle conoscenze, dei sentimenti e dell'esperienza dell'altra; l'identificazione del soggetto con un'altra persona sì che egli dubita del proprio Io e lo sostituisce con quello delle persone estranee; un raddoppiamento dell'Io, quindi una suddivisione dell'Io, una permuta dell'Io; un motivo del genere è infine il perpetuo ritorno dell'uguale, la ripetizione degli stessi tratti del volto, degli stessi caratteri, degli stessi destini, delle stesse imprese delittuose, e persino degli stessi nomi attraverso più generazioni che si susseguono".

Questo motivo suggerisce a Freud la definizione dell'istanza superegoica:

"La rappresentazione del sosia... può acquisire un nuovo contenuto traendolo dalle fasi di sviluppo successivo dell'Io. Nell'Io prende forma lentamente un'istanza particolare, capace di opporsi al resto dell'Io, un'istanza che serve all'autosservazione e all'autocritica, che effettua il lavoro della censura psichica e che ci diventa nota come coscienza morale. Nel caso patologico del delirio di essere osservati questa istanza si isola, si scinde dall'Io, diventa osservabile da parte del medico. Il fatto che esista un'istanza del genere, che può trattare il resto dell'Io come un oggetto, il fatto cioè che l'uomo sia capace di autosservazione, consente di conferire un nuovo contenuto alle vecchie rappresentazioni del sosia...".

In nota, Freud aggiunge: "Io credo che quando i poeti lamentano che il petto dell'uomo ospita due anime, e quando gli psicologi popolari parlano della scissione dell'Io nell'uomo, essi intravvedono questo dissidio che fa parte della psicologia dell'Io, tra l'istanza critica e il resto dell'Io".

Alla luce di questi testi è insensato sostenere che l'antropomorfismo superegoico rappresenti una svista freudiana o un cedimento della riflessione scientifica a residui animistici. Si tratta, invece, di un'intuizione prodigiosa: e non tanto perché omologa ogni struttura di personalità ad un sosia, attribuendo ad essa normalmente una doppia identità che la psicopatologia rivela, consentendone dunque l'oggettivazione. Portata alle estreme conseguenze, quell'intuizione promuove una teoria della mente bi-modale, che postula un corredo binario di forme affettive innate…

Come tenteremo di dimostrare, il carattere perturbante della scoperta freudiana può risolversi solo ipotizzando che la funzione superegoica riconosca le sue matrici in una forma affettiva a priori sistemica, che sacralizza il legame sociale e, in conseguenza di ciò, assume l'individuo come funzione del gruppo cui appartiene.

Nel corso di ogni esperienza, quella forma integra e rinforza i valori culturali acquisti per mezzo delle interazioni interpersonali e elaborati cognitivamente. Il grado di compatibilità di tali valori con il corredo di bisogni individuali, del tutto indifferente dal punto di vista della forma affettiva superegoica, che ne impone la condivisione in nome del mito dell'armonia sistemica e del debito di appartenenza, è decisivo per il prodursi o meno di conflitti psicopatologici


Dal Capitolo secondo

Il mito gerarchico

L'identificazione freudiana del Super-Io con la coscienza morale e l'attribuzione ad esso di un ruolo produttivo e difensivo della socialità dalle pulsioni intrinseche alla natura umana, è un errore epistemologico e ideologico…

Assumendo la moralità come derivato dell'angoscia sociale, Freud eguaglia Super-Io e coscienza morale. Ma questa eguaglianza vale solo per il fatto che la replicazione dei valori culturali implica la replicazione delle norme, delle regole, delle consuetudini e dei costumi propri del gruppo di appartenenza, e cioè di un ordine gerarchico emozionalmente sacralizzato. In virtù della forma affettiva sistemica che lo sottende, il Super-Io replica la cultura propria della comunità di appartenenza come se si trattasse di un ordine "naturale" e funzionale all'armonia sistemica. È evidente che, per questo aspetto, ciecamente replicativo, esso rappresenta, nella struttura della soggettività, una mente sociale che integra nella misura in cui aliena, e la cui logica affettiva veicola un mito: il mito gerarchico, che assume l'ordine di cose esistente, fondato sulla disuguaglianza dei membri, e cioè sulla distribuzione gerarchica di ruoli, status e beni, come ordine sacro che assicura l'armonia del sistema, la sua stabilità e la riproduzione sociale.

Intrinseco alla natura umana, in quanto espressione della forma affettiva che sottende il bisogno di appartenenza/integrazione sociale, il mito gerarchico offre ad ogni sistema sociale la possibilità di naturalizzare ideologicamente se stesso e il suo ordinamento. Le sue matrici affettive e le indefinite possibilità di naturalizzazione ideologica spiegano la sua lunga durata nel corso della storia, il suo configurarsi come struttura culturale onnipresente. Di fatto, il mito gerarchico è una struttura culturale molto rigida per alcuni aspetti e straordinariamente plastica ed adattabile per altri.

La prima caratteristica ne assicura il primato, fino a che ad essa non si opponga una coscienza critica; la seconda caratteristica, che fuorvia la coscienza critica, ne permette la sopravvivenza anche quando i cambiamenti culturali sembrano incompatibili con esso.

Etimologicamente "gerarchia" significa potere sacro: adottato nel XIV secolo in riferimento all'ordinamento della Chiesa Cattolica, espressione diretta del volere divino, il termine, dal XVII secolo in poi, è stato laicizzato ed esteso all'ordinamento amministrativo e politico. La condensazione storica di questi diversi significati si è espressa nei regimi monarchici e assolutisti. Esauritisi questi regimi, il potere politico ha tentato di assimilare il carattere sacrale del mito gerarchico. Ciò fornisce la prova che questo mito può prescindere dal riferimento ad un potere assoluto, ma a patto di sostituire questo con un processo di razionalizzazione che assuma il posto occupato dai membri nella scala gerarchica come espressione diretta dei loro meriti o demeriti. Il criterio meritocratico, che è un elemento essenziale del mito gerarchico, poiché permette di giustificare la disuguaglianza dei membri, non è affatto in contrasto con la matrice originariamente religiosa del mito…

Spogliata dei contenuti teologici, la struttura del mito gerarchico è costituita da tre elementi essenziali: la definizione di un potere oggettivo e supremo; una struttura sociale subordinata ad esso ma dinamica, tale cioè da riconoscere movimenti di ascesa e di discesa come espressioni rispettivamente dei meriti e dei demeriti personali; la stigmatizzazione della ribellione al potere come colpa che postula o l'espiazione o l'esclusione dal sistema.

Risulta evidente che questa struttura, essendo meramente formale, può essere adottata da qualunque potere riesca a legittimarsi come oggettivo, pretenda esso di rappresentare la sovranità divina, una legge di natura — per cui il più forte merita il primato —, o una legge di cultura — per cui il meritevole eccelle. Negli ultimi due casi, l'armonia del sistema postula una scala di valori che promuove la sottomissione e il consenso, nonché meccanismi di sanzione e di punizione degli oppositori e dei ribelli.

Identificata la struttura logica ed ideologica del mito gerarchico, ci si può chiedere quale sia il fattore ultimo che ne assicura la coerenza e la funzionalità indipendentemente dai contenuti — religiosi, naturali o culturali — con cui esso si camuffa. È fuor di dubbio che questo fattore sia identificabile con la condanna di chi si oppone al mito. Ma il passaggio da un sistema di valori religioso ad uno laico, comporta una configurazione assolutamente nuova della condanna. Nel mito religioso, il diavolo, ribelle per eccellenza, appare insensibile al pentimento: la sua volontà, fissata nel male, è immune dal senso di colpa. Nella progressiva laicizzazione del mito, è l'appartenenza sociale, e non la vita eterna, il bene supremo; di conseguenza, la condanna si configura come esclusione radicale dal contesto sociale, secondo due forme. Essa, infatti, può essere sanzionata oggettivamente, con modalità varie che vanno dalla messa al bando alla reclusione istituzionale e alla emarginazione; oppure può essere indotta soggettivamente, in virtù dei sensi di colpa in conseguenza dei quali i soggetti colpevoli si condannano e si escludono. Sia l'esclusione oggettiva sia l'autoesclusione attestano il potere, sociale non meno che morale, del gruppo di appartenenza sull'individuo. Ma quanto più questo potere si esercita per mezzo di valori introiettati, tanto più esso pone in luce la predisposizione sociale della natura umana e il suo carattere di forma a priori dotata di una sorta di automatismo, tale cioè da produrre sensi di colpa quali che siano le ragioni per cui l'individuo entra in conflitto con il gruppo d'appartenenza.

La trasformazione più rilevante del mito gerarchico, avvenuta nel corso della storia, concerne la progressiva sostituzione dei meccanismi di condanna oggettiva con quelli di condanna soggettiva. In altri termini, i primi, un tempo assolutamente prevalenti, sono ormai meccanismi residui: essi tendono a scattare quando la condanna soggettiva non funziona.

La scoperta del Super-Io coglie, con assoluta evidenza, la laicizzazione e la interiorizzazione del mito gerarchico, in virtù della quale gli "angeli" ribelli si autocondannano e si autopuniscono.

Istallato nella struttura della personalità, il Giudice, il cui codice di leggi è rigorosamente fedele al mito gerarchico, funziona con un'efficacia che supera di gran lunga quella di qualunque apparato repressivo, giudiziario e poliziesco


Dal Capitolo terzo

Integrazione sociale e opposizione

Il Super-Io è dunque un'istanza funzionale all'affermazione e alla persistenza del mito gerarchico, che, istallata nella struttura della personalità, mira a mantenere l'Io in una condizione di perenne minorità sociale e cioè a mortificare le sue capacità critiche in rapporto ai valori che quel mito veicola e all'ordinamento sociostorico lui deve appartenere.

Il potere del Super-Io si definisce, indubbiamente, nel corso della fase evolutiva della personalità, vuoi in rapporto all'idealizzazione di cui l'infante investe gli adulti — dovuta ad un difetto di strumenti critici —, vuoi in rapporto alla dipendenza da essi. Ma che cos'è che ne mantiene il dominio nella struttura adulta della personalità, anche quando questa dispone di un'attrezzatura critica adeguata a demistificarlo e, per di più, quando il quadro di valori veicolato dal Super-Io non è riconosciuto dalla coscienza nella sua validità oggettiva? La risposta di Freud è che, nel bambino come nell'adulto, il potere superegoico si mantiene in virtù dell'angoscia sociale, e cioè della paura di una rappresaglia da parte degli altri nel caso il soggetto si abbandoni ad esprimere senza controllo le pulsioni che lo animano. Non si può non essere d'accordo. In ogni esperienza di disagio psichico, la "frattura del cristallo" lascia trasparire fantasie pulsionali anarchiche tenute rigidamente sotto controllo dal Super-Io che fa incombere su di esse, e su di una loro possibile realizzazione, la minaccia di una radicale esclusione sociale, sotto forma di morte, di follia — cui si associa l'internamento manicomiale —, o criminalità — cui si associa la reclusione carceraria. Ma il potere repressivo e punitivo del Super-Io che, nella massima parte delle esperienze, comporta, con il sacrificio delle pulsioni, la rinuncia a vivere e talora alla vita stessa, induce a pensare che la paura dell'esclusione sociale attesti, nonché la percezione realistica del rapporto di potere tra soggetto e società, un bisogno "viscerale" e irrinunciabile, al quale tutto può essere sacrificato: il bisogno di integrazione sociale, inteso come bisogno di appartenere, sia pure formalmente, ad un gruppo umano e di essere confermato…

Il mito gerarchico si afferma, dunque, facendo leva sul bisogno di integrazione sociale, in nome dell'armonia: e l'armonia implica che i rapporti di potere, la disuguaglianza sancita dal mito stesso siano riconosciuti come "naturali" e oggettivi soprattutto da parte di coloro che stanno in basso nella scala gerarchica. La persistenza del mito gerarchico nella storia induce a pensare che l'armonia, intesa come socialità immune da conflitti, eserciti un fascino persistente e quasi irresistibile sugli uomini…

È logicamente ipotizzabile che la plasticità educativa della natura umana, dovuta al bisogno di integrazione sociale, riconosca un limite intrinseco, biologicamente connotato esso stesso, atto a scongiurare che quel bisogno promuova una fenotipizzazione culturale, omogenea, totalmente tributaria del mito gerarchico. Tale limite, geneticamente intrinseco alla natura umana, può essere definito come un bisogno, il bisogno di opposizione, il cui fine è di promuovere una differenziazione dell'identità personale e l'acquisizione progressiva di un potere critico in rapporto alla realtà. Sarebbe questo bisogno, complementare rispetto a quello di integrazione sociale ma in tensione dialettica con esso, a rappresentare la matrice della coscienza morale, intesa come espressione critica, e dunque anche autocritica, di una coscienza affrancata dal mito gerarchico...

Definire il bisogno di opposizione come un bisogno radicato nel corredo biologico della natura umana, significa anzitutto concepire l'evoluzione della personalità in termini dialettici. Favorita dalla plasticità delle strutture biologiche alle influenze ambientali, massima nel periodo di maggior dipendenza e permeabilità dell'essere umano, l'interazione natura/cultura riconoscerebbe come limite naturale, l'opposizione, e cioè la tendenza ad agire attivamente e selettivamente con l'ambiente. Presente fin dalla nascita, in quanto facente parte del corredo biologico della natura umana, il bisogno di opposizione si esprime secondo modalità correlate alla fase dello sviluppo, e, in particolare, al grado di strutturazione dell'Io. Prima che si delinei e prenda forma un abbozzo dell'Io, sostanzialmente nel corso del primo anno e mezzo, il bisogno di opposizione si manifesta sotto forma di interazioni meramente "viscerali", legate al sentire, alle influenze esterne. Successivamente, esso tende a configurarsi sotto forma di affermazione della volontà individuale, dando luogo alle crisi di opposizione ben note agli psicologi dell'età evolutiva. In queste fasi, l'affermazione della volontà è fine a se stessa, poiché tende prevalentemente a sancire il potere dell'Io di opporre un rifiuto alle influenze ambientali. È per questo che le crisi di opposizione appaiono, il più spesso, irragionevoli e capricciose.

Solo un grado di integrazione dell'Io più elevato, consente al bisogno di opposizione di esprimersi in funzione dell'individuazione, e cioè di un'attività, più o meno equilibrata, volta a definire un rapporto selettivo con la realtà, tal che di questa alcuni aspetti vengano assimilati altri rifiutati. È straordinariamente importante tener conto del fatto che il passaggio dalla prima alla seconda infanzia è caratterizzato da un progressivo allentarsi dell'idealizzazione delle figure adulte: quasi sciogliendosi da un velo ipnotico, la coscienza, grazie all'attrezzatura di cui viene a disporre, comincia a cogliere la realtà umana nei suoi aspetti concreti, sempre più o meno contraddittori.

Da questo periodo si avvia un processo di differenziazione e di individuazione che culmina nella crisi adolescenziale, crisi di opposizione per eccellenza, nel corso della quale il Super-Io, erede dei valori veicolati dagli adulti, viene attaccato. È in questo periodo che l'Io può venire alla luce autonomamente, dotandosi di funzioni di autosservazione e di autocritica, procedendo cioè verso la definizione sia pure sommaria di una coscienza morale personale, o, altresì, rimanere soggetto al potere superegoico. È in questo periodo, che si esaurisce con la prima giovinezza, che si definisce l'orientamento ideologico di ogni individuo, come espressione della strutturazione della personalità, dominata più o meno dal Super-Io.

Ma il bisogno di opposizione non cessa, ovviamente, di funzionare al di là di questo periodo. Esso continua a premere per tutta la vita, mirando ad un equilibrio sempre più elevato tra integrazione sociale e individuazione. Questa pressione può provocare cambiamenti di sistemi di valore repentini anche nel corso dell'età adulta, così come — e lo vedremo — può dar luogo a crisi psicopatologiche...

L'esperienza umana, sia nelle fasi evolutive che successivamente, si giocherebbe tutta sul registro della tensione, dialettica o adialettica, tra bisogno di integrazione sociale e bisogno di opposizione. Una integrazione sociale che si realizza senza opposizione avviene in virtù dell'identificazione dell'Io con il Super-Io, e cioè in nome di una rinuncia alla coscienza critica e all'autonomia. È proprio questo tipo di integrazione che viene promossa dal mito gerarchico, poiché essa lo preserva. Funzionale a tal fine, nell'ambito della storia della nostra civiltà, è la connotazione ideologicamente negativa del bisogno di opposizione identificato con una ribellione colpevole...


Dal Capitolo sesto

Strutture psicopatologiche

1. La struttura ossessiva

La struttura ossessiva è una rigida armatura interiore e comportamentale superegoica che mira a preservare un livello di integrazione sociale acquisito, e quindi un'immagine di sé corroborata da uno o più ruoli agiti e convalidati da una rete di relazioni interpersonali, dai pericoli che il soggetto associa alla rivelazione del suo "vero" essere, che urge per effetto di un incoercibile bisogno di individuazione. In altri termini, la struttura ossessiva è caratterizzata dalla necessità di mantenere, a qualunque costo, una condizione soggettiva e sociale alienata, di normalità meramente mimetica, per scongiurare un cambiamento, peraltro irrinunciabile, vissuto in termini catastrofici.

Fenomenologicamente, la catastrofe si riferisce a due pericoli apparentemente antitetici: l'uno concerne la possibilità che l'Io, venendo meno l'armatura superegoica, crolli manifestando agli occhi degli altri la sua intima inadeguatezza, la sua vulnerabilità e impotenza; l'altro, che l'Io, travolto dalle pulsioni amorali e asociali che alberga, esploda abbandonandosi a comportamenti anormali, folli e/o criminali.

Dinamicamente costitutiva della struttura ossessiva, al di sotto di una maschera superegoica dotata solitamente di un elevato grado di coerenza, è la percezione, più o meno consapevole, di un Io "vero" scisso in due comportamenti negative: una patetica debolezza e una drammatica pericolosità sociale. La debolezza comporta la paura di poter intrattenere con gli altri solo relazioni di dipendenza, acquiescenza, sottomissione, senza peraltro scampare allo stigma del ridicolo, che l'ossessivo associa al suo essere nano, impedito nello sviluppo e cristallizzato nell'inadeguatezza.

La pericolosità sociale, viceversa, determina la paura di una perdita di controllo comportamentale che, dando luogo ad azioni amorali e asociali, esporrebbe ad un'inesorabile rappresaglia sociale sotto forma di rifiuto e/o di privazione della libertà. Per scongiurare entrambi questi pericoli, il soggetto si arrende a vivere in un'armatura, superegoicamente prescritta, che coincide vuoi con una protesi vuoi con una camicia di forza comportamentale, valutando razionalmente la normalità dei suoi comportamenti, perennemente nel dubbio che essi possano aprire uno spiraglio sul mondo interno. La percezione scissa, e in ogni caso negativa, di questo mondo determina però anche una paura fobica dell'introspezione. Anche sul versante soggettivo, non meno che su quello sociale, l'ossessivo teme, dando libero corso ai pensieri, alle emozioni, alle fantasie, di trovarsi di fronte a prove inconfutabili della sua anormalità, e dunque di impazzire. Nonché gli altri, deve dunque ingannare anche se stesso. Ciò rende necessario alimentare la scissione dell'Io, per poter continuare a dubitare, e cioè opporre ad una disarmata vulnerabilità una potenziale pericolosità e viceversa…

Nella struttura ossessiva, la scissione dell'Io è l'espressione immediata di un conflitto irriducibile tra i bisogni fondamentali che, per effetto delle interazioni con l'ambiente, giungono ad alienarsi, e cioè a configurarsi in termini tali da non poter essere integrati dialetticamente. Il blocco dell'opposizione lascia di fatto l'Io in una condizione di dipendenza impotente in rapporto alle aspettative e alle volontà altrui. Ma, nel contempo, quel blocco determina, di solito inconsapevolmente, il rifluire dell'opposizione in fantasie pulsionali che mantengono la tensione dell'Io verso la liberazione ma, per la loro configurazione esplosiva, anarchica e trasgressiva, conseguono l'effetto di terrorizzare l'Io, ponendolo di fronte alla sua intima "natura" asociale e amorale. Non potendo, perciò, procedere sulla via della individuazione, l'Io è costretto a rimanere socialmente integrato secondo la maschera alienata superegoica, che impone il rispetto, sia pure meramente formale, di norme, regole e valori che oppongono irriducibilmente natura e cultura. Il sacrificio della libertà personale in nome dell'appartenenza sociale è reso possibile, e alimentato, dall'aspettativa mitica di conseguire un dominio assoluto sulle pulsioni. L'aspettativa è vana, poiché dietro le pulsioni premono i bisogni, e la pressione si incrementa in misura direttamente proporzionale alle frustrazioni cui essi sono assoggettati dal regime superegoico.

Già il solo punto di vista psicodinamico basta a spiegare l'inerzia della struttura ossessiva: sottoposto a due forze di pari intensità ma di verso opposto — l'ideale dell'Io e i bisogni alienati di individuazione — l'Io può permettersi di oscillare solo modestamente intorno ad un punto di equilibrio che rappresenta la componente delle forze stesse. Ma, al di là del punto di vista dinamico, occorre tener conto di altri elementi che determinano l'inerzia. Come la perdita di controllo pulsionale evoca la paura di una rappresaglia sociale, così, paradossalmente, la possibilità di raggiungere un dominio completo e razionale sulle pulsioni evoca la paura della vendetta.

Affrancato dalla necessità di conformarsi alle aspettative degli altri, sterilizzato nelle emozioni e nella sensibilità, cosa potrebbe infatti impedire all'Io di trattare gli altri come oggetti, sia pure nell'ottica di una fredda razionalità? La liberazione verso l'alto, in direzione dell'ideale dell'Io, comporta rischi diversi ma non meno gravi della liberazione verso il basso, nella direzione delle pulsioni. Dovendo vivere come un servo senza dignità, l'ossessivo teme di poter diventare un padrone senza cuore. Il rapporto padrone/servo, che struttura la personalità, è l'unica forma di rapporto sociale che l'ossessivo riesce a concepire: ma la stessa sensibilità che gli impone di mantenere un atteggiamento servile, sia pure riscattato dal sentirlo come falso, gli impedisce di asservire l'altro. Non sorprende, pertanto, che egli miri vanamente a liberarsene, e che, al fine di occultarla e di negarla, frapponga tra essa e la sua coscienza una barriera di cinismo e di barbarie… 

2. La struttura isterica

Data la stessa matrice conflittuale che, colpevolizzando il bisogno di opposizione, determina la scissione dell'Io in due parti non integrabili dialetticamente, la struttura isterica si differenzia dalla ossessiva per caratteristiche molteplici. Anzitutto, la scissione è connotata culturalmente in maniera diversa: il nanismo, impotente e ridicolo, che l'ossessivo si affanna ad occultare, si configura, a livello isterico, in termini di infantilismo, innocenza, ingenuità tale che spesso è esibito; viceversa, il riferimento alla follia criminale, che incombe sull'ossessivo, si pone, nell'isterico, come onnipotenza relazionale sull'altro, su di un registro che spazia dalla seduzione al sadismo. La scissione ossessiva tra Io nano e Io folle/criminale e quella isterica tra Io angelico e Io demoniaco/stregonesco permette di comprendere i motivi per cui, nella storia della psicopatologia non meno che a livello di opinione pubblica, la struttura ossessiva risulta associata all'universo maschile e quella isterica all'universo femminile.

Benché non del tutto priva di significato, soprattutto per quanto concerne il modo in cui il bisogno di opposizione viene pedagogicamente qualificato in rapporto all'esser uomo o all'esser donna, tali associazioni si possono oggi ritenere superate in nome di una fenomenologia psicopatologica comparata che pone in luce caratteristiche differenziali più sottili.

In primo luogo, mentre nella struttura ossessiva la maschera sociale serve a fingere una perfetta normalità sul registro della correttezza comportamentale formale e ad escludere una qualunque forma di intimità, aborrita fobicamente, la maschera isterica mira meno a scongiurare l'esclusione che a promuovere una perpetua conferma. Essa si anima, dunque, su di un registro espressivo che va dall'estremo di una innocenza "infantile", che sollecita la protezione, all'estremo opposto di una disponibilità relazionale disinibita e seduttiva. Tanto l'ossessivo teme la relazione con il mondo, quanto l'isterico ne ha un perpetuo, disperato bisogno.

Questa differenza fa capo al modo diverso in cui viene perpecita l'immagine interna. Nella struttura ossessiva questa è vissuta come traboccante di pensieri, desideri e fantasie asociali e amorali; nella struttura isterica, il mondo interiore si configura come vuoto e indistinto, avvolto e velato da una nebbia che lo rende indecifrabile. L'ossessivo sa e teme di albergare una parassitaria "mostruosità", l'isterico sa di non essere che come "appare", e dunque di dover apparire continuamente per essere.

Per quanto fitta, la nebbia non riesce mai a rimuovere del tutto l'animazione dei bisogni frustrati. Ogni tanto, il velo si squarcia repentinamente e irrompono nella coscienza fantasie più o meno organizzate, quasi sempre a carattere terrificante che o la tramortiscono o si convertono immediatamente in inibizioni funzionali.

A differenza della struttura ossessiva, che argina i temuti acting-out con uno stato permanente di allarmato ipercontrollo, la struttura isterica che, per effetto della rimozione, può associarsi ad uno stato di coscienza di assoluta serenità, tende ad estinguere le irruzioni del mondo interno in virtù di collassi funzionali, fino all'estremo limite del venir meno della coscienza.

Questa drammatica reazione lascia intuire che, dietro la nebbia, ci sia un'immagine antitetica rispetto a quella che socialmente l'isterico esibisce: una seconda identità, che preme per affiorare. Mentre la maschera ossessiva, pur minacciata dall'angoscia perpetua di stare lì lì per cedere, riesce ad essere mantenuta indefinitamente, la maschera isterica, di fatto, può venir meno: in conseguenza di ciò, l'angelo, bianco o azzurro, si trasforma in un "demonio". Il cambiamento di identità si realizza, il più spesso, in un ambito privato, nel contesto di una relazione duale: la dipendenza, la passività, l'innocenza, il bisogno di tenerezza e di protezione vengono letteralmente soppiantati dall'aggressività, dalla prepotenza e da un'insensibilità fredda nei confronti dell'altro che va da uno sprezzante cinismo ad un incoercibile sadismo. Il realizzarsi socialmente di questa identità negativa differenzia compiutamente la struttura isterica da quella ossessiva: tanto quest'ultima tende ad essere inerte, rigida e ripetitiva a livello sociale, quanto la prima appare caratterizzata da una fluidità che può esitare da un momento all'altro in un brusco cambiamento di personalità. Si tratta però di una fluidità circolare: come l'isterico si affranca da una dipendenza passiva, che lo pone in balìa dell'altro, assumendo un atteggiamento di rabbiosa sopraffazione, così egli, in conseguenza dei sensi di colpa, può crollare nuovamente nella subordinazione.

Con un'evidenza maggiore rispetto alla struttura ossessiva, quella isterica pone in luce la drammatica alienazione dei bisogni fondamentali: l'integrazione sociale sembra poter avvenire solo al prezzo di un assoggettamento alle aspettative dell'altro; l'individuazione, viceversa, potersi realizzare solo sul registro della sopraffazione, della cattiveria e dell'oggettivazione dell'altro…

La tristemente nota malvagità isterica è una drammatica testimonianza dell'odio verso tutto ciò che è debole, dentro e fuori di sé. Quest'odio pone l'isterico di fronte a due soli modi di essere possibili: essere nella debolezza, nella dipendenza e nella schiavitù del bisogno di amore, rimanendo in una patetica condizione di impotenza infantile, o diventare adulti, potenti, insensibili e vivere godendo dello sfruttamento dell'altrui debolezza…

4. La struttura depressiva e maniacale

Il conflitto tra Super-Io e bisogni alienati, che determina la scissione dell'Io, riconosce nella struttura depressiva e maniacale la sua espressione più trasparente in conseguenza di una fasicità che rende socialmente percettibile quella scissione…

La specificità della struttura depressiva è denotata da varie caratteristiche. Anzitutto, come ha rilevato Freud, dalla severità del Super-Io, che in essa dispiega tutta la sua potenza colpevolizzante e mortificante. Mentre nella struttura ossessiva la minaccia superegoica produce la paura dell'esclusione sociale, e in quella isterica la condanna alla dipendenza e all'assoggettamento relazionale, nella struttura depressiva essa si "vitalizza". Nonché minaccioso e frustrante, il Super-Io appare impegnato in una progressiva azione mortificante e di affievolimento dei desideri e, parallelamente, di produzione di un dolore nel contempo viscerale e morale. L'effetto di questa azione è di evocare un senso di colpa di diversa intensità, che induce l'Io ad attaccare se stesso. L'autodenigrazione, che va da un sentimento generico di disvalore all'attribuzione a sé di colpe le più varie, pone in evidenza l'identificazione dell'Io con il Super-Io. Questo aspetto differenzia la struttura depressiva da tutte le altre, nelle quali l'Io riesce in qualche modo a difendersi e a mantenere una sia pur minima autonomia rispetto al Super-Io. Nella struttura depressiva viene meno ogni difesa: ancorchè discolparsi, l'Io denuncia la sua indegnità. Nelle forme gravi, nelle quali il parassitismo superegoico invade tutto il campo della coscienza, è il Super-Io che parla sotto le sembianze dell'Io: ciò rende possibile obiettivare i criteri di valore e la logica che esso adotta. Logica implacabile, secondo la quale esiste un ordine supremo, armonioso, integro, incorrotto contro cui l'uomo — quell'uomo — con il suo corpo e la sua anima gravati di nequizie ha attentato e inquinato, e che va restaurato pertanto in virtù di una mortificazione adeguata.

La seconda caratteristica della struttura depressiva, conseguente e complementare alla prima, è il bisogno di punizione. Nonché scongiurarla come l'ossessivo o rimuoverla come l'isterico, il depresso vive nell'aspettativa e nella convinzione assoluta che essa debba realizzarsi. Fino a certi livelli di depressione, egli, pur ritenendola giusta e inevitabile, la teme; al di là di questi, la desidera.

Il bisogno di punizione fa riferimento ad una immagine interna negativa la cui drammaticità è ad esso direttamente proporzionale. A differenza della struttura ossessiva, nella quale l'Io si sente parassitato da una mostruosità nella quale non si riconosce, e della struttura isterica nella quale l'Io frappone tra sé e l'identità negativa un velo di dubbio, che viene meno solo quando essa è agita come legittima difesa rispetto ad una temuta sopraffazione, nella struttura depressiva l'immagine interna negativa viene percepita come il vero Io, un Io indegno e colpevole. Questo vissuto, pur riconoscendo la stessa matrice dinamica, ha una configurazione diversa rispetto alle altre strutture. L'ossessivo vive nella paura che, non riuscendo a contenere le pulsioni che alberga, possa andare incontro ad una trasformazione mostruosa del suo essere; l'isterico, anche quando cambia identità, tende a giustificare la trasformazione; il depresso sente che dentro di lui — nell'anima e/o nel corpo — è avvenuta una trasformazione irreversibile e irreparabile, in conseguenza della quale ciò che era "sano" è divenuto "malato". È questo il motivo per cui la depressione si associa sempre ad un vissuto di malattia in atto, che non esiste nell'ambito di alcuna altra esperienza psicopatologica.

Questo vissuto di malattia va dall'estremo dell'esaurimento delle energie e delle spinte motivazionali fisiche e psichiche — in conseguenza delle quali il depresso si sente spento, finito, invecchiato — all'estremo opposto della convinzione di un processo morboso maligno — l'arteriosclerosi o la degenerazione cerebrale, un cancro, un'infezione, ecc. — destinato a progredire irrimediabilmente.

Nelle depressioni più gravi il vissuto di malattia si specifica ulteriormente: il soggetto, anche senza alcun riferimento ad un processo morboso particolare, sente di essere marcio, degenerato, corrotto, preda ormai di una potenza negativa, il più spesso demoniaca, che pervade il suo essere e tende a conquistarlo. Sono questi i casi in cui il rischio che il soggetto "salvi" se stesso e gli altri suicidandosi è elevato. Ma sono anche i casi che rendono trasparente il sadismo paranoico del Super-Io, che vede nell'anima e/o nel corpo un ricettacolo e una fonte di nequizie.

Qual è, dunque, la colpa che viene imputata all'Io, e della quale questi si fa carico come se, avendola già commessa ed essendone stato trasformato, non rimanesse altro che pagarla? Non c'è alcun dubbio: è la rabbia, come conseguenza di una lunga e impercettibile frustrazione del bisogno di opposizione, che, raggiunto un limite critico, viene criminalizzata dal Super-Io, imputata e punita con la mortificazione. Ciò conferma che, prima che si definisca una struttura depressiva, deve esserci un'organizzazione della personalità di tipo ossessivo: è solo quando la rabbia non può più essere controllata dalla rigida dittatura superegoica, che essa si vitalizza e si ritorce contro il soggetto. La trasformazione, restituita dal vissuto di malattia proprio della depressione, è null'altro che un'incattivirsi giunto al limite critico al di là del quale esso potrebbe tradursi in comportamenti sociali distruttivi. L'intensità della rabbia inibita rende conto del fatto che i soggetti depressi si sentono per un verso disarmati, deboli, timorosi di ogni contatto relazionale, e per un altro nutrono un'intensa vergogna sociale, come se fossero divenuti trasparenti e tutti potessero leggere dentro di loro la vulnerabilità e la cattiveria…

La pressione dei bisogni opponendosi alla mortificazione, la struttura depressiva può incrementarsi di continuo giungendo, talora, ad un bivio drammatico, tale che il soggetto o cede alla condanna superegoica suicidandosi o si ribella ad essa.

La ribellione trasforma la struttura depressiva in struttura maniacale…

Assumere l'eccitamento maniacale come prova dell'esistenza di pulsioni istintuali asociali e amorali è un errore epistemologico di enorme portata.

Nonché di uno scatenamento pulsionale, infatti, l'eccitamento è l'espressione drammatica di una costrizione alla libertà che dà la misura della mortificazione che il soggetto ha subito o si è imposto. Con assoluta evidenza, l'eccitamento mira, piuttosto che a realizzare bisogni, ad infrangere delle regole: è il piacere, e la necessità, della trasgressione il leit-motiv dei comportamenti maniacali. Al fine che questo piacere si realizzi, occorre che i comportamenti abbiano un rilievo pubblico. Il venir meno di ogni ritegno e di ogni soggezione agli occhi degli altri pone in luce un altro obiettivo della struttura maniacale: la negazione della vergogna sociale. Da ciò si potrebbe ricavare che la ribellione maniacale al Super-Io riesce ad azzerare ogni senso di colpa. Ma non è così: ciò che affranca l'eccitamento maniacale da una sterile interpretazione istintualistica è la sua qualità essenzialmente angosciosa, il suo connotarsi come una ribellione che, nella misura in cui nega la colpa, postula e promuove la repressione. Metaforicamente, il modo avido con cui l'eccitato si abbandona al piacere è omologabile all'ultimo pasto del condannato a morte. In altri termini, la struttura maniacale mira a realizzare ciò che essa sembra scongiurare: l'impatto con un'autorità esterna che agisca la repressione. Ciò significa che essa, sia pure paradossalmente, rientra ancora nell'ambito del regime superegoico. Con inconfutabile evidenza, la ribellione alla dittatura interiore sollecita il soggetto a sfidare la struttura gerarchica sociale, e ad esasperare la sfida finché essa non incappa in una repressione che riabilita il primato del potere.


5. La struttura delirante

La struttura ossessiva, quella isterica e quella depressiva possono esprimersi in maniera meramente sintomatica. Questa modalità fenomenologica configura un primo livello clinico, tradizionalmente definito nevrotico...

(...) ogni struttura, in rapporto alla sua dinamica intrinseca e ovviamente alle circostanze ambientali (aspetto — questo — su cui ci soffermeremo ulteriormente), ha delle potenzialità evolutive che sconfinano dal primo livello sia nella direzione di una risoluzione spontanea, e cioè di una normalizzazione, sia nella direzione di una progressiva intensificazione del conflitto strutturale, che non può più essere contenuto entro i confini della fenomenologia nevrotica.

Ciò che accade, in questi casi, è di grande interesse.

Le polarità conflittuali, non più contenibili, tendono a dissociarsi e ad esprimersi con modalità fenomenologiche apparentemente opposte. Benché non consapevolmente, dato che il conflitto strutturale si presenta in termini adialettici, il soggetto è costretto ad allearsi con una delle polarità conflittuali. Di conseguenza, egli deve giustificare in qualche modo questa alleanza, che determina il suo rapporto con il mondo interno ed esterno; deve, in altri termini, ideologizzare il suo modo di essere e di porsi nel mondo. Ciò che è implicito al primo livello fenomenologico, si esplicita. La struttura delirante rappresenta, per l'appunto, lo smascheramento delle convinzioni soggettive della ideologia implicita nella struttura ossessiva e nelle varianti. Ciò non significa, ovviamente, che l'esperienza delirante debba essere preceduta da un'esperienza nevrotica; la struttura ossessiva, isterica e depressiva possono, infatti, mantenersi latenti ed esprimersi fenomenologicamente solo, ed immediatamente, su un registro delirante. Ma, dal nostro punto di vista, non si dà la possibilità di un'esperienza delirante senza che essa riconosca un periodo di "incubazione" legato ad una struttura di personalità conflittuale.

Al di là del primo livello, tutto l'universo psicopatologico è, più o meno manifestamente, delirante. Si possono distinguere due ulteriori livelli: un secondo, caratterizzato da fenomenologie complesse i cui nessi con le strutture psicopatologiche originarie appaiono, in una certa misura, riconoscibili; un terzo, infine, la cui fenomenologia rende quei nessi poco o punto riconoscibili.

In rapporto al secondo livello si parla solitamente di "psicosi" ossessiva, isterica, depressiva, maniacale; il terzo livello è invece definito tradizionalmente schizofrenico (compresi gli stati misti, dissociativi e distimici)…

È evidente che nel passaggio dal primo al secondo livello avviene una scissione tra le polarità conflittuali, ciascuna delle quali tende ad organizzarsi autonomamente, chiudendo il soggetto in un modo di essere e di porsi nel mondo adialettico. Nel passaggio dal secondo al terzo livello, la scissione si radicalizza, giungendo alle estreme conseguenze.

Tenteremo ora, sinteticamente, di analizzare le singole linee evolutive.

La psicosi isterica può evolvere nella direzione di un mascheramento narcisistico sempre più marcato o, viceversa, nella direzione di una drammatica trasparenza al mondo.

Il delirio narcisistico comporta la convinzione del soggetto di possedere qualità, sia psichiche che fisiche, straordinarie. Si tratta di un delirio di onnipotenza, la cui derivazione dalla struttura isterica è attestata dal comportamento solitamente passivo e dalla tendenza al rimando e all'attesa.

Il soggetto sa di valere, e pertanto non ha alcun bisogno di impegnarsi nella vita reale, nello studio, nel lavoro, nelle esperienze affettive. Egli è convinto che il suo solo apparire non può non indurre un riconoscimento immediato della sua eccellenza. Se tale convinzione investe la sfera privata, essa si traduce in un delirio di seduzione: non appena si mostra agli altri, il soggetto è gratificato da sguardi, gesti e parole che attestano inconfutabilmente un'avvenuta conquista. Se, invece, la condizione investe la sfera pubblica del successo sociale, il soggetto vive, apparentemente senza sofferenza, nell'attesa di un'occasione che permetta al mondo di conoscere il suo valore — estetico, artistico, scientifico, politico, ecc. — e di piegarsi ad esso…

A differenza del delirio narcisistico, che promuove una tendenza, più o meno marcata, all'esibizione passiva di sé agli occhi del mondo, il delirio di vulnerabilità determina invece la tendenza opposta a rifuggire da tutte le situazioni di esposizione relazionale. Il soggetto si sente letteralmente trasparente nella sua inadeguatezza e nella sua radicale impotenza e, dato che egli riconosce la legge del più forte come unico principio che governa le relazioni tra gli esseri umani, vive questa condizione come esposta a tutti i possibili attacchi da parte di coloro che sono forti. La vulnerabilità, che il soggetto sente come definizione ontologica del suo essere, è in realtà una categoria relazionale: categoria appresa per esperienza diretta, e rinforzata da quanto accade nel mondo che la conferma.

Il delirio di vulnerabilità, che muove da una struttura isterica, impone, pertanto, al soggetto di organizzare una vita che, premunendola da ogni esposizione relazionale, soddisfi il bisogno incessante di conferma che egli ha. Questo spiega la tendenza a rifuggire progressivamente da ogni forma di socialità entro spazi familiari e domestici. Ma, il più spesso, sono proprio questi gli spazi relazionali che, inibendo l'opposizione, hanno reso il soggetto vulnerabile. In essi, dunque, il conflitto tra dipendenza e vulnerabilità si ripropone, e si apre a due sole possibili soluzioni: o il soggetto, per frustrare la sua rabbia distruttiva, regredisce in una condizione di totale infantilismo, rivendicando passivamente il ruolo dal quale non gli è stato consentito di uscire; o, viceversa, egli tende ad agire quella rabbia, istaurando una tirannia vendicativa che tende a compensare l'impossibilità di aprirsi al mondo…

La psicosi ossessiva può evolvere in due direzioni: nella direzione di un ipercontrollo comportamentale che può giungere ad investire di significati fobici qualsivoglia contatto con il mondo esterno; e nella direzione di una libertà impulsiva che sembra votare il soggetto alla emarginazione sociale.

Il delirio di contatto — che noi assumiamo in un'accezione più vasta rispetto alla psichiatria tradizionale, che riconosce "le délir de toucher" — muove dalla convinzione soggettiva di poter mantenere la propria integrità, fisica ma soprattutto psichica, solo a patto di evitare rapporti diretti, intimi e coinvolgenti con il mondo. Risulta immediatamente evidente che il delirio di contatto implica la percezione di un'estrema vulnerabilità, ma, a differenza di quanto accade nel delirio di vulnerabilità isterico, nel delirio di contatto, anziché un sentimento di inadeguatezza e di inermità, prevale un vissuto di assoluta superiorità, morale e intellettuale, rispetto ad un mondo inquinato da bassezze, disordini, volgarità e impulsi bestiali.

(… ) il delirio di contatto (si articola) su di una visione del mondo che distingue, nella personalità non meno che nel mondo, un alto e basso: ciò che è alto nobilita, spiritualizza, umanizza e rende integri: ciò che è in basso involgarisce, materializza, imbestialisce e corrompe. In virtù di questa scissione non dialettica, il delirio di contatto orienta il soggetto a rimanere al di sopra e al di fuori del mondo, e a temere ogni contatto con quanto potrebbe trascinarlo in basso. Da questo punto di vista, non sembra inopportuno parlare di un delirio di innocenza, essendo il soggetto impegnato a dar prova continuamente della sua totale estraneità ad un mondo colpevole e corrotto…

Nonostante le gratificazioni ricavate dall'identificazione con un ideale dell'Io innocente, gli equilibri assicurati dal delirio di contatto, postulando la frustrazione di ogni autentico investimento nel mondo, sono precari. Muovono da ciò due possibilità evolutive in direzione del terzo livello. La prima si realizza sotto forma di blocco "catatonico": per mantenere la sua innocenza, il soggetto è costretto a sospendere i residui contatti che egli intrattiene con il mondo esterno, ad isolarsi in casa, ad allettarsi e a rifiutare ogni scambio con l'ambiente. Tentando di impietrirsi, pur di non cedere alle pulsioni, egli paga l'estremo tributo ad una sterile visione del mondo.

L'altra possibilità evolutiva è che la maschera di innocenza venga imputata, dall'esterno, come una falsificazione, e che si avvii dunque un delirio di riferimento che può giungere a configurarsi in termini persecutori. Il soggetto, che mantiene una coscienza di sé innocente, si trova a vivere in un mondo che si anima di sospetti, di doppi sensi, di calunnie e, infine, di esplicite accuse. L'asocialità e l'amoralità del suo mondo interiore, che è la convinzione da cui muove la struttura ossessiva, vengono denunciate dall'esterno; e il soggetto, che ha sacrificato la sua vita per affrancarsene, frustrando i suoi bisogni vitali, non può che sentirsi ingiustamente offeso e perseguitato e, talora, giungere a reagire in maniera violenta per confermare la sua innocenza.

La "psicosi" ossessiva può organizzarsi in tutt'altro modo rispetto al delirio di innocenza. Dopo aver accettato, il più spesso per anni, di vivere sotto la dittatura superegoica, il soggetto, con l'intento di liberarsene, può avviare una catastrofica rivoluzione: cominciare a trasgredire impulsivamente regole sociali e valori morali per protestare la sua libertà e incoercibilità. Questo momento dinamico è identico a quello che sottende le esperienze maniacali. Ma la fenomenologia del delirio impulsivo si differenzia da queste per un elemento specifico: laddove l'eccitamento maniacale esprime una vitalità autentica che solo per la sua incontenibilità può, e di fatto, al di là di un certo limite, tende a scatenare un conflitto con la società, il delirio impulsivo si connota d'emblèe come una drammatica sfida all'autorità…

La fenomenologia clinica del delirio impulsivo è straordinariamente varia, poiché indefiniti sono i possibili comportamenti "antisociali". La distinzione più importante, per quanto generica, che si può fare riguarda i bersagli contro cui sono orientati quei comportamenti.

Talora il bersaglio è la famiglia: in questi casi, il soggetto può attaccare direttamente i suoi, deludere le loro aspettative abbandonandosi all'inerzia e al parassitismo, rubare beni familiari, comportarsi in maniera provocatoriamente offensiva nei confronti dei valori parentali, fuggire di casa e destinarsi al vagabondaggio, ecc. Talaltra, il bersaglio è manifestatamente la società e l'autorità riconosciuta: in questi casi i comportamenti asociali configurano dei reati, di rilievo minore o maggiore, orientati a sfidare le forze dell'ordine e a giungere ad un conflitto con esse. In questo ambito rientrano anche alcune esperienze di tossicodipendenza e di estremismo politico.

Se il delirio impulsivo non esita in una repressione sociale — giudiziaria o psichiatrica — è destinato ad evolvere, inesorabilmente, in un terzo livello, caratterizzato da un delirio persecutorio. Questo delirio può essere generico, e cioè riferirsi alla società da cui il soggetto si sente emarginato o minacciato.

Ma il più spesso si tratta di un delirio sistematizzato, che ha come oggetto la persecuzione da parte delle forze dell'ordine. Può anche accadere, benché più di rado, che il soggetto, oppresso dalla paura di una perdita completa della libertà come conseguenza dei suoi comportamenti antisociali, giunga a bloccarsi in un delirio catatonico, che, paradossalmente, lo pone in balìa della volontà di altri…

La "psicosi" depressiva coincide, praticamente, con un delirio di colpa, sia esso attestato dall'implacabile severità con cui il soggetto si rivolge delle accuse, sia esso "visceralizzato" e cioè vissuto come aspettiva inconsapevole di una giusta, per quanto temuta, punizione. Queste due modalità di colpevolizzazione, incrementandosi, permettono di comprendere la fenomenologia del terzo livello: la "visceralizzazione" del senso di colpa porta infatti al delirio ipocondriaco, le autoaccuse al delirio nihilistico. Il delirio ipocondriaco si fonda sulla convinzione assoluta di albergare un male incurabile. Il soggetto di conseguenza tende ad anticipare, con il suicidio, una condanna a morte già in atto nel suo corpo, e, talora, a mettere gli altri al riparo da una possibile diffusione del male.

Il delirio nihilistico rappresenta l'espressione, forse, più drammatica dell'ordine entropico imposto dal Super-Io; il soggetto sente morto e in via di putrefazione il proprio corpo, annichilita la sua anima, spento l'universo intero, scomparso nel nulla Dio stesso.

L'eccitamento maniacale coincide, infine, con un delirio di immunità. Il soggetto appare affrancato da ogni umana debolezza e da ogni vincolo fisiologico: può fare a meno del cibo, astenersi dal sonno, esporsi impunemente al caldo e al freddo, sottoporsi a sforzi fisici straordinari, affrontare senza timore ogni situazione di rischio.

Questo scatenamento di vitalità è assolutamente reale. Ma è chiaro che esso crea i presupposti per l'affiorare di un delirio di onnipotenza: il soggetto sente allora di non dover riconoscere alcun limite, né personale — fisico e psichico — né morale, né sociale. È a questo livello che il delirio di onnipotenza giunge a coincidere con un delirio di trasgressione, e si apre alla possibilità di una repressione dall'esterno.


Dal Capitolo settimo

Ideologie sociali, codici di normalizzazione e psicopatologia

Ogni struttura psicopatologica si articola su di una visione del mondo interno ed esterno incentrata su di un codice di ordine generale che distingue, nella natura umana, nelle relazioni interpersonali e nella società, un "alto" e un "basso". La pressione dei miti gerarchici — l'uno di matrice religiosa, l'altro laico-liberale — è restituita immediatamente alla connotazione dell'alto in termini spirituali — di perfezione morale e intellettuale —, o in termini sociali — di potenza e di prestigio. Ogni struttura può configurarsi come tributaria dell'una o dell'altra connotazione.

Se la struttura ossessiva riconosce una matrice religiosa, la normalità cui essa fa riferimento giunge a coincidere con la virtù, la moralità, l'ascetismo; quando la matrice, altresì, è liberale, la normalità corrisponde ad un modello di rispettabilità conformistica. Nel primo caso, l'ossessivo tende costantemente a differenziarsi dagli altri, esibendo una superiorità aristocratica che non lo espone ad alcuna rappresaglia; nel secondo, viceversa, egli aspira soprattutto all'anonimato, a non dare nell'occhio.

La struttura isterica di matrice religiosa comporta l'ostentazione di un'innocenza angelica e vagamente infantile che suscita l'ammirazione e la tenerezza; se di matrice liberale, essa invece si esprime in una disinvolta e fredda sicurezza, animata da una costante intenzione seduttiva che tende ad irretire esseri deboli. Nel primo caso viene esibita la vulnerabilità come indice di virtù, nel secondo viene ostentata una glaciale inaccessibilità.

Quando riconosce una matrice religiosa, la struttura depressiva gravita verso una normalità caratterizzata dall'affievolimento di ogni emozione calda e intensa rivolta al mondo; quando, altresì, la matrice è liberale, essa postula la repressione della rabbia come indice supremo di moralità sociale. Nel primo caso, il depresso vive nell'incubo di un senso di colpa ch'egli deve espiare mortificandosi; nel secondo, nell'incubo di una vergogna sociale che realizza, per effetto del giudizio degli altri, l'espiazione.

Ciò che viene connotato come basso all'interno di ogni struttura è agevolmente definibile secondo la logica degli opposti: nella struttura ossessiva è rispettivamente la degradazione morale e la perdita di controllo sulle emozioni; nella struttura isterica, la malizia e la vulnerabilità; nella struttura depressiva, l'abbandono alla rabbia e al piacere, come espressione di una ribellione ad un ordine sacro o sociale.

Nel delirio di contatto il soggetto difende la sua integrità morale e psichica, nella quale vede l'espressione di un'ascesa già avvenuta o il presupposto di un'ascesa da realizzare, dal rapporto con un mondo degradante e contaminante; nel delirio di trasgressione, altresì, per affermare la sua indipendenza da ogni autorità, sia essa religiosa o civile, egli tende ad infrangere le leggi o le regole sociali, votandosi alla degradazione.

Nel delirio narcisistico il soggetto mira a realizzare la sua elevazione in virtù della fusione con un oggetto d'amore — sacro o mondano — il rapporto con il quale configura una suprema armonia, immune da ogni conflitto; nel delirio di vulnerabilità, viceversa, egli regredisce in una condizione di totale inermità in rapporto ad un mondo che riconosce il diritto dei forti di dominare i deboli.

Nel delirio di colpa, il soggetto, attribuendosi desideri di vivere immorali e asociali, tende a preservare la sua anima e la sua libertà in virtù di una mortificazione che può giungere all'estremo dell'autosoppressione; nel delirio di immunità, affiora, altresì, una sfrenata voglia di vivere al di fuori degli schemi di una grigia e neghittosa normalità.

Risulta chiaro, da quanto si è detto, che il codice di ordine generale che sottende le strutture psicopatologiche riconosce almeno due diverse significazioni delle categorie di "alto" e di "basso", che permettono di distinguere le strutture stesse in due gruppi…

Nel primo, gli ideali superegoici promuovono una integrazione sociale che postula la frustrazione del bisogno di opposizione; nel secondo, viceversa, essi promuovono un'individuazione pagata al prezzo della frustrazione del bisogno di integrazione sociale…

Correlare gli ideali superegoici alle ideologie sociali non è impresa agevole. L'eterogeneità e la complessità dei primi lascia pensare che il mito gerarchico funzioni come un mostro con più teste, a ciascuna delle quali corrisponde un'organizzazione ideologica apparentemente autonoma. L'unico dato certo in comune sarebbe un'antropologia filosofica tributaria della teoria degli istinti. Quanto alle differenze, la difficoltà di rendere ragione di essa fa capo al fatto che, nel corso della storia, i sistemi di valori di matrice religiosa e liberale si sono intrecciati e sovrapposti, stratificandosi ad un livello, quello dei quadri mentali, che a giusto titolo può definirsi "inconscio sociale"…

La psicopatologia contemporanea (…) attesta che il sistema di valori neoliberale, apparentemente propositivo, poiché promuove l'affermazione personale, il prestigio, la libertà, la razionalità pragmatica, è animato in realtà da quattro nuclei fobici, che fanno capo all'essere inadeguato e impotente, all'esibizione di comportamenti che attestano origini miserabili o una condizione attuale di indigenza, al trovarsi in una condizione di penosa costrizione che attesta l'appartenenza al mondo simbolico degli schiavi, e alla manifestazione di una sensibilità che, in quanto debolezza, rende vulnerabili ad un attacco. Questi quattro nuclei fobici integrano altrettanti codici mentali, che, sotto forma di ideali superegoici, animano l'universo psicopatologico contemporaneo, e che possono essere definiti rispettivamente come codice adultomorfo, rupofobico, claustrofobico, anestetico.

L'interesse analitico che dedicheremo ad essi è imposto dalla pressione ideologica che esercitano a livello del presente sociologico. Ma ciò non deve indurre ad ignorare che la loro pretesa imperialistica urta ancora contro la sopravvivenza, a livello di storia sociale, di codici antitetici sia di ispirazione religiosa che socialista e marxista. L'analisi dei codici neoliberali ha, dunque, un carattere parziale e non esauriente, il cui scopo è, anzitutto, di mettere a fuoco una possibile metodologia dialettica di ricerca sulle ideologie sociali…

1. Il codice adultomorfo

Alle sue origini, che coincidono con l'avvento della borghesia, il codice adultomorfo si contrappone a due modelli negativi: quello delle masse popolari, e soprattutto dei poveri, fondato su un'incoercibile tendenza all'ozio e all'abbandono agli appetiti "bestiali", e quello nobiliare, parassitario e frivolo. Entrambi questi modelli sono colti come esempi d'imprevidenza e di dipendenza — passiva l'una, tirannica l'altra —: espressioni, dunque, di debolezza di carattere dovuta a lassismo morale.

In contrapposizione ad essi, il modello adultomorfo propugna la forza di carattere come attributo proprio dell'uomo nuovo. Per quanto questa possa far capo ad una predisposizione individuale, essa va promossa e forgiata attraverso un'educazione rigorosa, mirante ad espungere dalla natura umana i germi maligni che essa alligna. Tale educazione deve inculcare nel soggetto la fiducia nelle sue capacità individuali, l'accettazione della competizione e della lotta come legge dell'esistenza, l'etica del lavoro e, come obiettivi ultimi, l'indipendenza e l'autosufficienza.

Proposto originariamente come modello di normalità e di maturità valido universalmente, il codice adultomorfo è venuto ad urtare rapidamente contro un problema inerente la struttura sociale: l'impossibilità di concedere a tutti le stesse opportunità di sviluppo, e la necessità fisiologica di mantenere una quota della popolazione in uno stato di indigenza. L'ostacolo è stato utilizzato paradossalmente: anziché emarginati dal sistema, i poveri sono divenuti i rappresentanti di una categoria — quella degli esseri deboli e privi di tensione morale — che, per demeriti personali, nonché elevarsi, tende a scivolare verso il basso. Ciò ha permesso di significare quella categoria come un fantasma fobico, atto ad alimentare una dinamica sociale di fuga verso l'alto.

Un'ulteriore estensione della categoria è più recente, e si deve, in larga misura, alla scoperta psicoanalitica del bambino come rappresentante ottimale di essa, in quanto radicalmente bisognoso e dipendente dagli altri. Questa scoperta ha provocato un ulteriore rafforzamento del codice adultomorfo, che è giunto a configurare, in ogni vicenda individuale, una soluzione di continuità tra esperienza infantile ed esperienza adulta: soluzione critica che fa coincidere la morte del bambino con la nascita dell'adulto come essere forte, autonomo, autosufficiente, capace di affrontare il mondo e di lottare per affermare la sua potenza.

La contestazione fascista del modello adultomorfo borghese, giudicato mediocre, egoisticamente dedito all'interesse privato e scarsamente incline a correre dei rischi, è stata integrata al modello stesso, con l'effetto di togliere ad esso ogni residua valenza morale.

Dagli anni '70 in poi, il codice adultomorfo è giunto a definirsi nei termini di una cieca volontà di affermazione contro tutto e contro tutti. Ma la realizzazione di questa volontà impone di nascondere e di negare ogni bisogno che possa essere vissuto e interpretato come debolezza.

2. Il codice rupofobico

Mentre il codice adultomorfo ha conosciuto una progressione lineare, vanamente ostacolata dal conservatorismo religioso e politico, oscillando solo tra l'esaltazione della potenza individuale in nome dei fini supremi dello stato o dei fini privati, il codice rupofobico, codice di differenziazione incentrato sulla categoria adialettica pulito/sporco, ha una storia più complessa.

Le sue origini sono molto più antiche dell'avvento della civiltà borghese, risalendo alla contestazione cristiana del formalismo farisaico, alla cui moralità meramente esteriore viene contrapposta una moralità interiore, che propone all'uomo una lotta perpetua contro tutto ciò che di sporco agita la sua anima per effetto del Maligno.

Codice morale e, successivamente nel corso del Medioevo, codice igienico, mirante a scongiurare i contagi, esso, a partire dal Settecento, si è definito come codice sociale, devoluto a sottolineare la differenza di rango, soprattutto in rapporto alle necessità o meno di sporcarsi lavorando.

Valenze morali e valenze sociali sono poi confluite nell'ideologia della rispettabilità borghese, che implica un'intima corrispondenza tra forme esteriori e valori interiori. Alla luce di questa ideologia, l'elevazione sociale è imprescindibile da un'elevazione culturale e spirituale: lo sporco, dunque, viene ad identificarsi con la miseria, la volgarità, l'animalità istintuale, il disordine morale; il pulito, viceversa, con l'agiatezza, la superiorità, la distinzione, l'autocontrollo istintuale, la cultura e la moralità.

Proponendo un sistema di valori che associa allo status e al rango la funzione di indicatori sociali, morali e culturali, il codice rupofobico borghese tende a squalificare tutto ciò che, nella natura umana non meno che nel corpo sociale, sta in basso come primitivo, selvaggio, non evoluto, e quindi tendenzialmente amorale e asociale.

Da questo punto di vista, si può comprendere in quale misura la psicoanalisi freudiana, accreditando la teoria istintualistica, e cioè attribuendo alla natura umana un corredo filogenetico che postula la repressione come momento individuale e collettivo di civilizzazione, abbia contribuito a convalidare quel sistema di valori.

In tempi più recenti, il codice rupofobico ha subìto però un'ulteriore trasformazione. Le esigenze del capitalismo avanzato hanno trasceso la morale dell'ascetismo e della rinuncia al piacere su cui si fondava, nell'Ottocento, la rispettabilità. L'ascesa sociale e intellettuale delle classi superiori, cooptate al consumismo, ha imposto nuovi criteri di differenziazione. Nell'ottica neoliberale, stare in alto non implica più la rispettabilità, valore ormai ampiamente condiviso da tutte le classi, eccezion fatta per la categoria degli emarginati, bensì l'ostentazione di status symbols attestanti il prestigio e il successo.

Il codice rupofobico contemporaneo identifica nel lusso e nel consumo di beni materiali e culturali riservati a pochi — dai capi d'abbigliamento alle opere d'arte — l'indice di una condizione sociale prestigiosa, il cui potere di differenziazione come vedremo ulteriormente — consenta anche l'affrancamento dalla morale comune; lo stare in basso è, di conseguenza, definito immediatamente dalla miseria e in maniera indiretta da un consumo costretto entro i confini di beni necessari.

3. Il codice claustrofobico

Se il mito gerarchico ha segnato la storia dell'umanità, configurandola come storia di schiavitù, servaggi e sottomissioni, l'aspirazione alla libertà deve avere sempre animato, sotterraneamente, i cuori umani. Ma il tradursi di questa aspirazione in un codice claustrofobico, che identifica la libertà con l'affrancamento da ogni legame e da ogni costrizione, è di data recente. La scoperta di questo codice, sia pure inconsapevole, la si deve a Freud. Questi, esplorando gli universi soggettivi come pareti di caverne sulle quali vede riflettersi fantasmi di cui non può cogliere il nesso con le strutture — sociali e mentali — della realtà che in essa, con la mediazione del soggetto, si riflettono amplificandosi, coglie in quei fantasmi la prova della asocialità e amoralità della natura umana. A posteriori, tenendo conto del contesto storico ancora impregnato di conservatorismo gerarchico, è agevole vedere in essi l'espressione di un bisogno di individuazione alienato, costretto ad esprimersi nella forma del rifiuto e dell'attacco ad ogni vincolo coercitivo, sia pure esso di natura affettiva…

Il codice claustrofobico è il codice di una libertà individuale in opposizione ad ogni forma di legame sociale: libertà dunque che postula l'attacco e la dissoluzione dei legami.

Freud non può comprendere che non sono i legami interpersonali e sociali in sé e per sé ad essere odiati, ma ciò che in essi scorre: i sistemi di valori mortificanti, mistificanti, alienanti. Ma nessun altro, a dire il vero, sembra in grado di comprendere il dramma sociologico e psicologico di un bisogno di libertà che è esploso entro forme sociali e mentali che lo riconoscono solo in astratto, giuridicamente, ma di fatto lo soffocano, distorcendolo. Consiste in questo la crisi dell'ideologia liberale, che, mossa dall'intento di affrancare le potenzialità dell'individuo e della società nel suo complesso dalle costrizioni del mito gerarchico repressivo, rappresentato dallo stato e dalla chiesa, è giunta ad atomizzare l'individuo e a configurare una società civile all'interno della quale, sia a livello pubblico che privato, ciascuno si sente oppresso dall'altro.

L'ideologia fascista muove dalla crisi della civiltà borghese, che rende l'individuo avverso ad ogni progetto di riforma sociale e, nel contempo, intimamente anarchico, e tenta di risolverla riabilitando un sistema di valori collettivi atto a porre la volontà di affermazione personale, incentivata al massimo, al servizio del corpo sociale, della nazione e dello stato. Ma questa soluzione, nonché risolverlo, sposta il problema: le nazioni che la adottano giungono a sentirsi costrette entro una camicia di forza di convenzioni formali, diplomatiche. Il codice claustrofobico, che sottende l'ideologia nazionalista, esplode nell'anarchia della politica di potenza, del razzismo e della guerra.

Il sistema liberale, nel dopoguerra, non può non tener conto della crisi che ha minacciato la sua sopravvivenza. Ma, non potendo esso rinunciare all'opposizione tra libertà individuale e uguaglianza sociale, che rappresenta l'elemento dinamizzante la gerarchia sociale, l'individualismo va rilanciato inducendo un'ulteriore accentuazione claustrofobica dei legami sociali. Nonché repressa, l'aggressività viene assunta come un aspetto proprio della natura umana e autorizzata nella misura in cui essa viene devoluta a fini competitivi. In conseguenza di ciò, la moralità borghese viene riformulata e perde ogni residua connotazione religiosa. Il ceto dominante, scaricando sui ceti subalterni i valori tradizionali dell'autocontrollo emotivo e della frustrazione pulsionale, riabilita una teoria della élite che le consente di farsi promotrice di nuovi valori. Il rispetto dell'autorità viene soppiantato da una polemica antiburocraticista, che assume talora connotazioni di antistatalismo; la rispettabilità da un anticonformismo più o meno radicale incline alla sperimentazione di nuovi costumi morali; l'etica della rinuncia al piacere dall'edonismo. Ostentata senza pudore e propagandata dai mass-media, la teoria di un'élite, che sembra affrancata da ogni costrizione e irreversibilmente felice, incide nell'immaginario collettivo, schiacciando la società civile sotto il peso di un quotidiano, pubblico e privato, che non può non essere avvertito come penoso.

Non è più, come ai tempi di Freud, la repressione pulsionale — venuta apparentemente meno in conseguenza della valorizzazione dell'aggressività competitiva e della liberazione sessuale — a generare disagio sociologicamente, bensì la proposizione di modelli di libertà irraggiungibili che, a livello individuale e collettivo, funzionano come miraggi atti ad alimentare una dinamica sociale orientandola verso il regno della libertà identificato con il paradiso artificiale dei V.I.P.

Trattandosi, però, di un paradiso necessariamente riservato a pochi, non c'è da sorprendersi per il fatto che la diffusione del codice claustrofobico si traduca, negli altri, in sterili fantasie di liberazione dai pesi della vita. La psicopatologia contemporanea restituisce il codice claustrofobico nelle due versioni che esso ha sinora assunto. In alcune esperienze, tipicamente ossessive, esso si manifesta con la stessa fenomenologia descritta da Freud. Ma, in questi casi, la libertà, proprio perché si presenta con fantasie tali da evocare immediatamente la paura di un'esclusione radicale sociale, rimane inespressa sotto il profilo comportamentale, quando addirittura non dà luogo ad un aumento del controllo.

In altre esperienze, che rientrano nell'ambito isterico, l'esplosione della libertà claustrofobica avviene dopo lunghi periodi di normalizzazione. A differenza del passato, quando esitavano rapidamente in disagio psichico, queste esperienze, grazie a nuove possibilità offerte dal sistema sociale, danno luogo a rivoluzioni private a vicolo cieco. Sollecitate da una incoercibile ansia di libertà, le persone attaccano tutti i legami con la realtà, separandosi dalla famiglia, abbandonando il lavoro, cambiando abitudini di vita. Si tratta di una vera muta, che, prima o poi, dà luogo a crisi psicopatologiche, di solito depressive, dovute sia ai sensi di colpa che alla delusione legata alla scoperta della difficoltà di realizzare un'autentica libertà al di là del movimento rivoluzionario di affrancamento dalle catene del quotidiano. Quando il codice claustrofobico si attiva precocemente, a livello giovanile, gli esiti possono essere diversi. Talora, esso si traduce in una rivoluzione passiva: i soggetti abbandonano la scuola, rifiutando ogni impegno costrittivo, come ad es. il lavoro, si ribellano ad ogni legame parentale e al senso del dovere, si votano ad un'inerzia speso alimentata da sogni di onnipotenza. Talaltra, la rivoluzione imbocca direttamente il tunnel della trasgressione sistemica, sia nel contesto familiare che a livello sociale. Per qualche tempo, può sembrare che questi soggetti amino solo la "bella vita": di fatto, via via che le esperienze progrediscono, risulta chiaro che esse sono animate da una sfida "viscerale" nei confronti dell'ordine esistente, vissuto come una universale prigione, che postula, in nome di una libertà astratta, la messa in gioco dell'identità personale e sociale, e talora della vita stessa.

4. Il codice anestetico

Occorre, necessariamente, ripercorrere i quadri mentali inerenti la sensibilità per capire ciò che sta avvenendo a livello psicopatologico, oggi.

Con i suoi ideali di libertà e di giustizia, frustrati secolarmente, l'illuminismo, che non è affatto preda del mito di una fredda ragione, mette in movimento, in tutta Europa, uno sconvolgimento emozionale di massa, che rapidamente si configura come incontrollabile.

La civiltà borghese che utilizza, per affermarsi, questo sconvolgimento, orientato verso l'assolutismo conservatore e la religione, si legalizza contrapponendo all'isterismo delle masse popolari, inclini alle passioni, ai pregiudizi e alle superstizioni, il modello morale e sociale del gentiluomo dotato di un perfetto autocontrollo emotivo e capace di mantenere, in ogni circostanza, un atteggiamento equilibrato. Uno degli elementi costitutivi della forza di carattere, necessaria ad affrontare attivamente le difficoltà della vita, diventa il "sangue freddo", che, a differenza del sangue blu, può essere acquisito solo in virtù d'un'educazione mirante a temperare e a controllare gli eccessi passionali propri della natura umana.

Il codice dell'autocontrollo emotivo, che non è ancora un codice anestetico, implica un rapporto pragmatico con il sociale, un ritiro nel culto degli interessi privati e degli affetti familiari, un bisogno estremo di sicurezza che giunge, rapidamente, a configurare il modo d'essere borghese sul registro dell'aurea mediocritas. La misura emotiva è in realtà, un difetto di spontaneità, che mortifica l'identificazione con l'altro e sconsiglia, al di là del sistema familiare, ogni autentico investimento emozionale. Questa ideologia, vagamente ossessiva, fondata sul calcolo, sulla previdenza e sulla prudenza, promuove una serie di reazioni irrazionalistiche il cui rappresentante principale è Nietzsche, che al modello borghese contrappone l'uomo dionisiaco, il barbaro capace di dare sfogo a tutte le passioni positive — l'orgoglio, la gioia, l'amore sessuale, l'odio, la brama di potere. In realtà, l'irrazionalismo nietzschiano coglie un pericolo reale: che l'uomo rinunci a "sentire" per vivere tranquillo, e che il suo orizzonte vitale si esaurisca nella difesa della sua vulnerabilità emozionale rispetto ad un mondo che i fenomeni dell'industrializzazione e dell'urbanizzazione rendono socialmente inquietante e carico di tensioni.

Il conflitto tra bisogno di sicurezza e di appartenenza sociale, e bisogno di individuazione, il quale ultimo postula il coraggio di "squilibrarsi" emotivamente in rapporto al mondo, è colto drammaticamente anche da Freud, che, però, pur stigmatizzando le costrizioni eccessive che la civiltà pone all'espressione delle emozioni, non può non giungere a ritenere la normalità una condizione difensiva, configurandosi l'Es, con le sue passioni selvagge, come una fonte pulsionale controllabile ma, in sé e per sé, indomabile.

L'urto tra razionalismo borghese e irrazionalismo vitalistico si realizza, inesorabilmente, nel corso della seconda guerra mondiale. E lascia tracce nelle popolazioni civili, che hanno sofferto l'indicibile nella memoria collettiva.

Nel corso del dopoguerra, in rapporto agli sviluppi della scienza e della tecnologia, il richiamo alla razionalità pragmatica diventa un'ideologia ufficiale. La passionalità viene stigmatizzata come promotrice di utopie pericolose, che possono disinnescare le potenzialità distruttive che incombono sull'umanità. Coinvolti in un processo storico che ormai sembra sfuggire al controllo di chicchessia, e si tiene sul filo del rasoio di equilibri precari, gli uomini non possono trovar rifugio che in ritiro emotivo dal mondo.

Ma non si tratta di una difesa che assicura la quiete: perché il ritiro emotivo dal mondo non coincida con un'autoesclusione, occorre adattarsi razionalmente e rispondere alle pretese di una società in cui i ritmi di sviluppo diventano vieppiù affannosi. Il codice anestetico si fa carico di questa duplice necessità — di isolarsi emotivamente e di competere senza tregua — e promuove un nuovo modello antropologico: quello dell'uomo che, alla stregua di un elaboratore elettronico, valuta razionalmente i suoi investimenti nel mondo — sia a livello sociale che privato — in termini di costi e di benefici.

Anni fa, un film fantascientifico — L'invasione degli ultracorpi — aveva preconizzato l'avvento del codice anestetico: liberati dalle emozioni da una trasformazione parassitaria, che, per il resto, rispettava tutte le altre caratteristiche, fisiche e psichiche, gli individui attestavano una completa beatitudine. Il protagonista, che rifiutava visceralmente quella trasformazione, riusciva a scampare all'invasione e a dare l'allarme al mondo. In un remake più recente il lieto fine saltava: non c'era più scampo per nessuno.

La psicopatologia contemporanea, più della sociologia, che ha indotto Lasch a definire la condizione dell'Io minimo, che, sentendosi assediato e vulnerabile, mira unicamente a sopravvivere, funziona come un'inquietante documento dell'incessante pressione del codice anestetico. Già le statistiche attestano che, negli Stati Uniti, un quarto degli utenti si rivolgono a psichiatri e psicoterapeuti per una sorta di apatico interesse nei confronti della vita, che invano si tenta di inquadrare in una fenomenologia depressiva, mancando, di fatto, ogni altro sintomo che non sia un difetto di sensibilità. Ma, al di là delle statistiche, i dati tratti dalla pratica sono ancora più inquietanti. Indubbiamente, gran parte delle depressioni larvate attuali, che non compromettono l'efficienza individuale, ma tolgono la gioia di vivere, attestano la necessità di una difesa anestetica dalle tensioni della vita.

Ma c'è di più. La struttura isterica si va trasformando ed estendendo a macchia d'olio: anziché le brusche esplosioni emozionali di un tempo, essa si esprime nell'accettazione della vita nella logica della sopraffazione. Molti giochi relazionali senza fine, tra coppie coniugali o tra genitori e figli, sono caratterizzati da dinamiche sado-masochiste il cui obiettivo è l'insensibilità, che viene perseguita da ciascuno sia esprimendo cinismo che ricevendo dall'altro rappresaglie che, facendo soffrire, dovrebbero produrre una sorta di mitridatizzazione al dolore.

Più drammatica è la condizione di adolescenti che, avendo adottato il codice anestetico, tendono a socializzare a partire da una identificazione immaginaria dell'Io come invulnerabile e immune da risonanze emotive. Essi vivono, per periodi più o meno lunghi, in una maschera che attesta l'insensibilità. Ma, prima o poi, vengono ad urtare in situazioni di coinvolgimento emotivo che comportano catastrofi di destrutturazione…


Dal Capitolo ottavo

Sistemi interattivi ed esperienze psicopatologiche

Nessun soggetto può affrancarsi totalmente dalle determinazioni che subisce nel corso delle fasi evolutive della personalità; ma queste determinazioni, dall'adolescenza in poi, agiscono sotto forma di proscrizioni, prescrizioni e proposizioni superegoiche che investono la totalità dell'esperienza individuale, sia sotto il profilo soggettivo che comportamentale, e il cui potere sull'Io non è meramente rievocativo, fondandosi esso su un grado di alienazione dei bisogni che lo rendono necessario al fine di preservare l'identità personale e sociale. L'influenza dell'ambiente esterno, enorme nelle fasi evolutive, tende a ridursi progressivamente in misura proporzionale allo strutturarsi del conflitto tra Super-Io e bisogni alienati: in ogni esperienza, c'è un momento critico al di là del quale il mondo interno, con la sua matrice conflittuale che esprime la storia interattiva del soggetto con gli ambienti evolutivi, diventa determinante, nel senso che condiziona il modo di essere e di porsi del soggetto in rapporto al mondo.

(…) Il determinismo soggettivo, per quanto possa giungere a configurare una visione del mondo e una pratica della vita apparentemente dereistiche, non è altro che l'amplificazione di una matrice conflittuale determinata, sia per quanto riguarda il grado di alienazione dei bisogni che i valori superegoici, dall'ambiente.

La determinazione ambientale non va intesa, però, in senso meccanicistico. Ogni famiglia veicola, attraverso i singoli membri ed il sistema, una quota di bisogni alienati e la corrispondente sovrastruttura superegoica, riconducibili alla storia sociale e personale dei membri genitoriali e alla integrazione ideologica del sistema familiare. Occorre, dunque capire come e perché, ad un certo livello della catena generazionale, si determina una situazione congiunturale, tale per cui quest'integrazione può produrre un'ulteriore normalizzazione o un'esperienza di disagio psichico; e, in secondo luogo, perché il conflitto strutturale latente nel sistema familiare si esprime, svelandosi o amplificandosi, in un figlio piuttosto che in altro.

Il primo problema può essere agevolmente compreso se si utilizza dialetticamente la teoria dei bisogni. Trasmettendosi di generazione in generazione, il mito gerarchico, rimanga esso vincolato ad un sistema di valori di matrice religiosa o si affranchi da esso laicizzandosi, determina un'alienazione sempre più marcata dei bisogni, che può essere mascherata da una sovrastruttura superegoica, manifesta o latente, sempre più rigida. Date le loro matrici biologiche, i bisogni, però, continuano a premere: anzi, la pressione che esercitano si può ritenere direttamente proporzionale alla loro alienazione.

È facile capire che, per questa via, si configura, dopo alcune generazioni, una struttura congiunturale, tale che la matrice conflittuale o si esprime psicopatologicamente o si risolve in virtù di un radicale cambiamento di sistemi di valori. Talora, sembra che in alcuni sistemi familiari si realizzi questa seconda possibilità. E ciò rende misterioso il riprodursi, nella struttura esperienziale di un figlio, di un Super-Io apparentemente estraneo alla visione del mondo cosciente genitoriale. Ma, se si ricostruisce la logica delle proscrizioni, prescrizioni e proposizioni superegoiche, affiora sempre un quadro di mentalità individuabile nella storia sociale familiare, anche se a livello di generazioni passate. In questi casi, la trasmissione dei valori superegoici avviene, il più spesso, saltando apparentemente la generazione genitoriale: ma occorre ammettere logicamente, e, se si danno le occasioni, si può anche dimostrare, che si tratta di un fenomeno di latenza. Il Super-Io filiale riproduce, in breve, amplificandolo, un Super-Io genitoriale mascherato ideologicamente da una visione del mondo incentrata, apparentemente, su valori diversi.

Anche considerando il sistema familiare più semplice, quello nucleare, non si può ignorare, peraltro, che la coppia genitoriale è costituita da persone distinte, ciascuna con il suo bagaglio di storia sociale e individuale.

Ciò determina, spesso, conflitti tra sistemi di valori superegoici di matrice diversa. Per quanto questi sistemi possano essere ricondotti al mito gerarchico, la loro coesistenza e la loro proposizione da parte dei genitori realizza un ulteriore effetto congiunturale: in tali casi, infatti, il processo di socializzazione dei figli si configura come un processo di acculturazione.

Se i sistemi familiari, anziché sotto un profilo psicodinamico o comunicativo, vengono analizzati mirando a definire il conflitto strutturale attivo nelle personalità genitoriali, i sistemi di valori superegoici effettivamente trasmessi e le coperture ideologiche del conflitto, si riesce agevolmente ad individuare una situazione congiunturale e a valutarla come espressione di una storia sociale, genealogica e personale tributaria del mito gerarchico, in una o più delle sue versioni ideologiche, giunta ad un livello critico tale che i bisogni alienati, non potendo più essere contenuti nei sistemi di valori trasmessi, postulano o un'ulteriore normalizzazione regressiva o lo strutturarsi di un'esperienza psicopatologica.

Non possiamo, per ovvie ragioni di sintesi, delineare le indefinite costellazioni familiari che configurano ciascuna una situazione congiunturale. Dobbiamo, però, almeno dire che, in epoca recente, la stratificazione e la condensazione a livello di mentalità di sistemi di valori di matrice religiosa e di matrice liberale, funzionali al mantenimento del mito gerarchico ma in opposizione, ha prodotto, a livello familiare, una situazione che si può ritenere critica in senso generale. Lo stato di cose esistente nel mondo, che postula l'accettazione di una disuguaglianza arbitraria come espressione di meriti o demeriti individuali, induce, sempre più spesso, le famiglie ad imporre ai figli il rispetto dell'autorità, delle regole sociali e dello status quo, e, nel contempo, a sollecitare in essi un'intraprendenza che, avendo come obiettivo l'ascesa sociale, postula l'accettazione della legge del più forte. In altri termini, la gerarchia, riconosciuta per un verso, va rifiutata per un altro: ché ascendere socialmente significa, né più né meno, scavalcare qualcuno o prendere il posto di un altro.

Un esempio paradossale, ma estremamente significativo di questa confusione ideologica, è fornito da famiglie di tradizione cattolica che promuovono nei figli il bisogno di primeggiare, nella scuola e nel lavoro, come espressione dei valori cristiani del senso del dovere, dell'abnegazione e della donazione agli altri.

Questo approccio al sistema familiare può essere facilmente equivocato come un approccio culturale o cognitivista. In realtà, esso ha poco a che vedere con il culturalismo. In primo luogo, infatti, ciò che si sostiene è che le famiglie trasmettono di fatto non un sistema di valori bensì un conflitto strutturale cui quei valori dovrebbero rimediare. In secondo luogo — e non si rifletterà mai abbastanza su questo — i sistemi di valori familiari non vengono mai proposti, originariamente, in forma intellettuale: essi, infatti, ne siano o no consapevoli i genitori, si traducono immediatamente in pratiche educative, e cioè in un sistema di proscrizioni, prescrizioni e proposizioni più o meno esplicite che investe i bambini in quanto esseri senzienti, e tende di fatto a modellare, impregnare e determinare il sentire. È la sensibilità la qualità primaria dell'educabilità: qualità anteriore alla ragione, alla quale si rivolgono le pratiche educative. È su di essa, strutturandola, che in virtù dell'identificazione con i grandi, si fonda il potere del Super-Io. La dipendenza e il cieco affidamento dei bambini, per alcuni anni, configura l'unica condizione sociale "naturalmente" gerarchica. Profittando di questa condizione, l'onnipotenza genitoriale si esercita paradossalmente dando luogo ad un'amplificazione del conflitto strutturale latente nel sistema familiare, si esprima esso nel progetto di realizzare con il proprio figlio un rapporto di totale armonia, esente da ogni conflitto, o, viceversa, nel tentativo di correggere precocemente tutti i disordini e gli squilibri che esso esprime.

Il tipo e il grado di conflitto strutturale veicolato dalle famiglie incide a livelli diversi della evoluzione della personalità. Talora, esso realizza un effetto rapidamente paralizzante o squilibrante, frustrando gravemente o attivando il bisogno di opposizione: i bambini inibiti, più o meno gravemente, sul piano comportamentale e, viceversa, iperattivi e difficili sono i drammatici testimoni di un'alienazione precoce dei bisogni. Più spesso, l'incidenza del conflitto strutturale familiare si incrementa progressivamente nel corso della crescita, soprattutto in rapporto alle crisi di opposizione, giungendo al massimo grado all'epoca dell'adolescenza. Al di là di questo periodo, l'influenza della famiglia non viene meno, ma indubbiamente il modo di porsi del soggetto in rapporto ad essa e in rapporto al mondo assume un significato determinante…

Il secondo problema, definito dall'affiorare del disagio in un figlio piuttosto che in un altro richiede una risposta articolata. Occorre tenere conto di due fattori, gli uni casuali gli altri predisposizionali, concorrenti nel trasformare una situazione congiunturale familiare in esperienze psicopatologiche. I fattori casuali sono riconducibili all'identità biologica, all'ordine di genitura, all'intervallo tra le nascite, al numero dei figli, a circostanze particolari quali malattia e morte di un membro genitoriale, separazione dei coniugi, cambiamenti residenziali, vicissitudini socio-economiche, ecc.

Tali fattori si possono ritenere casuali in quanto il ruolo che essi svolgono, talora determinante, dipende dalla incidenza che essi hanno sull'assetto, psicologico e sociale, del sistema familiare; il loro ruolo, pertanto, non essendo mai diretto, bensì mediato da un particolare sistema familiare, può essere definito di volta in volta ma non teorizzato.

I fattori predisposizionali sono, altresì, riconducibili genericamente alla ricchezza del corredo dei bisogni. Come si è detto nella prima parte, i bisogni sono complementari tra di loro, ma si manifestano, nella loro tensione reciproca che esprime il potenziale evolutivo individuale, in tempi diversi e a fasi alterne.

L'alienazione dei bisogni, che si può ricostruire all'interno di ogni esperienza di disagio psichico, induce ad ipotizzare un'originaria e vivace sensibilità "viscerale" che, in virtù dell'identificazione con gli adulti, induce una spiccata tendenza a conformarsi e a rispondere alle loro aspettative. Ciò implica una strutturazione del sentire che si modella in rapporto alle proscrizioni, alle prescrizioni e alle proposizioni superegoiche ambientali.

Non è superfluo ripetere che la matrice del Super-Io, ciò che ne rappresenta il calco, attiene la sfera emozionale, non quella cognitiva: solo in fasi successive dello sviluppo, questa matrice è destinata ad arricchirsi di contenuti culturali che la confermano e la ideologizzano.

Quanto più la sensibilità è vivace, e dà luogo alla introiezione delle aspettative superegoiche ambientali, tanto più, complementarmente, occorre ammettere che sia attivo il bisogno di opposizione. È evidente che lo scarto tra quelle aspettative e questo bisogno determina la struttura originaria della personalità. Tale scarto può evolvere secondo varie possibilità in rapporto alla plasticità dell'ambiente familiare, all'interazione con ambienti extrafamiliari e all'acquisizione di strumenti culturali critici che rendono possibile elaborarlo. Il fattore predisposizionale perché si definisca un'esperienza di disagio psichico non è dunque specifico, ma generico, coincidendo con un corredo ricco di bisogni. Se questo è vero, ed è — tra l'altro — confermato dall'intensità dei bisogni che, benché in forma alienata, sottendono in ogni esperienza psicopatologica, occorre guardarsi dall'esasperare tale affermazione in senso antipsichiatrico, giungendo ad attribuire ai disagiati psichici un significato testimoniale utopistico che essi non hanno e che non pretendono di avere. Indubbiamente non si dà un'esperienza psicopatologica se non a partire da un corredo ricco di bisogni, ma è infondato sostenere che un corredo di tal genere, dato lo stato di cose esistente, non può esitare che in un'esperienza psicopatologica.


Dal Capitolo nono

La politica del Super-Io

 

La politica del Super-Io utilizza la predisposizione della natura umana alla socialità per produrre consenso collettivo in rapporto ad un ordine che si fonda sulla disuguaglianza tra gli esseri umani. Per ciò, essa si può definire a ragione universalmente funzionaria del mito gerarchico, il cui ordinamento, che postula un potere diverso — maggiore o minore — riferito ai diversi ruoli sociali, essa avalla e naturalizza ideologicamente, al fine di mantenere, in nome del principio della condivisione dell'esperienza comune, l'armonia sociale, e di estinguere, meno con la repressione che con il consenso, le potenzialità conflittuali dovute alla disuguaglianza. La valutazione della politica del Super-Io è, dunque, subordinata, in linea generale alla necessità oggettiva della gerarchia sociale ai fini del buon funzionamento della struttura sociale e, in riferimento ai modi in cui essa si è espressa e si esprime storicamente, al rapporto tra costi e vantaggi, e cioè alla quota di bisogni umani che essa richiede di sacrificare, in nome del bene comune, sull'altare dell'integrazione sociale alienata, del rispetto di regole, norme e valori introiettati che vanno riconosciuti come sacri, e dunque posta in essere, nonostante un eventuale disaccordo soggettivo…

È fuor di dubbio che la gerarchia sociale corrisponde a criteri in una certa misura oggettivi laddove, come presso i primitivi, si danno contesti sociali faccia a faccia, che consentono la valutazione delle qualità personali in nome di un'interazione diretta tra i membri del gruppo. Inferire da ciò che la complessificazione — quantitativa e qualitativa — della vita sociale, che segue la nascita della storia, non abbia comportato rilevanti cambiamenti in un processo selettivo culturale consolidatosi in un tempo sterminato, appare arbitrario. È oltremodo probabile che, nel corso della storia, ci sia stato un periodo critico decisivo in cui coloro che detenevano il potere e ambivano a mantenerlo e, ancor più , a trasmettere ereditariamente i privilegi siano riusciti, con raffinati strumenti ideologici di cui essi soli disponevano, a sottrarsi al controllo sociale.

Il mito biblico del potere supremo divino attaccato, per invidia, dal demonio, rappresenta una ideologizzazione di una "mutazione" culturale realmente accaduta. Non è lecito ignorare le circostanze oggettive — demografiche, economiche, sociali, ecc. — che possono aver contribuito ad indurla. Rimane il fatto che, in virtù di essa, il riconoscimento sociale di qualità superiori è venuto meno in nome della necessità di sottomettersi ad un potere autodivinizzatosi che, occultandole, ha amplificato a dismisura quelle qualità rendendole incommensurabili. In seguito a questa mutazione, il bisogno di opposizione, orientato a definire la pari dignità degli esseri umani al di là del diverso valore individuale, è stato identificato come ribellione colpevole nei confronti di un ordine sacro.

Sarebbe oltremodo interessante ricostruire la storia del mito gerarchico, di questo recinto mentale che, per effetto della forma superegoica a priori rende sempre troppo lenti i processi di ristrutturazione sociale in rapporto al capitale dei bisogni umani e nel contempo, periodicamente, li accelera rendendoli turbolenti ed esplosivi. Le previsioni, errate, di Marx di un definitivo superamento di quel mito in conseguenza di una ristrutturazione, inesorabilmente esplosiva, finale, che avrebbe inaugurato una nuova storia, fondata su di un ordinamento rispettato e alimentato da individui liberi, dotati cioè di una coscienza morale critica, non hanno tenuto conto della potenza ideologica, più ancora che economica e sociale, del mito gerarchico, del suo riprodursi attraverso i processi di socializzazione e, soprattutto, di una "mutazione" culturale, alla sua epoca latente, la cui importanza risulterà, nel tempo, forse pari alla divinizzazione del potere monarchico che lo ha inaugurato.

Giunto agli estremi limiti di una crisi destrutturante, il mito gerarchico corporativo, fondato ideologicamente sul riferimento ad un sistema di valori sovraindividuali, rappresentati dal potere, la cui ultima e drammatica espressione è stata il nazionalsocialismo, si è trasformato in seduttivo, rendendo il potere — economico, sociale, culturale — un miraggio accessibile a tutti all'unico prezzo del rispetto delle regole del gioco sancite ideologicamente come oggettive.

Ciò è avvenuto in virtù dell'ideologia meritocratica, che, orientata in passato praticamente solo a sancire la giusta punizione per i ribelli, si è dispiegata mobilitando la struttura sociale ad assegnare un premio ai consenzienti.

È difficile negare che, anche sotto questo profilo, il mito gerarchico, modernizzandosi, abbia conservato integralmente le sue matrici religiose, rendendole però ideologicamente più insidiose. Nonché negare la disuguaglianza, l'ideologia meritocratica contemporanea la fa ricadere nell'ambito della responsabilità personale e identifica la collocazione gerarchica di ogni individuo con l'espressione oggettiva dei suoi meriti e demeriti.

A ciascuno è offerto di ambire all'ascesa sociale: la mobilità senza apparente sbarramento tra categorie sociali rappresenta l'aspetto rivoluzionario del nuovo mito gerarchico. Ma l'ascendere, conseguendo un prestigio e un potere vieppiù crescenti, è subordinato all'accettazione e alla pratica di un sistema di valori che si può giudicare perverso poiché esso impone l'ossequio nei confronti delle autorità, il conflitto competitivo con i pari, e un atteggiamento sprezzante nei confronti di chi è più in basso. I codici mentali, analizzati in precedenza condensano questo sistema di valori, e integrano nel complesso un quadro mentale per definire il quale non è improprio parlare di neodarwinismo sociale edulcorato. Alla luce di tale quadro mentale, tutto ciò che, nella natura umana impedisce la compiuta espressione dell'individualità, l'accettazione razionale del principio della competitività, viene ad essere identificato come debolezza infantile, inadeguatezza, demerito. Cosa ricade in questo ambito? La sensibilità, intesa come tendenza ad identificarsi con l'altro, che può compromettere la necessità di usarlo come strumento o oggetto della propria realizzazione.

In questo uso non si vede nulla di immorale, purché esso si mantenga nei limiti della legalità, poiché le regole del gioco non impediscono a chicchessia di difendersi o di perseguire un intento simmetrico. Chi non riesce a dominare, soffocare o anestetizzare la sensibilità, non è che in apparenza posto fuori del gioco: in realtà, si pone egli stesso fuori del gioco.

Un'obiezione, che vale la pena di anticipare, essendo essa ampiamente ventilata, è la seguente. Se gli uomini, nella stragrande maggioranza, accettano di concorrere ad una situazione sociale che impone la mortificazione della sensibilità, ciò non attesta forse una predisposizione naturale complementare a questa, che comporta la possibilità di trattare l'altro come un mezzo e non come un fine? Quale altra ipotesi può spiegare questo fenomeno? Un'ipotesi che lo storicizza.

L'astuzia del mito gerarchico maturato nel corso dell'ultimo secolo all'interno della civiltà occidentale consiste nell'avere indotto, collettivamente, la fobia di una condizione sociale che esso, al suo esordio, ha prodotto, sia pure ereditandone le premesse dal passato: la condizione della miseria, intesa come condizione di assoluta dipendenza e precarietà, intimamente associata alla schiavitù, alla vergogna, alla malattia, alla corruzione. È questo fantasma fobico, che inquieta ormai tutte le esperienze soggettive, a funzionare come terreno predisposizionale su cui attecchisce agevolmente il mito gerarchico contemporaneo, e a sollecitare la struttura sociale, minacciata costantemente dalla recessione, spettro simbolico di depressione e di morte, verso un regime che si può definire, senza remore, maniacale. Ciò che Marx non ha previsto, né poteva prevedere, è che quel fantasma, anziché attivare la ribellione dei sub-jecti nei confronti di una struttura sociale e mentale che si alimenta della precarietà che produce, attivasse un'universale sottomissione al mito gerarchico animata dalla speranza di un riscatto individuale.

La trasformazione del mito gerarchico da repressivo in seduttivo, e la sovrapposizione dei due miti nell'ambito del quadro mentale contemporaneo, permette di comprendere la ristrutturazione ideologica della politica superegoica.

Essa continua a reprimere il bisogno di opposizione, ma, al contempo, mira a pervertirlo in un'aggressività competitiva, funzionale alla realizzazione di un bisogno di integrazione sociale orientato verso un ideale dell'Io onnipotente, affrancato dal fantasma della precarietà, della schiavitù e del dolore. Nonché asociale ad amorale per natura, l'uomo è irretito nella trappola superegoica del bisogno irrinunciabile di integrazione sociale, in nome del quale è disposto a sacrificare il bisogno di opposizione, che gli è concesso vivere sotto forma di cieca volontà di affermazione contro tutto e contro tutti. Questa perversione del bisogno di opposizione implica, come si è detto, una omologa perversione del bisogno di integrazione sociale che, scisso dalla sensibilità e animato di aggressività competitiva, promuove la sottomissione a chi ha potere, l'identificazione con essi e la tendenza a sopraffare o a trattare come oggetto i più deboli. Piegandosi alla nuova morale dell'ascesa sociale e del rifiuto della sensibilità che la ostacola, la politica superegoica oggi rivela come non mai la sua funzione meramente conservatrice dello status quo e la sua sostanziale indifferenza a valori autenticamente morali.

Non abuseremo di categorie psicopatologiche se definissimo questa politica, e ovviamente il mito gerarchico che in virtù di essa fa presa sulle esperienze soggettive, come "paranoica": preda di un ideale d'onnipotenza dell'Io, essa, infatti, si sente minacciata da tutto ciò che contrasta il perseguimento dell'onnipotenza. Dalla natura umana stessa, dunque, che si oppone alla sopraffazione dell'uomo sull'uomo, e, di conseguenza, da ogni cultura, ideologia o movimento politico che, in nome dei bisogni umani, l'attacca.

Gli storici che hanno dedicato, più di tutti gli altri studiosi di scienze umane e sociali, la loro attenzione ai quadri di mentalità, sanno bene che in rapporto agli altri livelli strutturali della realtà — i livelli economici e sociali — essi evolvono con una straordinaria lentezza, sovrapponendosi tra loro, condensandosi in nome di alcuni elementi comuni, investendo e appropriandosi di diverse aree sociali. Il passaggio dal mito gerarchico repressivo al mito gerarchico seduttivo conferma puntualmente ciò.

L'elemento in comune tra i due quadri mentali, che appare indispensabile ad entrambi, è la stigmatizzazione dell'opposizione come ribellione ad un ordine armonioso che essa pone in gioco, e la necessità di sanzionarla con la punizione e/o con l'autoemarginazione. I diversi sistemi di valore — l'uno di matrice religiosa, l'altro di attrice laico-liberale — permettono, però, di comprendere che, nonché di una crisi di valori, come si è già detto, nella nostra civiltà occorre parlare di un eccesso di valori eterogenei, accomunati solo dall'intento di promuovere l'assoggettamento dell'Io al mito gerarchico. L'universo psicopatologico, proprio per la sua capacità, rivelata da Freud, di funzionare come un cristallo frantumato, offre le prove più convincenti di quell'eccesso.

In questo universo, la repressione pulsionale, che, in realtà, è la repressione di bisogni alienati e frustrati, vissuta come necessaria al fine di mantenere un minimo di integrazione sociale, e cioè una maschera atta a celare l'animalità istintuale, appare funzionale al progetto di liberare le energie pulsionali nella direzione di un'affermazione onnipotente dell'Io, che riconosce come limite unico il rispetto formale della legge. In altri termini, la repressione dell'opposizione, apparentemente dovuta a motivi reali, mira in realtà a pervertirla in aggressività competitiva, in energia atta a giocarsi la vita secondo le regole del gioco meritocratico. Questo progetto non sempre funziona: in una quota rilevante di soggetti, la repressione determina ancora un blocco dell'opposizione e dell'aggressività, e cioè gli effetti che il vecchio mito gerarchico mirava a conseguire. Ma si tratta di effetti non più programmati e nemmeno auspicati dal nuovo mito gerarchico, per quanto anche essi possano essere utilizzati per confermare che chi non si dà da fare e non riesce ad ascendere socialmente si pone fuori gioco per suo demerito. Sono questi gli effetti che più costantemente si realizzano nelle strutture di personalità che esprimono un disagio psichico, e, nonché compensati dall'adozione dei codici mentali normativi, risultano esasperati e, in ultima analisi, patetici.

Il dramma dell'universo psicopatologico contemporaneo è lo scarto rilevante tra il modo di essere reale, determinato dal Super-Io repressivo e punitivo, e le fantasie che tendono a rimediare all'impotenza prodotta da quel modo di essere, che appaiono sempre più vincolate a valori astratti di onnipotenza, di libertà, di prestigio sociale e di durezza di cuore, determinati da un ideale dell'Io superegoico.


Bibliografia*

 * Le tematiche affrontate nel saggio — dalla neurobiologia alla storia sociale — richiederebbero una bibliografia sterminata. Si è preferito optare per l'essenzialità, sia pure al prezzo della parzialità. Il referente immaginario, un lettore appassionato ma non necessariamente dotto, giustifica la citazione di sole opere disponibili in lingua italiana.

 

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