SEZIONE II

LA TRASFORMAZIONE DEL PROFITTO IN PROFITTO MEDIO

CAPITOLO VIII
DIVERSA COMPOSIZIONE DEI CAPITALI IN DIVERSI RAMI DI INDUSTRIA E CONSEGUENTE DIVERSITA DEI SAGGI DI PROFITTO

Nella sezione precedente, si è dimostrato fra l'altro come, a saggio di plusvalore costante, il saggio di profitto possa variare, salire o scendere. In questo capitolo, si presuppone che il grado di sfruttamento del lavoro, quindi anche il saggio di plusvalore e la lunghezza della giornata lavorativa in tutte le sfere di produzione in cui, in un dato paese, si ripartisce il lavoro sociale, siano di eguale grandezza, siano egualmente elevati. Di molte differenze nello sfruttamento del lavoro in sfere diverse della produzione, già A. Smith ha dimostrato in modo esauriente che si livellano per effetto di ogni sorta di cause di compensazione, reali o accettate per pregiudizio che siano, e quindi, come differenze solo apparenti e transitorie, non vanno considerate nell'analisi delle condizioni generali. Altre differenze, per es. nel livello dei salari, poggiano in gran parte sulla diversità, di cui si è già parlato all'inizio del Libro I, […], fra lavoro semplice e lavoro complesso e, pur dando luogo a gravi diseguaglianze nella sorte degli operai in diverse sfere di produzione, non derivano affatto dal grado di sfruttamento del lavoro in tali sfere. Se per es. il lavoro di un orafo è pagato meglio di quello di un giornaliero, il pluslavoro del primo produrrà anche, nella stessa proporzione, un plusvalore maggiore di quello del secondo. E il livellamento dei salari e delle giornate lavorative, quindi dei saggi di plusvalore, fra diverse sfere di produzione e perfino tra diversi investimenti di capitale nella medesima sfera di produzione, se si scontra con ostacoli locali d'ogni sorta, si attua però sempre più via via che il modo di produzione capitalistico progredisce subordinandosi tutti i rapporti economici. Importante per ogni lavoro specialistico sul salario, lo studio di queste frizioni va invece accantonato come incidentale e irrilevante per l'analisi generale della produzione capitalistica. In tale analisi generale si suppone sempre che le condizioni reali corrispondano al loro concetto, ovvero, ma è la stessa cosa, le condizioni reali vengono presentate solo in quanto esprimano il loro proprio tipo generale.

Per l'indagine che ci sta dinnanzi, è del tutto indifferente la diversità dei saggi di plusvalore nei diversi paesi, quindi dei gradi nazionali di sfruttamento del lavoro. In questa sezione ci proponiamo appunto di spiegare in qual modo, all'interno di un paese dato, si produca un saggio generale di profitto. È però chiaro che, per un raffronto tra i diversi saggi nazionali di profitto, non c'è che da riunire quanto si è svolto finora e quanto si svolgerà adesso, prima considerando la diversità nei saggi nazionali del plusvalore, poi, sulla base di questi saggi dati del plusvalore, paragonando le differenze nei saggi nazionali del profitto. La loro diversità, in quanto non risulti dalla diversità dei saggi nazionali del plusvalore, deve attribuirsi a circostanze in cui, come nell'indagine svolta in questo capitolo, il plusvalore è supposto come eguale dovunque, come costante.

Nel capitolo precedente si è mostrato che, posto costante il saggio di plusvalore, il saggio di profitto fornito da un determinato capitale può salire o scendere in seguito a circostanze che elevano o deprimono il valore dell'una o dell'altra parte del capitale costante, e quindi incidono in generale sul rapporto fra gli elementi costanti e variabili del capitale. Si è inoltre osservato che il saggio di profitto può risentire in modo analogo di circostanze che allungano o abbreviano il tempo di rotazione di un capitale. Poiché la massa del profitto è identica alla massa del plusvalore, al plusvalore stesso, si è pure mostrato che la massa del profitto — a differenza del saggio di profitto — non viene colpita dalle succitate oscillazioni di valore. Esse modificavano soltanto il saggio in cui si esprime un dato plusvalore e quindi anche un profitto di data grandezza, cioè la sua grandezza relativa, la sua grandezza paragonata alla grandezza del capitale anticipato. Nella misura in cui, in seguito a quelle oscillazioni di valore, si verificava immobilizzo oppure liberazione di capitale, per questa via indiretta non soltanto il saggio di profitto, ma il profitto stesso, poteva risentirne. Ma ciò valeva sempre soltanto per un capitale già impegnato, non per un nuovo investimento di capitale; inoltre, l'aumento o la diminuzione del profitto stesso dipendeva sempre dalla misura in cui, a seguito di quelle oscillazioni di valore, si poteva con lo stesso capitale mettere in moto più o meno lavoro, quindi produrre con lo stesso capitale — a saggio di plusvalore costante — una massa più o meno grande di plusvalore. Ben lungi dal contraddire la legge generale, o dal costituirne un'eccezione, questa apparente eccezione era in realtà soltanto un caso particolare di applicazione della legge generale.

Se nella sezione precedente è risultato che, a grado costante di sfruttamento del lavoro, variando il valore degli elementi del capitale costante e, allo stesso modo, variando il tempo di rotazione del capitale varia anche il saggio di profitto, ne segue che i saggi di profitto di diverse sfere di produzione esistenti simultaneamente l'una accanto all'altra saranno diversi se, a parità di condizioni, il tempo di rotazione dei capitali impiegati è diverso, ovvero se è diverso il rapporto di valore fra le parti componenti organiche di questi capitali nei diversi rami di produzione. Quelle che prima consideravamo come variazioni susseguentisi nel tempo con lo stesso capitale, ora le consideriamo come differenze simultanee fra investimenti di capitale esistenti l'uno accanto all'altro in diverse sfere di produzione.

E qui dovremo esaminare: 1) la differenza nella composizione organica dei capitali; 2) la differenza nel loro tempo di rotazione.

Naturalmente, il presupposto di tutta questa ricerca è che, parlando di composizione o di rotazione del capitale in un determinato ramo di produzione, si intenda sempre lo stato normale medio del capitale investito in questo ramo di produzione; che si alluda alla media del capitale totale investito nella determinata sfera, non alle differenze accidentali fra i singoli capitali investiti.

Poiché inoltre si suppone che saggio di plusvalore e giornata lavorativa siano costanti, e poiché questa ipotesi implica parimenti costanza del salario, una certa quantità di capitale variabile esprimerà una certa quantità di forza lavoro messa in moto, quindi una certa quantità di lavoro oggettivato. Se perciò 100 Lst. esprimono il salario settimanale di 100 operai, quindi indicano in realtà la forza lavoro di 100 operai, n x 100 Lst. esprimeranno quella di n x 100 operai e 100 Lst./n.quella di 100/n operai. Il capitale variabile, dunque, serve qui (come, a salario dato, è sempre il caso) da indice della massa del lavoro posto in moto da un determinato capitale totale; le differenze nella grandezza del capitale variabile impiegato servono perciò da indici della differenza nella massa della forza lavoro impiegata. Se 100 Lst. rappresentano settimanalmente 100 operai e quindi, date 60 ore di lavoro settimanale, 6.000 ore lavorative, 200 Lst. ne rappresenteranno 12.000 e 50 Lst. soltanto 3.000.

Per composizione del capitale intendiamo, come già detto nel Libro I, il rapporto fra il suo elemento attivo e il suo elemento passivo, fra il capitale variabile e il capitale costante. Vanno qui considerati due rapporti, che non sono della stessa importanza, sebbene, in date condizioni, possano produrre gli stessi effetti.

Il primo rapporto poggia su basi tecniche e, a un certo stadio di sviluppo della forza produttiva, deve considerarsi come dato. Una determinata massa di forza lavoro, rappresentata da un determinato numero di operai, è necessaria per produrre per es. in un giorno una determinata massa di prodotto, quindi — implicitamente — per mettere in moto, per consumare produttivamente, una determinata quantità di mezzi di produzione, macchine, materie prime, etc. Un certo numero di operai corrisponde ad una certa quantità di mezzi di produzione; quindi una certa quantità di lavoro vivo ad una certa quantità di lavoro già oggettivato nei mezzi di produzione. Questo rapporto è molto diverso in diverse sfere di produzione, spesso in diversi rami di una sola e medesima industria, quantunque occasionalmente possa essere esattamente o quasi lo stesso in rami d'industria assai distanti fra loro.

Questo rapporto costituisce la composizione tecnica del capitale, ed è la vera base della sua composizione organica.

È però anche possibile che quel rapporto sia il medesimo in rami di industria diversi, in quanto il capitale variabile sia puro e semplice indice di forza lavoro e il capitale costante puro e semplice indice della massa di mezzi di produzione posti in moto dalla forza lavoro. Per es. certi lavori in rame e ferro possono richiedere un eguale rapporto tra forza lavoro e massa di mezzi di produzione. Ma poiché il rame è più caro del ferro, il rapporto di valore fra capitale variabile e capitale costante sarà diverso nei due casi, quindi sarà anche diversa la composizione di valore dei due capitali totali. La differenza fra composizione tecnica e composizione di valore si manifesta, in ogni ramo di industria, in ciò che, a composizione tecnica immutata, il rapporto di valore fra le due parti di capitale può variare e, a composizione tecnica mutata, il rapporto di valore può restare il medesimo; il medesimo, naturalmente, soltanto se la variazione nel rapporto fra le quantità di mezzi di produzione e di forza lavoro impiegate trova compenso in una opposta variazione nei loro valori.

Chiamiamo composizione organica' del capitale la sua composizione di valore, nella misura in cui è determinata dalla sua composizione tecnica e la rispecchia. (Quanto sopra si trova già brevemente sviluppato nella terza edizione del Libro I, p. 628, in apertura del cap. XXIII.. Poiché le due prime edizioni non contengono quel passo, la sua ripetizione qui era tanto più doverosa. - F. E.)

Per quanto riguarda il capitale variabile, supponiamo dunque che esso sia indice di una determinata quantità di forza lavoro, di un determinato numero di operai e di determinate quantità di lavoro vivo messo in moto. Nella sezione precedente si è visto che un cambiamento nella grandezza di valore del capitale variabile può non rappresentare altro che un prezzo più o meno elevato della stessa quantità di lavoro; ma qui, dove il saggio di plusvalore e la giornata lavorativa si considerano costanti, e il salario per un determinato tempo di lavoro come dato, questa eventualità non si presenta. Per contro anche una differenza nella grandezza del capitale costante può, è vero, essere indice di una variazione nella quantità dei mezzi di produzione messi in moto da una determinata massa di forza lavoro, ma derivare pure dalla differenza di valore fra i mezzi di produzione messi in moto in una sfera di produzione e quelli messi in moto in un'altra. Entrambi i punti di vista vanno perciò presi in esame.

Va fatta infine la seguente, essenziale osservazione:

Posto che 100 Lst. siano il salario settimanale di 100 operai; posto che il tempo di lavoro settimanale sia = 60 ore; posto inoltre che il saggio di plusvalore sia = 100%; in tal caso, delle 60 ore, gli operai ne lavorano 30 per sé e 30 gratuitamente per i capitalisti. Nelle 100 Lst. di salario sono in realtà incorporate soltanto 30 ore di lavoro dei 100 operai, ovvero, complessivamente, 3.000 ore di lavoro, mentre le altre 3.000 in cui essi lavorano sono materializzate nelle 100 Lst. di plusvalore, rispettivamente profitto, che il capitalista intasca. Sebbene perciò il salario di 100 Lst. non esprima il valore in cui si materializza il lavoro settimanale dei 100 operai, esso mostra tuttavia (essendo dati la lunghezza della giornata lavorativa e il saggio di plusvalore) che quel capitale ha messo in moto 100 operai per un totale di 6.000 ore lavorative. Il capitale di 100 Lst. mostra ciò 1) perché indica il numero degli operai messi in moto, in quanto Lst. è = 1 operaio per settimana, quindi 100 Lst. = 100 operai; 2) perché ogni operaio messo in moto, a saggio di plusvalore dato del 100%, compie un lavoro doppio di quello contenuto nel suo salario; dunque 1 Lst., cioè il suo salario, espressione di una mezza settimana lavorativa, mette in moto un'intera settimana di lavoro, e, allo stesso modo, 100 Lst., pur non contenendo che 50 settimane di lavoro, ne mettono in moto tipo. Va quindi fatta una differenza in alto grado essenziale fra il capitale variabile speso in salario, in quanto il suo valore, la somma dei salari, rappresenta una data quantità di lavoro oggettivato, e il capitale variabile in quanto il suo valore è puro e semplice indice della massa di lavoro vivo che mette in movimento. Quest'ultimo è sempre maggiore del lavoro in esso contenuto; quindi anche si rappresenta in un valore superiore a quello del capitale variabile; in un valore che è determinato, da una parte, dal numero degli operai messi in moto dal capitale variabile e, dall'altra, dalla quantità di pluslavoro che essi compiono.

Da questo modo di considerare il capitale variabile segue che:

Se per un capitale totale di 700 investito nella sfera di produzione A, soltanto 100 sono spesi in capitale variabile e 600 in capitale costante, mentre nella sfera di produzione B 600 si spendono in capitale variabile e solo 100 in costante, il capitale totale A di 700 non metterà in moto che una forza lavoro di 100, dunque, in base all'ipotesi precedente, solo 100 settimane lavorative, ovvero 6.000 ore di lavoro vivo, mentre il capitale totale di eguale grandezza B metterà in moto 600 settimane lavorative e perciò 36.000 ore di lavoro vivo. Il capitale in A si approprierebbe dunque soltanto 50 settimane lavorative, ovvero 3.000 ore di pluslavoro, mentre il capitale di eguale grandezza in B si approprierebbe 300 settimane lavorative, ovvero 18.000 ore. Il capitale variabile è l'indice non solo del lavoro in esso stesso contenuto, ma anche, a saggio di plusvalore dato, del lavoro eccedente messo in moto al di là di questo, cioè del pluslavoro. Nel primo caso, a pari grado di sfruttamento del lavoro, il profitto sarebbe 100/700 = 1/7 = 14 2/7%; nel secondo, sarebbe 600/700 = 85 5/7%, un saggio di profitto sestuplo. Infetti, però, in questo caso lo stesso profitto sarebbe sei volte maggiore, 600 per B contro 100 per A, in quanto con lo stesso capitale si metterebbe in moto sei volte tanto lavoro vivo; quindi, a pari grado di sfruttamento del lavoro, si otterrebbe pure sei volte tanto plusvalore; dunque, sei volte tanto profitto.

Se in A si impiegassero non 700, ma 7.000 Lst., e in B soltanto 700 Lst. di capitale, allora il capitale A, se restasse invariata la composizione organica, impiegherebbe 1.000 delle 7.000 Lst. come capitale variabile, dunque occuperebbe 1.000 operai per settimana = 60.000 ore di lavoro vivo, di cui 30.000 in plus-lavoro. Ma, con ogni 700 Lst., A metterebbe in moto ora come prima soltanto 1/6 di lavoro vivo, quindi anche soltanto 1/6 di pluslavoro, che B; dunque, produrrebbe anche soltanto 1/6 del suo profitto. Se si considera il saggio di profitto, 1.000/7.000 è = 100/700 = 14 2/7%, contro 600/700, ovvero 85 5/7%, del capitale B. A pari entità di capitale, il saggio di profitto è qui diverso perché, a eguale saggio di plusvalore, le masse diverse di lavoro vivo messe in moto danno masse dei plusvalori prodotti diverse, quindi anche profitti diversi.

All'identico risultato si perviene se le condizioni tecniche sono le stesse nell'una e nell'altra sfera di produzione, ma il valore degli elementi costanti di capitale impiegati è più o meno grande. Supponiamo che in tutt'e due i casi si impieghino 100 Lst. come capitale variabile e quindi, per mettere in moto la stessa quantità di macchine e materia prima, si richiedano Io° operai la settimana, ma macchine e materia prima siano più care in B che in A. Allora, a 100 Lst. di capitale variabile corrisponderebbero in A, per es., 200 Lst. di capitale costante, e in B 400. Dato un saggio di plusvalore del 100%, il plusvalore prodotto sarebbe nei due casi = 100 Lst.; anche il profitto sarebbe quindi in entrambi = 100 Lst. Ma, in A, 100/200c + 100v = 1/3 = 33 1/3%, mentre in B, 100/400c + 100v = 1/5 = 20%. In, realtà se prendiamo nei due casi una determinata aliquota del capitale totale, allora in B il capitale variabile non sarà costituito che da 20 Lst. su 100, ovvero da 1/5, mentre in A sarà costituito da 33 1/3 Lst. su 100, cioè da 1/3. Su ogni 100 Lst., B produrrà meno profitto perché mette in moto meno lavoro vivo che A. La differenza nei saggi di profitto si risolve qui di nuovo in differenza fra le masse di profitto prodotto su ogni 100 Lst. di capitale investito, perché masse di plusvalore.

La differenza di questo secondo esempio dal precedente si riduce al fatto che, nel secondo caso, il livellamento fra A e B richiederebbe, a base tecnica costante, solo una variazione di valore del capitale costante di A o di B, mentre nel primo la stessa composizione tecnica è diversa nelle due sfere di produzione e, ai fini di un livellamento, dovrebbe essere rivoluzionata.

La diversa composizione organica dei capitali è dunque indipendente dalla loro grandezza assoluta. Il problema è sempre soltanto quanto di ogni 100 sia capitale variabile e quanto capitale costante.

Capitali di grandezza diversa calcolati in percentuale, o, il che qui è lo stesso, capitali di pari grandezza operanti a parità di giornata lavorativa e a parità di grado di sfruttamento producono dunque quantità molto diverse di profitto, perché di plusvalore; e ciò per la ragione che, data la diversa composizione organica, in sfere di produzione diverse ne è diversa la parte variabile, quindi sono diverse le quantità del lavoro vivo da essi posto in moto, dunque anche le quantità di pluslavoro, sostanza del plusvalore e quindi del profitto, da essi appropriate. Quote di eguale grandezza del capitale totale nelle diverse sfere di produzione implicano fonti di grandezza diseguale del plusvalore, e l'unica fonte del plusvalore è il lavoro vivo. A pari grado di sfruttamento del lavoro, la massa del lavoro messo in moto da un capitale = 100, quindi anche del pluslavoro che esso si appropria, dipende dalla grandezza del suo elemento variabile. Se un capitale che consiste percentualmente in 90c + 10v, a pari grado di sfruttamento del lavoro producesse tanto plusvalore, o profitto, quanto un capitale consistente in 10c + 90v, allora sarebbe chiaro come il sole che il plusvalore, quindi il valore in generale, dovrebbe avere una fonte del tutto diversa dal lavoro e che, con ciò, l'economia politica verrebbe a perdere ogni base razionale.

Se continuiamo a porre i Lst. = il salario di un operaio per 60 ore lavorative, e il saggio di plusvalore = i00%, allora è chiaro che il valore totale che un operaio può produrre in una settimana sarà = 2 Lst.; dunque, 10 operai non potrebbero fornirne più di 20 Lst.; e poiché 10 di queste 20 Lst. reintegrano il salario, i 10 operai non potrebbero mai creare un plusvalore maggiore di 10 Lst., mentre i 90 il cui prodotto totale è = 180 Lst. e il cui salario è = 90 Lst. creerebbero un plusvalore di 90 Lst. Il saggio di profitto sarebbe in un caso del 10%, nell'altro del 90%. Se così non fosse, valore e plusvalore dovrebbero essere qualcosa di diverso da lavoro oggettivato. Poiché dunque capitali in diverse sfere di produzione, considerati in percentuale — ovvero capitali di eguale grandezza —, si ripartiscono diversamente in elemento costante e variabile, mettono in moto quantità diseguali di lavoro vivo e quindi producono una massa diseguale di plusvalore, dunque di profitto, in essi sarà diverso il saggio di profitto, che appunto consiste nel calcolo del plusvalore in percentuale del capitale totale.

Ma se capitali di diverse sfere di produzione, calcolati in percentuale, quindi capitali di pari grandezza in diverse sfere di produzione, creano profitti diseguali a causa della loro diversa composizione organica, ne segue che i profitti di capitali diseguali in diverse sfere di produzione non possono stare in rapporto alle loro rispettive grandezze; che dunque i profitti in sfere di produzione diverse non sono proporzionali alle grandezze dei rispettivi capitali in esse impiegati. Infatti un tale aumento del profitto pro rata della grandezza del capitale impiegato presupporrebbe che, considerati percentualmente, i profitti siano eguali, che quindi capitali di pari grandezza in sfere di produzione diverse abbiano eguali saggi di profitto malgrado la diversità della loro composizione organica. Solo all'interno della medesima sfera di produzione, dove perciò la composizione organica del capitale è data, o tra sfere di produzione diverse di eguale composizione organica del capitale, le masse dei profitti stanno in ragion diretta della massa dei capitali impiegati. Che i profitti di capitali di grandezza diseguale siano proporzionali alle loro grandezze non significa se non che capitali di pari grandezza dànno profitti di pari grandezza, ovvero che il saggio di profitto è il medesimo per tutti i capitali, qualunque ne sia la grandezza e qualunque ne sia la composizione organica.

Quanto si è svolto ha luogo nel presupposto che le merci siano vendute al loro valore. Il valore di una merce è eguale al valore del capitale costante in essa contenuto, più il valore del capitale variabile in essa riprodotto, più l'incremento di questo capitale variabile,. il plusvalore prodotto. A pari saggio del plusvalore, la sua massa dipende ovviamente dalla massa del capitale variabile. Il valore del prodotto del capitale di 100 è in un caso 90c + 10v + 10p = 110; nell'altro, 10c + 90v + 90p = 190. Se le merci si vendono ai loro valori, il primo prodotto sarà venduto a 110, di cui 10 rappresentano plusvalore, o lavoro non pagato; il secondo invece a 190, di cui 90 plusvalore, o lavoro non pagato.

La cosa assume una particolare importanza quando si confrontino tra loro saggi di profitto nazionali. Supponiamo che in un paese europeo il saggio di plusvalore sia del 100%, cioè che l'operaio lavori mezza giornata per sé e mezza per il suo imprenditore; supponiamo d'altra parte che in un paese asiatico il saggio di plusvalore sia = 25%, cioè che l'operaio lavori 4/5 della giornata per sé e 1/5 per il suo imprenditore, ma che nel paese europeo la composizione organica del capitale nazionale sia 84c + 16v, mentre nel paese asiatico, dove si impiegano poche macchine, ecc., e in un tempo dato una data quantità di forza lavoro consuma in modo produttivo una quantità relativamente piccola di materia prima, è 16c + 84v. Avremo allora il calcolo seguente:

Nel paese europeo, valore del prodotto = 84c+ 16v + 16p = 116; saggio di profitto = 16/100 = 16%.

Nel paese asiatico, valore del prodotto = 16c + 84v+ 21p = 121; saggio di profitto = 21/100 = 21%.

Il saggio di profitto nel paese asiatico è dunque maggiore di oltre il 25% che in quello europeo, sebbene il saggio di plusvalore sia nel primo quattro volte minore che nel secondo. I Carey, i Bastiat e tutti quanti giungeranno alla conclusione esattamente opposta.

Sia detto per inciso: saggi nazionali di profitto diversi poggiano per lo più su saggi nazionali di plusvalore diversi; ma in questo capitolo noi paragoniaino saggi di profitto diseguali nascenti da un solo e medesimo saggio di plusvalore.

Oltre alla diversa composizione organica dei capitali, quindi oltre alle diverse masse di lavoro e perciò anche, a parità di condizioni, di pluslavoro, che capitali di pari grandezza mettono in moto in diverse sfere di produzione, esiste pure un'altra fonte di diseguaglianza nei saggi di profitto: la diversità di durata della rotazione del capitale nelle differenti sfere di produzione. Nel capitolo IV abbiamo visto che, a eguale composizione dei capitali e a parità di altre condizioni, i saggi di profitto sono inversamente proporzionali ai tempi di rotazione e che, parimenti, lo stesso capitale variabile, se ruota in spazi di tempo diversi, produce masse diseguali di plusvalore annuo.

La diversità nei tempi di rotazione è dunque un'altra causa del fatto che capitali di pari grandezza in diverse sfere di produzione non producono profitti di pari grandezza in lassi di tempo eguali, e che perciò i saggi di profitto in queste diverse sfere sono differenti.

Per quanto riguarda invece il rapporto, nella composizione dei capitali, fra capitale fisso e circolante, esso, considerato in sé e per sé, non incide minimamente sul saggio di profitto. Può influirvi soltanto se questa diversa composizione coincide con un diverso rapporto fra parte variabile e parte costante, cioè se la diversità dei saggi di profitto è dovuta a questa differenza, e non a quella fra capitale fisso e circolante; oppure se il diverso rapporto fra elementi fissi e circolanti determina una differenza nel tempo di rotazione durante il quale si realizza un determinato profitto. Se capitali si ripartiscono in diversa proporzione in fisso e circolante, è vero che questo fatto influirà sempre sul loro tempo di rotazione, modificandolo; ma da ciò non segue che sia diverso il tempo di rotazione in cui gli stessi capitali realizzano profitto. Se per es. A deve continuamente convertire una parte maggiore del prodotto in materie prime etc., mentre B utilizza più a lungo le stesse macchine etc. con meno materie prime, entrambi, in quanto producono, hanno sempre impegnata una parte del loro capitale; l'uno in materia prima, dunque capitale circolante, l'altro in macchine etc., dunque capitale fisso. A converte continuamente una parte del suo capitale da forma merce in forma denaro, e da questa di nuovo nella forma della materia prima, mentre B utilizza una parte del suo capitale, senza tale conversione, per un periodo di tempo abbastanza lungo, come strumento di lavoro. Se i due impiegano la stessa quantità di lavoro, essi venderanno bensì nel corso dell'anno masse di prodotto di ineguale valore, ma l'una e l'altra massa di prodotto conterranno un plusvalore di eguale entità, e i loro saggi di profitto, che vengono calcolati sull'intero capitale anticipato, saranno gli stessi benché la loro composizione in capitale fisso e circolante, e così pure il loro tempo di rotazione, siano diversi. I due capitali realizzano in tempi eguali profitti eguali, benché ruotino in tempiuali profitti ediversi.

[Come risulta dal cap. IV, quanto sopra è esatto solo nel caso in cui i capitali A e B abbiano una diversa composizione di valore, ma i loro elementi variabili percentuali stiano fra loro come i rispettivi tempi di rotazione, o in ragione inversa del rispettivo numero di rotazioni. Supponendo che il capitale A sia composto, in percentuale, di 20c fisso +70c circolante, dunque di 90c+ 10p = 100, dato un plusvalore del 100% i 10, produrranno in una rotazione 10p; saggio di profitto per rotazione = 10%. Supponendo invece che il capitale B sia = 60c fisso + 20c circolante, dunque 8oc+20v = 100, dato il saggio di plusvalore suddetto i 20v produrranno in una rotazione 20p; saggio di profitto per rotazione = 20%, dunque il doppio che in A. Se però A ruota due volte in un anno e B una volta sola, si ha egualmente per l'anno 2 x IO = 20p e il saggio di profitto annuo é eguale in entrambi, ossia 20%. - F. E.].

La diversità dei tempi di rotazione, in sé e per sé, ha importanza nella sola misura in cui incide sulla massa del plus-lavoro che lo stesso capitale può appropriarsi e realizzare in un tempo dato. Se perciò una composizione ineguale in capitale circolante e fisso non implica necessariamente ineguaglianza nel tempo di rotazione, che determini a sua volta ineguaglianza nei saggi di profitto, è chiaro che, in quanto quest'ultima abbia luogo, ciò non deriva dalla composizione ineguale in capitale circolante e fisso in sé, ma dal fatto che essa qui indica solo una ineguaglianza nei tempi di rotazione, di cui risente il saggio di profitto.

Dunque, la diversa composizione del capitale costante in circolante e fisso in diversi rami d'industria non ha in sé alcuna importanza per il saggio di profitto, poiché quello che decide è il rapporto del capitale variabile al capitale costante, e il valore di quest'ultimo, dunque anche la sua grandezza relativa rispetto al capitale variabile, è del tutto indipendente dal carattere fisso o circolante dei suoi elementi. Si vedrà tuttavia — e il fatto induce a conclusioni erronee — che se il capitale fisso è notevolmente sviluppato, ciò significa unicamente che la produzione è condotta su grande scala, e quindi il capitale costante prevale nettamente sul variabile; ovvero che la forza lavoro viva impiegata è esigua in confronto alla massa dei mezzi di produzione posti in moto.

Abbiamo dunque mostrato: che in diversi rami d'industria, in corrispondenza alla diversa composizione organica dei capitali, ed entro certi limiti anche in corrispondenza ai loro diversi tempi di rotazione, regnano saggi di profitto ineguali, e che perciò, anche a parità di saggi di plusvalore, vale soltanto per capitali di eguale composizione organica — supponendo eguali i tempi di rotazione — la legge (come tendenza generale) secondo cui i profitti stanno fra loro come le grandezze dei capitali, e quindi capitali di pari grandezza dànno in tempi eguali profitti di grandezza eguale. Quanto abbiamo svolto vale sulla base che è stata finora, in generale, la base della nostra esposizione : che cioè le merci si vendano ai loro valori. D'altra parte non v'è dubbio che nella realtà, a prescindere da differenze inessenziali, fortuite e compensantisi a vicenda, la differenza nei saggi medi di profitto per i diversi rami di industria non esiste, né potrebbe esistere senza distruggere l'intero sistema della produzione capitalistica. Si direbbe perciò che qui la teoria del valore sia inconciliabile con il movimento effettivo, sia inconciliabile con i fenomeni reali della produzione, e che perciò si debba rinunciare a comprendere questi ultimi.

Dalla prima sezione del presente Libro risulta che i prezzi di costo sono gli stessi per prodotti di diverse sfere di produzione, per produrre i quali siano state anticipate parti di capitale di pari grandezza, per diversa che ne sia la composizione organica. Nel prezzo di costo, per il capitalista, la differenza fra capitale variabile e costante scompare. A lui, una merce per produrre la quale egli deve sborsare 100 Lst. costa egualmente sia che anticipi 90c + 10v oppure 10c + 90v: gli costa sempre 100 Lst., né più né meno. I prezzi di costo sono i medesimi per esborsi di capitale di pari grandezza in sfere diverse, per diversi che siano i valori e plusvalori prodotti. Questa eguaglianza dei prezzi di costo forma la base della concorrenza fra gli investimenti di capitale, da cui si origina il profitto medio.