La Follia Vitalista

1.

Ho già rilevato, nell'introduzione a questa sezione, l'incompatibilità tra bioetica cattolica e bioetica laica. Tale incompatibilità verte sul significato oggettivo della vita che, essendo per i cattolici un "dono" divino, non può essere in alcun modo rifiutata Questo presupposto, che assegna all'uomo il ruolo di amministratore di un bene - il corpo - che va tutelato in quanto contenitore dell'anima, è ovviamente inaccettabile per i laici secondo i quali la vita è un prodotto dell'evoluzione naturale, di una cieca volontà schopenaueriana, che, a livello umano, è esperita soggettivamente. Da questo punto di vista, l'uomo ha il diritto di prendere posizione: di rifiutare, per esempio, l'accesso alla vita di esseri destinati a soffrire (per malformazione o per condizioni oggettive assolutamente carenziali), come pure di rifiutare egli stesso di essere trastullo del caso (malattie dolorose o invalidanti, decadimento senile, ecc.).

Non penso sia illecito, da un punto di vista laico, definire la concezione cattolica come "follia" vitalista. Essa, assegnando ad un Dio Creatore una volontà schopenaueriana, impone all'uomo di recepire il "dono" in qualunque forma esso si manifesti, comprese dunque le malformazioni, i dolori, le malattie, ecc. La "follia" vitalista investe anche un numero rilevante di medici, cattolici e non, che, in ordine ad un malinteso principio di cura, pretendono d'essere essi padroni della vita di qualcun altro.

Un esempio della convergenza di queste due "follie" è recente. L'episodio, drammatico per quanto in sé e per sé banale, concerne la signora che ha rifiutato l'amputazione di una gamba in cancrena proposta dai medici, preferendo la certezza di morire alla prospettiva di vivere da invalida. Nessuno sa con precisioni le motivazioni di tale scelta. Quali che siano - da quella meno probabile riferita all'associazione tra identità propria e integrità corporea a quella che fa capo alla paura di dipendere e di essere di peso agli altri -, la decisione si sarebbe dovuta accogliere con rispetto e comprensione, senza esporre un dramma privato all'implacabile obiettivo dei media. Invece essa ha dato luogo ad un vero can-can oltraggioso, mascherato da motivazioni umanitaristiche.

I medici anzitutto hanno deciso di subordinare la richiesta dimissione della paziente dall'ospedale ad una consulenza psichiatrica, volta evidentemente a stabilire la sua capacità d'intendere e di volere. Lo psichiatra ha accertato la pienezza di tale capacità. In caso contrario, si sarebbe proceduto - presumo - all'amputazione contro la volontà della paziente. Per fortuna, questa violenza è stata scongiurata. Rimane il fatto che la richiesta di una consulenza psichiatrica implica, da parte dei medici, la convinzione che solo una persona mentalmente disturbata può rifiutare una mutilazione invalidante.

Le autorità religiose sono intervenute, pur con la consueta retorica della comprensione nei confronti delle debolezze umane, stigmatizzando una scelta che, a loro avviso, stride con l'eroica capacità di sopportazione della volontà divina testimoniata da tanti pazienti che portano la loro "croce". In quest'ottica, il rifiuto di portare la croce è null'altro che un atto di "viltà". Al di là dell'indignazione che suscita un giudizio del genere, c'è da rilevare un paradosso. Colui che ha dato l'esempio nel portare la croce, si è fatto mettere a morte perché, di fronte alla contestazione di essersi dichiarato Re dei Giudei, ha rifiutato di smentirla.

Il sindaco di Milano è intervenuto augurandosi che la signora andasse incontro ad un ripensamento, manifestando implicitamente un giudizio negativo sulla sua scelta. E' lo stesso personaggio che, per non turbare il ritmo febbricitante della città che amministra, accetta che decine, se non centinaia, di persone ogni anno, muoiano inalando lo smog.

I familiari della paziente, imbarazzati dal nome finito sui giornali, hanno assunto essi stessi un atteggiamento critico, esprimendo il proposito di continuare a tentare di persuadere la congiunta ad accettare l'aiuto dei medici dopo la dimissione. Anche essi, dunque, la ritengono folle.

Non penso che sia particolarmente difficile capire che un qualunque soggetto, posto di fronte alla possibilità di perdere un occhio, una mano, una gamba, possa provare il desiderio di non continuare a vivere. Se questa possibilità si configura poi in un'età di declino, che tale desiderio si trasformi in una decisione di lasciarsi morire è ancora meno sorprendente. Perché dunque tanto can-can?

2.

Non è il caso di enfatizzare un episodio sostanzialmente minuscolo, anche se viene da pensare che la scelta della signora sia stata soggettivamente drammatica. Esso però può offrire lo spunto per alcune riflessioni sul modo in cui gli esseri umani si rapportano alla vita, al dolore, alla malattia e alla morte.

Mettendo tra parentesi il modo in cui si è originata la vita, è un fatto che ogni organismo biologico: primo, è espressione della roulette genetica, che può comportare errori di ogni genere; secondo, è una sfida nei confronti dell'entropia: una sfida necessariamente votata allo scacco per il singolo individuo, destinato a dissolversi, e che però si rinnova di continuo a livello di specie.

La casualità e la precarietà costitutiva dell'esistenza biologica non rappresentano un problema per gli animali non umani. Al di sotto di un certo livello di organizzazione, essi non sono altro che macchine programmate dagli istinti per durare il tempo necessario ad assolvere i loro "doveri"vitali. Al di sopra di tale livello, la comparsa della coscienza e delle emozioni aggiunge a quel dovere un bisogno di "felicità" che si esprime nel gioco, nella curiosità esplorativa e nella ricerca del migliore adattamento possibile alla situazione ambientale. Non avendo un orizzonte previsionale, vivendo in pratica perennemente sul registro di un perpetuo presenze, sotteso da memorie biologiche e, forse, psicologiche, essi manifestano, nel confrontarsi con malattie, mutilazioni, incidenti traumatici, una straordinaria "saggezza". La loro reazione immediata al dolore è vivace come negli esseri umani. Non appena il dolore si placa, essi però accettano condizioni più o meno invalidanti senza turbamenti manifesti.

Questo significa che il bisogno di "felicità", negli animali non umani, si sovrappone al "dovere" di vivere senza scalzarlo. Essi, in pratica, "accettano" di vivere anche in condizioni che sarebbero per l'uomo estremamente incresciose.

Nel passaggio dai primati agli esseri umani il "dovere" di vivere ha mantenuto un suo vigore sotto forma d'istinto di conservazione. Esso però convive con un bisogno di felicità più spiccato che in qualunque altro animale e ad una capacità previsionale illimitata. Quest'ultima si esprime sia sotto forma di ansia esistenziale, riconducibile alla consapevolezza di essere precari ed esposti inevitabilmente al rischio di soffrire, sia sotto forma di valutazioni proiettate nel futuro a partire dalla situazione attuale, che possono rendere questa più o meno tollerabile.

In quali termini avvenga questa valutazione è difficile dire. Di sicuro essa implica una componente soggettiva che varia da individuo ad individuo. Questa variazione ad un estremo non incide sul "dovere" di vivere, all'estremo opposto lo sovrasta. Nel primo caso, la logica che sottende la valutazione è ispirata al principio del sopravvivere a qualunque costo e in qualunque condizione, nel secondo essa si riconduce, viceversa, al principio per cui la vita, per essere degna di essere prolungata, richiede, nell'immediato e nella prospettiva del futuro una qualità minimale.

Questo spettro dovrebbe essere considerato espressivo della libertà umana, e rispettato anche nelle sue manifestazioni estreme. Da un punto di vista razionale, l'attaccamento alla vita di alcune persone anziane, gravate da malattie che sottopongono a duro impegno chi le assiste e in conseguenza delle quali la loro sopravvivenza si riduce ad uno stato poco più che vegetativo, può essere facilmente criticata, e, al limite, evocare un moto di disgusto. All'estremo opposto, anche il comportamento di chi crolla sotto il peso di circostanze avverse e rifiuta il dolore e la malattia può essere criticato come espressione di debolezza. Io ritengo che, in nome della libertà individuale, queste diverse manifestazioni vadano considerate come espressive di due diritti inalienabili: il diritto a vivere comunque e il diritto a morire quando la vita perde senso soggettivamente.

Il problema è che nella nostra cultura il primo diritto è riconosciuto, mentre il secondo è pregiudicato. A ciò concorrono, per motivi diversi, sia una lunga tradizione che ha proposto agli uomini la vita come un "dovere" in sé e per sé e nei confronti del gruppo di appartenenza, sia la religione cattolica, che la considera un dono divino, sia, infine, la medicina ufficiale, che si è assunta il ruolo di tutelare e prolungare la vita indipendentemente dal punto di vista del paziente.

La convergenza di questi diversi fattori mantiene una situazione culturale fortemente orientata a misconoscere il diritto di decidere della propria vita. Qualche timido segnale di cambiamento sta sopravvenendo, se si pensa alla proposta, ancora in fase di elaborazione, di una legge che impone ai medici di rispettare, in rapporto alle cure in casi di gravi malattie, la volontà espressa in precedenza dai pazienti. Si tratta di un cambiamento destinato a realizzarsi su tempi lunghi, dovendo esso fare i conti con un quadro di mentalità persistente da secoli.

E' importante analizzare questo quadro di mentalità, soprattutto per quanto riguarda l'influenza della religione. Ci s'imbatte immediatamente in un paradosso. In nome della sacralità della vita , la Chiesa cattolica propone agli esseri umani di accettare la vita con la stessa capacità di adattamento totale che manifestano gli animali infraumani. Certo, non è questa l'intenzione della Chiesa. L'accettazione della vita, del dolore, dell'invalidità e della malattia dovrebbe avvenire in nome della subordinazione alla volontà divina, vale a dire sotto forma di gratitudine per un'esperienza che è comunque un dono poiché apre le porte della felicità eterna. Di fatto, però, richiamare gli uomini all'accettazione della vita in tutte le sue manifestazioni significa, né più né meno, non solo enfatizzare il diritto di vivere, vale a dire, di fatto, la volontà schopenaueriana che governa la natura, ma anche aggiungere ad esso il dovere di vivere. Non riuscire a cogliere nella rivendicazione dell'uomo di non essere un trastullo della natura (o di un'imperscrutabile volontà divina) un tratto di nobiltà implica una totale incomprensione di ciò che è specificamente umano: l'interagire con le circostanze, anziché semplicemente subirle.

Anche il caso della signora in questione ci porta dunque alla stessa conclusione di un articolo precedente; l'incompatibilità tra bioetica religiosa e bioetica laica è assoluta.

3.

Il problema che si pone in Italia è di ordine politico. La massiccia presenza dei cattolici in Parlamento e l'opportunismo di forze laiche intese ad ingraziarsi l'elettorato cattolico impone, per ogni tema affrontato dalla Commissione bioetica, un logorante lavoro di mediazione e la necessità di pervenire ad un compromesso. Io ritengo che questo sforzo sia inutile e poco produttivo. Il principio al quale attenersi dovrebbe essere quello di lasciare liberi i soggetti di operare decisioni in accordo con i loro valori religiosi o laici. La mediazione in atto in Italia, invece, sembra costantemente rivolta a limitare la libertà dei laici in nome di valori religiosi assunti come assoluti.

Ho fatto cenno alla proposta di legge sulle "dichiarazioni anticipate di trattamento" che consentiranno a qualunque soggetto di definire i criteri cui i medici dovranno attenersi nel caso si realizzino condizioni di malattia che gli impediscano di esprimere la propria volontà. Anche a questo proposito, il documento prodotto dalla Commissione, che dovrà passare il vaglio parlamentare, rivela lo zampino cattolico, laddove l'obbligo del medico di prendere in considerazione e di tenere conto delle dichiarazioni anticipate viene compensato dalla facoltà assegnata al medico di non ritenerle vincolanti, anche se essa va esplicitata formalmente e adeguatamente in cartella clinica. Si tratta dell'ennesima riproposizione dell'obiezione di coscienza, volta a tutelare i medici cattolici dall'essere costretti ad agire comportamenti contrari ai loro principi morali. Ora, se l'obiezione di coscienza si può ritenere giustificabile, o semplicemente giusta per quanto riguarda le pratiche abortive, nel caso in questione, che concerne l'accanimento terapeutico, è difficile avallarla. In nome di quali principi un medico potrà rifiutare la volontà dichiarata anticipatamente dal paziente di non soffrire inutilmente e di non essere assoggettato a terapie inutili? In nome del fatto che egli, cattolico, ritiene giusto imporre a qualcuno di soffrire inutilmente? E se in un ospedale tutti i medici aderiscono all'obiezione di coscienza e dichiarano il paziente non trasportabile, che cosa accadrà: che la sua volontà dichiarata, riconosciuta dalla legge, sarà disattesa?

E' facile prevedere che, allorché sarà presentata in Parlamento, anche questa proposta di legge andrà incontro al fuoco di sbarramento delle forze cattoliche e di quelle laiche intese ad accattivarsi i favori della Chiesa e del "suo" elettorato. E' evidente, infatti, che il diritto riconosciuto ai pazienti di definire i criteri delle cure cui sono sottoposti in caso di malattie gravi o in fase terminale aprirà la strada alla rivendicazione di una "buona" morte, vale a dire di una morte umana, affrancata dai diritti di proprietà del Creatore.