La nascita della tragedia |
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La dimensione tragica. Apollineo e dionisiacoTentativo di autocritica 1. E’ il pessimismo necessariamente un segno di regresso, di decadenza, di fallimento, di istinti stanchi e infiacchiti? - come lo fu per gli indiani, come lo è, secondo ogni apparenza, per noi, uomini "moderni" ed europei? C'è un pessimismo della forza? Una propensione intellettuale per il duro, l'orrendo, il malvagio, il problematico dell'esistenza, come conseguenza di un benessere, di una salute traboccante, di una pienezza dell'esistenza? C'è forse un soffrire della stessa sovrabbondanza? Uno sperimentante coraggio dello sguardo più acuto, che anela al terribile come al nemico, al degno nemico sul quale può provare la propria forza? dal quale vuol imparare cosa sia "la paura"? Cosa significa il mito tragico proprio presso i Greci dell'epoca migliore, più vigorosa, più valorosa? E l'enorme fenomeno dei dionisiaco? Cosa significa la tragedia, nata da esso? - E d'altra parte: ciò di cui perì la tragedia, ossia il socratismo della morale, la dialettica, la moderazione e la serenità dell'uomo teoretico ebbene, proprio questo socratismo non potrebbe essere un segno di regresso, di stanchezza, di malattia, di istinti che si dissolvono anarchicamente? E la "serenità greca" della tarda grecità non potrebbe essere solo un tramonto? 4. Un problema fondamentale è il rapporto del Greco con il dolore, il suo grado di sensibilità, - rapporto che rimase uguale a se stesso? oppure si rovesciò? - il problema, se effettivamente il suo desiderio sempre più forte di bellezza, di feste, di divertimenti, di nuovi culti non sia sorto dalla mancanza, dalla rinuncia, dalla melanconia e dal dolore. Posto che proprio ciò fosse vero - e Pericle (o Tucidide) ce lo fa capire nel grande discorso funebre -: da cosa deriverebbe allora il desiderio opposto, che si manifestò in un tempo anteriore, il desiderio del brutto, la buona e austera volontà di pessimismo degli antichi Elleni, di mito tragico, dell'immagine di tutto il terribile, il malvagio, l'enigmatico, il distruttivo e il fatale che si cela in fondo all'esistenza - da cosa deriverebbe allora la tragedia? Forse dal piacere, dalla forza, da una traboccante salute, da un'esuberante pienezza? E poi quale significato ha, sotto l'aspetto fisiologico, quella follia da cui sorse sia l'arte tragica che comica, la follia dionisiaca? Come? Forse la follia non è necessariamente il sintomo della degenerazione, del tramonto, della civiltà troppo tarda? Ci sono forse - un problema per psichiatri,-., nevrosi della salute? della giovinezza del popolo e del suo animo giovanile?... - E come? se i Greci ebbero proprio nella ricchezza della loro gioventù la volontà del tragico e furono pessimisti; se fu proprio la follia, per servirci di un'espressione di Platone, a portare sull'Ellade le maggiori benedizioni; e se d'altra parte e al contrario, proprio ai tempi della loro dissoluzione e debolezza, i Greci si fecero sempre più ottimisti, superficiali, istrionici, e anche sempre più smaniosi per la logica e la logicizzazione del mondo, cioè "più sereni" e "più scientifici" insieme, non potrebbe forse essere, nonostante tutte le "idee moderne” e tutti i pregiudizi del gusto democratico, la vittoria dell'ottimismo, il prevalere della razionalità, l'utilitarismo pratico e teorico, come la stessa democrazia, di cui è contemporaneo, - un sintomo di forza in declino, di vecchiaia che si avvicina, di indebolimento fisiologico? E per l'appunto non - il pessimismo? Basilea, fine dell'anno 1871 1. Avremo ottenuto molto per la scienza estetica quando saremo giunti non solo alla comprensione logica, ma anche all'immediata sicurezza dell'intuizione del fatto che lo sviluppo dell'arte è legato alla duplicità dell'apollineo e del dionisiaco: in modo simile a come la generazione dipende dalla dualità dei sessi, attraverso una continua lotta e una riconciliazione che si manifesta solo periodicamente. Questi nomi li prendiamo a prestito dai Greci, che rendono percepibili a chi è avveduto le profonde e occulte dottrine della loro visione dell'arte non mediante concetti, bensì nelle forme incisivamente limpide del loro mondo di dèi. Ad entrambe le divinità artistiche, Apollo e Dioniso, si collega la nostra conoscenza che nel mondo greco esiste un enorme contrasto, per origine e per fini, fra l'arte plastica, l'apollineo, e l'arte non figurativa della musica, quella di Dioniso: questi impulsi così diversi procedono l'uno accanto all'altro, per lo più in aperto dissidio fra loro ed eccitandosi reciprocamente a sempre nuove e potenti creazioni per perpetuare in queste quell'antagonismo che il comune termine “arte" supera solo apparentemente; sinché infine, per un miracoloso atto metafisico della "volontà" ellenica, appaiono accoppiati l'uno con l'altro, e in questo accoppiamento generano finalmente l'opera d'arte altrettanto dionisiaca che apollinea della tragedia attica. Con l'incanto del dionisiaco non solo si rinsalda il legame fra uomo e uomo: anche la natura estraniata, nemica o soggiogata, celebra nuovamente la sua festa di conciliazione con il proprio figlio perduto, l'uomo. Liberamente offre la terra i suoi doni e pacificamente si avvicinano i feroci animali delle rocce e dei deserti. Con fiori e ghirlande è coperto il carro di Dioniso: sotto il suo giogo avanzano la pantera e la tigre. Si trasformi l'inno alla "gioia" di Beethoven in un quadro e non ci si attardi nell'immaginazione quando a milioni si prosterneranno rabbrividendo nella polvere: così ci si potrà avvicinare al dionisiaco. Ora lo schiavo è libero, ora si infrangono tutte le rigide, maligne delimitazioni che la necessità, l'arbitrio o la "moda sfacciata" hanno posto fra gli uomini. Ora, nel vangelo dell'universale armonia, ognuno si sente non solo riunito, riconciliato, fuso con il suo prossimo, ma una sola cosa con esso, come se il velo di Maya fosse stato strappato e soltanto brandelli sventolassero ancora di fronte alla misteriosa unità originaria. Cantando e danzando, l'uomo si mostra come membro di una superiore comunità: ha disimparato il camminare e il parlare ed è sulla via di volarsene in cielo danzando. Nei suoi gesti parla l'incantesimo. Come ora gli animali parlano e la terra dà latte e miele, così anche in lui risuona qualcosa di soprannaturale: egli si sente come dio e cammina così estasiato e sollevato, come in sogno vide camminare gli dèi. L'uomo non è più un artista, è divenuto opera d'arte: la potenza artistica dell'intera natura, con il massimo appagamento estatico dell'unità originaria, si rivela qui fra i brividi dell'ebbrezza. Qui s'impasta e si leviga l'argilla più nobile, il marmo più prezioso, l'uomo, e ai colpi di scalpello del cosmico artista dionisiaco risuona la voce dei misteri eleusini: "Vi prosternate, milioni? Senti il creatore, mondo?".- 10. In verità però quell'eroe è il Dioniso sofferente dei misteri, quel dio che prova su di sé i dolori dell'individuazione, e di cui meravigliosi miti narrano come da fanciullo fosse fatto a pezzi dai Titani e come poi, in questo stato, fosse venerato come Zagreus: con ciò è significato che questo smembramento, la vera e propria sofferenza dionisiaca, sia come una trasformazione in aria, acqua, terra e fuoco, e che dunque dobbiamo considerare lo stato d'individuazione come la fonte e la causa prima di ogni soffrire, come qualcosa in sé riprovevole. Dal sorriso di questo Dioniso sono nati gli dèi olimpici, dalle sue lacrime gli uomini. In quell'esistenza come dio smembrato, Dioniso ha la doppia natura di un demone crudele e selvaggio e di un dominatore mite e clemente. La speranza degli epopti andava però ad una rinascita di Dioniso, che ora noi pieni di presentimento dobbiamo intendere come la fine dell'individuazione: per la venuta di questo terzo Dioniso risuonava l'ardente canto di giubilo degli epopti. E solo in questa speranza appare un raggio di gioia sul volto del mondo disgregato, spezzettato in individui: ciò è simboleggiato dal mito mediante Demetra, immersa in eterna tristezza, che per la prima volta si rallegra di nuovo allorché le è detto che può ancora una volta generare Dioniso. Nelle considerazioni addotte abbiamo già raccolto tutti i componenti di una visione del mondo profonda e pessimistica e insieme con essi la dottrina misterica della tragedia: la conoscenza fondamentale dell'unità di tutto ciò che è, la considerazione dell'individuazione come causa prima del male, l'arte come gioiosa speranza che l'ordine dell'individuazione possa essere infranto, come presentimento di una ristabilita unità. 11. La tragedia greca si spense diversamente da tutti gli antichi generi artistici affini: morì suicida in seguito ad un irrisolvibile conflitto, dunque tragicamente, mentre tutti quegli altri perirono in età avanzata della morte più bella e più tranquilla. Se infatti è proprio di un felice stato naturale separarsi dalla vita senza spasimi e con una bella posterità, la fine di quegli antichi generi artistici ci mostra appunto un tale felice stato di natura: essi scompaiono lentamente, e davanti ai loro sguardi morenti sta già la loro discendenza più bella e impazientemente alza il capo con animoso gesto. Con la morte della tragedia greca si aprì al contrario un enorme vuoto, dappertutto sentito profondamente; come una volta ai tempi di Tiberio i naviganti greci udirono in prossimità di un'isola solitaria l'impressionante grido: «il grande Pan è morto», così risuonò ora per il mondo ellenico come un doloroso lamento: «la tragedia è morta! La stessa poesia è perduta con essa! Via, via voi intristiti e smilzi epigoni! Via nell'Ade, affinché possiate là ancora una volta saziarvi delle briciole degli antichi maestri!». Ma quando poi fiorì un nuovo genere artistico, che onorava la tragedia come sua precorritrice e maestra, si constatò con orrore che esso aveva sì i lineamenti della madre, ma proprio quelli che essa mostrò nella sua lunga lotta con la morte. 16. Nell'arte dionisiaca e nel suo simbolismo tragico ci parla la stessa natura, con la sua vera e schietta voce: «Siate come sono io! Nel continuo mutare delle apparenze, la madre primigenia, eternamente creatrice, che eternamente costringe all'esistenza, che eternamente si appaga di questo mutare dell'apparenza!». 17. Anche l'arte dionisiaca vuole persuaderci dell'eterno piacere dell'esistenza: solo che dobbiamo cercare questo piacere non nelle apparenze, bensì dietro le apparenze. Dobbiamo riconoscere come tutto ciò che nasce debba essere pronto ad un trapasso colmo di dolore, siamo costretti a guardare in faccia gli orrori dell'esistenza individuale - eppure non dobbiamo irrigidirci: una consolazione metafisica ci strappa momentaneamente dal meccanismo delle forme mutevoli. Per brevi attimi siamo realmente l'essere primigenio stesso e ne sentiamo l'indomita brama e piacere di esistere; la lotta, il tormento, l'annientamento delle apparenze ci appaiono ora necessari per la sovrabbondanza delle innumerevoli forme di esistenza che si urtano e si accavallano nella vita, per l'eccedente fecondità della volontà del mondo; noi veniamo trapassati dal furioso pungolo di questi tormenti nello stesso momento in cui siamo per così dire divenuti una sola cosa con l'incommensurabile piacere originario dell'esistenza, e in cui presentiamo, in estasi dionisiaca, l'indistruttibilità e l'eternità di questo piacere. Nonostante la paura e la compassione noi viviamo felicemente, non come individui, ma come quell'unico vivente, col cui piacere generativo siamo fusi. 20. Ma come cambia repentinamente il desolato luogo or ora così cupamente descritto della nostra stanca cultura, quando è toccato dalla magia dionisiaca! Una bufera afferra tutto ciò che è consunto, putrido, rotto, appassito, lo avvolge vorticosamente in una rossa nuvola di polvere e lo porta come un avvoltoio in cielo. Confusi, i nostri sguardi cercano ciò che è scomparso: poiché ciò che vedono è come salito alla luce dorata da uno sprofondamento, così pieno e verde, così rigogliosamente vivo, così appassionatamente smisurato. La tragedia sta in mezzo a questo eccesso di vita, di dolore e di piacere, in sublime estasi, ascolta un lontano e melanconico canto — esso narra delle Madri dell'essere, i cui nomi suonano: follia, volontà, dolore — Sì, amici miei, credete con me alla vita dionisiaca e alla rinascita della tragedia. Il tempo dell'uomo socratico è passato: coronatevi di edera, prendete nelle mani il tirso e non stupitevi che la tigre e la pantera si accovaccino affettuosamente ai vostri ginocchi. Adesso soltanto osate essere uomini tragici: poiché sarete liberati. Accompagnerete il corteo dionisiaco dall'India alla Grecia! Armatevi per dure lotte, ma credete ai portenti del vostro dio! 21. Così l'apollineo ci strappa all'universalità dionisiaca e ci incanta per gli individui; a questi incatena la nostra compassione, con questi soddisfa il senso della bellezza anelante a grandi e sublimi forme; ci fa scorrere davanti immagini di vita e ci stimola ad afferrare concettualmente il nucleo vitale in esse compreso. Con l'enorme veemenza dell'immagine, del concetto, della dottrina etica e della eccitazione simpatetica, l'apollineo solleva l'uomo dall'orgiastico annullamento di sé e lo inganna circa l'universalità del processo dionisiaco per dargli l'illusione di vedere una singola immagine del mondo, per esempio Tristano e Isotta, e di doverla vedere, per effetto della musica, ancor meglio e più intimamente. Che cosa non può fare la magia risanatrice di Apollo, se può suscitare in noi l'illusione che il dionisiaco, al servizio dell'apollineo, possa effettivamente accrescerne gli effetti, anzi che perfino la musica sia essenzialmente un'arte rappresentativa per un contenuto apollineo? Il dramma che, con l'aiuto della musica, si amplia davanti a noi nella trasparenza così interiormente luminosa di ogni movimento e figura, come se vedessimo nascere il tessuto sul telaio nei suoi movimenti in su e in giù — raggiunge complessivamente un effetto che è al di là di tutti gli effetti artistici apollinei. Nell'effetto complessivo della tragedia il dionisiaco riprende il sopravvento; essa si chiude con un accento che non potrebbe mai risuonare dal regno dell'arte apollinea. E con ciò l'inganno apollineo si mostra per quello che è, cioè come il velo che per tutta la durata della tragedia copre il vero e proprio effetto dionisiaco: che è tuttavia così potente, da spingere alla fine lo stesso dramma apollineo in una sfera dove esso comincia a parlare con sapienza dionisiaca, e dove nega se stesso insieme alla sua visibilità apollinea. Così si potrebbe effettivamente simboleggiare il complesso rapporto tra l'apollineo e il dionisiaco nella tragedia con un vincolo di fratellanza fra le due divinità: Dioniso parla la lingua di Apollo, ma infine Apollo parla la lingua di Dioniso. Con ciò è raggiunto il fine supremo della tragedia e dell'arte in generale. 22. Il mito tragico può essere compreso solo come una simbolizzazione della sapienza dionisiaca attraverso mezzi artistici apollinei; esso conduce il mondo dell'apparenza ai limiti, dove esso nega se stesso e cerca nuovamente di rifugiarsi nel grembo dell'unica e vera realtà; dove poi sembra che così intoni, con Isotta, il suo metafisico canto del cigno: Del mar di delizie nel flutto ondeggiante, d'onde vaporose nell'echeggiante suono, del respiro universale nell'alitante tutto — annegare — sprofondare — inconsapevole — gioia suprema! La natura umana e l’organizzazione del comportamento (Istinto, Libertà, Fato)Basilea, fine dell'anno 1871 18. È un fenomeno eterno: l'avida volontà trova sempre un mezzo per mantenere in vita e per costringere a vivere ancora, con un'illusione diffusa sulle cose, le sue creature. Questo è incatenato dal piacere socratico della conoscenza e dall'illusione di poter curare con essa l'eterna ferita dell'esistenza, quello è irretito dal seducente velo della bellezza dell'arte che gli ondeggia davanti agli occhi, quello ancora dalla consolazione metafisica che la vita eterna fluisca indistruttibile sotto il vortice dei fenomeni: per tacere delle illusioni più comuni e forse anche più forti, che la volontà tiene pronte in ogni istante. Quei tre gradi dell'illusione sono generalmente propri delle nature più nobilmente dotate, che sentono il peso e la durezza della esistenza con più profonda avversione, e che perciò devono essere illusi da stimolanti d'eccezione per superare questa avversità. In questi stimolanti consiste tutto ciò che chiamiamo cultura: secondo la proporzione delle mescolanze, abbiamo una cultura prevalentemente socratica o artistica o tragica: oppure, se sono permesse esemplificazioni storiche: si dà o una cultura alessandrina, o una cultura ellenica, o una cultura buddhistica.
Coscienza e inconscioBasilea, fine dell'anno 1871 13. Una chiave per comprendere la natura di Socrate ci viene offerta da quel meraviglioso fenomeno che viene designato come «demone di Socrate». In particolari situazioni in cui il suo portentoso intelletto vacillava, egli ritrovava l'equilibrio in virtù di una voce divina che si faceva udire in tali momenti. Questa voce, quando viene, dissuade sempre. La saggezza istintiva si mostra in questa natura interamente abnorme soltanto per contrastare qua e là, ostacolandolo, il conoscere cosciente. Mentre in tutti gli uomini produttivi l'istinto è proprio la forza creativo-affermativa, e la coscienza si rivela critica e dissuadente, in Socrate l'istinto diventa critico, la coscienza si trasforma in creatrice — una vera mostruosità per defectum. MistificazioneBasilea, fine dell'anno 1871 25. Se potessimo immaginare un incarnarsi della dissonanza — e cosa altrimenti è l'uomo? — questa dissonanza avrebbe bisogno, per vivere, di una splendida illusione, che coprisse con un velo di bellezza la sua propria essenza.
Istinto del gregge: Costume, Morale, DirittoTentativo di autocritica 5. L'odio per il "mondo", la maledizione delle passioni, il timore davanti alla bellezza e alla sensualità, un al di là inventato per meglio diffamare l'al di qua, in fondo un aspirare al nulla, alla fine, al riposo, fino al "sabato dei sabati" - tutto ciò, insieme all'incondizionata volontà dei cristianesimo di far valere solo valori morali, mi sembrò sempre la forma più pericolosa e perturbante di tutte le forme possibili di una "volontà di fine", o perlomeno un segno di profondissima malattia, di stanchezza, scoraggiamento, esaurimento, immiserimento di vita; poiché a fronte della morale (specialmente cristiana, cioè la morale assoluta) la vita deve costantemente e inevitabilmente avere torto, in quanto la vita è essenzialmente qualcosa di immorale, - la vita deve infine, soffocata dal peso del disprezzo e dell'eterno "no", essere sentita come indegna di brama, come disvalore in sé. La stessa morale - sì, la morale non sarebbe dunque una "volontà di negazione della vita", un segreto istinto di distruzione, un principio di decadenza, di denigrazione, di rinnegamento, un inizio della fine? E, di conseguenza, il pericolo dei pericoli?.. Basilea, fine dell'anno 1871 10. Poiché la sorte di ogni mito è quella di rattrappirsi a poco a poco nell'angustia di una presunta realtà storica e di essere trattato da un'epoca posteriore come un unico factum con pretese storiche: e i Greci erano già pienamente sulla via di trasformare con sagacia e arbitrarietà tutto il loro mitico sogno giovanile in un evento giovanile storico-prammatico. Poiché è questa la maniera in cui le religioni usano estinguersi: quando cioè, sotto gli occhi severi e razionali di un dogmatismo ortodosso, i presupposti mitici di una religione vengono sistematizzati come una somma completa di eventi storici e si comincia a difendere affannosamente la credibilità dei miti, opponendosi però a qualsiasi loro ulteriore vitae sviluppo naturali, quando cioè il sentimento del mito si estingue, sostituito dalla pretesa della religione alla fondatezza storica. IndividuazioneBasilea, fine dell'anno 1871 9. Nell'eroico impulso del singolo verso l'universale, nel tentativo di oltrepassare la barriera dell'individuazione e di voler essere esso stesso l'unica essenza del mondo, egli soffre in sé la contraddizione originaria occultata nelle cose: cioè commette un sacrilegio e soffre. Vita attiva e vita contemplativaBasilea, fine dell'anno 1871 15. Qui, con animo commosso, battiamo alle porte del presente e del futuro: quella «conversione» condurrà a sempre nuove configurazioni del genio e addirittura a quella di Socrate cultore di musica? La rete dell'arte stesa sull'esistenza sarà sempre più saldamente e soavemente intrecciata, sia pure sotto il nome di religione o di scienza, oppure è destinata a lacerarsi in brandelli sotto l'irrequieto e barbarico trambusto e turbinio che oggi si chiama «il presente»? — Preoccupati, ma non sconsolati, ci teniamo un po' in disparte, come osservatori a cui è permesso di essere testimoni di quelle straordinarie lotte e trapassi. Ahimè! Il fascino di tali lotte sta nel fatto che chi le guarda deve anche combatterle! Filosofi, Filosofia e ConoscenzaBasilea, fine dell'anno 1871 15. Anche l'uomo teoretico, come l'artista, trova un'infinita soddisfazione in ciò che esiste, e questa soddisfazione lo preserva, al pari dell'artista, dall'etica pratica del pessimismo, dai suoi occhi degni di Linceo che brillano solo nell'oscurità. Se infatti l'artista ad ogni disvelamento della verità rimane attaccato con sguardi rapiti sempre e solo a ciò che anche ora, dopo il disvelamento, resta velo, l'uomo teoretico gode e si appaga di levare il velo e trova il suo massimo fine e piacere nel processo di uno svelamento sempre felice, che avvenga per forza propria. Non vi sarebbe nessuna scienza se essa si occupasse solo di quell'unica dea nuda, e di nient'altro. Poiché allora i suoi seguaci dovrebbero sentirsi nella stessa condizione d'animo di coloro che volessero scavare un foro diritto attraverso la terra: ognuno di essi vedrebbe bene che, anche con il massimo sforzo protratto per l'intera vita, non riuscirebbe a scavare solo una piccola parte dell'enorme profondità, la quale verrebbe nuovamente coperta davanti ai suoi occhi dal lavoro del vicino, tanto che a un terzo sembrerebbe più opportuno scegliere per proprio conto un altro posto per i suoi tentativi di perforazione. Ma se ora uno di loro dimostrasse persuasivamente che per questa via diretta non si può raggiungere il traguardo agli antipodi, chi vorrebbe continuare ancora a scavare nei vecchi pozzi, a meno di non accontentarsi nel frattempo di trovare pietre preziose o leggi naturali? Perciò Lessing, il più onesto uomo teoretico, osò dichiarare che gli importava più la ricerca della verità che la verità stessa: con ciò è stato svelato il segreto fondamentale della scienza, con stupore, anzi a dispetto degli scienziati. Chi ha sperimentato in sé il piacere di una conoscenza socratica e sente come essa cerchi di abbracciare, in cerchi sempre più ampi, l'intero mondo dei fenomeni, da allora in poi non avvertirà nessuno stimolo che possa spingerlo alla vita più fortemente della brama di perfezionare quella conquista e di tessere la rete in modo sicuro, impenetrabile. ArteBasilea, fine dell'anno 1871 1. Ora, come il filosofo sta in rapporto con la realtà dell'esistenza, così l'uomo artisticamente eccitabile con quella del sogno; egli sta a guardare attentamente e volentieri: poiché da queste immagini egli si spiega la vita e con questi eventi si esercita per la vita. 5. Lo scultore e insieme l'epico a lui affine sono sprofondati nella pura contemplazione delle immagini. Il musico dionisiaco è totalmente e unicamente, senza alcuna immagine, lo stesso dolore originario e l'eco originaria di esso. Il genio lirico sente scaturire dallo stato mistico di alienazione di sé e di unità un mondo di simboli e d'immagini, che ha una colorazione, una causalità e una velocità completamente diverse rispetto al mondo dello scultore e dell'epico. Mentre quest'ultimo vive in queste immagini e solo in esse si sente piacevolmente a proprio agio e non si stanca di contemplarle amorevolmente fin nei minimi particolari; mentre perfino l'immagine dell'irato Achille è per lui solo una immagine, la cui espressione irata egli gode con quella gioia del sogno per l'apparenza - così che da questo specchio dell'apparenza è difeso contro l'immedesimarsi e il confondersi nelle sue figure -, le immagini del lirico invece non sono nient'altro che lui stesso e per così dire soltanto diverse oggettivazioni di lui, ed è per questo motivo che egli, in quanto centro motore di quel mondo, può dire "io": solo che questa egoità non è la stessa di quella dell'uomo desto, empirico-reale, bensì l'unica egoità veramente sussistente ed eterna, riposante sul fondo delle cose, e attraverso le cui immagini il genio lirico penetra con lo sguardo appunto fino a quel fondo delle cose. Noi affermiamo invece che tutto il contrasto secondo cui, come in base a un criterio di valore, lo stesso Schopenhauer suddivide ancora le arti, quello tra il soggettivo e l'oggettivo, non è proprio dell'estetica, poiché il soggetto, l'individuo che vuole e persegue i suoi fini egoistici, può essere pensato solo come avversario e non come origine dell'arte. In quanto però il soggetto è artista, esso è già liberato dalla sua volontà individuale, diventando per così dire un medium, attraverso cui l'unico soggetto che veramente è celebra la sua liberazione nell'apparenza. Poiché soprattutto questo deve esserci chiaro, a nostra umiliazione ed esaltazione, che tutta la commedia dell'arte non viene affatto rappresentata per noi, per una nostra edificazione ed educazione, anzi che noi non siamo minimamente i veri creatori di quel mondo dell'arte: al contrario, possiamo supporre di essere per il suo vero creatore immagini e proiezioni artistiche e di acquisire la nostra massima dignità significato di opere d'arte. poiché solo come fenomeni estetici l'esistenza e il mondo sono eternamente giustificati. - comunque la nostra coscienza di quel nostro significato è appena diversa da quella che i guerrieri dipinti sulla tela hanno della battaglia su di essa raffigurata. Quindi tutto il nostro sapere sull'arte è in fondo completamente illusorio, perché come esperti non siamo un'unica e identica cosa con l'essere che, come unico creatore e spettatore di quella commedia dell'arte si procura un eterno godimento. Dunque solo nell'atto della creazione artistica il genio si fonde con quell'artista originario del mondo, cogliendo qualcosa dell'essenza eterna dell'arte; poiché in quella situazione egli è meravigliosamente simile alla perturbante immagine della fiaba, che può girare gli occhi a guardare se stessa; allora egli è contemporaneamente soggetto e oggetto, contemporaneamente poeta, attore e spettatore... 6. Ma il canto popolare vale per noi soprattutto come specchio musicale del mondo, come primordiale melodia, che poi cerca per sé una parallela apparenza di sogno e la esprime nella poesia. La melodia è dunque l'elemento primario e universale, che perciò può sopportare in sé anche più oggettivazioni, in molteplici testi. Essa è anche l'elemento di gran lunga più importante e necessario nella ingenua valutazione del popolo. La melodia genera da sé la poesia, cioè la genera sempre di nuovo; nient'altro vuoi dirci la forma strofica del canto popolare: fenomeno che osservai sempre con stupore, finché finalmente ho trovato questa spiegazione. 8. La metafora non è per il vero poeta una figura retorica, bensì un'immagine sostitutiva che gli si presenta concretamente al posto di un concetto. Il carattere non è per lui qualcosa di simile a un tutto composto da singoli tratti cercati qua e là e riuniti, bensì una persona insistentemente viva davanti ai suoi occhi, che si differenzia dalla stessa visione del pittore solo per il suo continuo vivere ed operare. Perché Omero descrive con maggior rilievo di tutti gli altri poeti? Perché guarda e intuisce molto di più. Noi parliamo così astrattamente della poesia perché siamo tutti soliti essere dei cattivi poeti. In fondo il fenomeno estetico è semplice; si abbia solo la capacità di vedere ininterrottamente un vivo gioco e di vivere attorniati da schiere di spiriti, allora si è poeti; si senta solo l'impulso a trasformare se stessi e di parlare trasfusi in altri corpi e anime, e si è allora drammaturghi.
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