Sezione II

Capitolo X

LIVELLAMENTO DEL SAGGIO GENERALE DI PROFITTO AD OPERA DELLA CONCORRENZA.
PREZZI DI MERCATO E VALORI DI MERCATO.
SOVRAPROFITTO

In una parte delle sfere di produzione, il capitale in esse investito ha una composizione media; cioè, esattamente o approssimativamente, la composizione del capitale sociale medio.

In queste sfere, il prezzo di produzione delle merci prodotte coincide, esattamente o approssimativamente, con il loro valore espresso in denaro. Se non ci fosse altro modo di giungere al limite matematico, questo lo sarebbe. La concorrenza ripartisce il capitale sociale fra le diverse sfere di produzione in maniera tale, che in ognuna i prezzi di produzione si formano sul modello dei prezzi di produzione nelle sfere a composizione media, cioè = k + kπ'
(il prezzo di costo più il prodotto del saggio medio di profitto per il prezzo di costo). Ma questo saggio medio di profitto non è che il profitto calcolato in percento in queste sfere a composizione media, nelle quali perciò il profitto coincide con il plusvalore. In tutte le sfere di produzione, quindi, il saggio di profitto è lo stesso, cioè livellato su quello delle sfere di produzione intermedie in cui regna la composizione media del capitale. Ne deriva che la somma dei profitti di tutte le diverse sfere di produzione dev'essere eguale alla somma dei plusvalori, e la somma dei prezzi di produzione del prodotto sociale totale dev'essere eguale alla somma dei suoi valori. È però chiaro che il livellamento tra le sfere di produzione a composizione differente deve sempre tendere ad eguagliare queste ultime alle sfere a composizione media, corrispondano esse esattamente o solo in via approssimativa alla media sociale. Fra quelle che vi si avvicinano di più e quelle che vi si avvicinano di meno si verifica una tendenza al livellamento, nel senso di una posizione media ideale, cioè non esistente nella realtà; insomma, una tendenza a regolarsi su di essa. S'impone così necessariamente la tendenza a fare dei prezzi di produzione le pure e semplici forme trasmutate del valore, o a trasformare i profitti in pure e semplici frazioni del plusvalore, distribuite tuttavia non proporzionalmente al plusvalore prodotto in ogni sfera di produzione particolare, ma proporzionalmente alla massa del capitale impiegato in ognuna, in modo che frazioni (aliquote) di pari grandezza della totalità del plusvalore prodotto dal capitale sociale totale tocchino a masse di capitale di pari grandezza, comunque esse siano composte.

Per i capitali a composizione media o vicina alla media, il prezzo di produzione coincide perciò esattamente o approssimativamente con il valore, e il profitto con il plusvalore da essi prodotto. Tutti gli altri capitali, qualunque ne sia la composizione, tendono, sotto la pressione della concorrenza, a livellarsi su questi. Ma poiché i capitali a composizione media sono eguali o pressoché eguali al capitale sociale medio, ogni capitale, qualunque sia il plusvalore che esso produce, tende a realizzare attraverso i prezzi delle sue merci, invece di questo plusvalore, il profitto medio, cioè a realizzare così i prezzi di produzione.

Si può dire d'altra parte che, dovunque si generi un profitto medio e quindi un saggio generale di profitto — in qualunque modo si pervenga a un tale risultato —, questo profitto medio non può essere che il profitto sul capitale sociale medio la cui somma è pari alla somma dei plusvalori, e che i prezzi determinati, dall'aggiunta di questo profitto medio ai prezzi di costo non possono essere se non i valori convertiti in prezzi di produzione. Non cambierebbe nulla alla cosa se, in date sfere di produzione, per questo o quel motivo, dei capitali non soggiacessero al processo di livellamento: il profitto medio sarebbe allora calcolato sulla parte del capitale sociale che entra in tale processo. È chiaro che il profitto medio non può essere altro che la massa complessiva del plusvalore ripartita sulle masse di capitale in ogni sfera di produzione proporzionalmente alla loro grandezza. Ciò che tocca ai capitalisti è l'insieme del lavoro non retribuito che si è realizzato, e questa massa totale si rappresenta, non meno del lavoro retribuito, vivo e morto, nella massa totale di merci e di denaro.

Il problema veramente difficile è come avvenga questo livellamento dei profitti in un saggio generale di profitto, dato che questo, evidentemente, può essere solo un risultato, non un punto di partenza.

È chiaro, prima di tutto, che una stima dei valori delle merci, per es. in denaro, può risultare solo dal loro scambio e che, se presupponiamo una tale stima, dobbiamo considerarla come il risultato di scambi effettivi di valori delle merci contro valori delle merci. Ma com'è potuto avvenire, questo scambio delle merci ai loro effettivi valori?

Supponiamo dapprima che tutte le merci nelle diverse sfere di produzione siano vendute ai loro reali valori. Che cosa succederebbe in tal caso? In base a quanto finora esposto, regnerebbero nelle diverse sfere di produzione saggi di profitto diversissimi. Sono prima facie due cose del tutto differenti che delle merci si vendano ai loro valori (cioè si scambino proporzionalmente al valore in esse contenuto, ai loro prezzi-valore) o che si vendano a prezzi tali per cui la loro vendita arrechi profitti eguali su masse eguali dei capitali anticipati per la loro rispettiva produzione.

Il fatto che capitali che mettono in moto quantità diseguali di lavoro producano quantità diseguali di plusvalore presuppone, almeno fino a un certo punto, che il grado di sfruttamento del lavoro, o il saggio di plusvalore, sia lo stesso, ovvero che le differenze ivi esistenti possano considerarsi annullate da cause di compensazione reali o fittizie (convenzionali). Ciò implica concorrenza fra gli operai, e compensazione mediante loro costante emigrazione da una sfera di produzione all'altra. A titolo di semplificazione teorica, noi abbiamo supposto l'esistenza — tendenziale, come per tutte le leggi economiche — di un tale saggio generale di plusvalore; in realtà, esso è l'effettivo presupposto del modo di produzione capitalistico, anche se più o meno ostacolato da attriti pratici che provocano differenze locali più o meno ragguardevoli, come per es. le leggi sul domicilio (settlement laws) per i giornalieri agricoli in Inghilterra. Ma, nella teoria, si presuppone che le leggi del modo di produzione capitalistico si svolgano allo stato puro. Nella realtà, esiste sempre soltanto approssimazione; approssimazione però tanto maggiore, quanto più è sviluppato il modo di produzione capitalistico e quanto più ne è limitata l'adulterazione e commistione con sopravvivenze di stati economici precedenti.

Tutta la difficoltà viene da ciò che le merci non si scambiano semplicemente come merci, ma come prodotti di capitali che, in proporzione alla loro grandezza, o a parità di grandezza, pretendono un'eguale partecipazione alla massa totale del plusvalore. E il prezzo totale delle merci prodotte da un dato capitale in un lasso di tempo dato deve soddisfare questa pretesa. Ma il prezzo totale di queste merci non è che la somma dei prezzi delle singole merci costituenti il prodotto del capitale.

Il punctum saliens apparirà meglio in luce, se impostiamo così la questione: supponiamo che gli operai posseggano essi stessi i loro rispettivi mezzi di produzione e si scambino le loro merci. Queste merci non sarebbero allora prodotti del capitale. A seconda della natura tecnica dei loro lavori, il valore dei mezzi di lavoro e dei materiali di lavoro impiegati nei diversi rami di lavoro sarebbe diverso, così come, a prescindere dal valore ineguale dei mezzi di produzione impiegati, se ne richiederebbero masse differenti per una data massa di lavoro a seconda che una data merce può essere approntata in un'ora, un'altra solo in un giorno, etc. Supponiamo inoltre che questi operai lavorino in media un tempo eguale, tenuto conto delle compensazioni derivanti da diversa intensità etc. del lavoro. Allora due operai avrebbero innanzitutto reintegrato nelle merci che costituiscono il prodotto del loro lavoro giornaliero le loro spese, i prezzi di costo dei mezzi di produzione utilizzati, che sarebbero diversi a seconda della natura tecnica dei loro rami di lavoro; in secondo luogo, avrebbero creato un eguale ammontare di nuovo valore, cioè la giornata lavorativa applicata ai mezzi di produzione. Vi sarebbe incluso il loro salario più il plusvalore, cioè il pluslavoro al di là dei loro bisogni necessari, il cui risultato però apparterrebbe ad essi stessi. Per esprimersi in termini capitalistici, entrambi ricevono lo stesso salario più lo stesso profitto = il valore espresso per es. nel prodotto di una giornata lavorativa di dieci ore. Ma, prima di tutto, i valori delle loro merci sarebbero diversi.

Nella merce I, per es., sarebbe contenuta una maggior parte di valore per i mezzi di produzione impiegati che nella merce II, e, per introdurre subito tutte le differenze possibili, la merce I assorbirebbe più lavoro vivo, esigerebbe quindi per la sua produzione un tempo di lavoro più lungo, che la merce II. Il valore delle merci I e II è quindi molto diverso. Ed egualmente diverse sono le somme dei valori delle merci che sono il prodotto del lavoro eseguito in un tempo dato dagli operai I e dagli operai II. I saggi di profitto sarebbero pure molto diversi per I e II, se qui chiamiamo saggio di profitto il rapporto del plusvalore al valore totale dei mezzi di produzione utilizzati. I mezzi di sussistenza che gli operai I c II consumano giornalmente durante la produzione, e che rappresentano il salario, costituiranno qui la parte dei mezzi di produzione anticipati che noi altrimenti chiamiamo capitale variabile. Ma i plusvalori sarebbero, per tempi di lavoro eguali, gli stessi in I e II o, meglio ancora, poiché I e II ricevono ciascuno il valore del prodotto di una giornata lavorativa, riceverebbero, una volta dedotto il valore degli elementi « costanti » anticipati, valori eguali, di cui una parte può considerarsi come la reintegrazione dei mezzi di sussistenza consumati nella produzione, l'altra come il plusvalore eccedente. Se I ha fatto più spese, queste sono reintegrate dalla maggior quota di valore della sua merce che reintegra questa parte « costante », ed egli deve perciò anche riconvertire negli elementi materiali di questa parte costante una parte maggiore del valore totale del suo prodotto, mentre li, se incassa di meno, ha pure di meno da riconvertire. In questa ipotesi, la diversità dei saggi di profitto sarebbe quindi un dato di fatto indifferente, così come oggi per l'operaio salariato è indifferente in quale saggio di profitto si esprima la quantità di plusvalore estortagli, e così come la differenza tra i saggi di profitto nelle diverse nazioni è indifferente, nel commercio internazionale, ai fini del loro scambio di merci.

Lo scambio di merci ai loro valori, o approssimativamente ai loro valori, presuppone quindi uno stadio molto più basso che lo scambio ai prezzi di produzione, per il quale è necessario il raggiungimento di un certo grado di sviluppo capitalistico.

In qualunque modo i prezzi delle diverse merci vengano a tutta prima reciprocamente stabiliti o regolati, la legge del valore ne domina il movimento. I prezzi scendono se diminuisce il tempo di lavoro necessario alla produzione delle merci; i prezzi salgono, a parità di condizioni, se questo tempo di lavoro aumenta.

A prescindere dal dominio della legge del valore sui prezzi e sul movimento dei prezzi, è dunque perfettamente conforme alla realtà considerare i valori delle merci, non solo in teoria, ma storicamente, come il prius dei prezzi di produzione. Ciò vale per condizioni in cui i mezzi di produzione appartengano all'operaio, e tali condizioni si ritrovano, nel mondo antico come in quello moderno, sia presso il proprietario-coltivatore diretto, sia presso l'artigiano, il che collima anche con l'opinione già espressa da noi [Allora, nel 1865, semplice «opinione» di Marx. Oggi, dopo le profonde indagini sulle comunità primitive da Maurer fino a Morgan fatto non più contestato da nessuno - [F. E.]], che lo sviluppo dei prodotti in merci nasca dallo scambio fra comunità diverse, non fra i membri di una sola e medesima comunità. Come per questo stadio originario, ciò vale per gli stadi successivi, che si fondano sulla schiavitù o sul servaggio, e per l'organizzazione corporativa dell'artigianato, finché i mezzi di produzione immobilizzati in ogni ramo della produzione possono essere trasferiti solo con difficoltà da una sfera all'altra e quindi, entro certi limiti, le diverse sfere si comportano tra loro come si comportavano i paesi stranieri o le comunità comuniste primitive.

Affinché i prezzi ai quali date merci si scambiano corrispondano approssimativamente ai loro valori, non è necessario se non che: 1) lo scambio delle diverse merci cessi d'essere puramente casuale o soltanto occasionale; 2) che, ove si consideri lo scambio diretto di merci, queste ultime vengano prodotte da entrambi i lati nelle quantità relative approssimativamente corrispondenti al reciproco bisogno, al che provvede l'esperienza commerciale acquisita da ambo le parti e che è un risultato del ripetersi dello scambio; 3) in quanto si parli di vendita, che nessun monopolio naturale o artificiale permetta ad una delle parti contraenti di vendere al disopra del valore, o la costringa a svendere al disotto del valore. Per monopolio accidentale intendiamo il monopolio derivante al compratore o al venditore dallo stato accidentale della domanda e dell'offerta.

Naturalmente, l'ipotesi che le merci delle diverse sfere di produzione si vendano ai loro valori significa soltanto che il loro valore è il punto di gravitazione intorno al quale ruotano i loro prezzi e a livello del quale i loro continui alti e bassi si compensano. Bisogna poi sempre distinguere un valore di mercato — di cui più avanti — dal valore individuale delle singole merci prodotte dai diversi produttori. Il valore individuale di alcune di queste merci starà al disotto del valore di mercato (cioè, per la loro riproduzione si richiederà meno tempo di lavoro di quanto espresso dal valore di mercato), quello di altre al disotto. Il valore di mercato dovrà essere considerato da una parte come il valore medio delle merci prodotte in una sfera, dall'altra come il valore individuale delle merci prodotte nelle condizioni normali della sfera e costituenti la gran massa dei suoi prodotti. È solo in combinazioni eccezionali che le merci prodotte nelle condizioni peggiori o, viceversa, nelle più favorevoli regolano il valore di mercato, il quale costituisce da parte sua il centro di oscillazione per i prezzi di mercato — che però sono gli stessi per le merci della medesima specie. Quando l'offerta delle merci al valore medio, quindi al valore medio della massa che sta fra i due estremi, soddisfa la domanda ordinaria, le merci il cui valore individuale sta al disotto del valore di mercato realizzano un plusvalore extra o sovraprofitto, mentre quelle il cui valore individuale sta al disopra del valore di mercato non possono realizzare una parte del plusvalore in esse contenuto.

Non serve a nulla dire che la vendita delle merci prodotte nelle condizioni peggiori mostra che esse sono necessarie per coprire la domanda. Se, nel caso ipotizzato, il prezzo fosse più alto del valore medio di mercato, la domanda sarebbe minore. A certi prezzi, un genere di merci può occupare un certo spazio sul mercato; questo poi rimane invariato, qualora cambino i prezzi, soltanto se il prezzo più alto coincide con una minore quantità di merci e il prezzo più basso con una maggiore quantità di merci. Se invece la domanda è così forte da non contrarsi se il prezzo è regolato dal valore delle merci prodotte nelle condizioni peggiori, allora sono queste a determinare il valore di mercato. Ciò è possibile soltanto se la domanda supera il livello normale, o se l'offerta scende sotto il livello normale. Infine, se la massa delle merci prodotte è troppo grande per trovare smercio ai valori di mercato- medi, allora sono le merci prodotte nelle condizioni migliori a regolare il valore di mercato. Per es., possono essere vendute esattamente o approssimativamente al loro valore individuale, e allora può accadere che forse le merci prodotte nelle condizioni peggiori non realizzino nemmeno i loro prezzi di costo, mentre quelle prodotte nelle condizioni medie possono realizzare solo una parte del plusvalore in esse contenuto. Quanto detto qui sul valore di mercato vale per il prezzo di produzione non appena abbia preso il posto del valore di mercato. Il prezzo di produzione è regolato in ogni sfera, e anch'esso regolato in base alle particolari circostanze. Ma è a sua volta il centro intorno al quale ruotano i prezzi giornalieri di mercato, e al quale essi in dati periodi si livellano. (Cfr. Ricardo sulla determinazione del prezzo di produzione ad opera di coloro che lavorano alle condizioni peggiori).

Comunque siano regolati i prezzi, risulta che:

1) La legge del valore domina il loro movimento, in quanto una diminuzione o un aumento del tempo di lavoro richiesto per la produzione fa salire o scendere i prezzi di produzione. È in questo senso che Ricardo (intuendo che i suoi prezzi di produzione divergono dai valori delle merci) dice che «l'indagine su cui intendo richiamare l'attenzione del lettore riguarda l'effetto delle variazioni verificatesi nel valore relativo delle merci, e non di quelle verificatesi nel loro valore assoluto.» [On the Principles etc.]

2) Il profitto medio, che determina i prezzi di produzione, deve essere sempre approssimativamente eguale alla quantità di plusvalore che tocca a un dato capitale come aliquota del capitale sociale totale. Supponiamo che il saggio generale di profitto, e quindi il profitto medio, sia espresso in un valore monetario superiore all'effettivo plusvalore medio, calcolato secondo il suo valore monetario. Per quanto allora riguarda i capitalisti, è indifferente che si attribuiscano reciprocamente un profitto del 10 o del 15%: l'un saggio percentuale non copre più dell'altro l'effettivo valore della merce, in quanto l'esagerazione dell'espressione monetaria è reciproca. Per quanto invece riguarda gli operai (poiché si presuppone che ricevano il loro salario normale, dunque che la maggiorazione del profitto medio non esprima una reale detrazione dal salario, cioè qualcosa di completamente diverso dal normale plusvalore del capitalista), all'aumento dei prezzi delle merci derivante dall'aumento del profitto medio deve corrispondere un aumento nell'espressione monetaria del capitale variabile. In realtà, un simile rialzo nominale generale del saggio di profitto e del profitto medio al disopra del saggio dato dal rapporto tra l'effettivo plusvalore e il capitale totale anticipato è impossibile, senza portare con sé un aumento del salario e, allo stesso modo, un aumento dei prezzi delle merci che costituiscono il capitale costante. Idem, inversamente, in caso di ribasso. Poiché è il valore totale delle merci a regolare il plusvalore totale, ma questo regola l'altezza del profitto medio, quindi del saggio generale di profitto — come legge generale, ovvero come ciò che domina le oscillazioni —, è la legge del valore che regola i prezzi di produzione.

L'azione della concorrenza, anzitutto in una sfera, consiste nel produrre, dai diversi valori individuali delle merci, un eguale valore di mercato e un eguale prezzo di mercato. Ma è solo la concorrenza dei capitali nelle diverse sfere a generare il prezzo di produzione, che livella i saggi di profitto fra le diverse sfere. Quest'ultimo risultato presuppone uno sviluppo superiore del modo di produzione capitalistico che il primo caso.

Affinché le merci della stessa sfera di produzione, della stessa specie e, approssimativamente, della stessa qualità siano vendute ai loro valori, sono necessarie due condizioni:

Primo: i diversi valori individuali devono essere livellati ad un solo valore sociale, il suesposto valore di mercato, e a tal fine si richiede sia una concorrenza fra i produttori della stessa specie di merce, sia la presenza di un mercato sul quale essi offrano tutti insieme le loro merci. Affinché il prezzo di mercato di merci identiche, ognuna tuttavia prodotta in circostanze di diversa sfumatura individuale, corrisponda al valore di mercato, non ne diverga né per eccesso né per difetto, è necessario che la pressione esercitata gli uni sugli altri dai diversi venditori sia abbastanza forte da farli gettare sul mercato la quantità di merci richiesta dal fabbisogno sociale, la quantità per la quale la società è in grado di pagare il valore di mercato. Se la massa dei prodotti superasse questo fabbisogno, le merci dovrebbero essere vendute al disotto del loro valore di mercato; inversamente, al disopra del loro valore di mercato se la massa dei prodotti non fosse sufficiente o, che è lo stesso, se la pressione della concorrenza tra i venditori non fosse abbastanza forte per costringerli a portare sul mercato questa massa di merci. Se il valore di mercato subisse una variazione, varierebbero anche le condizioni alle quali la massa totale delle merci potrebb'essere venduta. Se il valore di mercato scende, il fabbisogno sociale (che qui è sempre il fabbisogno solvibile) mediamente cresce, e può, entro certi limiti, assorbire maggiori quantità di merce. Se il valore di mercato sale, il fabbisogno sociale della merce si contrae e ne assorbe minori quantità. Se perciò sono la domanda e l'offerta a regolare il prezzo di mercato, o meglio le deviazioni dei prezzi di mercato dal valore di mercato, è d'altra parte il valore di mercato a regolare il rapporto fra domanda ed offerta, ovvero il centro intorno al quale le fluttuazioni della domanda e dell'offerta fanno oscillare i prezzi di mercato.

A guardar meglio la cosa, si osserva che le condizioni valide per il valore della merce singola si riproducono qui come condizioni per il valore della somma totale di una specie di merci; e questo sia perché la produzione capitalistica è per sua natura produzione di massa, sia perché anche altri e meno sviluppati modi di produzione — almeno nel caso delle merci principali — concentrano in grandi masse sul mercato, nelle mani di un numero relativamente piccolo di commercianti, ciò che è stato prodotto in masse minori come prodotto comune, sia pure di molti piccoli produttori isolati; lo concentrano, lo accumulano e lo mettono in vendita sul mercato come prodotto comune di un intero ramo di produzione o di un suo più o meno grande contingente.

Si noti qui di passaggio che il « fabbisogno sociale », ossia ciò che regola il principio della domanda, è essenzialmente condizionato dal rapporto reciproco fra le diverse classi e dalla loro rispettiva posizione sociale; quindi, 1) dal rapporto fra plusvalore totale e salario, 2) dal rapporto fra le diverse parti in cui si scompone il plusvalore (profitto, interesse, rendita fondiaria, imposte, etc.), cosicché anche qui si vede come il rapporto fra domanda ed offerta non possa spiegare nulla se prima non si sviluppa la base sulla quale esso svolge la sua azione.

Benché sia merce che denaro siano unità di valore di scambio e valore d'uso, abbiamo infatti già visto (Libro I, capitolo I, 3) come nella compravendita le due determinazioni siano polarmente ripartite ai due estremi, cosicché la merce (venditore) rappresenta il valore d'uso e il denaro (compratore) rappresenta il valore di scambio. Che la merce avesse valore d'uso, quindi soddisfacesse un bisogno sociale, era uno dei presupposti della vendita. L'altro era che la quantità di lavoro contenuta nella merce rappresentasse lavoro socialmente necessario, quindi il valore individuale (e, ciò che in questa ipotesi è lo stesso, il prezzo di vendita) della merce coincidesse con il suo valore sociale. (K. Marx, Zur Kritik der pol. Oek., Berlino, 1859)

Applichiamo tutto ciò alla massa di merci esistente sul mercato, che costituisce il prodotto di tutta una sfera.

Il modo più facile di presentare le cose è di considerare come una sola merce l'intera massa di merci, dapprima di un solo ramo di produzione, e la somma dei prezzi delle molte merci identiche come un solo prezzo. Così, quanto si è detto per la merce singola vale ora letteralmente per la massa di merci di un determinato ramo di produzione esistente sul mercato. Il fatto che il valore individuale della merce corrisponda al suo valore sociale si trova ora realizzato o ulteriormente precisato in ciò, che la quantità totale contiene il lavoro sociale necessario alla sua produzione, e che il valore di questa quantità è = il suo valore di mercato.

Supponiamo ora che la grande massa di queste merci sia prodotta suppergiù nelle stesse condizioni sociali normali, in modo che quel valore sia al contempo il valore individuale delle singole merci costituenti questa massa. Se una parte relativamente piccola è stata prodotta al disotto e l'altra al disopra di queste condizioni, cosicché il valore individuale della prima sia maggiore e quello della seconda minore del valore medio della gran parte delle merci, ma i due estremi si compensino, in modo che il valore medio delle merci ad essi appartenenti sia eguale al valore delle merci appartenenti alla quantità media, allora il valore di mercato è determinato dal valore delle merci prodotte nelle condizioni medie. (K. Marx. Zur Kritik, etc.) Il valore dell'intera massa di merci è eguale alla somma reale dei valori di tutte le singole merci prese assieme, sia di quelle prodotte entro le condizioni medie, sia di quelle prodotte al disotto o al disopra di esse. In questo caso, il valore di mercato o il valore sociale della massa di merci — il tempo di lavoro necessario in essa contenuto — è determinato dal valore della grande massa media.

Supponiamo invece che la quantità totale della merce portata sul mercato rimanga la stessa, ma il valore delle merci prodotte nelle condizioni peggiori non si livelli al valore delle merci prodotte nelle condizioni migliori, in modo che la parte prodotta nelle condizioni peggiori costituisca una grandezza relativamente importante, sia nei confronti della massa media, sia nei confronti dell'altro estremo: allora è la massa prodotta nelle condizioni peggiori a regolare il valore di mercato o il valore sociale.

Supponiamo infine che la massa di merci prodotta in condizioni migliori della media superi in misura notevole quella prodotta nelle condizioni peggiori e formi a sua volta una grandezza importante rispetto a quella prodotta nelle condizioni medie: allora è la parte prodotta nelle condizioni migliori a regolare il valore di mercato. Qui si prescinde dai casi di ingorgo del mercato, dove è sempre la parte prodotta nelle condizioni migliori quella che regola il prezzo di mercato; ma il fatto è che del prezzo di mercato, in quanto diverso dal valore di mercato, qui non dobbiamo occuparci, bensì delle differenti determinazioni del valore di mercato stesso.

(La controversia fra Storch e Ricardo a proposito della rendita fondiaria (controversia quanto al fondo della questione; in realtà, i due non si riferiscono l'uno all'altro) sul punto se il valore di mercato (in loro, piuttosto il prezzo di mercato, rispettivamente di produzione) sia regolato dalle merci prodotte nelle condizioni più favorevoli (Ricardo) o da quelle prodotte nelle condizioni più sfavorevoli (Storch), si risolve dunque nel senso che tutt'e due hanno ragione e tutt'e due torto, e che, parimenti, tutt'e due hanno completamente trascurato il caso intermedio Cfr. Corbet sui casi in cui il prezzo viene regolato dalle merci prodotte nelle condizioni migliori. «Egli» (Ricardo) « non intende sostenere che due individuali partite di due diversi articoli, come un cappello e un paio di scarpe, si scambino l'una con l'altra quando siano prodotte da eguali quantità di lavoro. Per « merce » si deve intendere qui « il genere di merce », non un particolare, individuale cappello, paio di scarpe etc. L'intero lavoro che in Inghilterra produce tutti i cappelli va considerato, a questo fine, come ripartito fra tutti i cappelli. Non mi sembra che questo sia stato detto all'inizio e nelle proclamazioni generali di questa dottrina»] » (Observations on some verbal disputes in Pol. Econ. etc., Londra, 1851, pp. 53-54.)

In effetti, a rigor di termini (cosa che, naturalmente, nella realtà si verifica solo in via approssimativa e con mille varianti), nel caso I il valore di mercato dell'intera massa di merci, regolato dai valori medi, è eguale alla somma dei loro valori individuali, benché per le merci prodotte ai due estremi questo valore si rappresenti come valore medio ad esse imposto. Coloro che producono all'estremo peggiore debbono allora vendere le proprie merci al disotto del valore individuale ; quelli all'estremo migliore, le vendono al disopra.

Nel caso II, le masse individuali di valore prodotte ai due estremi non si compensano, ma quella che decide è la massa prodotta nelle condizioni peggiori. A rigore, il prezzo medio o il valore di mercato di ogni singola merce, o di ogni aliquota della massa complessiva, sarebbe ora determinato dal valore totale della massa, ottenuto addizionando i valori delle merci prodotte nelle diverse condizioni, e dall'aliquota che di questo valore totale spetterebbe alla singola merce. Il valore di mercato così ottenuto supererebbe il valore individuale non solo delle merci appartenenti all'estremo favorevole, ma anche di quelle appartenenti allo strato di mezzo; ma sarebbe pur sempre inferiore al valore individuale delle merci prodotte all'estremo sfavorevole. In qual misura vi si avvicini, o finisca per coincidere con esso, dipende in tutto e per tutto dal volume che, nella sfera di merci in questione, raggiunge la massa di merci prodotta all'estremo sfavorevole. Se la domanda non prevale che di poco, il valore individuale delle merci prodotte in condizioni sfavorevoli regola il prezzo di mercato.

Se infine, come nel caso III, la quantità di merci prodotta all'estremo favorevole occupa uno spazio maggiore in confronto non solo all'altro estremo, ma allo strato intermedio, il valore di mercato cade al disotto del valore medio. Calcolato addizionando le somme di valore dei due estremi e della zona intermedia, il valore medio sta qui al disotto della linea mediana e se ne avvicina o se ne discosta a seconda dello spazio relativo occupato dall'estremo favorevole. Se la domanda è debole a paragone dell'offerta, la parte più favorita, qualunque ne sia la grandezza, si impone per forza di cose contraendo il suo prezzo al suo valore individuale. Con questo valore individuale delle merci prodotte nelle condizioni migliori il valore di mercato non potrà mai coincidere, se non in caso di forte prevalenza dell'offerta sulla domanda.

Questo modo di determinare il valore di mercato è presentato in forma astratta: sul mercato reale esso si realizza grazie alla concorrenza fra gli acquirenti, a condizione che la domanda sia esattamente tale da assorbire la massa di merci al suo valore così stabilito. E qui veniamo all'altro punto.

Secondo. Che la merce abbia un valore d'uso, significa soltanto che soddisfa un bisogno sociale quale che sia. Finché non trattavamo che delle merci singole, potevamo supporre che il bisogno di una merce particolare — la cui quantità era già implicita nel prezzo — esistesse di fatto, senza indagare oltre sulla misura del bisogno da soddisfare. Ma questa misura assume un'importanza essenziale quando da un lato sta il prodotto di tutto un ramo di produzione, dall'altro il bisogno sociale. Sorge allora la necessità di considerare la misura, cioè la quantità, di questo bisogno sociale.

Nelle precisazioni fatte in precedenza sul valore di mercato, si suppone che la massa delle merci prodotte rimanga la stessa, sia una massa data; che varii soltanto il rapporto fra le sue parti componenti prodotte in condizioni diverse, e che quindi sia regolato in modo diverso il valore di mercato della stessa massa di merci. Supponiamo che questa sia la quantità corrente dell'offerta, astraendo dalla possibilità che una parte delle merci prodotte venga temporaneamente sottratta al mercato. Se anche la domanda di queste merci resta quella ordinaria, la merce sarà venduta al suo valore di mercato, qualunque dei tre casi sopra esaminati regoli questo valore: la massa di merci non si limita allora a soddisfare un bisogno, ma lo soddisfa nella sua estensione sociale. Se invece la quantità è maggiore o minore della domanda, il prezzo di mercato divergerà dal valore di mercato. E, in primo luogo, se la quantità è troppo piccola, sarà sempre la merce prodotta nelle condizioni peggiori a regolare il valore di mercato; se è troppo grande, lo sarà quella prodotta nelle condizioni migliori; insomma, uno degli estremi determinerà il valore di mercato benché, stando al puro e semplice rapporto fra le masse di merci prodotte nelle diverse condizioni, il risultato dovrebb'essere un altro. Se la differenza fra domanda e quantità di prodotti offerta è maggiore, anche il prezzo di mercato divergerà in misura più forte, o verso l'alto o verso il basso, dal valore di mercato. Ma la differenza fra la quantità delle merci prodotte e la quantità alla quale le merci si vendono al loro valore di mercato può dipendere da due cause. O questa stessa quantità varia, diventa troppo piccola o troppo grande, e allora la riproduzione è avvenuta su una scala diversa da quella che regolava il dato valore di mercato; in tal caso, l'offerta si è modificata benché la domanda sia rimasta la medesima, quindi è avvenuta sovraproduzione o sottoproduzione relativa. Oppure la riproduzione, cioè l'offerta, resta la medesima, ma — cosa che può accadere per diversi motivi — la domanda è diminuita o cresciuta: sebbene qui la grandezza assoluta dell'offerta sia rimasta invariata, ne è variata la grandezza relativa, la grandezza paragonata al, e misurata sul, fabbisogno; e allora l'effetto è il medesimo che nel primo caso, solo di segno opposto. Infine, se avvengono cambiamenti ai due lati ma in senso inverso — o, se nello stesso senso, non nella stessa misura —, se insomma si verificano cambiamenti bilaterali che però non modificano la proporzione prima esistente fra le due parti, il risultato finale deve sempre corrispondere ad uno dei due casi esaminati più sopra.

La vera difficoltà, nella determinazione generale del concetto di domanda e di offerta, è che essa sembra risolversi in una tautologia. Consideriamo anzitutto l'offerta, il prodotto che esiste o che si può recare sul mercato. Per non entrare in dettagli completamente inutili, pensiamo qui alla massa della riproduzione annua in ogni determinato ramo d'industria, prescindendo dalla possibilità più o meno grande per le diverse merci d'essere sottratte al mercato e immagazzinate per il consumo, mettiamo, dell'anno dopo. Questa riproduzione annua esprime, innanzitutto, una determinata quantità, numero o peso, a seconda che la massa di merci venga misurata come discreta o come continua; non sono soltanto valori d'uso che soddisfano bisogni umani, ma questi valori d'uso sono presenti sul mercato in un certo volume. In secondo luogo, questa massa di merci ha un determinato valore di mercato, esprimibile in un multiplo del valore di mercato della merce, o della quantità delle merci, che serve da unità. Fra la gamma quantitativa di articoli presenti sul mercato e il loro valore di mercato non esiste perciò un rapporto necessario, nel senso ad es. che molte merci hanno un valore specificamente elevato, altre un valore specificamente basso, di modo che una data somma di merci può rappresentarsi in un quantum molto grande delle une e in un quantum molto piccolo delle altre.

Fra la quantità degli articoli presenti sul mercato e il loro valore di mercato v'è soltanto questo nesso: su una data base della produttività del lavoro, in ogni particolare sfera di produzione, per produrre una determinata quantità di articoli si richiede una determinata quantità di lavoro sociale, benché questo rapporto sia del tutto diverso in differenti sfere di produzione e non abbia nessun legame interno con l'utilità di quegli articoli o la natura particolare dei loro valori d'uso. A parità di condizioni, se la quantità a di un genere di merci costa il tempo di lavoro b, allora la quantità n a costerà n b tempo di lavoro. Inoltre: se la società vuole che dati bisogni vengano soddisfatti e che a tal fine si producano determinati articoli, deve pagarli. In realtà, poiché in regime di produzione di merci si presuppone che esista divisione del lavoro, la società compra quegli articoli destinando alla loro produzione una parte del proprio tempo di lavoro disponibile; li compra, dunque, con una determinata quantità del tempo di lavoro del quale quella data società può disporre. La parte della società alla quale, per effetto della divisione del lavoro, tocca di dedicare il proprio lavoro alla produzione di quei dati articoli, deve ricevere dal lavoro sociale un equivalente rappresentato negli articoli che ne soddisfano i bisogni. Ma fra la quantità complessiva di lavoro sociale usata per produrre un articolo sociale, cioè fra l'aliquota della forza lavoro complessiva che la società destina alla produzione di quell'articolo, quindi fra il volume che tale produzione occupa nella produzione totale, da una parte, e la misura in cui la società richiede che venga soddisfatto il bisogno appagato da quell'articolo, dall'altra, non esiste un legame necessario; esiste solo un legame accidentale. Sebbene ogni articolo singolo, ovvero ogni determinata quantità di un genere di merci, possa contenere soltanto il lavoro sociale richiesto per la sua produzione e, visto sotto questo profilo, il valore di mercato di tutto quel genere di merci rappresenti soltanto lavoro necessario, se la merce determinata è stata prodotta in una misura eccedente il fabbisogno sociale del momento una parte del tempo di lavoro sociale risulterà sprecata e la massa di merci prodotte rappresenterà sul mercato una quantità di lavoro sociale assai minore di quella in essa realmente contenuta. (Solo sottoponendo la produzione al proprio effettivo, predeterminante controllo, la società crea il legame fra il volume del tempo di lavoro sociale impiegato nella produzione di determinati articoli e il volume del bisogno sociale che si tratta di soddisfare con questi articoli). Ne segue che queste merci devono essere vendute al disotto del proprio valore di mercato, e può accadere addirittura che una parte di esse risulti invendibile. — Dicasi l'opposto se il volume del lavoro sociale dedicato alla produzione di un dato genere di merci è troppo piccolo per il volume del particolare bisogno sociale che esso deve soddisfare. — Ma, se il volume del lavoro sociale impiegato nella produzione di un determinato articolo corrisponde al volume del bisogno sociale da soddisfare, così che la massa prodotta corrisponda alla scala ordinaria della riproduzione in caso di domanda invariata, allora la merce si vende al suo valore di mercato. Lo scambio o la vendita delle merci al loro valore è l'elemento razionale, la legge naturale del loro equilibrio; con esso vanno spiegate le deviazioni, e non, viceversa, con le deviazioni la legge.

Volgiamoci ora all'altro lato, la domanda.

Le merci vengono acquistate o come mezzi di produzione o come mezzi di sussistenza — e qui non cambia nulla il fatto che molti generi di merci possano servire ad entrambi gli scopi —, per entrare o nel consumo produttivo o in quello individuale. Si ha quindi domanda di esse da parte dei produttori (in questo caso, dei capitalisti, poiché si suppone che i mezzi di produzione siano convertiti in capitale) e dei consumatori. Il presupposto di tutt'e due i casi sembra innanzitutto, dal lato della domanda, una data quantità di bisogni sociali, alla quale corrispondono dall'altro lato determinate quantità di prodotto sociale nei diversi rami di produzione. Perché l'industria cotoniera compia di nuovo la sua riproduzione annua su scala data, è necessaria la quantità corrente e — a parità di condizioni —, in vista dell'ampliamento annuo della riproduzione in seguito ad accumulazione di capitale, una quantità addizionale di cotone. Ciò vale allo stesso modo per i mezzi di sussistenza: per poter continuare a vivere alla tradizionale maniera media, la classe operaia deve trovare già pronta almeno la stessa quantità di mezzi di sussistenza necessari, anche se distribuiti, forse, in modo più o meno diverso fra i diversi generi — e, in vista dell'incremento annuo della popolazione, una quantità addizionale di essi. Il che è anche vero, con modificazioni più o meno rilevanti, per le altre classi.

Sembra perciò che dal lato della domanda stia un certa grandezza di bisogni sociali determinati, per soddisfare i quali occorre che esista sul mercato una determinata quantità di articoli. Ma la determinatezza quantitativa di questo bisogno è del tutto elastica e fluttuante. La sua fissità è pura apparenza. Se i mezzi di sussistenza fossero più a buon mercato o il salario monetario più alto, gli operai ne comprerebbero di più, e di questi generi di merci si avrebbe un maggior « bisogno sociale », a prescindere totalmente dai paupers etc., la cui « domanda » sta ancora al disotto dei limiti ultraristretti delle loro esigenze fìsiche. Se d'altra parte, per es., il cotone fosse più a buon mercato, la domanda di cotone da parte dei capitalisti aumenterebbe, più capitale addizionale sarebbe gettato nell'industria cotoniera, etc. A questo proposito non si deve dimenticare che la domanda per consumo produttivo, nella nostra ipotesi, è la domanda del capitalista e che, dato che suo scopo specifico è la produzione di plusvalore, solo a questo scopo egli produce un certo genere di merci. D'altra parte, ciò non impedisce che, in quanto accede al mercato come acquirente, per es., di cotone, egli rappresenti il bisogno di cotone, così come, del resto, al venditore di cotone è indifferente che il compratore lo trasformi in tela da camicie piuttosto che in fulmicotone, ovvero pensi di tappare con esso le orecchie sue e del mondo.

È vero che questo fatto influisce in alto grado sul suo modo di essere un compratore. Il suo bisogno di cotone è essenzialmente alterato dal fatto di mascherare quello che è, in realtà, solo il suo bisogno di ottenere un profitto. I limiti entro i quali il bisogno di merci rappresentato sul mercato — la domanda — differisce quantitativamente dal bisogno sociale effettivo variano naturalmente assai per le diverse merci; intendo dire la differenza fra la quantità di merci richiesta e la quantità che si richiederebbe se i prezzi monetari della mercanzia o le altre condizioni economiche e di vita dei compratori fossero diversi.

Nulla è più facile da rilevare che gli squilibrii fra domanda ed offerta, e le deviazioni dei prezzi di mercato dai valori di mercato che ne conseguono. La vera difficoltà consiste nello stabilire che cosa si debba intendere per equilibrio fra domanda ed offerta.

Domanda ed offerta sono in equilibrio se il loro rapporto è tale che la massa di merci di un determinato ramo di produzione può vendersi al suo valore di mercato, né sopra né sotto. È la prima cosa che ci sentiamo dire.

La seconda è: se le merci sono vendibili al loro valore di mercato, ecco che domanda e offerta si compensano, sono in equilibrio.

Se domanda e offerta si compensano, cessano di operare e, appunto perciò, la merce si vende al suo valore di mercato. Due forze agenti uniformemente in direzione opposta si annullano a vicenda, non agiscono più verso l'esterno, e i fenomeni che si verificano in tale condizione vanno spiegati altrimenti che col loro intervento. Se domanda e offerta si annullano a vicenda, cessano di spiegare checchessia, non esercitano più nessuna azione sul valore di mercato e ci lasciano totalmente all'oscuro del perché il valore di mercato si esprima proprio in quella e in nessun'altra somma di denaro. Spiegare le vere leggi interne della produzione capitalistica mediante l'azione e reazione di domanda ed offerta è chiaramente impossibile (a prescindere da un'analisi più profonda, che qui tralasciamo, di queste due forze motrici sociali), perché tali leggi appaiono realizzate nella loro purezza solo allorché domanda ed offerta cessano di operare, cioè coincidono. In realtà, domanda ed offerta non coincidono mai o, se ciò avviene, è solo per caso; dunque, dal punto di vista scientifico, la loro coincidenza va posta = 0, deve ritenersi non accaduta. Eppure, nell'economia politica si suppone che esse coincidano. Perché? Da un lato, per poter studiare i fenomeni nella loro forma normale, corrispondente al loro concetto, dunque fuori dell'apparenza generata dal movimento di domanda ed offerta; dall'altro, per individuare la tendenza effettiva del loro movimento e, in qualche modo, fissarla. Le diseguaglianze sono infatti di natura antagonistica e, dato che seguono costantemente l'una all'altra, finiscono per compensarsi appunto in virtù delle loro opposte direzioni, del loro antagonismo. Se perciò domanda e offerta non coincidono in nessun caso singolo dato, le loro diseguaglianze si susseguono — e il risultato della deviazione in un senso è di provocarne un'altra in senso inverso — in modo che, considerando l'insieme di un periodo più o meno lungo, offerta e domanda costantemente si pareggiano, ma solo come media del movimento trascorso e solo come moto costante del loro antagonismo. Così i prezzi di mercato divergenti dai valori di mercato si livellano, ove se ne consideri il numero medio, sui valori di mercato, perché gli scarti in più e in meno da questi ultimi si elidono a vicenda. E, per il capitale, questo numero medio ha un'importanza non puramente teorica ma pratica, in quanto il suo investimento è calcolato in base alle oscillazioni e compensazioni su un arco di tempo più o meno preciso.

Dunque, da un lato il rapporto fra domanda ed offerta spiega soltanto le deviazioni dei prezzi di mercato dai valori di mercato, dall'altro spiega la tendenza ad annullare tali deviazioni, cioè gli effetti del rapporto fra domanda ed offerta. (Non esamineremo qui le eccezioni di merci che hanno prezzi senza avere valore). Ora, domanda ed offerta possono annullare in modo assai diverso gli effetti delle loro ineguaglianze. Se per es. la domanda e quindi il prezzo di mercato scendono, può accadere o che si ritiri del capitale e quindi si riduca l'offerta, o che lo stesso valore di mercato cali in seguito ad invenzioni che abbreviano il tempo di lavoro necessario, e così si allinei al prezzo di mercato. Inversamente, se la domanda cresce e quindi il prezzo di mercato sale al disopra del valore di mercato, può accadere o che in quel ramo di produzione affluisca troppo capitale e, quindi, la produzione aumenti al punto di far cadere il prezzo di mercato al disotto del valore di mercato, o che i prezzi aumentino facendo indietreggiare la domanda. In questo o quel ramo di produzione l'effetto può essere, inoltre, che il valore di mercato cresca esso stesso per periodi di tempo più o meno lunghi, perché, in tali periodi, una parte delle merci richieste dev'essere prodotta in condizioni meno favorevoli.

Se domanda ed offerta determinano il prezzo di mercato, il prezzo di mercato e, in ultima analisi, il valore di mercato determinano a loro volta domanda ed offerta. La cosa è evidente per la domanda, dato che quest'ultima si muove in senso opposto al prezzo; cresce se questo scende e viceversa. Ma lo è anche per l'offerta, dato che i prezzi dei mezzi di produzione incorporati nella merce offerta determinano la domanda di questi stessi mezzi, quindi anche l'offerta delle merci la cui offerta implica una domanda di tali mezzi di produzione. I prezzi del cotone sono determinanti per l'offerta di cotonate.

A questa confusione — determinazione dei prezzi ad opera della domanda e dell'offerta e, parallelamente, determinazione della domanda e dell'offerta ad opera dei prezzi — si aggiunge la circostanza che l'offerta è determinata dalla domanda e, viceversa, la domanda dall'offerta, il mercato è determinato dalla produzione e, viceversa, la produzione dal mercato.

(Grande ottusità del seguente «acume»; «Se la quantità dei salari, del capitale e della terra, necessaria per produrre un articolo, è cambiata da quel che era, anche ciò che Adam Smith chiama il suo prezzo naturale risulta diverso, e quel che era prima il suo prezzo naturale diventa, data quella variazione, il suo prezzo di mercato; perché, sebbene né l'offerta né la quantità richiesta possano essere cambiate » (ma, in questo caso, cambiano tutt'e due, appunto perché il valore di mercato o, per dirla con A. Smith, il prezzo di produzionc varia in seguito ad un mutamento di valore), « tali offerta non è più ora esattamente sufficiente per chi può o vuol pagare quel che è adesso il costo di produzione, ma è maggiore o minore di tanto, cosicché il rapporto tra l'offerta e quello che, in base al nuovo costo di produzione, è la domanda effettiva differisce da quel che era in precedenza. Se nessun ostacolo vi si frappone, si verificherà allora una variazione nell'offerta che finirà per condurre la merce al suo nuovo prezzo naturale. A molti, allora, potrebbe sembrar giusto pensare che - poiché la merce raggiunge il suo prezzo naturale in seguito ad un mutamento nella sua offerta - il prezzo naturale sia tanto dovuto ad una proporzione fra domanda ed offerta, quanto il prezzo di mercato è dovuto a un'altra e, quindi, che il prezzo naturale dipenda quanto il prezzo di mercato dalla proporzione in cui stanno fra loro domanda ed offerta. («La grande legge della domanda e dell'offerta agisce per determinare quelli che Adam Smith chiama prezzi naturali, allo stesso modo che per determinare quelli che egli chiama prezzi di mercato.» (Malthus, Observations on certain verbal disputes etc., Londra, 1821, pp. 60-61).)

L'acuto personaggio non capisce che nel caso in questione è appunto il cambiamento nel cost of production, dunque anche nel valore, ad aver causato la variazione nella domanda, quindi nel rapporto fra domanda ed offerta, e che questa variazione nella domanda può causarne una nell'offerta; il che dimostrerebbe esattamente l'opposto di quel che vuol dimostrare il nostro pensatore, cioè proverebbe che il mutamento nei costi di produzione non è affatto regolato dal rapporto fra domanda e offerta, ma regola esso stesso, al contrario, questo rapporto.

Perfino l'economista ordinario (vedi nota) capisce che, senza un mutamento nell'offerta o nella domanda determinato da circostanze esterne, il rapporto fra le due può variare in seguito a mutamento del valore di mercato delle merci. Perfino lui deve ammettere che, qualunque sia il valore di mercato, per ottenerlo è necessario che domanda ed offerta si pareggino. In altri termini, non è il rapporto tra domanda ed offerta che spiega il valore di mercato, ma è quest'ultimo a spiegare le oscillazioni della domanda e dell'offerta. Dopo il brano citato in nota, l'autore delle Observations prosegue:

«Tuttavia, questo rapporto » (fra domanda ed offerta) a se continuiamo ad intendere per "domanda" e "prezzo naturale" quel che intendevamo poc'anzi riferendoci ad A. Smith, dev'essere sempre un rapporto di eguaglianza, perché è solo quando l'offerta è eguale alla domanda effettiva, cioè alla domanda disposta a pagare né più né meno il prezzo naturale, che il prezzo naturale è effettivamente pagato; ne segue che, in tempi diversi, ci possono essere due prezzi assai diversi per la stessa merce, e tuttavia il rapporto tra offerta e domanda essere lo stesso nei due casi, cioè un rapporto di eguaglianza ».

Dunque si ammette che, dati due diversi natural prices della stessa merce in tempi diversi, domanda ed offerta possono e debbono ogni volta equilibrarsi, perché la merce si venda tutt'e due le volte al suo natural price. Trattandosi tutt'e due le volte di una differenza non nel rapporto tra domanda ed offerta, ma nella grandezza del natural price, è evidente che tale prezzo è determinato indipendentemente dalla domanda e dall'offerta; dunque, non può in nessun caso esserne determinato.

Perché una merce sia venduta al suo valore di mercato, cioè in proporzione al lavoro socialmente necessario in essa contenuto, la quantità totale di lavoro sociale applicato alla massa complessiva di questo genere di merce deve corrispondere alla quantità del bisogno sociale di essa, cioè del bisogno sociale solvibile. La concorrenza, le oscillazioni dei prezzi di mercato corrispondenti alle oscillazioni nel rapporto tra domanda ed offerta, cercano costantemente di ridurre a questa misura la quantità totale del lavoro dedicato ad ogni genere di merci.

Nel rapporto tra domanda ed offerta delle merci si ripete, in primo luogo, il rapporto fra valore d'uso e valore di scambio, fra merce e denaro, fra compratore e venditore; in secondo luogo, il rapporto fra produttore e consumatore, benché sia l'uno che l'altro possano essere rappresentati da terzi, da commercianti. Nel considerare compratore e venditore, per svolgere il rapporto è sufficiente contrapporli isolatamente l'uno all'altro. Tre persone bastano per la metamorfosi completa della merce, quindi per l'insieme della compravendita. A converte la sua merce nel denaro di B, al quale la vende, e riconverte il suo denaro in merce che acquista con esso da C; l'intero processo si svolge fra queste tre persone. Inoltre: parlando del denaro, si era ammesso che le merci si vendano al loro valore, perché non v'era alcuna ragione di prendere in esame prezzi divergenti dal valore, non trattandosi che dei cambiamenti di forma subiti dalla merce nel suo farsi denaro e nel suo riconvertirsi da denaro in merce. Non appena venduta la merce, e compratane con il ricavato una nuova, l'intera metamorfosi ci sta dinnanzi, e per essa, considerata come tale, è indifferente che il prezzo della merce stia al disopra o al disotto del suo valore. Il valore della merce resta importante come base, perché soltanto su questo fondamento si può svolgere il concetto di denaro, e il prezzo, secondo il suo concetto generale, non è dapprima che il valore in forma monetaria. È vero che, nel considerare il denaro come mezzo di circolazione, si presuppone che di una merce non avvenga soltanto una III metamorfosi, e si considera piuttosto l'intreccio sociale di queste metamorfosi: solo così si giunge alla circolazione del denaro e allo sviluppo della sua funzione di medio circolante. Ma, benché importante per il passaggio del denaro alla funzione di medio circolante e per la forma diversa che esso di conseguenza assume, tale rapporto è invece indifferente per la transazione fra acquirenti e venditori singoli.

Nel caso della domanda e dell'offerta, invece, l'offerta è eguale alla somma dei venditori o produttori di un dato genere di merci e la domanda è eguale alla somma dei compratori o consumatori (individuali o produttivi) dello stesso genere di merci. E tali somme agiscono le une sulle altre come unità, come forze di aggregazione. Il singolo agisce qui solo come parte di una potenza sociale, come atomo della massa, ed è in questa forma che la concorrenza fa valere il carattere sociale 1 della produzione e del consumo.

Il lato della concorrenza momentaneamente il più debole è nello stesso tempo quello in cui il singolo agisce indipendentemente dalla massa dei suoi concorrenti e spesso direttamente contro tale massa, e appunto così rende tangibile la dipendenza dell'uno dall'altro, mentre il lato più forte si contrappone sempre più o meno come unità chiusa al suo antagonista. Se, per un determinato genere di merci, la domanda è maggiore dell'offerta, entro certi limiti un compratore offrirà un prezzo superiore all'altro e così farà salire per tutti il prezzo della merce al disopra del valore di mercato, mentre al polo opposto i venditori cercheranno tutti insieme di vendere a un alto prezzo di mercato. Se invece è l'offerta che supera la domanda, uno comincerà a vendere più a buon mercato e gli altri dovranno seguirlo, mentre i compratori si adopereranno tutti insieme per comprimere il prezzo di mercato il più possibile al disotto del valore di mercato. A ciascuno il lato comune interessa solo finché con esso egli guadagna di più che contro ad esso. E la comunanza cessa non appena il lato in quanto tale diventa il più debole, e ognuno cerca allora di sbrogliarsi il meglio che può per conto suo. Se inoltre uno produce più a buon mercato e può quindi vendere meno caro, impadronirsi di una parte maggiore del mercato vendendo al disotto del prezzo corrente di mercato o del valore di mercato, è logico che lo faccia, e così ha inizio il processo che via via costringe gli altri ad introdurre tipi di produzione più economici, e che riduce ad una nuova ed inferiore misura il lavoro socialmente necessario. Se un lato ha il sopravvento, tutti coloro che vi appartengono ne approfittano; è come se avessero da far valere un monopolio collettivo. Se un lato è il più debole, ognuno può cercare per parte sua d'essere il più forte (per es. chi lavora con minori costi di produzione) o almeno di cavarsela come meglio può, e allora se ne infischia del vicino, anche se il suo modo di agire tocca non soltanto lui, ma tutti i suoi compari. («Se ogni membro di una classe non potesse mai avere più di una frazione o parte aliquota data degli utili e possessi dell'intera classe, si alleerebbe prontamente agli altri per accrescere i guadagni [...]: questo è monopolio. Ma, quando ognuno pensa di potere in qualche modo accrescere l'ammontare assoluto della propria quota, anche se con un procedimento che riduce la somma complessiva, spesso lo farà: questo è concorrenza .» (An Inquiry into Those Principles Respecting the Nature of Demand etc., Londra, 1821, p. 105)

Domanda ed offerta presuppongono la trasformazione del valore in valore di mercato e, nella misura in cui si esercitano su base capitalistica, nella misura in cui le merci sono prodotti del capitale, presuppongono processi di produzione capitalistici, quindi rapporti ben altrimenti complicati che la pura e semplice compravendita delle merci. Si tratta nel loro caso non della metamorfosi formale del valore delle merci in prezzo, cioè di un mero mutamento di forma, ma delle determinate deviazioni quantitative dei prezzi di mercato dai valori di mercato, ed ancora dai prezzi di produzione. Nella semplice compravendita, è sufficiente avere dei produttori di merci che si contrappongono come tali. Ad un'analisi ulteriore, domanda ed offerta presuppongono l'esistenza delle diverse classi e frazioni di classi che si ripartiscono il reddito totale della società e lo consumano tra loro come reddito, che quindi formano la domanda generata dal reddito, mentre d'altra parte, per la comprensione della domanda e dell'offerta generate fra loro dai produttori in quanto tali, esse richiedono la conoscenza della struttura complessiva del processo di produzione capitalistico.

Nella produzione capitalistica non si tratta soltanto di ricavare, per la massa di valore gettata in forma merce nella circolazione, una eguale massa di valore in altra forma — sia di denaro, sia di altra merce —, ma di ricavare, per il capitale anticipato alla produzione, lo stesso plusvalore o profitto di ogni altro capitale della stessa grandezza, o pro rata della sua grandezza, in qualunque ramo di produzione sia impiegato; si tratta perciò di vendere le merci, come minimo, a prezzi che arrechino il profitto medio, cioè a prezzi di produzione. Il capitale prende in questa forma coscienza di sé come potenza sociale alla quale ogni capitalista partecipa in proporzione alla sua parte nel capitale sociale totale.

In primo luogo la produzione capitalistica, in sé e per sé, è indifferente allo specifico valore d'uso e, in generale, alla particolarità della merce che produce. In ogni sfera di produzione non le importa che di produrre plusvalore, di appropriarsi nel prodotto del lavoro una determinata quantità di lavoro non retribuito. Del pari, è nella natura del lavoro salariato soggetto al capitale d'essere indifferente al carattere specifico del proprio lavoro, di doversi trasformare secondo le esigenze del capitale e lasciarsi catapultare da una sfera di produzione all'altra.

In secondo luogo, una sfera di produzione vale in realtà quanto l'altra, non è né migliore né peggiore; ognuna produce lo stesso profitto, e nessuna avrebbe scopo se la merce da essa prodotta non soddisfacesse un bisogno sociale di qualunque specie.

Se però le merci si vendono al loro valore, nelle diverse sfere di produzione si originano, come si è spiegato, saggi di profitto diversi a seconda della diversa composizione organica delle masse di capitale in esse investite. Ma il capitale si ritira da una sfera con saggio di profitto basso e si getta sull'altra che ne produce uno più alto. Grazie a questo costante emigrare ed immigrare, insomma grazie alla sua ripartizione fra le diverse sfere a seconda che il saggio del profitto qui sale e là scende, esso genera un tale rapporto fra domanda ed offerta, che il profitto medio nelle diverse sfere di produzione diventa lo stesso, e quindi i valori si trasformano in prezzi di produzione. Questo livellamento riesce più o meno al capitale secondo il grado di sviluppo capitalistico di una data società nazionale; cioè, secondo che le condizioni del paese in oggetto si adattano al modo di produzione capitalistico. Con il progredire della produzione capitalistica se ne sviluppano anche le condizioni, ed essa sottomette l'insieme dei presupposti sociali nel cui ambito si svolge il processo di produzione al suo carattere specifico e alle sue leggi immanenti.

Il costante livellamento delle costanti diseguaglianze si compie in modo tanto più rapido, 1) quanto più è mobile il capitale, cioè quanto più è facile trasferirlo da una sfera e da una località ad altre, 2) quanto più rapidamente si può catapultare la forza lavoro da una sfera all'altra e da un punto locale di produzione all'altro. Il primo caso presuppone una completa libertà di commercio all'interno della società e l'eliminazione di ogni monopolio che non sia quello naturale, cioè nascente dal modo stesso capitalistico di produzione. Presuppone inoltre lo sviluppo del sistema del credito, che concentra di fronte ai singoli capitalisti la massa inorganica del capitale sociale disponibile e, infine, la sottomissione a capitalisti delle diverse sfere di produzione. Quest'ultima è già implicita nell'ipotesi fatta in origine che la conversione dei valori in prezzi di produzione riguardi tutte le sfere di produzione capitalisticamente sfruttate; ma questo livellamento si scontra in ostacoli tutt'altro che trascurabili se numerose e massicce sfere di produzione a conduzione non capitalistica (per es. la piccola azienda contadina in agricoltura) si inseriscono fra le imprese capitalistiche e si intrecciano ad esse. Occorre, per finire, un'alta densità della popolazione. — Il secondo caso presuppone la soppressione di tutte le leggi che impediscono agli operai di migrare da una sfera di produzione all'altra o da una sede locale di produzione a qualunque altra; l'indifferenza dell'operaio per il contenuto del suo lavoro; la massima riduzione possibile del lavoro, in tutte le sfere di produzione, a lavoro semplice; l'eliminazione di ogni pregiudizio professionale negli operai; infine e soprattutto, la sottomissione dell'operaio al modo di produzione capitalistico. Ulteriori sviluppi del tema, nei capitoli dedicati allo studio specifico della concorrenza.

Da quanto detto segue che ogni singolo capitalista, così come la totalità dei capitalisti di ogni particolare sfera di produzione, partecipa allo sfruttamento dell'insieme della classe lavoratrice ad opera del capitale totale, e al grado di questo sfruttamento, non solo per generale simpatia di classe, ma in modo direttamente economico, perché, se si suppongono date tutte le altre circostanze, fra cui il valore del capitale totale costante anticipato, il saggio medio di profitto dipende dal grado di sfruttamento del lavoro totale ad opera del capitale totale.

Il profitto medio coincide col plusvalore medio prodotto in percento dal capitale e, in rapporto al plusvalore, quanto si è appena detto è a priori evidente. Nel caso del profitto medio, vi si aggiunge solo, come uno dei fattori determinanti del saggio di profitto, il valore del capitale anticipato. In realtà, il particolare interesse che un capitalista o il capitale di una determinata sfera di produzione ha per lo sfruttamento degli operai da lui direttamente occupati si limita alla possibilità o meno di ottenere un utile extra, un profitto eccedente la media, vuoi mediante eccezionale sopralavoro, vuoi mediante compressione del salario al disotto della media, ovvero grazie ad eccezionale produttività del lavoro impiegato. A prescindere da ciò, un capitalista che non impiegasse nella sua sfera di produzione neppure una frazione infinitesima di capitale variabile e quindi neppure un operaio (ipotesi in realtà inverosimile) non sarebbe meno interessato allo sfruttamento della classe operaia e non trarrebbe meno il suo profitto da pluslavoro non retribuito, che un capitalista il quale (ipotesi anche questa inverosimile) impiegasse soltanto capitale variabile, dunque spendesse in salario tutto il suo capitale. Ma il grado di sfruttamento del lavoro dipende, a giornata lavorativa data, dall'intensità media del lavoro e, a intensità data, dalla lunghezza della giornata lavorativa. Dal grado di sfruttamento del lavoro dipende l'altezza del saggio di plusvalore; quindi, a massa totale data del capitale variabile, l'ammontare del plusvalore e perciò l'ammontare del profitto. Il medesimo interesse speciale che il capitale di una sfera, a differenza del capitale totale, ha per lo sfruttamento degli operai da esso specificamente occupati, lo ha il singolo capitalista, a differenza della sua sfera, per lo sfruttamento degli operai da lui personalmente sfruttati.

D'altra parte, ogni particolare sfera del capitale ed ogni singolo capitalista hanno l'identico interesse per la produttività del lavoro sociale occupato dal capitale totale, perché da ciò dipende: 1) la massa dei valori d'uso in cui si esprime il profitto medio, il che è doppiamente importante, in quanto il profitto medio serve sia come fondo di accumulazione di nuovo capitale, sia come fondo di reddito per il consumo; 2) l'altezza di valore del capitale totale (costante e variabile) anticipato che, a grandezza data del plusvalore o del profitto dell'intera classe capitalistica, determina il saggio di profitto, ovvero il profitto su una determinata quantità di capitale. La particolare produttività in una particolare sfera, o in una particolare azienda di questa sfera, interessa solo i capitalisti che vi partecipano direttamente, in quanto permette alla singola sfera nei confronti del capitale totale, o al singolo capitalista nei confronti della propria sfera, di lucrare un sovraprofitto.

Si ha qui dunque la prova matematicamente esatta del perché i capitalisti, mentre si comportano da falsi fratelli nella loro concorrenza reciproca, costituiscono poi una vera e propria massoneria di fronte all'insieme della classe operaia.

Il prezzo di produzione include il profitto medio. Noi gli abbiamo dato il nome di prezzo di produzione; esso è in realtà la stessa cosa che A. Smith chiama natural price, Ricardo price of production e cost of production, i fisiocratici prix nécessaire — ma nessuno di essi ha svolto la differenza del prezzo di produzione dal valore —, perché è, alla lunga, condizione dell'offerta, della riproduzione della merce di ogni particolare sfera di produzionea. Si capisce anche perché gli stessi economisti che si ribellano alla determinazione del valore delle merci mediante il tempo di lavoro, mediante la quantità di lavoro in esse contenuto, parlino sempre dei prezzi di produzione come dei centri intorno ai quali oscillano i prezzi di mercato. Si possono permettere di farlo, perché il prezzo di produzione è una forma già del tutto alienata e prima facie aconcettuale del valore della merce, una forma così come appare nella concorrenza, quindi nella coscienza del capitalista volgare, e come è perciò anche presente in quella dell'economista volgare.

Da quanto si è svolto è risultato come il valore di mercato (e tutto ciò che si è detto in proposito vale, con le necessarie limitazioni, per il prezzo di produzione) comprenda un sovraprofitto per coloro che in ogni particolare sfera di produzione producono nelle condizioni migliori. Esclusi in genere i casi di crisi e sovraproduzione, ciò vale per tutti i prezzi di mercato, comunque possano divergere dai valori di mercato o dai prezzi di produzione di mercato. Nel prezzo di mercato è infatti implicito che lo stesso prezzo si paghi per merci dello stesso genere, quand'anche siano prodotte in condizioni individuali molto diverse e, di conseguenza, abbiano prezzi di costo diversissimi. (Qui non parliamo dei sovraprofitti risultanti da monopoli, naturali o artificiali, nel senso comune del termine).

Un sovraprofitto può inoltre generarsi quando certe sfere di produzione sono in grado di sottrarsi alla conversione dei valori delle loro merci in prezzi di produzione, e quindi alla riduzione dei loro profitti al profitto medio. Nella sezione sulla rendita fondiaria dovremo considerare l'ulteriore configurarsi di queste due forme del sovraprofitto.