Per analizzare il pensiero di Marx, mi sforzerò di rispondere alle stesse domande poste per Montesquieu e Comte: qual è l'interpretazione che Marx dà del suo tempo? Qual è la sua teoria dell'insieme sociale? Quale la sua visione della storia? Qual è la relazione che egli ha stabilito tra sociologia, filosofia della storia e politica? In un certo senso, questa esposizione non è più difficile delle due precedenti; se non vi fossero milioni di marxisti, nessuno avrebbe dubbi su quali siano state le idee fondamentali di Marx.
Marx non è, come scrive K. Axelos, il filosofo della tecnica; non è, come pensano altri, il filosofo dell'alienazione1; è inizialmente e prima di tutto il sociologo e l'economista del regime capitalistico. Marx aveva una teoria di questo regime, della condizione che esso imponeva agli uomini e del futuro che l'avrebbe aspettato. Sociologo-economista di quello che egli chiamava il capitalismo, non aveva una rappresentazione precisa di quello che sarebbe stato il regime socialista e non ha mai smesso di dire che l'uomo non poteva conoscere in anticipo l'avvenire. Per questo presenta scarso interesse il chiedersi se Marx sarebbe stato staliniano, trotzkista, krusceviano o partigiano di Mao Tse-tung.
Marx ebbe la fortuna, o la sfortuna, di vivere un secolo fa, e non ha dato risposta alle domande che noi ci poniamo oggi. Possiamo dare queste risposte per lui, ma sono le nostre risposte e non le sue. Un uomo, soprattutto un sociologo marxista, perché Marx aveva pur sempre qualche rapporto col marxismo, è inseparabile dalla sua epoca. Chiedersi quello che Marx, vissuto in un altro secolo, avrebbe pensato, è chiedersi quello che un altro Marx avrebbe pensato al posto del vero Marx. La risposta è possibile, ma aleatoria e di scarso interesse.
Pur limitandosi a esporre quello che Marx, vivendo nel XIX secolo, pensava del suo tempo e del futuro, e non ciò che penserebbe del nostro tempo e del nostro futuro, questa analisi presenta purtuttavia delle difficoltà particolari per svariate ragioni, estrinseche le une, intrinseche le altre.
Le difficoltà estrinseche dipendono dalla fortuna postuma di Marx. Oggi quasi un miliardo di uomini sono istruiti in una dottrina che, a torto o a ragione, si chiama marxista. Una certa interpretazione della dottrina di Marx è diventata l'ideologia ufficiale dello stato russo, poi di quelli dell'Europa orientale e, infine, dello stato cinese.
Questa dottrina ufficiale pretende di offrire la vera interpretazione del pensiero di Marx. Basta dunque che il sociologo presenti una certa interpretazione di questo pensiero per diventare, agli occhi dei sostenitori della dottrina ufficiale, un portavoce della borghesia, un servo del capitalismo e dell'imperialismo. In altre parole, la buona fede che senza grande difficoltà mi si riconosce quando si tratta di Montesquieu e di Auguste Comte, alcuni me la rifiutano in anticipo se si tratta di Marx.
Un'altra difficoltà estrinseca nasce dalle reazioni alla dottrina ufficiale degli stati sovietici, che presenta i caratteri di semplificazione e grossolanità inseparabili dalle dottrine ufficiali, insegnate sotto forma di catechismi a menti diverse.
Così, quei filosofi sottili che vivono sulle rive della Senna e vorrebbero essere marxisti senza ritornare bambini, hanno immaginato una serie di interpretazioni, le une più intelligenti delle altre, del pensiero profondo e definitivo di Marx2.
Quanto a me, non cercherò un'interpretazione sommamente intelligente di Marx, non perché non abbia un certo gusto per queste interpretazioni sottili, ma perché penso che le idee centrali di Marx sono più semplici di quelle che si possono trovare nella rivista “Arguments” o nelle opere dedicate agli scritti giovanili di Marx, scritti che Marx prendeva tanto sul serio da abbandonarli alla critica dei topi3. Di conseguenza, mi rifarò sostanzialmente agli scritti che Marx ha pubblicato e che ha sempre considerato come l'espressione principale del suo pensiero.
Tuttavia, anche se si scarta il marxismo sovietico e quello dei marxisti sottili, restano alcune difficoltà intrinseche.
Queste difficoltà intrinseche dipendono in primo luogo dal fatto che Marx è stato un autore fecondo, che ha scritto molto, e che, come talvolta succede ai sociologi, ha scritto, di volta in volta, articoli su quotidiani e opere voluminose. Avendo scritto molto, non ha detto sempre la stessa cosa sullo stesso argomento. Con un po' di ingegnosità e di erudizione, si possono trovare, sulla maggior parte dei problemi, asserzioni di Marx, che non sembrano concordare o che, almeno, si prestano a diverse interpretazioni.
Inoltre, l'opera di Marx comporta opere di teoria sociologica, opere di teoria economica, opere di storia; talvolta la teoria esplicita che ritroviamo in questi scritti scientifici sembra contraddire quella implicita utilizzata nelle opere storiche. Per esempio, Marx delinea una certa teoria delle classi; ma quando studia storicamente la lotta delle classi in Francia tra il 1848 e il 1850 o il colpo di stato di Luigi Napoleone o la storia della Comune, le classi che egli riconosce e fa agire come personaggi del dramma, non sono necessariamente quelle indicate dalla sua teoria.
E ancora, oltre alla varietà delle opere, bisogna tener conto della diversità dei periodi. Si è d'accordo nel distinguere due periodi principali. Il primo, che chiamiamo il periodo della giovinezza, comprende gli scritti redatti tra il 1841 e il 1847-48. Tra gli scritti di questo periodo, alcuni furono pubblicati quando Marx era ancora vivo, brevi articoli o saggi, come quello “Per la critica della filosofia del diritto di Hegel”, o “Per la questione degli ebrei”; altri lo furono soltanto dopo la sua morte. La pubblicazione completa delle opere è del 1931, e a partire da questa data si è sviluppata tutta una letteratura che ha interpretato il pensiero di Marx alla luce degli scritti giovanili.
Tra questi ultimi si trova un frammento di una critica della filosofia del diritto di Hegel, chiamato Manoscritto economico-filosofico, L'ideologia tedesca.
Tra le opere più importanti di questo periodo, che erano note da tempo, figurano Lo Sacra famiglia e una polemica con Proudhon intitolata Miseria della filosofia, replica all'opera di Proudhon Filosofia della miseria.
Questo periodo giovanile si conchiude con la Miseria della filosofia e, soprattutto, con un libretto classico intitolato il Manifesto del partito comunista, capolavoro della letteratura sociologica di propaganda, nel quale si trovano esposte per la prima volta, in modo lucido e brillante nel contempo, le idee fondamentali di Marx. Ma anche L'ideologia tedesca, del 1845, segna una rottura con la fase precedente.
A partire dal 1848, e sino ai giorni nostri, Marx ha cessato apparentemente di essere un filosofo ed è diventato un sociologo e soprattutto un economista. La maggior parte di coloro che oggi si proclamano più o meno marxisti hanno la particolarità di ignorare l'economia politica del nostro tempo. Marx non condivideva questa debolezza: aveva una magnifica preparazione economica, conosceva il pensiero economico del suo tempo come pochi; era e si considerava un economista nel significato rigoroso e scientifico del termine.
In questo secondo periodo della sua vita, le due opere più importanti sono un testo del 1859, intitolato Per la critica dell'economia politica e, naturalmente, l'opera che è il capolavoro di Marx, il perno del suo pensiero, cioè Il Capitale.
Insisto sul fatto che Marx è prima di tutto l'autore del Capitale, perché questa verità banale oggi è messa in discussione da alcune persone troppo intelligenti. Non esiste ombra di dubbio che Marx, che si proponeva di analizzare il funzionamento del capitalismo e di prevederne l'evoluzione, ai suoi propri occhi fu prima di tutto l'autore del Capitale.
Marx ha una determinata visione filosofica del divenire storico: che abbia dato alle contraddizioni del capitalismo un significato filosofico è possibile o almeno probabile; ma lo sforzo scientifico principale di Marx è volto a dimostrare scientificamente l'evoluzione, ineluttabile ai suoi occhi, del regime capitalistico.
Qualsiasi interpretazione che non sappia trovare un posto per il Capitale o può riassumerlo in poche pagine, è aberrante in rapporto a ciò che Marx stesso ha pensato e voluto.
Si è sempre liberi di dire che un pensatore si è ingannato nei propri confronti e che i testi essenziali sono quelli che egli disdegnò di pubblicare; ma bisogna essere molto sicuri del proprio genio per essere convinti di comprendere un grande autore meglio di quanto non si sia compreso lui stesso. Quando non si è così sicuri del proprio genio, è meglio incominciare a comprendere l'autore così come lui stesso si è compreso, e di conseguenza mettere al centro del marxismo Il Capitale e non il Manoscritto economico-filosofico, brogliaccio informe, mediocre o geniale, di un giovane che specula su Hegel e sul capitalismo in un'epoca in cui conosceva certamente meglio Hegel del capitalismo.
Per questo, tenendo conto di questi due momenti della carriera scientifica di Marx, inizierò a trattare il pensiero della maturità che cercherò nel Manifesto del partito comunista, in Per la critica dell'economia politica e nel Capitale, riservando a un momento successivo l'indagine sullo sfondo filosofico del pensiero storico-sociologico di Marx.
Esistono infine, anche al di fuori dell'ortodossia sovietica chiamata marxismo, molteplici interpretazioni filosofiche e sociologiche di Marx. Da più di un secolo, numerose scuole hanno in comune la caratteristica di richiamarsi a Marx, pur dando versioni diverse del suo pensiero. Non tenterò di esporre quale sia stato il pensiero, definitivo e segreto di Marx, perché confesso di non saperne nulla. Mi sforzerò di mostrare perché i temi del pensiero di Marx sono semplici e falsamente chiari, e si prestano così a interpretazioni tra le quali è quasi impossibile scegliere con certezza.
Si può presentare un Marx hegeliano, si può anche presentare un Marx kantiano; si può sostenere con Schumpeter che l'interpretazione economica della storia non ha nulla a che vedere col materialismo filosofico4; possiamo anche dimostrare che l'interpretazione economica della storia è solidale con una filosofia materialistica; si può vedere nel Capitale, come ha fatto Schumpeter, un'opera rigorosamente scientifica, d'ordine economico, senza alcun riferimento alla filosofia; e si può anche, come hanno fatto padre Bigo e altri commentatori, mostrare che Il Capitale elabora una filosofia esistenziale dell'uomo nell'economia.5
La mia ambizione consisterà nel mostrare perché, intrinsecamente, i testi di Marx siano equivoci; il che significa che essi presentano le qualità necessarie per essere commentati senza fine e trasfigurati in ortodossia.
Qualunque teoria che voglia diventare l'ideologia di un movimento politico o la dottrina ufficiale di uno stato, deve prestarsi alla semplificazione per i semplici e alla sottigliezza per i sottili. Senza dubbio, il pensiero di Marx presenta queste virtù al massimo grado: ognuno può trovarvi quel che vuole.6
Marx era incontestabilmente un sociologo, ma un sociologo di un tipo particolare, sociologo-economista, convinto che non si può comprendere la società moderna se non ci si riferisce al funzionamento del sistema economico, né comprendere l'evoluzione di questo se si trascura la teoria del funzionamento. Infine, da sociologo, non separava mai la comprensione del presente dalla previsione dell'avvenire e dalla volontà d'azione. In rapporto alle odierne sociologie dette obiettive era dunque un profeta e un uomo d'azione e, nello stesso tempo, uno scienziato. Ma forse, dopotutto, è una prova di franchezza non negare le connessioni che sempre intercorrono tra l'interpretazione di ciò che è e il giudizio che diamo su ciò che dovrebbe essere.
L'analisi socioeconomica del capitalismo
Il pensiero di Marx è un'analisi e una comprensione della società capitalistica nel suo funzionamento attuale, nella sua struttura presente, nel suo divenire necessario, Auguste Comte aveva elaborato una teoria di quella che egli chiamava la società industriale, cioè una teoria delle caratteristiche fondamentali di tutte le società moderne. L'opposizione essenziale, nel pensiero di Auguste Comte, era tra le società del passato, feudali, militari e teologiche, e le società moderne, industriali e scientifiche. Anche Marx, senza dubbio, giudica le società moderne, industriali e scientifiche, in contrapposizione a quelle militari e teologiche. Ma, anziché porre al centro della sua interpretazione l'antinomia tra le società del passato e le società del presente, pone al centro del suo pensiero la contraddizione inerente, ai suoi occhi, alla società moderna, che egli chiama capitalismo.
Mentre, secondo il positivismo, i conflitti tra operai e imprenditori sono fenomeni marginali, imperfezioni della società industriale relativamente facili da correggere, nel pensiero di Marx tali conflitti tra operai e imprenditori o, per usare la sua terminologia, tra proletariato e capitalisti, sono il fatto fondamentale delle società moderne, ciò che ne rivela l'essenza e che, nel contempo, permette di prevederne lo sviluppo storico.
Il pensiero di Marx è un'interpretazione del carattere contraddittorio o antagonistico della società capitalistica. In un certo senso, tutta l'opera di Marx è uno sforzo per mostrare che questo carattere antagonistico è inseparabile dalla struttura fondamentale del regime capitalistico, e nel contempo, è la molla del movimento storico.
I tre celebri testi che mi propongo di analizzare, il Manifesto del partito comunista, la prefazione a Per la critica dell'economia politica e Il Capitale, sono tre modi per spiegare, fondare e precisare questo carattere antagonistico del regime capitalistico.
Se si afferra che il centro del pensiero di Marx è l'affermazione del carattere antagonistico del regime capitalistico, si comprende immediatamente perché è impossibile separare il sociologo e l'uomo d'azione, perché mostrare il carattere antagonistico del regime capitalistico porta irresistibilmente ad annunciare l'autodistruzione del capitalismo e, nel contempo, a incitare gli uomini a contribuire un poco alla realizzazione di questo destino già stabilito.
Il Manifesto del partito comunista è un testo che si può qualificare, se così si vuole, come non scientifico. E un opuscolo di propaganda, nel quale però Marx e Eengels hanno presentato, in forma concisa, alcune loro idee scientifiche.
Il tema centrale del Manifesto del partito comunista è la lotta di classe.
La storia di ogni società sinora esistita, è storia di lotte di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in breve, oppressori e oppressi furono continuamente in reciproco contrasto, e condussero una lotta ininterrotta, ora latente, ora aperta; lotta che finì sempre o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta.7
Ecco dunque la prima idea decisiva di Marx; la storia umana è caratterizzata dalla lotta di quei gruppi umani, che noi chiamiamo classi sociali, la cui definizione resta, per il momento, equivoca, ma che hanno la duplice caratteristica di comportare da una parte l'antagonismo tra oppressori e oppressi, e dall'altra di tendere a una polarizzazione in due blocchi, e due soltanto.
Se tutte le società sono divise in classi nemiche, l'attuale società capitalistica non si scosta, in un certo senso, da quelle che l'hanno preceduta. Essa presenta, tuttavia, alcuni caratteri che non hanno precedenti.
Innanzitutto, la borghesia, la classe dominante, è incapace di mantenere il suo regno senza rivoluzionare costantemente gli strumenti di produzione.
La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi l'insieme dei rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l'immutata conservazione dell'antico modo di produzione... Nel suo dominio di classe che dura appena da un secolo, la borghesia ha creato forze produttive il cui numero e la cui importanza superano quanto mai avessero fatto insieme le generazioni passate. (Manifesto, trad. it. cit., pp. 77 e 80-8l.)8
D'altra parte, le forze di produzione che susciteranno il regime socialista sono in via di maturazione in seno alla società presente.
Due forme della contraddizione caratteristica della società capitalistica, che d'altronde si trovano nelle opere scientifiche di Marx, sono presentate nel Manifesto del partito comunista.
La prima è quella della contraddizione tra le forze e i rapporti di produzione: la borghesia crea incessantemente mezzi di produzione sempre più potenti; ma i rapporti di produzione, cioè, a quanto sembra, tanto i rapporti di proprietà quanto la ripartizione dei redditi, non si trasformano con lo stesso ritmo. Il regime capitalistico è capace di produrre sempre di più; ora, a dispetto di questo aumento di ricchezze, la miseria resta il destino della maggioranza.
Appare pertanto una seconda forma di contraddizione, quella che esiste tra l'aumento progressivo delle ricchezze e la miseria crescente della maggioranza. Da questa contraddizione nascerà, un giorno o l'altro, una crisi rivoluzionaria: il proletariato, che costituisce e costituirà sempre più la stragrande maggioranza della popolazione, si erigerà in classe, cioè in una unità sociale che aspira alla conquista del potere e alla trasformazione dei rapporti sociali. Ma la rivoluzione del proletariato differirà nella sua essenza da tutte le rivoluzioni del passato: queste erano fatte da minoranze a vantaggio di minoranze; la rivoluzione del proletariato sarà fatta dall'immensa maggioranza a vantaggio di tutti. La rivoluzione proletaria segnerà, pertanto, la fine delle classi e del carattere antagonistico della società capitalistica.
Questa rivoluzione, che si risolverà nella simultanea soppressione del capitalismo e delle classi, sarà opera dei capitalisti stessi. Costoro sono costretti a rovesciare l'organizzazione sociale; impegnati in una concorrenza spietata, devono aumentare i mezzi di produzione, e accrescere, nel contempo, il numero dei proletari e la loro miseria.
Il carattere contraddittorio del capitalismo si esprime nel fatto che l'aumento dei mezzi di produzione, invece che in un innalzamento del livello di vita degli operai, si traduce in un duplice processo di proletarizzazione e di pauperizzazione.
Marx non nega che tra capitalisti e proletari esistano oggi molti gruppi intermedi: artigiani, piccoli borghesi, mercanti, contadini proprietari; ma avanza due affermazioni: da una parte, col progredire dell'evoluzione del regime capitalistico, vi sarà una tendenza alla cristallizzazione dei rapporti sociali in due gruppi, e due soltanto, da un lato i capitalisti e dall'altro i proletari; dall'altra due classi, e due soltanto, rappresentano una possibilità di regime politico e un'idea di regime sociale. Le classi intermedie non hanno né iniziativa né dinamismo storico. Esistono soltanto due classi che sono in grado di imporre alla società il loro sigillo: quella dei capitalisti e quella del proletariato. Nel giorno del conflitto decisivo, ognuno sarà costretto a unirsi o ai capitalisti o ai proletari.
Il giorno in cui la classe proletaria avrà assunto il potere, una rottura decisiva si sarà verificata rispetto alla storia passata. Infatti, il carattere antagonistico, presente in tutte le società esistite fino ad oggi, sarà scomparso. Marx scrive:
Quando le differenze di classe saranno scomparse nel corso dell'evoluzione e tutta la Produzione sarà concentrata nelle mani degli individui associati, il potere pubblico perderà il suo carattere politico. Il potere politico, nel senso proprio della parola, è il potere di una classe organizzato per opprimerne un'altra. Se il proletariato, nella lotta contro la borghesia, si costituisce necessariamente in classe e per mezzo della rivoluzione trasforma se stesso in classe dominante, e, come classe dominante, distrugge violentemente i vecchi rapporti di produzione, abolisce, insieme con questi rapporti di produzione anche le condizioni d'esistenza dell'antagonismo di classe, le classi in generale e quindi anche il suo proprio dominio di classe. AI posto della vecchia società borghese con le sue classi e coi suoi antagonismi di classe, subentra un'associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è la condizione del libero sviluppo di tutti. (Manifesto del partito comunista, trad. it. cit., p. 117.)
Questo passo è caratteristico di uno dei temi essenziali della teoria di Marx. Gli scrittori del principio del XIX secolo tendono a considerare la politica o lo stato come un fenomeno secondario nei confronti dei fenomeni essenziali che sono economici o sociali. Marx segue questa tendenza generale e anch'egli considera la politica e lo stato come fenomeni secondari in rapporto a quanto succede nella società stessa.
Per questo presenta il potere politico come l'espressione dei conflitti sociali: esso è lo strumento con cui la classe dominante, la classe sfruttatrice, mantiene il proprio dominio e lo sfruttamento.
In questa linea di pensiero, la soppressione delle contraddizioni di classe deve logicamente comportare la scomparsa della politica e dello stato, perché politica e stato sono in apparenza il sottoprodotto o l'espressione dei conflitti sociali.
Questi sono i temi della visione storica e della propaganda politica di Marx. Si tratta soltanto di un'espressione semplificata, ma lo sforzo scientifico di Marx si propone di dare una dimostrazione rigorosa di queste proposizioni: carattere antagonistico della società capitalista, autodistruzione inevitabile di una simile società contraddittoria, esplosione rivoluzionaria che pone termine al carattere antagonistico della società attuale.
Così, il centro del pensiero di Marx sta nell'interpretazione del regime capitalistico in quanto esso è contraddittorio, cioè dominato dalla lotta delle classi. Auguste Comte riteneva che la società del suo tempo mancasse di consenso per il giustapporsi di istituzioni che risalivano alle società teologiche e feudali e di altre che corrispondevano alla società industriale. Osservando attorno a sé la mancanza di consenso, cercava nel passato i principi del consenso delle società storiche. Marx osserva, o crede d'osservare, la lotta di classe nella società capitalistica e ritrova nelle diverse società storiche l'equivalente della lotta di classe osservata nel presente.
Secondo Marx, la lotta di classe tende verso la semplificazione; i diversi gruppi sociali si polarizzeranno gli uni attorno alla borghesia, gli altri attorno al proletariato e lo sviluppo delle forze produttive sarà la molla del movimento storico, che sfocierà, tramite la proletarizzazione e la pauperizzazione, nell'esplosione rivoluzionaria e nell'avvento, per la prima volta nella storia, di una società non antagonistica.
Partendo da questi temi generali dell'interpretazione storica di Marx, dobbiamo assolvere due compiti, dobbiamo trovare due fondamenti. In primo luogo: qual è, nel pensiero di Marx, la teoria generale della società che giustifica nel contempo le contraddizioni della società presente e il carattere antagonistico di tutte le società storicamente note? Secondariamente: qual è la struttura, qual è il funzionamento, qual è l'evoluzione della società capitalistica che spiega la lotta di classe e lo sbocco rivoluzionario del regime capitalistico?
In altri termini, partendo dai temi marxisti che abbiamo trovato nel Manifesto del partito comunista, dobbiamo spiegare:
1. la teoria generale della società, cioè quello che volgarmente chiamiamo il materialismo storico;
2. le idee economiche essenziali di Marx, così come le troviamo nel Capitale.
Marx stesso, in un passo che è forse fra i più celebri di quelli che ha scritto, ha riassunto la sua concezione sociologica globale. Nella prefazione a Per la critica dell'economia politica pubblicato a Berlino nel 1859, così si esprime:
Il risultato generale al quale arrivai e che, una volta acquisito, mi servì da filo conduttore nei miei studi, può essere brevemente formulato così: nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L'insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale su cui si eleva una sovrastruttura giuridica e politica, e alla quale corrispondono forme determinate di coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini a determinare il loro essere, ma, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in conflitto coi rapporti di produzione esistenti, cioè coi rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l'espressione giuridica) dentro i quali tali forze s'erano finora mosse. Da forme di sviluppo delle forze produttive, questi rapporti si convertono in loro catene. Si apre allora un'epoca di rivoluzione sociale. Col mutamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura. Quando si studiano simili sconvolgimenti, occorre sempre distinguere fra lo sconvolgimento materiale, costatabile con la precisione delle scienze naturali, delle condizioni economiche di produzione e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche e filosofiche, ossia ideologiche, che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo. Come non si può giudicare un uomo dall'idea che egli ha di se stesso, così non si può giudicare un'epoca rivoluzionaria dalla coscienza che essa ha di se stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale, con il conflitto esistente tra le forze produttive della società e i rapporti di produzione. Una formazione sociale non perisce mai prima che siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai prima che le condizioni materiali della loro esistenza siano maturate in seno alla vecchia società. Ecco perché l'umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, giacché, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione. A grandi linee, i modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese-moderno possono essere designati come epoche che marcano il progresso della formazione economica della società. I rapporti di produzione borghese sono l'ultima forma antagonistica del processo di produzione sociale; antagonistica non nel senso di un antagonismo individuale, ma di un antagonismo che sorga dalle condizioni sociali di vita degli individui. Ma le forze produttive che si sviluppano nel seno della società borghese creano nello stesso tempo le condizioni materiali per la soluzione di questo antagonismo. Con questa formazione sociale si chiude, dunque, la preistoria della società umana. (Per la critica dell'economia politica, trad. it. cit., Prefazione, pp. 5-6.)
In questo passo si trovano tutte le idee essenziali dell'interpretazione economica della storia, con l'unica riserva che non vi compaiono esplicitamente né la nozione di classe né il concetto di lotta di classe. E’ facile, tuttavia, reinserirli nella concezione generale:
1. Idea prima e idea essenziale: gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà. In altre parole, conviene seguire il movimento della storia analizzando la struttura delle società, le forze di produzione e i rapporti di produzione e non prendere per punto di partenza dell'interpretazione il modo di pensare degli uomini. Esistono rapporti sociali che si impongono agli individui, prescindendo dalle loro preferenze, e la comprensione del processo storico ha per condizione l'intelligenza di questi rapporti sociali superi ndividuali.
2. In qualsiasi società si può distinguere la base economica o struttura e la sovrastruttura. La struttura è costituita essenzialmente dalle forze e dai rapporti di produzione, mentre nella sovrastruttura compaiono le istituzioni giuridiche e politiche come pure i modi di pensare, le ideologie e le filosofie.
3. La molla del movimento storico è la contraddizione, in determinati momenti del divenire, tra le forze e i rapporti di produzione. Le forze di produzione sostanzialmente sono, sembra, la capacità di produzione di una determinata società, capacità che è in funzione delle conoscenze scientifiche, dell'attrezzatura tecnica, dell'organizzazione stessa del lavoro collettivo. I rapporti di produzione, che non sono definiti con grande precisione in questo passo, sembrano essere sostanzialmente caratterizzati dai rapporti di proprietà. Infatti v'è la precisazione: «i rapporti di produzione esistenti, cioè i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l'espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l'innanzi si eran mosse”. I rapporti di produzione, tuttavia, non si confondono necessariamente con i rapporti di proprietà, o almeno i rapporti di produzione possono includere, oltre i rapporti di proprietà, la ripartizione del reddito nazionale, determinata più o meno strettamente dai rapporti di proprietà.
In altri termini, la dialettica della storia è costituita dal movimento delle forze produttive, e queste, in determinate epoche rivoluzionarie, entrano in contraddizione con i rapporti di produzione, cioè, contemporaneamente, con i rapporti di proprietà e la distribuzione dei redditi tra gli individui o i gruppi della collettività.
4. In questa contraddizione tra forze e rapporti di produzione è facile introdurre la lotta di classe, anche se questo passo non vi fa cenno. Basta considerare che nei periodi rivoluzionari, cioè nei periodi di contraddizione tra forze e rapporti di produzione, una classe è attaccata agli antichi rapporti di produzione che diventano un impaccio per lo sviluppo delle forze produttive, e, al contrario, che un'altra classe è progressiva, rappresenta nuovi rapporti di produzione che, invece di essere un ostacolo sulla via dello sviluppo delle forze produttive, favoriranno al massimo la crescita di queste forze.
Passiamo da queste proposizioni astratte all'interpretazione del capitalismo. Nella società capitalistica la borghesia è attaccata alla proprietà privata degli strumenti di produzione e, nel contempo, a una determinata ripartizione del reddito nazionale. Invece il proletariato, che costituisce l'altro polo della società, che rappresenta un'altra organizzazione della collettività, diventa, a un certo momento della storia, il rappresentante di una nuova organizzazione della società, organizzazione che sarà più progressiva di quella capitalistica. Questa nuova organizzazione segnerà una fase ulteriore del processo storico, uno sviluppo più spinto delle forze produttive.
5. Questa dialettica delle forze e dei rapporti di produzione suggerisce una teoria delle rivoluzioni. Infatti, in questa visione della storia, le rivoluzioni non sono avvenimenti politici fortuiti, ma l'espressione di una necessità storica. Le rivoluzioni assolvono funzioni necessarie e si producono quando ne sono date le condizioni.
I rapporti di produzione capitalistici si sono sviluppati dapprima in seno alla società feudale. La rivoluzione francese è avvenuta nel momento in cui i nuovi rapporti di produzione capitalistici avevano raggiunto un certo grado di maturità. E, almeno in questo passo, Marx prevede un passaggio analogo dal capitalismo al socialismo. Le forze di produzione devono svilupparsi in seno alla società capitalistica; i rapporti di produzione socialisti devono maturare in seno alla società attuale, prima che si produca la rivoluzione che segnerà la fine della preistoria. In funzione di questa teoria della rivoluzione, la Seconda Internazionale, la socialdemocrazia, inclinava a un atteggiamento relativamente passivo: bisognava aspettare che le forze e i rapporti di produzione del futuro maturassero, prima di fare la rivoluzione. L'umanità, dice Marx, si pone solo i problemi che è in grado di risolvere: la socialdemocrazia aveva timore di fare troppo presto la rivoluzione, ed è per questo, del resto, che non l'ha mai fatta.
6. In questa interpretazione storica Marx non distingue soltanto fra struttura e sovrastruttura, ma contrappone realtà sociale e coscienza: non è la coscienza degli uomini che determina la realtà, ma invece la realtà sociale che determina la loro coscienza. Donde una concezione generale, secondo cui bisogna spiegare il modo di pensare degli uomini con i rapporti sociali nei quali sono integrati.
Proposizioni di questo tipo possono costituire il fondamento di quella che noi oggi chiamiamo la sociologia della conoscenza.
7. Infine, ultimo tema presente in quel brano: Marx traccia a grandi linee le tappe della storia umana. Come Auguste Comte distingueva i momenti del divenire umano secondo i modi di pensare, così Marx distingue le tappe della storia umana secondo i regimi economici e stabilisce quattro regimi economici o, per usare la sua espressione, quattro modi di produzione, che egli chiama asiatico, antico, feudale e borghese.
Questi quattro modi possono essere divisi in due gruppi:
I modi di produzione antico, feudale e borghese si sono succeduti nella storia dell'Occidente. Tre sono le tappe della storia occidentale, ognuna delle quali è caratterizzata da un certo tipo di rapporti tra gli uomini che lavorano. Il modo di produzione antico è caratterizzato dalla schiavitù; il modo di produzione medievale della servitù della gleba e quello di produzione borghese dal salariato. Sono tre modi distinti di sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo. Il modo di produzione borghese costituisce l'ultima formazione sociale antagonistica, perché, o nella misura in cui, il modo di produzione socialista, cioè l'associazione dei produttori, non comporterà più alcun sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo, alcuna subordinazione dei lavoratori a una classe che detiene tanto la proprietà dei mezzi di produzione quanto il potere politico.
Il modo di produzione asiatico, invece, non sembra costituire una tappa della storia occidentale. Per questo gli interpreti di Marx hanno discusso a non finire sull'unità, o la mancanza di unità, del processo storico. Infatti, se il modo di produzione asiatico caratterizza una civiltà distinta dall'Occidente, v'è la probabilità che possano esistere più linee d'evoluzione storica secondo i gruppi umani.
D'altra parte, il modo di produzione asiatico non sembra definito dalla subordinazione degli schiavi, dei servi o dei salariati a una classe che detiene i mezzi di produzione, ma dalla subordinazione di tutti i lavoratori allo stato. Se questa interpretazione del modo di produzione asiatico è esatta, la struttura sociale non sarebbe caratterizzata dalla lotta delle classi, nel senso occidentale del termine, ma dallo sfruttamento di tutta quanta la società a opera dello stato o della classe burocratica.
Si vede subito quale uso si può fare del concetto di modo di produzione asiatico. Si può pensare, infatti, che nel caso della socializzazione dei mezzi di produzione, lo sbocco del capitalismo sia, non la fine di ogni sfruttamento, ma la diffusione del modo di produzione asiatico a tutta quanta l'umanità. I sociologi che non amano la società sovietica hanno ampiamente commentato questi rapidi cenni sul modo di produzione asiatico. Hanno persino trovato in Lenin alcuni passi nei quali egli manifestava il timore che una rivoluzione socialista si risolvesse non nella fine dello sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo, ma nel modo di produzione asiatico, per trarne quelle conclusioni d'ordine politico che è facile indovinare.9
Tali sono, a mio giudizio, le idee fondamentali di una interpretazione economica della storia. Non si tratta, sinora, di problemi filosofici complessi: in qual misura questa interpretazione economica è collegata o no con una metafisica materialistica? Qual è il senso preciso che bisogna attribuire al termine di dialettica? Per ora basta attenersi alle idee guida che sono, in modo evidente, quelle che Marx ha esposto e che comportano, d'altronde, alcuni equivoci, perché i confini esatti della struttura e della sovrastruttura possono divenire, e sono divenuti, oggetto di discussioni senza fine.
Il Capitale
Il Capitale è stato oggetto di due specie d'interpretazioni. Secondo alcuni, tra cui Schumpeter, si tratta essenzialmente di un libro di economia scientifica senza implicazioni filosofiche; secondo altri, per esempio padre Bigo, esso è una specie di analisi fenomenologica o esistenziale dell'economia e i pochi passi che si prestano a una interpretazione filosofica, come per esempio il capitolo sul feticismo della merce, offrirebbero la vera chiave del pensiero di Marx. Senza entrare in queste controversie, indicherò qual è l'interpretazione da me personalmente accettata.
Marx, a mio giudizio, si considera e vuole essere un economista scientifico, alla maniera degli economisti inglesi di cui si è nutrito. Egli, infatti, crede di essere nel contempo l'erede e il critico dell'economia politica inglese. E convinto di conservare ciò che c'è di meglio in questa economia, correggendone gli errori e superandone le limitatezze imputabili al punto di vista capitalistico o borghese. Quando Marx analizza il valore, lo scambio, lo sfruttamento, il plusvalore, il profitto, vuole essere un economista puro, e non gli passerebbe per la mente di giustificare questa o quella proposizione scientificamente inesatta o discutibile invocando una intenzione filosofica. Marx prendeva la scienza sul serio.
Non è tuttavia un economista classico di stretta osservanza, per alcune ragioni molto precise che egli, d'altronde, ha indicato e che basta rintracciare per capire come si inquadri la sua opera.
Marx rimprovera agli economisti classici di aver considerato come universalmente valide le leggi dell'economia capitalistica. Invece, secondo lui, ogni sistema economico ha le sue leggi economiche. Quelle dei classici, nelle circostanze in cui sono vere, sono soltanto leggi del sistema capitalistico. Marx passa dunque dall'idea di una teoria economica universalmente valida a quella della particolarità delle leggi economiche di ogni sistema.
D'altra parte, un determinato sistema economico non può essere compreso se si astrae dalla sua struttura sociale. Esistono leggi economiche caratteristiche di ogni sistema, perché le leggi economiche sono l'espressione astratta delle relazioni sociali che definiscono un determinato modo di produzione. Per esempio, nel sistema capitalistico, la spiegazione del fenomeno economico essenziale dello sfruttamento è data dalla struttura sociale e, parimenti, è ancora la struttura sociale che determina l'autodistruzione inevitabile del regime capitalistico.
Ne deriva che Marx si propone di spiegare tanto il modo di funzionamento del sistema capitalistico in funzione della sua struttura sociale, quanto il suo divenire in base al suo funzionamento. In altre parole, Il Capitale rappresenta un'impresa grandiosa e, nel senso rigoroso del termine, un'impresa geniale per dar ragione, contemporaneamente, del funzionamento, della struttura sociale e della storia del regime capitalistico. Marx è un economista che vuole essere contemporaneamente un sociologo. La comprensione del funzionamento del capitalismo deve permettere di comprendere perché gli uomini siano sfruttati nel regime della proprietà privata, e perché questo regime sia condannato, dalle sue contraddizioni, a evolversi verso una rivoluzione che lo distruggerà.
L'analisi del funzionamento e del divenire del capitalismo fornisce nel contempo una specie di storia dell'umanità attraverso i modi di produzione. Il Capitale è un libro di economia che è contemporaneamente una sociologia del capitalismo e anche una storia filosofica dell'umanità ostacolata dai suoi propri conflitti, sino alla fine della preistoria.
E' un tentativo evidentemente grandioso, ma aggiungo subito che non lo ritengo riuscito. D'altronde nessun tentativo di questo tipo è riuscito sino a oggi. La scienza economica o sociologica odierna dispone di valide analisi parziali del modo di funzionamento del capitalismo; dispone di valide analisi sociologiche sulla condizione degli uomini o delle classi in un sistema capitalistico, dispone di alcune analisi storiche che rendono ragione della trasformazione del sistema capitalistico, ma non esiste una teoria globale che colleghi in modo necessario struttura sociale, modo di funzionamento, destino degli uomini in un dato sistema ed evoluzione del sistema stesso. E se non esiste alcuna teoria ad abbracciare l'insieme, forse ciò dipende dal fatto che questo insieme non esiste, poiché la storia non è razionale e necessaria sino a questo punto.
Comunque, comprendere Il Capitale è capire come Marx ha voluto analizzare il funzionamento e il divenire del regime e nello stesso tempo descrivere la condizione degli uomini all'interno del regime.
Il Capitale comprende tre libri, di cui solo il primo è stato pubblicato da Marx. I libri II e III sono postumi: Engels li trasse dai voluminosi manoscritti di Marx e sono ben lontani dall'essere compiuti. Le interpretazioni che si trovano nel secondo e nel terzo libro si prestano a contestazioni, perché alcuni passi possono sembrare contraddittori. Non si tratta di riassumere qui il contenuto del Capitale, ma non mi sembra impossibile ricavarne i temi essenziali che, d'altronde, sono anche quelli cui Marx teneva di più e che hanno avuto la maggior influenza storica.
Il primo di questi temi è che l'essenza del capitalismo sta nella ricerca del profitto innanzitutto e soprattutto. Il capitalismo, nella misura in cui è fondato sulla proprietà privata degli strumenti di produzione, si basa contemporaneamente sulla ricerca del profitto da parte degli imprenditori o produttori.
Quando, nella sua ultima opera, Stalin scrisse che la legge fondamentale del capitalismo è la ricerca del massimo profitto, mentre quella del socialismo è la soddisfazione dei bisogni e l'elevazione del livello culturale delle masse, egli, sicuramente, riduceva il pensiero di Marx dal livello dell'insegnamento superiore a quello dell'insegnamento elementare, ma conservava il testo iniziale dell'analisi marxista, tema iniziale che si ritrova nelle prime pagine del Capitale ove Marx contrappone due tipi di scambio.10
Esiste un certo tipo di scambio che va dalla merce alla merce, passando o meno per il denaro. Voi possedete un bene di cui non sapete che fare, lo scambiate con un bene di cui avete bisogno, dando il bene che possedete a chi lo desidera. Questo scambio può essere effettuato in modo diretto, e allora si tratta di un baratto; oppure in modo indiretto passando per il denaro, che è l'equivalente universale della merce.
Lo scambio che va da merce a merce è, potremmo dire, lo scambio immediatamente intelligibile, lo scambio immediatamente umano, ma è anche lo scambio che non offre profitto o surplus. Fintanto che passate dalla merce alla merce, vi trovate in un rapporto di uguaglianza.
C'è invece un secondo tipo di scambio, che va dal denaro al denaro, passando per la merce, ma con questa particolarità che al termine del processo di scambio possedete una quantità di denaro superiore a quella che avevate nello stadio iniziale. Questo tipo di scambio che va dal denaro al denaro, passando per la merce, è quello caratteristico del capitalismo. Nel capitalismo l'imprenditore o il produttore non va da una merce che gli è inutile a una che gli è utile passando per il denaro; l'essenza dello scambio capitalistico consiste nell'andare dal denaro al denaro, passando per la merce, e di avere, al punto d'arrivo, più denaro di quel che si aveva in partenza.
Questo tipo di scambio è, agli occhi di Marx, lo scambio capitalistico per eccellenza e anche il più misterioso. Perché con lo scambio si può ottenere quello che non si aveva in partenza, o almeno avere di più di quanto si aveva in partenza? Il problema centrale del capitalismo, secondo Marx, potrebbe essere formulato in questo modo: donde viene il profitto? Come è possibile un sistema in cui la molla essenziale dell'attività è la ricerca del profitto e in cui, insomma, produttori e mercanti possono, nella maggioranza, conseguire un profitto?
A questa domanda Marx è convinto di aver trovato una risposta pienamente soddisfacente per la ragione. Con la teoria del plusvalore ha dimostrato contemporaneamente che tutto si scambia al suo valore e che nondimeno esiste una fonte di profitto.
Le tappe della dimostrazione sono: la teoria del valore, la teoria del salario e, come conclusione, la teoria del plusvalore.
Prima proposizione: il valore di qualsivoglia merce è, all'ingrosso, proporzionale alla quantità di valore sociale medio. £ la teoria del valorelavoro.
Marx non pretende che la legge del valore sia esattamente rispettata in qualsiasi scambio. Il prezzo di una merce oscilla al di sopra o al di sotto del suo valore, in funzione dell'offerta e della domanda. Queste variazioni attorno al valore non soltanto non sono ignorate da Marx, ma chiaramente affermate. D'altra parte Marx riconosce che le merci hanno valore soltanto nella misura in cui esiste una domanda. In altre parole, se del lavoro fosse cristallizzato in una merce, ma nessun potere d'acquisto si volgesse a essa, questa merce non avrebbe più valore. O ancora, la proporzionalità tra il valore e la quantità di lavoro suppone, per così dire, una domanda normale della merce considerata, il che significa, in conclusione, scartare uno dei fattori di variazione del prezzo della merce. Supponendo però una domanda normale per la merce considerata, secondo Marx, esiste una data proporzionalità tra il valore di detta merce che si esprime nel prezzo e la quantità di lavoro sociale medio in essa cristallizzato.
Perché tutto questo? L'argomento fondamentale addotto da Marx è che la quantità di lavoro è l'unico elemento quantificabile che possiamo scoprire nella merce. Se si considera il valore d'uso, ci si trova in presenza di un valore rigorosamente qualitativo. Non è possibile paragonare l'uso di una stilografica con quello di una bicicletta: si tratta di due usi strettamente soggettivi e per questo non paragonabili l'uno con l'altro. Poiché cerchiamo in che cosa consiste il valore di scambio delle merci, bisogna trovare un elemento che sia quantificabile, come lo stesso valore di scambio. Unico elemento quantificabile, dice Marx, è la quantità di lavoro che si trova inserita, integrata, cristallizzata in ognuna di esse.
Esistono naturalmente difficoltà, che Marx ugualmente riconosce, cioè le disuguaglianze del lavoro sociale. Il lavoro del manovale e quello dell'operaio specializzato non hanno lo stesso valore o la stessa capacità di creare il valore del lavoro del caporeparto o dell'ingegnere o del dirigente dell'impresa. Ammettendo queste differenze qualitative del lavoro, Marx aggiunge che basta ricondurre queste diverse specie di lavoro ad una unità che è il lavoro sociale medio.
Seconda proposizione: il valore del lavoro si misura come il valore di una qualsiasi merce. Il salario che il capitalista versa al salariato, a contropartita della forza lavoro che quest'ultimo gli vende, equivale alla quantità di lavoro sociale necessario per produrre le merci indispensabili alla vita dell'operaio e della sua famiglia. Il lavoro umano è pagato secondo il suo valore, in conformità con la legge generale del valore valida per tutte le merci.
Marx presenta questa proposizione come assolutamente evidente. Di solito, quando una proposizione è data come evidente, vuoi dire che si presta alla discussione.
Marx dice: poiché l'operaio viene sul mercato del lavoro per vendervi la sua forza lavoro, bisogna che essa sia pagata al suo valore. E, aggiunge, il valore in questo caso non può essere che quello che esso è in tutti i casi, cioè misurato dalla quantità di lavoro. Ma non si tratta esattamente della quantità di lavoro necessaria per produrre un lavoratore, il che ci farebbe uscire dagli scambi sociali per entrare in quelli biologici. Bisogna supporre che la quantità di lavoro che misurerà il valore della forza lavoro è quella delle merci di cui l'operaio ha bisogno per vivere, lui e la sua famiglia.
La difficoltà di questa proposizione sta nel fatto che la teoria del valore-lavoro è fondata sul carattere quantificabile del lavoro in quanto principio del valore, e che, nella seconda proposizione, quando si tratta delle merci necessarie alla vita dell'operaio e della sua famiglia, si esce, evidentemente, dal campo del quantificai In quest'ultimo caso, infatti, si tratta di un ammontare definito dallo stato dei costumi e della psicologia collettiva, come Marx stesso riconosce. Per questo motivo Schumpeter dichiarava che la seconda proposizione della teoria dello sfruttamento era soltanto un gioco di parole.
Terza proposizione: il tempo di lavoro necessario a un operaio per produrre un valore uguale a quello che egli riceve sotto forma di salario è inferiore alla durata effettiva del suo lavoro. L'operaio produce, per esempio, in cinque ore un valore uguale a quello che è contenuto nel suo salario, ma egli lavora dieci ore. Egli lavora, dunque, la metà del suo tempo per sé e l'altra metà per l'imprenditore. Il plusvalore è la quantità di valore prodotta dall'operaio al di là del tempo di lavoro necessario, cioè del tempo di lavoro necessario per produrre un valore uguale a quello che egli riceve sotto forma di salario.
La parte di giornata di lavoro necessaria per produrre il valore cristallizzato nel suo salario è chiamata lavoro necessario, il resto è chiamato pluslavoro. Il valore prodotto nel pluslavoro è chiamato plusvalore e il tasso di sfruttamento è definito dal rapporto tra il plusvalore e il capitale variabile, cioè il capitale che corrisponde al pagamento del salario.
Se si ammettono le due prime proposizioni, questa terza ne consegue, a condizione che il tempo di lavoro necessario per produrre il valore del salario sia inferiore alla durata totale del lavoro.
Marx afferma puramente e semplicemente questa differenza tra la giornata di lavoro e il lavoro necessario. Egli era convinto che la giornata di lavoro del suo tempo, che era di 10 e talvolta di 12 ore, fosse evidentemente superiore alla durata del lavoro necessario, cioè del lavoro necessario per creare il, valore dello stesso salario.
Partendo da questa considerazione, Marx sviluppa una casistica della lotta per la riduzione della giornata lavorativa. Invoca un gran numero di fenomeni del suo tempo, in particolare il fatto che gli imprenditori pretendevano di ricavare il loro profitto soltanto dall'ultima o dalle due ultime ore di lavoro. Sappiamo, d'altronde, da un secolo, che ogniqualvolta si è ridotta la durata della settimana lavorativa, gli imprenditori hanno protestato. Con una giornata di 8 ore, dicevano nel 1919, non ce l'avrebbero fatta più. La perorazione degli imprenditori offriva un argomento alla teoria di Marx secondo la quale il profitto è ricavato solo dalle ultime ore di lavoro.
Esistono due procedimenti fondamentali per aumentare il plusvalore a spese dei salariati, cioè il tasso di sfruttamento: il primo consiste nel prolungare la giornata lavorativa, l'altro nel ridurre il più possibile il tempo di lavorazione. Uno dei mezzi per ridurre il tempo di lavorazione è l'aumento della produttività, cioè la produzione di un valore uguale a quello del salario in un minor numero di ore. Si delinea così il meccanismo che spiega la tendenza dell'economia capitalistica ad accrescere permanentemente la produttività del lavoro. L'aumento di questa produttività porta automaticamente a una riduzione del tempo di lavorazione e, di conseguenza, in caso di conservazione del livello dei salari nominali, un aumento del tasso del plusvalore.
Si comprende così l'origine del profitto e come un sistema economico in cui tutto si scambia al suo valore sia contemporaneamente in grado di produrre un plusvalore, cioè, al livello degli imprenditori, un profitto. Esiste una merce che ha la particolarità di esser pagata al suo valore, e, nel contempo, di produrre di più del suo valore: il lavoro umano.
Un'analisi di questo tipo sembrava a Marx schiettamente scientifica, perché spiegava il profitto con un meccanismo inevitabile, intrinsecamente connesso al regime capitalistico. Ma questo stesso meccanismo si prestava a denunce e a invettive perché, andando le cose secondo la legge del capitalismo, l'operaio era sfruttato, lavorava una parte del suo tempo per sé e un'altra per il capitalista. Marx non era solamente uno scienziato, era anche un profeta.
Questi, in rapidi cenni, sono gli elementi essenziali della teoria dello sfruttamento, che presenta, agli occhi di Marx, un duplice pregio. In primo luogo, gli sembra risolvere una difficoltà intrinseca dell'economia capitalistica, che può essere formulata in questi termini: poiché nello scambio esiste uguaglianza di valori, da dove può venire il profitto? Inoltre, proprio mentre risolve un enigma scientifico, Marx ha la coscienza di dare un fondamento razionalmente rigoroso alla protesta contro un certo tipo di organizzazione economica. Infine, la sua teoria dello sfruttamento dà, per usare un'espressione moderna, un fondamento sociologico alle leggi economiche del funzionamento dell'economia capitalistica. Marx ritiene che le leggi economiche siano storiche e che ogni sistema economico abbia le proprie. La teoria dello sfruttamento è un esempio di queste leggi storiche, perché il meccanismo del plusvalore e dello sfruttamento suppone la divisione della società in classi. Una classe, quella degli imprenditori o detentori dei mezzi di produzione, compera la forza lavoro degli operai. Il rapporto economico tra i capitalisti e i proletari è in funzione di un rapporto sociale di potenza tra le due categorie sociali.
La teoria del plusvalore assolve una duplice funzione, scientifica e morale: è l'unione di questi due elementi che ha dato al marxismo un'incomparabile forza di diffusione. Vi trovavano soddisfazione sia gli spiriti razionalisti sia quelli idealisti o ribelli, e queste due soddisfazioni si moltiplicavano l'una per l'altra.
Ho analizzato sinora soltanto il libro I del Capitale, l'unico pubblicato quando Marx era vivo, mentre i due successivi sono dei manoscritti di Marx pubblicati da Engels.
Il libro II tratta della circolazione del capitale e avrebbe dovuto spiegare il modo in cui funziona il sistema capitalistico, considerato nel suo insieme. In termini moderni, potremmo dire che partendo da un'analisi microeconomica della struttura del capitalismo e del suo funzionamento, contenuta nel libro I, Marx avrebbe elaborato nel libro II una teoria macroeconomica paragonabile al Tableau économique di Quesnay, oltre a una teoria delle crisi di cui troviamo elementi sparsi qua e là. Personalmente non ritengo che in Marx esista una teoria generale delle crisi: egli ci stava lavorando, ma non l'ha portata a termine, e noi, al massimo, possiamo, partendo dalle indicazioni sparse nel libro II, ricostruire diverse teorie e attribuirgliele. L'unica idea che non si presta a dubbi è che, secondo Marx, il carattere concorrenziale anarchico del meccanismo capitalistico e la necessità della circolazione del capitale creano una possibilità permanente di scarto tra produzione e distribuzione del potere d'acquisto. Il che equivale a dire, in sostanza, che un'economia anarchica comporta delle crisi. Qua! è lo schema o il meccanismo secondo il quale le crisi si attuano? Le crisi sono regolari o irregolari? Qua! è la congiuntura economica nella quale la crisi scoppia? Su tutti questi punti esistono in Marx alcune indicazioni piuttosto che una teoria compiuta.11
Il terzo libro è lo schizzo di una teoria del divenire del sistema capitalistico, sulla base dell'analisi della struttura e del funzionamento di questo stesso regime.
Il problema centrale del terzo libro è il seguente: se consideriamo lo schema del primo libro del Capitale, in una data impresa o in un dato settore dell'economia il plusvalore è tanto maggiore quanto maggiore è in tale impresa o settore il lavoro o, in altri termini, quanto più elevata è la percentuale di capitale variabile in rapporto al capitale totale.
Marx chiama capitale costante quella parte di capitale delle imprese che corrisponde sia alle macchine sia alle materie prime impiegate nella produzione. Nello schema del primo libro, il capitale costante si trasferisce nel valore dei prodotti senza creare plusvalore. Tutto il plusvalore viene dal capitale variabile o dal capitale corrispondente al pagamento dei salari. La composizione organica del capitale è la relazione tra il capitale variabile e quello costante. Il tasso di sfruttamento è il rapporto tra il plusvalore e il capitale variabile.
Pertanto, se si considera questa relazione astratta, caratteristica dell'analisi schematica del primo libro del Capitale, si deve arrivare necessariamente alla conclusione che in un'impresa o in una data branca il plusvalore sarà tanto più grande quanto maggiore è il capitale variabile, e sarà tanto minore quanto più la composizione organica del capitale si evolverà verso la riduzione del rapporto tra il capitale variabile e quello costante. O, in termini concreti, il plusvalore è tanto minore quanto maggiore è la meccanizzazione in un'impresa o in una branca.
Ma salta agli occhi che le cose non stanno così, e Marx è perfettamente consapevole del fatto che le apparenze dell'economia sembrano contraddire le relazioni fondamentali che egli ha stabilito nella sua analisi schematica. Così, finché non fu pubblicato il libro del Capitale, marxisti e critici si ponevano la domanda: se la teoria dello sfruttamento è vera, perché le imprese e le branche che traggono il maggior profitto sono quelle che aumentano il rapporto tra il capitale costante e quello variabile? In altre parole, il modo apparente del profitto sembra contraddire quello essenziale del plusvalore.
La risposta di Marx è la seguente: il tasso di profitto si calcola non in rapporto al capitale variabile, come quello di sfruttamento, ma in rapporto al capitale nel suo insieme, cioè in rapporto alla somma del capitale costante e di quello variabile.
Perché il tasso di profitto è proporziohale non al plusvalore, ma all'insieme del capitale costante e di quello variabile? Il capitalismo non potrebbe evidentemente funzionare se il tasso di profitto fosse proporzionale al capitale variabile. Infatti si perverrebbe a un'estrema disparità del tasso di profitto, perché, secondo le branche dell'economia, la composizione organica del capitale, cioè la relazione del capitale variabile con quello costante, è estremamente diversa. Pertanto, poiché altrimenti il regime capitalistico non potrebbe funzionare, il tasso di profitto è effettivamente proporzionale all'insieme del capitale e non al capitale variabile.
Ma perché l'apparenza del modo del profitto è differente dalla realtà essenziale del modo del plusvalore? Esistono due risposte a questa domanda: la risposta dei non marxisti o degli antimarxisti e la risposta ufficiale di Marx.
La risposta di un economista come Schumpeter è semplice: la teoria del plusvalore è falsa. Il fatto che l'apparenza del profitto sia in diretta contraddizione con l'essenza del plusvalore prova soltanto che lo schema del plusvalore non corrisponde alla realtà. Quando si comincia con una teoria, se poi si trova che la realtà la contraddice, si può evidentemente riconciliare la teoria con la realtà, facendo intervenire un certo numero di ipotesi supplementari; ma esiste un'altra soluzione più logica, consistente nel riconoscere che lo schema teorico è stato mal costruito.
La risposta di Marx è la seguente. Il capitalismo non potrebbe funzionare se il tasso di profitto fosse proporzionale al plusvalore, invece d'esserlo al capitale nel suo insieme. In ogni economia si costituisce, pertanto, un tasso medio di profitto, che si forma grazie alla concorrenza tra le imprese e i settori dell'economia. La concorrenza spinge il profitto a tendere verso un tasso medio, non esiste proporzionalità tra il tasso di profitto e il plusvalore in ogni impresa e in ogni settore, ma l'insieme del plusvalore costituisce per l'economia nel suo insieme un ammontare globale che si suddivide tra i settori in proporzione del capitale totale, costante e variabile, investito in ciascun settore.
Ed è così perché non può essere diversamente. Se esistesse uno scarto troppo grande tra i tassi di profitto a seconda dei diversi sistemi, il sistema non funzionerebbe. Se, in un settore, esistesse un tasso di profitto del 30 o del 40 per cento e in un altro quello del 3 o del 4 per cento, non si troverebbe capitale da investire nei settori ove il tasso fosse basso. L'esempio stesso ci fornisce la dimostrazione marxista: non può essere così, perciò, di fatto, deve costituirsi, a causa della concorrenza, un tasso di profitto medio che assicuri che, alla fine, la massa globale del plusvalore risulti ripartita tra i settori in funzione dell'importanza del capitale investito in ciascuno di essi.
Questa teoria conduce a quella del divenire, a quella che Marx chiama la legge della caduta tendenziale del tasso di profitto.
Il punto di partenza di Marx è stato una costatazione che tutti gli economisti del suo tempo facevano, o credevano di fare: l'esistenza di una secolare caduta tendenziale del tasso di profitto. Marx, sempre desideroso di mostrare agli economisti inglesi quanto grande fosse la superiorità che gli veniva dal suo metodo, credette di scoprire, nel suo schema, la spiegazione del fenomeno storico della tendenza alla caduta del tasso di profitto.12
Il profitto medio è proporzionale all'insieme del capitale, cioè alla somma del capitale costante e di quello variabile. Il plusvalore però è prelevato soltanto, sul capitale variabile, cioè sul lavoro umano. Si sa che la composizione organica del capitale si trasforma col procedere dell'evoluzione capitalistica e della meccanizzazione della produzione, e la parte del capitale variabile nel capitale totale tende a diminuire. Marx ne conclude che il tasso di profitto tende ad abbassarsi col progressivo modificarsi della composizione organica del capitale e la progressiva diminuzione della parte del capitale variabile nel capitale totale.
Questa legge della caduta tendenziale del tasso di profitto offriva altre grandi soddisfazioni intellettuali a Marx. Infatti egli riteneva di aver dimostrato, in modo scientificamente soddisfacente, un fatto costatato dagli osservatori, ma non spiegato o spiegato malamente. Inoltre credeva di trovare, ancora una volta, quella che il suo maestro avrebbe chiamato una astuzia della ragione, cioè l'autodistruzione del capitalismo a opera di un meccanismo inesorabile operante ad un tempo nelle azioni degli uomini e al di sopra delle loro teste.
Infatti, la modificazione della composizione organica del capitale è il frutto inevitabile della concorrenza e anche del desiderio degli imprenditori di ridurre il tempo di lavorazione. La concorrenza delle imprese capitalistiche aumenta la produttività, questo aumento si traduce normalmente in una meccanizzazione della produzione e pertanto in una riduzione del capitale variabile in rapporto al capitale costante. In altre parole, il meccanismo concorrenziale di una economia fondata sul profitto tende all'accumulazione del capitale, alla meccanizzazione della produzione, alla riduzione della parte del capitale variabile nel capitale totale. Questo meccanismo inesorabile è nel contempo quello che provoca la tendenza alla caduta del tasso di profitto, cioè quello che renderà sempre più difficile il funzionamento di un'economia interamente impostata sulla ricerca del profitto.
Ancora una volta ritroviamo lo schema fondamentale del pensiero marxista: vi è una necessità storica che si attua attraverso l'azione degli uomini, pur essendo superiore all'azione di ognuno di essi, vi è un meccanismo storico che tende alla distruzione del sistema per l'azione delle leggi intrinseche del suo funzionamento.
Il nucleo centrale e l'originalità del pensiero marxista consistono, a mio giudizio, nell'unione dell'analisi del funzionamento e dell'analisi di un divenire inevitabile. Ognuno, agendo razionalmente in funzione del suo interesse, contribuisce a distruggere l'interesse comune a tutti o, almeno, a tutti coloro che sono interessati al mantenimento del sistema.
Questa teoria è una specie di rovesciamento delle proposizioni essenziali dei liberali. Per questi ultimi, ognuno, lavorando nel suo interesse, lavora nell'interesse della totalità. Per Marx, ognuno, lavorando nel suo interesse, contribuisce al funzionamento necessario e alla distruzione finale del sistema. Il mito è sempre, come nel Manifesto del partito comunista, quello dell'apprendista stregone.
Quel che abbiamo dimostrato sinora è che il tasso di profitto tende a diminuire in funzione della modificazione della composizione organica del capitale; ma, a partire da quale tasso di profitto, il capitalismo non è più in grado di funzionare? Marx nel Capitale non dà, a rigore, nessuna risposta, perché non esiste alcuna teoria razionale che permetta di fissare il tasso di profitto indispensabile al funzionamento del sistema.13 In altre parole, la legge della tendenza alla caduta del tasso di profitto suggerisce, a rigore, che il funzionamento del capitalismo debba diventare sempre più difficile col procedere della meccanizzazione o l'aumento della produttività, ma non ne dimostra la necessità della catastrofe finale e ancor meno il momento in cui essa dovrebbe verificarsi.
Allora, quali sono le proposizioni che dimostrano l'autodistruzione del sistema? Stranamente, le uniche proposizioni che si muovono nel senso di una dimostrazione dell'autodistruzione del capitalismo sono quelle stesse che si potevano trovare già nel Manifesto del partito comunista e nelle opere scritte da Marx prima che egli avesse approfondito lo studio dell'economia politica. Sono quelle che riguardano la proletarizzazione e la pauperizzazione. La proletarizzazione significa che, col progressivo sviluppo del sistema capitalistico, gli strati intermedi tra capitalisti e proletari saranno logorati, assottigliati, e che un numero crescente di appartenenti a questi strati saranno assorbiti dal proletariato. La pauperizzazione è il processo attraverso il quale i proletari tendono a essere sempre più miserabili via via che le forze di produzione si sviluppano. Se si suppone che, via via che aumenta la produzione, le masse operaie abbiano un potere di acquisto sempre più limitato, è effettivamente probabile che queste masse tenderanno a rivoltarsi. In questa ipotesi, il meccanismo di autodistruzione del capitalismo sarebbe sociologico e passerebbe attraverso il comportamento dei gruppi sociali. Oppure, altra ipotesi, i redditi distribuiti alle masse popolari sarebbero insufficienti ad assorbire la produzione crescente e, in questo caso, si verificherebbe una paralisi del sistema per il fatto che questo sarebbe incapace di stabilire la giusta proporzione tra le merci prodotte e quelle richieste sul mercato dai consumatori.
Esistono due rappresentazioni possibili della dialettica capitalistica di autodistruzione: una dialettica economica, che è una nuova versione della contraddizione tra forze di produzione indefinitamente crescenti e rapporti di produzione che stabilizzano i redditi distribuiti alle masse; oppure un meccanismo sociologico che opera attraverso l'insoddisfazione crescente dei lavoratori proletarizzati e, nel contempo, attraverso la loro rivolta.
Ma come dimostrare la pauperizzazione? Perché, nello schema di Marx, i redditi distribuiti ai lavoratori devono diminuire, in senso assoluto o relativo, via via che aumenta la capacità produttiva?
A dire il vero, non è facile, neanche nello schema di Marx, dare una dimostrazione della pauperizzazione. Infatti, secondo la teoria, il salario è uguale alla quantità di merci necessarie alla vita dell'operaio e della sua famiglia. D'altra parte, Marx aggiunge immediatamente che quel che è necessario alla vita dell'operaio e della sua famiglia non è oggetto di una valutazione matematicamente esatta, ma è il risultato di una valutazione sociale che varia da società a società. Se si ammette che la valutazione del livello minimo di vita è sociale, si dovrebbe piuttosto concludere che il livello di vita degli operai si innalzerà, perché è probabile che ogni società consideri come livello minimo di vita quello che corrisponde alle sue capacità produttive. D'altronde, è quello che in realtà accade: il livello di vita considerato minimo nella Francia di oggi o negli Stati Uniti è di gran lunga più elevato di quello che era considerato come tale un secolo fa. Questa valutazione sociale del minimo vitale non è assolutamente esatta, è una valutazione approssimativa, ma i calcoli che i sindacati fanno sono sempre in relazione con le possibilità dell'economia. Pertanto, se il livello dei salari è in funzione di una valutazione complessiva del minimo, dovrebbe manifestarsi piuttosto un aumento
D'altra parte, anche secondo Marx, non è escluso che si possa elevare il livello di vita degli operai senza modificare il tasso di sfruttamento. Basta che l'aumento della produttività permetta di creare un valore uguale al salario in un tempo di lavoro necessario più breve. La produttività permette di elevare il livello reale di vita degli operai nello schema marxista, senza diminuire il tasso di sfruttamento.
Se si concede l'aumento della produttività e di conseguenza la riduzione del tempo di lavoro necessario, si può scartare l'elevazione del livello reale di vita soltanto supponendo un crescente aumento del tasso di sfruttamento. Ma, ci dice Marx, il tasso di sfruttamento, nei diversi periodi, è press'a poco costante.
In altre parole, se seguiamo il meccanismo economico così come Marx l'ha analizzato, non esiste la minima dimostrazione della pauperizzazione e si dovrebbe concludere piuttosto a ciò che è accaduto, cioè a un miglioramento del livello reale di vita degli operai.
Da dove viene, dunque, la dimostrazione della pauperizzazione in Marx? L'unica dimostrazione, a mio giudizio, passa attraverso un meccanismo sociodemografico, quello dell'esercito industriale di riserva. Un'eccedenza permanente di manodopera disoccupata pesa sul mercato del lavoro, modifica a danno degli operai i rapporti di scambio tra capitalisti e salariati e impedisce l'aumento dei salari.
La pauperizzazione non è, nella teoria del Capitale, un meccanismo strettamente economico, è una teoria economico-sociologica, L'elemento sociologico è l'idea da lui condivisa con Ricardo, ma di cui non era veramente soddisfatto, che come i salari tendono ad aumentare, aumenta il tasso di natalità, creando così un'eccedenza di manodopera. Il meccanismo propriamente economico, e specifico di Marx, è quello della disoccupazione tecnologica. La continua meccanizzazione della produzione tende a liberare una parte degli operai occupati. L'esercito di riserva è la espressione stessa del meccanismo grazie al quale si attua, nel capitalismo, il progresso tecnico-economico. Questo esercito pesa sul livello dei salari e impedisce loro di aumentare. Se non esistesse, sarebbe possibile integrare nello schema marxista il fatto storico del miglioramento del livello di vita degli operai senza dover rinunciare agli elementi essenziali della teoria.
In questo caso, continuerebbe a imporsi la domanda: perché l'autodistruzione del capitalismo è inevitabile? Il mio parere è che, dopo aver terminata la lettura del Capitale, si sono scoperte alcune ragioni per le quali il funzionamento del sistema è difficile, a rigore, anzi, alcune ragioni che rendono sempre più difficile il funzionamento del sistema, anche se quest'ultima proposizione mi sembra storicamente falsa; ma non mi sembra che si sia scoperta una dimostrazione che ha la forza di provare l'autodistruzione del capitalismo, se non tramite la rivolta delle masse popolari indignate dal trattamento che viene loro fatto. Ma se quest'ultimo non suscita un'estrema indignazione, come capita, per esempio, negli Stati Uniti, allora Il Capitale non ci offre motivi di credere che la condanna storica del regime sia inesorabile.
Bisogna dire che anche i regimi conosciuti nel passato teoricamente potevano sopravvivere e sono scomparsi. Non tiriamo conclusioni precipitate dal fatto che la morte del capitalismo non sia stata dimostrata da Marx. I regimi possono morire senza che i teorici li abbiano condannati a morte.
Gli equivoci della filosofia marxista
L'anima del pensiero marxista è un'interpretazione sociologica e storica del regime capitalistico, condannato dalle sue contraddizioni a evolversi verso la rivoluzione e verso un regime non antagonistico.
Marx, per la verità, ritiene che la teoria generale della società, che egli ha ricavato dal suo studio del capitalismo, può e deve servire a comprendere tutti gli altri tipi di società. E’ indubbio, tuttavia, che egli tenga più di tutto all'interpretazione della struttura e del divenire del capitalismo.
Perché questa sociologia storica del capitalismo comporta tante interpretazioni diverse? Perché è equivoca sino a questo punto? Pur lasciando da parte le ragioni accidentali, storiche, postume, il destino dei movimenti e delle società che si richiamano al marxismo, le ragioni di questo equivoco mi sembrano sostanzialmente tre.
La concezione marxista della società capitalista, e della società in generale è sociologica, ma questa sociologia dipende da una filosofia. Dai rapporti tra filosofia e sociologia, rapporti che si possono intendere in più modi, nascono molti problemi di interpretazione.
D'altra parte, la sociologia marxista propriamente detta comporta interpretazioni diverse, secondo la definizione più o meno dogmatica che si dà di concetti come forze di produzione o rapporti di produzione, secondo anche che si ritenga la società nel suo insieme determinata o condizionata dalla struttura. I concetti di struttura e di sovrastruttura non sono d'altronde chiari e si prestano a infinite interpretazioni.
Infine, anche i rapporti tra economia e sociologia possono essere interpretati in più modi. Secondo Marx la società globale si capisce solo partendo dalla scienza economica, ma i rapporti tra fenomeni economici e insieme sociale sono equivoci.
Una proposizione mi sembra innanzitutto incontestabile, cioè resa evidente da tutti i testi. Marx è giunto all'economia politica dalla filosofia passando attraverso la sociologia, ed è restato, sino alla fine della sua vita, un filosofo. Ha sempre ritenuto che la storia dell'umanità, che si svolge attraverso la successione dei regimi e si conclude in una società non più antagonistica, abbia un significato filosofico. Proprio per mezzo della storia l'uomo crea se stesso e la conclusione della storia è, nel con- tempo, uno scopo della filosofia: grazie alla storia, la filosofia che definisce l'uomo realizza se stessa. Il regime non antagonistico, postcapitalistico, non è soltanto un tipo di società tra gli altri, è la conclusione della ricerca di sé da parte dell'umanità.
Ma se questo significato filosofico della storia è incontestabile, restano tuttavia numerose difficili questioni.
Il pensiero di Marx era spiegato classicamente con l'unione di tre influenze che già Engels aveva elencato: la filosofia tedesca, l'economia inglese e la scienza storica francese. Questa elencazione delle influenze sembra banale e, per questa ragione, è oggi considerata con disprezzo dagli interpreti più sottili. Ma bisogna partire dalle interpretazioni non sottili, cioè da quello che Marx ed Engels stessi hanno scritto sull'origine del loro pensiero.
Marx e Engels ritenevano di essere nel solco della filosofia classica tedesca, perché conservavano una delle idee fondamentali del pensiero di Hegel, cioè che la successione della società e dei regimi rappresenti contemporaneamente le tappe della filosofia e quelle dell'umanità.
D'altra parte, Marx ha studiato l'economia inglese; si è servito dei concetti degli economisti inglesi; ha ripreso alcune delle teorie accettate nel suo tempo, per esempio quella del valore-lavoro, oppure la legge della caduta tendenziale del tasso di profitto, spiegata del resto diversamente da come la spiega lui. Marx ha ritenuto che riprendendo i concetti e le teorie degli economisti inglesi, avrebbe offerto una formulazione scientificamente rigorosa dell'economia capitalistica.
Infine, ha preso dagli storici e dai socialisti francesi il concetto di lotta di classe, che effettivamente si trova un po' dovunque nelle opere storiche della fine del xviii e dell'inizio del xix secolo. Ma, per la sua stessa testimonianza, Marx vi ha aggiunto un concetto nuovo: la divisione delle società in classi non è un fenomeno legato alla storia nella sua totalità e all'essenza della società, ma corrisponde a una fase determinata. In una fase ulteriore, la divisione in classi potrà sparire.14
Queste tre influenze hanno operato sul pensiero di Marx e ci offrono un'interpretazione valida, anche se alquanto grossolana, della sintesi compiuta da Marx e Engels. Ma questa analisi delle influenze lascia aperta la maggior parte delle questioni più importanti e, in particolare, quella dei rapporti tra Hegel e Marx.
La prima difficoltà del problema dipende, prima di tutto e soprattutto dal fatto che l'interpretazione di Hegel è oggetto di discussioni almeno quanto quella di Marx. Si può, a piacere, avvicinare o contrapporre le due dottrine, secondo il senso che si dà al pensiero di Hegel.
Esiste un metodo facile per mostrare un Marx hegeliano: è quello di presentare un Hegel marxista. E’ il metodo usato con un talento che confina col genio o con la mistificazione da A. Kojève. Nella sua interpretazione, Hegel è marxistizzato a tal punto che la fedeltà di Marx all'opera di Hegel non può più essere messa in dubbio. 15
Al contrario, se, come G. Gurvitch, non si ama Hegel, basta presentano, come fanno i manuali di storia della filosofia, come un filosofo idealista che vede nel divenire storico il divenire dello spirito, perché Marx diventi immediatamente antihegeliano.16
Comunque, un certo numero di temi incontestabilmente hegeliani si trovano nel pensiero di Marx, tanto nelle opere giovanili quanto in quelle della maturità.
Nell'ultima delle undici tesi su Feuerbach, Marx scrive: “I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi, si tratta però di mutarlo”.
Per l'autore del Capitale, la filosofia classica, che trova la sua conclusione nella filosofia hegeliana, è arrivata al suo fine: non si può andare più avanti, perché Hegel ha pensato il tutto della storia e il tutto dell'umanità. La filosofia ha portato a termine il suo compito, che sta nell'innalzare alla consapevolezza esplicita le esperienze dell'umanità. Questa presa di coscienza delle esperienze dell'umanità trova la sua formulazione nella Fenomenologia dello spirito e nell'Enciclopedia.17 Ma l'uomo, dopo aver preso coscienza della sua vocazione, non l'ha realizzata. La filosofia è totale in quanto presa di coscienza, ma il mondo reale non è conforme al significato che la filosofia attribuisce all'esistenza dell'uomo. Il problema filosofico-storico originario del pensiero marxista sta dunque nel sapere a quali condizioni il corso della storia può realizzare la vocazione dell'uomo così come l'ha concepita la filosofia hegeliana.
L'incontestabile eredità filosofica di Marx sta nella convinzione che il divenire storico abbia un significato filosofico. Un nuovo sistema economico e sociale non è soltanto una peripezia che sarà offerta, a cose fatte, alla distaccata curiosità degli storici di professione, ma una tappa del divenire dell'umanità.
Che cos'è dunque questa natura umana, questa vocazione dell'uomo che la storia deve realizzare perché la stessa filosofia si realizzi?
A tale domanda si trovano nelle opere giovanili di Marx diverse risposte che girano tutte attorno ad alcuni concetti: l'universalità, la totalità, concetti positivi; o invece, l'alienazione, concetto negativo.
L'individuo, così come appare nella Filosofia del diritto di Hegel18 e nelle società del suo tempo, si trova, in realtà, in una duplice e contraddittoria situazione. Da una parte, l'individuo è cittadino e in quanto tale partecipa dello stato, cioè dell'universalità; ma è cittadino soltanto una volta ogni quattro o cinque anni, nell'empireo della democrazia formale, ed esaurisce la sua sovranità nel voto. Al di fuori di questa attività in cui unicamente si realizza la sua universalità, egli appartiene a quella che egli chiama, secondo Hegel, la burgerliche Gesellschaft, la società civile, cioè l'insieme delle attività professionali. In quanto membro della società civile, è rinchiuso nelle sue particolarità e non comunica con la totalità della comunità: è un lavoratore agli ordini di un imprenditore o è egli stesso un imprenditore, separato dall'organizzazione collettiva. La società civile impedisce agli individui di realizzare la loro vocazione universale. Per superare questa contraddizione sarebbe necessario che gli individui, nel loro lavoro, potessero partecipare dell'universalità come vi partecipano nella loro attività di cittadini.
Che significano queste formule astratte? La democrazia formale, che si definisce con l'elezione a suffragio universale dei rappresentanti del popolo e con le libertà astratte di voto e di discussione, non riguarda le condizioni di lavoro e di vita dell'insieme dei membri della collettività. L'operaio, che porta al mercato la sua forza lavoro per ottenere in contropartita un salario, non assomiglia al cittadino che, ogni quattro o cinque anni, elegge i suoi rappresentanti e, direttamente o indirettamente, i suoi governanti. Perché si realizzasse la democrazia reale, bisognerebbe che le libertà limitate all'ordine politico nelle società attuali fossero trasferite nell'esistenza concreta ed economica degli uomini.
Ma perché gli individui, quando lavorano, possano partecipare dell'universalità come cittadini con la scheda elettorale, perché la democrazia reale possa realizzarsi, occorrerebbe sopprimere la proprietà privata degli strumenti di produzione che comporta, come conseguenza, l'asservimento dell'individuo ad altri individui, lo sfruttamento dei lavoratori da parte degli imprenditori e impedisce a questi ultimi di lavorare direttamente per la collettività, poiché nel sistema capitalistico essi lavorano per il profitto.
Una prima analisi, che si trova nella Critica della filosofia del diritto di Hegel, s'incentra dunque sull'opposizione tra particolare e universale, tra la società civile e lo stato, la schiavitù del lavoratore e la libertà fittizia dell'elettore o del cittadino.19 Questo testo sta all'origine di una delle contrapposizioni classiche nel pensiero marxista, tra democrazia formale e democrazia reale, e nel contempo mostra una certa forma di connessione tra l'ispirazione filosofica e la critica sociologica.
L'ispirazione filosofica si esprime nel rifiuto di un'universalità dell'individuo limitata all'ordine politico e passa facilmente nell'analisi sociologica. In parole povere, l'idea di Marx è la seguente: che significato ha il diritto di votare ogni quattro o cinque anni per individui che non hanno altro mezzo di vita se non il salario che ricevono dai loro padroni alle condizioni che questi stessi stabiliscono?
II secondo concetto sul quale s'impernia il pensiero giovanile di Marx è quello dell'uomo totale, probabilmente ancor più equivoco di quello dell'uomo universalizzato.
L'uomo totale è quello che non sarebbe mutilato dalla divisione del lavoro. L'uomo della moderna società industriale, agli occhi di Marx e della maggior parte degli osservatori, è infatti un uomo specializzato: ha acquisito una formazione specifica in vista di un mestiere particolare; per la maggior parte della sua esistenza resta racchiuso in questa attività settoriale e lascia così inutilizzate numerose attitudini e capacità che potrebbero svilupparsi.
Seguendo questa linea di pensiero, l'uomo totale sarebbe quello che non è specializzato; alcuni passi di Marx suggeriscono una formazione politecnica, la quale preparerebbe ogni individuo al maggior numero possibile di mestieri. Dopo una tale formazione gli individui potrebbero evitare di fare da mattina a sera la stessa cosa.20
Se il significato di uomo totale è l'uomo non amputato di alcune sue attitudini dalle esigenze della divisione del lavoro, questa nozione è una protesta contro le condizioni che vengono fatte all'individuo dalla società industriale, protesta a un tempo comprensibile e simpatica. In realtà, la divisione del lavoro ha come suo risultato quello di non permettere alla maggior parte degli individui di fare tutto quello che potrebbero. Ma questa protesta, alquanto romantica, non sembra molto conforme allo spirito di un socialismo scientifico. difficile concepire, tranne che in una società straordinariamente ricca, nella quale il problema della povertà sia stato definitivamente risolto, come una società, capitalistica o no, possa formare tutti gli individui a tutti i lavori, e come potrebbe funzionare una società industriale in cui gli individui non fossero specializzati.
In un'altra direzione si è cercata un'interpretazione meno romantica. L'uomo totale non può essere l'uomo che è capace di fare tutto, ma quello che realizza autenticamente la sua umanità, che compie le attività che definiscono l'uomo.
In questo caso la nozione di lavoro diventa essenziale: l'uomo è concepito essenzialmente come un essere che lavora. Se lavora in condizioni inumane, è disumanizzato, perché non compie più in condizioni convenienti l'attività costitutiva della sua umanità. Nelle opere giovanili di Marx e in particolare nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, esiste effettivamente una critica delle condizioni capitalistiche del lavoro.21
E qui incontriamo il concetto di alienazione, che sta oggi al centro della maggior parte delle interpretazioni di Marx. Nel capitalismo l'uomo è alienato; perché l'uomo possa realizzarsi, bisogna superare questa alienazione.
Marx dispone di tre diversi termini che spesso sono tradotti con lo stesso termine di alienazione, mentre le tre parole tedesche non hanno esattamente lo stesso significato. I termini sono: Entausseruflg, Veräusserung e Entfremdung. Quest'ultimo è quello che corrisponde, pressappoco, al termine italiano di alienazione, significando etimologicamente: divenire estranei a se stessi. L'idea è che in alcune circostanze, o in alcune società, le condizioni fatte all'uomo sono tali che questi diventa estraneo a se stesso, nel senso che non si riconosce più nella sua attività e nelle sue opere. Questo concetto di alienazione deriva chiaramente dalla filosofia hegeliana, in cui svolge un ruolo centrale, ma in Hegel essa si trova su un piano filosofico o metafisico. Nella concezione hegeliana, lo spirito, der Geist, aliena se stesso nelle sue opere: costruisce edifici intellettuali e sociali e si proietta fuori di sé. La storia dello spirito, la storia dell'umanità, è la storia di queste successive alienazioni alla fine delle quali lo spirito si ritroverà padrone di tutte le sue opere, del suo passato storico e consapevole di possedere quest'insieme. In Marx, anche nel Marx delle opere giovanili, il processo di alienazione, invece di essere un processo filosoficamente o metafisicamente inevitabile, diventa l'espressione di un processo sociologico col quale gli uomini o le società edificano organizzazioni collettive nelle quali si perdono.22
L'alienazione, sociologicamente interpretata, è una critica ad un tempo storica, morale e sociologica dell'ordine sociale attuale. Nel sistema capitalistico gli uomini sono alienati, si sono persi nella collettività e la radice di tutte le alienazioni è l'alienazione economica.
Vi sono due forme di alienazione economica che corrispondono approssimativamente a due critiche che Marx rivolge al sistema capitalistico. Una prima alienazione è imputabile alla proprietà privata dei mezzi di produzione, e una seconda all'anarchia del mercato.
L'alienazione imputabile alla proprietà privata dei mezzi di produzione si manifesta nel fatto che il lavoro, attività essenzialmente umana che definisce l'umanità dell'uomo, perde le sue caratteristiche umane, perché esso per i salariati è soltanto un mezzo per vivere. Invece di essere espressione dell'uomo stesso, il lavoro si vede degradato a strumento, a mezzo per vivere.
Gli imprenditori, anch'essi, sono alienati, perché le merci di cui dispongono non hanno per fine quello di rispondere ai bisogni reali degli altri, ma sono immesse nel mercato in vista di un profitto. L'imprenditore diventa schiavo di un mercato imprevedibile, sottoposto all'alea della concorrenza. Sfruttando i salariati, non è per questo umanizzato nel suo lavoro, ma alienato a profitto di un meccanismo anonimo.
Qualunque sia l'interpretazione esatta che si dà a questa alienazione economica, l'idea centrale mi sembra abbastanza chiara. La critica della realtà economica del capitalismo in origine fu, nel pensiero di Marx, una critica filosofica e morale, prima di diventare un'analisi rigorosamente sociologica ed economica.
Così si può esporre il pensiero di Marx come quello di un economista e sociologo puro e semplice, perché sul finire della sua vita egli volle essere uno scienziato, economista e sociologo, ma giunse alla critica economico-sociale partendo da un'impostazione filosofica. Temi filosofici quali l'universalizzaziofle dell'individuo, l'uomo totale, l'alienazione animano e orientano l'analisi sociologica delle opere della maturità. In quale misura l'analisi sociologica non è altro che lo sviluppo delle intuizioni filosofiche della gioventù o, al contrario, le sostituisce totalmente? Nasce a questo punto un problema di interpretazione ancora insoluto.
Marx ha certamente conservato per tutta la vita, anche se in secondo piano, tali temi filosofici. L'analisi dell'economia capitalistica era per lui l'analisi dell'alienazione degli individui e delle collettività che perdevano la disponibilità della propria esistenza, in un sistema dominato da leggi autonome. La critica dell'economia capitalistica era, nel contempo, la critica filosofica e morale della situazione in cui il capitalismo poneva l'uomo. Su questo punto continuo ad accettare, a dispetto di Aithusser, l'interpretazione corrente.
D'altra parte l'analisi del divenire del capitalismo per Marx era certamente l'analisi del divenire dell'uomo e della natura umana attraverso la storia; egli attendeva dalla società postcapitalistica la realizzazione della filosofia.
Ma qual era quest'uomo totale che la rivoluzione postcapitalistica doveva attuare? Su questo punto si può discutere, perché in Marx si trova, in ultima analisi, un'oscillazione tra due posizioni alquanto contraddittorie.
Secondo la prima, l'uomo realizza la sua umanità grazie al lavoro, ed è proprio la liberazione del lavoro che segnerà l'umanizzazione della società. Ma si ritrova, qua e là, un'altra concezione, secondo la quale l'uomo non è realmente libero se non al di fuori del lavoro. In questa seconda concezione l'uomo realizza la sua umanità soltanto nella misura in cui il tempo dedicato al lavoro è stato sufficientemente ridotto per concedergli la possibilità di fare qualcosa d'altro che lavorare.23
Naturalmente, si possono combinare le due posizioni, dicendo che l'urnanizzazione completa della società supporrebbe, innanzitutto, che le condizioni che l'uomo trova nel lavoro fossero umanizzate e che, contemporaneamente, la durata del lavoro fosse sufficientemente ridotta per disporre di tempo libero da dedicare alla lettura di Platone.
Ciò nonostante, filosoficamente, perdura una difficoltà: qual è l'attività essenziale che definisce l'uomo in se stesso e che deve pienamente svilupparsi, perché la società permetta la realizzazione della filosofia? Se non esiste una determinazione dell'attività essenzialmente umana, si rischia di essere rinviati alla concezione dell'uomo totale nel suo carattere più vago. E necessario che la società permetta a tutti gli uomini di realizzare ogni loro abitudine. Questa proposizione rappresenta una buona definizione dell'ideale della società, ma non è facile tradurla in un programma concreto e preciso. D'altra parte, è difficile imputare esclusivamente alla proprietà privata degli strumenti di produzione il fatto che gli uomini non realizzino tutte le loro attitudini.
In altre parole, mi sembra esista un'estrema sproporzione tra l'alienazione umana imputabile alla proprietà privata dei mezzi di produzione e la realizzazione dell'uomo totale che seguirà alla rivoluzione. Come mettere d'accordo la critica della società attuale con la speranza della realizzazione dell'uomo totale grazie alla semplice sostituzione di un modo di proprietà all'altro?
Qui si mostrano contemporaneamente la grandezza e l'equivoco della sociologia marxista: è essenzialmente una sociologia e vuole essere una filosofia.
Ma anche al di là o al di qua di queste idee, rimangono numerose oscurità o equivoci che spiegano le molte interpretazioni che si sono potute dare del pensiero di Marx.
Uno di questi equivoci, d'ordine filosofico, riguarda la natura della legge storica. L'interpretazione storica di Marx suppone un divenire intelligibile di ordine sovraindividuale Forme e rapporti di produzione stanno tra loro in relazione dialettica. A causa della lotta di classe e della contraddizione tra le forme e i rapporti di produzione, il capitalismo si distrugge da solo. Questa visione generale della storia può essere interpretata in due diverse maniere.
In una interpretazione, che chiamerei oggettivistica, questa rappresentazione delle contraddizioni storiche che conducono alla distruzione del capitalismo e all'avvento di una società non antagonistica, risponderebbe a quelle che volgarmente si chiamano le grandi linee della storia. Marx individua nella confusione dei fatti storici i dati essenziali, quel che v'è di più importante nel divenire storico stesso, senza che la particolarità degli eventi sia inclusa in tale visione.
Se si accetta questa interpretazione, la distruzione del capitalismo e l'avvento di una società non antagonistica sarebbero nel contempo fatti precogniti e certi, ma indeterminati quanto alla data e alle modalità.
Questo tipo di previsione: “il capitalismo sarà distrutto dalle sue contraddizioni, ma non si sa né quando, né come”, non soddisfa certo la mente. Una previsione che si riferisce a un avvenimento non datato e non specificato non ha un gran senso o, almeno, una legge storica di quest'ordine non assomiglia minimamente alle leggi delle scienze naturali.
Questa è una delle interpretazioni possibili del pensiero di Marx ed è quella considerata ortodossa oggi nel mondo sovietico. Vi si sostiene la distruzione necessaria del capitalismo e la sua sostituzione con una società più progressiva, cioè con la società sovietica, ma nel contempo si riconosce che la data di questo evento inevitabile non è ancora nota e che le modalità di questa catastrofe prevedibile sono ancora indeterminate. Questa indeterminazione, sul piano degli eventi politici, presenta grandi vantaggi, perché si può proclamare, in tutta sincerità, la possibilità della coesistenza. Non è necessario per il regime sovietico distruggere il regime capitalistico, essendo stabilito che questo, comunque, si distruggerà da sé.24
Esiste un'altra possibile interpretazione, che chiameremo dialettica, non in senso volgare, ma in un senso più sottile. In questo caso, la visione marxista della storia nascerebbe da una specie di azione reciproca da una parte tra il mondo storico e la coscienza che lo pensa, e, dall'altra, tra i diversi settori della realtà storica. Questa duplice reciprocità d'azione permetterebbe di evitare quel che v'è di poco soddisfacente nella rappresentazione delle grandi linee della storia. In realtà se si rende dialettica l'interpretazione del movimento storico non si è più obbligati a lasciar cadere la particolarità degli avvenimenti e li si possono comprendere così come si realizzano, nel loro carattere concreto.
Così Jean-Paul Sartre o Maurice Merleau-Ponty conservano alcune idee essenziali del pensiero di Marx: l'alienazione dell'uomo nell'economia privata e a causa di essa, l'azione predominante delle forze e dei rapporti di produzione. Ma tutti questi concetti non mirano, presso questi autori, a individuare le leggi storiche nel senso scientifico del termine, e neppure le grandi linee del divenire: sono strumenti necessari per rendere intelligibile la situazione dell'uomo nel regime capitalistico o per mettere gli eventi in relazione con la situazione dell'uomo nel seno del capitalismo, senza che si debba propriamente parlare di determinismo.
Una visione dialettica di quest'ordine, di cui esistono diverse versioni presso gli esistenzialisti francesi e in tutta la scuola marxista che si riallaccia a Lukács, è filosoficamente più soddisfacente, ma comporta, essa pure, alcune difficoltà.25
La difficoltà essenziale sta nel ritrovare le due idee fondamentali del marxismo semplice, cioè l'alienazione dell'uomo nel capitalismo e l'avvento di una società senza antagonismi dopo la distruzione del capitalismo. Un'interpretazione dialettica per l'azione reciproca tra soggetto e oggetto, tra settori di realtà, non porta necessariamente a queste due proposizioni essenziali. Essa lascia senza risposta la domanda: come determinare l'interpretazione globale, totale e vera? Se ogni soggetto storico pensa la storia in funzione della sua situazione, perché l'interpretazione dei marxisti o del proletariato è vera? perché è totale?
La visione oggettivistica, che invoca le leggi della storia, comporta la difficoltà essenziale di dichiarare inevitabile un avvenimento non datato e non precisato; l'interpretazione dialettica non ritrova, per quanto sta in lei, né la necessità della rivoluziope, né il carattere non antagonistico della società postcapitalistica, né quello totale dell'interpretazione storica.
Un secondo equivoco è connesso con la natura di quel che potremmo chiamare l'imperativo rivoluzionario. Il pensiero di Marx vuole essere scientifico e tuttavia sembra implicare alcuni imperativi, perché comanda l'azione rivoluzionaria come l'unica conseguenza legittima dell'analisi storica. Come prima, sono possibili due interpretazioni che potremmo riassumere nella formula: Kant o Hegel? Il pensiero di Marx va interpretato nel quadro del dualismo kantiano e dell'imperativo morale, o in quello del monismo di tradizione hegeliana?
Nella storia postuma del marxismo esistono, d'altronde, due scuole, una kantiana e una hegeliana, questa seconda più folta della prima. La scuola kantiana del marxismo è rappresentata dal socialdemocratico Mehring e dal marxista austriaco Max Adler, più kantiano che hegeliano, ma kantiano di uno stile del tutto particolare.26 I kantiani dicono: non si passa dal fatto al valore, dal giudizio sul reale all'imperativo morale, non si può dunque giustificare il socialismo con l'interpretazione della storia così come essa si svolge. Marx ha analizzato il capitalismo così com'è: volere il socialismo dipende da una decisione d'ordine spirituale. La maggior parte degli interpreti di Marx, tuttavia, hanno voluto restare nella tradizione del monismo. Il soggetto che comprende la storia è impegnato nella storia stessa. Il socialismo, cioè la società non antagonistica, deve uscire necessariamente da quella antagonistica attuale, perché l'interprete della storia è portato, da una dialettica necessaria, dalla costatazione di ciò che è alla volontà di una società d'altro tipo.
Alcuni interpreti, come L. Goldmann, si spingono più innanzi e sostengono che nella storia non è possibile un'osservazione disinteressata. La visione della storia globale è connessa con un certo impegno: è grazie al fatto che vogliamo il socialismo che cogliamo il carattere contraddittorio del capitalismo. Non si può dissociare una presa di posizione nei confronti della realtà dall'osservazione della realtà stessa. Non già che questa presa di posizione sia arbitraria e derivi da una decisione ingiustificata, ma, secondo la dialettica dell'oggetto e del soggetto, ognuno di noi trae le categorie del suo pensiero e i concetti della sua interpretazione dalla realtà storica. L'interpretazione nasce a contatto con l'oggetto, con un oggetto che non è conosciuto passivamente, ma nel contempo conosciuto e negato, essendo la negazione dell'oggetto l'espressione della volontà di un sistema diverso.27
Vi sono dunque due tendenze, la prima che vuole dissociare l'interpretazione della storia, scientificamente valida, dalla decisione con la quale si aderisce al socialismo; l'altra, al contrario, che vuole legare tra loro l'interpretazione della storia e la volontà politica.
Ma qual era, su questo punto, il pensiero di Marx? In quanto uomo, era nello stesso tempo scienziato e profeta, sociologo e rivoluzionario. Se gli si fosse chiesto: “Questi due procedimenti sono separabili?”, penso che avrebbe risposto che, in astratto, sono in effetti separabili, perché voleva troppo essere scienziato per riconoscere che la sua interpretazione del capitalismo fosse legata a una decisione morale. Ma era talmente convinto dell'indegnità del regime capitalistico che, a suo giudizio, l'analisi del reale suggeriva irresistibilmente la volontà rivoluzionaria.
Al di là di queste due alternative, visione obiettiva delle grandi linee della storia o interpretazione dialettica, Kant o Hegel, esiste una conciliazione, divenuta oggi la filosofia ufficiale sovietica, la filosofia oggettivistica dialettica, così come Engels l'ha esposta nell'Antiduhring e Stalin riassunta in Materialismo dialettico e materialismo storico?28
Le tesi essenziali di tale materialismo storico sono le seguenti:
1. Un pensiero dialettico sostiene che la legge del reale è la legge del cambiamento: esiste una trasformazione incessante, tanto nella natura inorganica, quanto nel mondo umano. Non esiste alcun principio eterno, le concezioni umane e morali si trasformano di epoca in epoca.
2. Ii mondo reale comporta un progresso qualitativo della natura organica sino al mondo umano, e nel mondo umano dai regimi iniziali dell'umanità sino a quello che seguirà la fine della preistoria, cioè il socialismo.
3. Questi cambiamenti avvengono secondo alcune leggi astratte. I cambiamenti quantitativi, a partire da un certo punto, divengono qualitativi. Le trasformazioni '-non avvengono insensibilmente, per gradi, ma a un dato momento sopravviene un cambiamento brutale, che è rivoluzionario. Engels dà questo esempio: l'acqua è liquida; se abbassate la temperatura sino a un certo punto, il liquido diventerà solido. Il mutamento quantitativo si è trasformato a un certo momento in cambiamento qualitativo. Infine, i cambiamenti sembrano obbedire a una legge intelligibile, quella della contraddizione e della negazione della negazione.
Un altro esempio di Engels permette di capire cos'è la negazione della negazione: se negate A, avete -A; moltiplicando -A X -A ottenete A2, che è, sembra, la negazione della negazione. Nel mondo umano: il sistema capitalistico è la negazione del regime della proprietà feudale, la proprietà pubblica del socialismo sarà la negazione della negazione, cioè la negazione della proprietà privata.
In altri termini, una delle caratteristiche dei movimenti, tanto cosmici che umani, sarebbe il fatto che i cambiamenti sono gli uni rispetto agli altri in un rapporto di contraddizione. Questa prenderebbe la seguente forma: nel momento B vi sarebbe la contraddizione di ciò che era nel momento A, e il momento C sarebbe la contraddizione di ciò che era nel momento B, e rappresenterebbe, in un certo senso, il ritorno allo stato iniziale del momento A, ma su un piano superiore. Così l'insieme della storia è la negazione della proprietà collettiva iniziale delle società indifferenziate e arcaiche, il socialismo nega le classi sociali e gli antagonismi, per ritornare alla proprietà collettiva delle società primitive, ma su un piano superiore.
Queste leggi dialettiche non hanno pienamente soddisfatto tutti gli interpreti di Marx e si è discusso a lungo per sapere se Marx approvava la filosofia materialistica di Engels. Al di là del problema storico, la questione principale sta nel sapere in quale misura la nozione di dialettica si applichi alla natura, organica o inorganica, e al mondo umano.
Nella nozione di dialettica esiste l'idea di cambiamento e il concetto della relatività delle idee o dei principi alle circostanze. Ma vi sono pure le due idee di totalità e di significato. Perché esista una interpretazione dialettica della storia, bisogna che l'insieme degli elementi di una società o di un'epoca costituisca un tutto, che il passaggio dall'una all'altra di questa totalità sia intelligibile. Queste due esigenze, di totalità e d'intelligibilità della successione, sembrano legate al mondo umano. E naturale che nel mondo storico, le società costituiscano unità totali, perché effettivamente le diverse attività delle collettività sono legate le une alle altre: i diversi settori di una realtà sociale possono essere spiegati partendo da un elemento considerato come essenziale, per esempio le forze e i rapporti di produzione. Ma, nella natura organica e, soprattutto, inorganica si possono trovare gli equivalenti della totalità e del significato delle successioni?
A dire il vero, questa filosofia dialettica del mondo materiale non è indispensabile né per ammettere l'analisi marxista del capitalismo, né per essere rivoluzionari. Si può non essere convinti che -A x -A = A2 sia un esempio di dialettica, e con tutto ciò essere socialisti. Il legame tra la filosofia dialettica della natura, così come l'espone Engels, e l'assenza del pensiero di Marx, non è né evidente né necessario.
Storicamente, una certa ortodossia può combinare queste diverse proposizioni, ma, logicamente e filosoficamente, l'interpretazione economica della storia e la critica del capitalismo, a partire dalla lotta di classe, non hanno nulla a che vedere con la dialettica della natura. Più in generale, il legame tra la filosofia marxista del capitalismo e il materialismo metafisico non mi sembra né logicamente né filosoficamente necessario.
Ma, di fatto, molti marxisti che hanno svolto un'attività politica hanno creduto che per essere buoni rivoluzionari si dovesse essere materialisti nel senso filosofico del termine. Poiché questi uomini erano molto competenti in materia di rivoluzione, se non in filosofia, avevano probabilmente delle buone ragioni. Lenin, in particolare, ha scritto un libro, Materialismo e empiriocriticismo, per dimostrare che i marxisti che abbandonavano una filosofia materialistica deviavano, per ciò stesso, dalla via regia della rivoluzione.29 Logicamente, si può essere discepoli di economia politica e non essere materialisti nel senso metafisico del termine,30 ma storicamente si è stabilita una specie di sintesi tra una filosofia di tipo materialistico e una visione storica.
Gli equivoci della sociologia marxista
La sociologia di Marx, pur astraendo dallo sfondo filosofico, comporta degli equivoci.
La concezione che Marx si fa del capitalismo e della storia dipende dalla combinazione dei concetti di forze di produzione, di rapporti di produzione, di lotta di classe, di coscienza di classe o anche di struttura e sovrastruttura.
E’ possibile utilizzare questi concetti in qualsiasi analisi sociologica. Personalmente, se tento di analizzare una società, sovietica o americana, parto volentieri dalle condizioni economiche e anche dallo stato delle forze di produzione, per passare ai rapporti di produzione e poi a quelli sociali. L'uso critico e metodologico di queste nozioni per comprendere e spiegare una società moderna, e forse qualsivoglia società storica, è legittimo.
Ma, se ci si limita a utilizzare così questi concetti non si trova una filosofia della storia; si rischia di scoprire che a uno stesso grado di sviluppo delle forze produttive possono corrispondere rapporti di produzione diversi. La proprietà privata non esclude un grande sviluppo delle forze produttive; invece la proprietà collettiva può già essere presente quando le forze produttive hanno raggiunto uno sviluppo minore. In altri termini, l'uso critico delle categorie marxiste non comporta alcuna interpretazione dogmatica del corso della storia.
Ora, il marxismo suppone una specie di parallelismo tra lo sviluppo delle forze produttive, la trasformazione dei rapporti di produzione, l'acuirsi della lotta di classe e il cammino verso la rivoluzione. Nella sua versione dogmatica, esso comporta che il fattore decisivo siano le forze di produzione, che lo sviluppo di queste segni il senso della storia umana e che ai differenti stadi di sviluppo delle forze di produzione corrispondano determinati stadi dei rapporti di produzione e della lotta di classe. Se la lotta di classe si attenua con lo sviluppo delle forze di produzione nel capitalismo o, ancora, se esiste una proprietà collettiva in un'economia poco sviluppata, il parallelismo tra i movimenti, che è indispensabile alla filosofia dogmatica della storia, è spezzato.
Marx vuole comprendere l'insieme delle società partendo dalla loro struttura, cioè, sembra, dallo stato delle forze produttive, delle conoscenze scientifiche e tecniche, dell'industria e dell'organizzazione del lavoro. Questo modo di comprendere le società, soprattutto le società moderne, partendo dalla loro organizzazione economica, è pienamente legittimo e, come metodo, è forse anche il migliore. Ma per passare da quest'analisi a una interpretazione del movimento storico, si devono ammettere determinate relazioni tra i diversi settori della realtà.
Gli interpreti hanno considerato che effettivamente era difficile impiegare termini troppo precisi come quello di determinazione per spiegare le relazioni tra le forze o i rapporti di produzione e lo stato della coscienza sociale. Poiché il termine di causalità o di determinazione è sembrato troppo rigido o, per usare il vocabolario della scuola, meccanicistico e non dialettico, lo si è sostituito con quello di condizionamento. un'espressione certamente preferibile, ma troppo vaga. In una società, qualsiasi settore condiziona gli altri. Così se in Francia vi fosse un altro regime politico, probabilmente si avrebbe un'altra organizzazione economica; se vi fosse un'altra economia, probabilmente si avrebbe un regime diverso da quello della Quinta repubblica.
Se determinazione è troppo rigido, condizionamento rischia di essere troppo flessibile e talmente incontestabile che il significato dell'espressione diviene dubbio.
Si dovrebbe trovare un'espressione intermedia tra determinazione della società nel suo insieme da parte della struttura - proposizione da rifiutarsi - e condizionamento che non ha un grande significato. Come sempre in simili casi, la soluzione miracolosa è quella dialettica. Il condizionamento viene detto dialettico e si pensa di aver fatto un passo decisivo.
Anche ammettendo che la sociologia di Marx si riduca a un'analisi dialettica delle relazioni tra le forze materiali di produzione, i modi di produzione, i quadri sociali e la coscienza degli uomini, a un dato momento bisogna trovare l'idea essenziale, cioè la determinazione della società come un tutto. Il pensiero di Marx, a mio giudizio, non ammette dubbi. Egli ritenne che un regime storico fosse definito da alcune caratteristiche fondamentali, lo stato delle forze produttive, il modo di proprietà e le relazioni dei lavoratori tra loro. I diversi tipi sociali sono caratterizzati ognuno da una certa forma di relazioni tra i lavoratori associati. La schiavitù è stata un tipo sociale, il salariato ne è un altro. Ammesso questo, possono esistere relazioni effettivamente flessibili e dialettiche tra i diversi settori della realtà, ma l'essenziale resta la definizione di un regime sociale partendo da un piccolo numero di fatti considerati come decisivi. La difficoltà sta in ciò, che questi diversi fatti, che agli occhi di Marx sono decisivi e connessi gli uni agli altri, oggi sembrano separabili perché la storia li ha separati.
La visione coerente di Marx è quella di uno sviluppo delle forze produttive che rende sempre più difficili la conservazione dei rapporti capitalistici di produzione e il funzionamento dei meccanismi di questo sistema, che rendono sempre più spietata la lotta di classe.
In realtà, lo sviluppo delle forze produttive si è prodotto in alcuni casi con la proprietà privata, in altri con la proprietà pubblica; non v'è stata rivoluzione laddove le forze produttive erano maggiormente sviluppate. I fatti, partendo dai quali Marx ritrovava la totalità sociale e storica, sono stati separati dalla storia. Il problema posto da questa separazione presenta due possibili soluzioni: l'interpretazione flessibile e critica, che comporta una metodologia d'interpretazione sociologica e storica, accettabile da tutti; l'interpretazione dogmatica, che conserva lo schema del divenire storico concepito da Marx, in una situazione che, sotto certi aspetti, è ben diversa. Questa seconda interpretazione passa oggi per ortodossa, perché annuncia la fine della società occidentale grazie allo schema della contraddizione intrinseca e dell'autodistruzione del sistema capitalistico. Ma questa visione dogmatica è forse la sociologia di Marx?
Un altro equivoco della sociologia di Marx viene fuori dall'analisi e dalla discussione dei concetti essenziali, in particolare da quelli di struttura e sovrastruttura Quali sono gli elementi della realtà sociale che appartengono alla struttura? E quali alla sovrastruttura?
Sembra, grosso modo, che si debba chiamare struttura l'economia, in particolare le forze di produzione, cioè l'insieme delle attrezzature tecniche di una società compresa l'organizzazione del lavoro. Ma l'attrezzatura tecnica di una civiltà è inseparabile dalle sue conoscenze scientifiche, e queste sembrano appartenere al campo delle idee o del sapere, elementi che dovrebbero rientrare, sembra, nella sovrastruttura, almeno nella misura in cui il sapere scientifico è, in numerose società, intimamente legato ai modi di pensare e alla filosofia.
In altri termini, nella struttura definita come forza di produzione entrano già elementi che dovrebbero appartenere alla sovrastruttura. Il fatto di per sé non comporta l'impossibilità di analizzare una società considerando via via la struttura e la sovrastruttura; ma questi semplicissimi esempi mostrano la difficoltà di distinguere realmente ciò che, secondo la definizione, appartiene all'una e all'altra.
E parimenti, le forze di produzione dipendono, come l'attrezzatura tecnica, anche dall'organizzazione del lavoro comune che, a sua volta, dipende dalle leggi sulla proprietà. E queste appartengono al dominio giuridico. Ma, almeno secondo alcuni testi, il diritto è una parte della realtà statale,31 e lo stato appartiene alla sovrastruttura. Di nuovo ci imbattiamo nella difficoltà di distinguere realmente ciò che è struttura da ciò che è sovrastruttura.
La discussione su quel che appartiene all'una o all'altra delle due può continuare all'infinito.
Questi due concetti, semplicemente come strumenti di analisi, possiedono, come qualsiasi concetto, un'utilizzazione legittima. L'obiezione vale soltanto per un'interpretazione dogmatica secondo la quale uno dei due elementi determinerebbe l'altro.
Analogamente, non è facile precisare la contraddizione tra le forze e i rapporti di produzione. Secondo una delle più semplici versioni di questa dialettica che svolge una grande funzione nel pensiero di Marx e dei marxisti, a un certo momento dello sviluppo delle forze di produzione, il diritto individuale di proprietà rappresenterebbe un impaccio al progresso ditali forze. In questo caso la contraddizione si verificherebbe tra la piena realizzazione della tecnica di produzione e il perdurare del diritto di proprietà.
Mi sembra che questa contraddizione abbia qualcosa di vero, ma non riguarda le interpretazioni dogmatiche. Se si considerano le grandi imprese moderne in Francia (Citroen, Renault o Péchiney), negli Stati Uniti (Dupont de Nemours o General Motors), possiamo infatti dire che l'ingrandirsi delle forze di produzione ha reso impossibile la conservazione del diritto individuale di proprietà. Le officine Renault non appartengono a nessuno, perché appartengono allo stato (non che lo stato non sia nessuno, ma la proprietà dello stato è astratta e, per così dire, fittizia). Péchiney non appartiene a nessuno, anche prima che si distribuissero le azioni agli operai, perché appartiene a migliaia di azionisti che, se sono proprietari nel senso giuridico del termine, non esercitano più il diritto tradizionale e individuale di proprietà. Parimenti, la Dupont de Nemours o la General Motors appartengono a centinaia di migliaia di azionisti, che conservano la finzione giuridica della proprietà, ma non ne esercitano i privilegi autentici.
D'altronde, Marx ha fatto allusione nel Capitale alle grandi società per azioni, per costatare che la proprietà individuale era in procinto di sparire e per concludere che il capitalismo tipico si trasformava.32
Si può pertanto dire che Marx ha avuto ragione nel mostrare la contraddizione tra lo sviluppo delle forze di produzione e il diritto individuale di proprietà, perché, nel capitalismo moderno delle grandi società per azioni, il diritto di proprietà, di un certo tipo, è scomparso.
Invece, se si considera che queste grandi società sono l'essenza stessa del capitalismo, si mostra con la stessa facilità che lo sviluppo delle forze di produzione non elimina minimamente il diritto di proprietà e che la contraddizione teorica tra forze e rapporti di produzione non esiste. Lo sviluppo delle forze di produzione esige il sorgere di nuove forme di rapporti di produzione, ma queste possono non essere in contraddizione con il diritto tradizionale di proprietà.
Stando a una seconda interpretazione della contraddizione tra le forze e i rapporti di produzione, la distribuzione dei proventi determinata dal diritto individuale di proprietà è tale che una società capitalistica non è in grado di assorbire la sua produzione. In questo caso, la contraddizione tra le forze e i rapporti di produzione riguarda il funzionamento stesso dell'economia capitalistica. Il potere d'acquisto distribuito alle masse popolari resterebbe costantemente al di sotto delle esigenze dell'economia.
Questa versione continua a essere accettata da quasi un secolo e mezzo a questa parte. Da quel tempo, le forze di produzione, in tutti i paesi capitalistici, si sono prodigiosamente sviluppate. L'incapacità di un'economia fondata sulla proprietà privata di assorbire la sua stessa produzione era già denunciata quando la capacità di produzione era la quinta o la decima parte di quel che è oggi; e, probabilmente, continuerà a esserlo quando la capacità di produzione sarà cinque o sei volte superiore a quella di oggi. La contraddizione non sembra evidente.
In altre parole, né l'una né l'altra delle due versioni della contraddizione tra forze e rapporti di produzione sono provate. L'unica versione che comporta in modo palese una parte di verità è quella che non porta alle affermazioni, politiche e messianiche, cui i marxisti tengono maggiormente.
La sociologia di Marx è una sociologia della lotta di classe. Vi si trovano alcune affermazioni fondamentali: la società attuale è una società antagonistica; le classi sono gli attori principali del dramma storico, del capitalismo in particolare e della storia in generale; la lotta di classe è il motore della storia e porta a una rivoluzione che segnerà la fine della preistoria e l'avvento di una società non antagonistica.
Ma, che cos'è una classe sociale? tempo di rispondere alla domanda dalla quale avrei dovuto incominciare se avessi esposto il pensiero di un professore. Ma Marx non era un professore.
Su questo punto troviamo nell'opera di Marx un gran numero di testi che, almeno per quanto riguarda quelli principali, possono essere raccolti, a mio avviso, in tre tipi.
Esiste un passo classico che si trova nelle ultime pagine del manoscritto del Capitale: l'ultimo capitolo che Engels ha pubblicato nel libro III del Capitale e che porta come titolo “Le classi”. Poiché il Capitale è la principale opera scientifica di Marx, bisogna pure citare questo brano, che è purtroppo incompleto. Marx scrive: “I proprietari della semplice forza-lavoro, i proprietari del capitale e i proprietari fondiari, le cui rispettive fonti di reddito sono salario, profitto e rendita fondiaria, in altre parole gli operai salariati, i capitalisti e i proprietari fondiari, costituiscono le tre grandi classi della società moderna, fondata sul modo di produzione capitalistico”.33
La distinzione delle classi in questo passo è fondata sulla distinzione, del resto classica, delle origini economiche dei redditi: capitale-profitto, terra-rendita fondiaria, lavoro-salario, cioè su quella che egli ha chiamato “la formula trinitaria che abbraccia tutti i misteri del processo di produzione sociale» (Il Capitale, l. III, cap. XLVIII, p. 926).
Il profitto è la forma apparente della realtà essenziale che è il plusvalore, la rendita fondiaria, alla quale Marx ha dedicato in questo stesso terzo libro del Capitale una lunga analisi, è una frazione del plusvalore, valore non distribuito ai lavoratori.
Questa interpretazione delle classi con la struttura economica è quella che meglio risponde all'intenzione scientifica di Marx, e permette di delineare alcune delle proposizioni essenziali della teoria marxista delle classi.
Innanzitutto, una classe sociale è un gruppo che occupa un posto determinato nel processo di produzione, fermo restando che il posto nel processo di produzione comporta un duplice significato: posto nel processo tecnico di produzione e posto nel processo giuridico, sovrapposto al processo tecnico.
Il capitalista è simultaneamente chi dispone dell'organizzazione del lavoro, dunque del processo tecnico, ed è anche, giuridicamente, grazie alla sua situazione di proprietario dei mezzi di produzione, chi sottrae ai produttori associati il plusvalore.
Se ne può concludere, d'altra parte, che i rapporti di classe tendono a semplificarsi via via che il capitalismo si sviluppa. Se esistono soltanto due fonti di reddito, lasciando da parte la rendita fondiaria la cui importanza viene via via riducendosi col progredire dell'industrializzazione, non esistono che due grandi classi: il proletariato, costituito da quelli che possiedono soltanto la loro forza lavoro, e la borghesia capitalistica, cioè tutti coloro che si appropriano di una parte del plusvalore.
Un secondo tipo di testi di Marx, relativi alle classi, raggruppa gli studi storici, come Le lotte di classe in Francia (1848-1850) o 1118 Brumaio di Luigi Bonaparte. In queste opere Marx utilizza il concetto di classe, senza farne però una teoria sistematica. L'elencazione delle classi è più lunga e più sottile nella distinzione strutturale delle classi ora analizzate.34
Così, nelle Lotte di classe in Francia, Marx distingue le seguenti classi: borghesia finanziaria, borghesia industriale, borghesia commerciante, piccola borghesia, contadini, proletariato, e infine quello che egli chiama LumpenProletariat, che corrisponde, pressappoco, a ciò che noi chiamiamo il sottoproletariato.
Questo elenco non contraddice la teoria delle classi, abbozzata nell'ultimo capitolo del Capitale. Il problema che Marx pone in queste due diverse specie di testi non è lo stesso. In un caso egli cerca di determinare quali siano i grandi raggruppamenti, caratteristici di un'economia capitalistica; nell'altro, cerca di stabilire quali sono, in circostanze storiche particolari, i gruppi sociali che hanno esercitato la loro influenza sugli avvenimenti politici.
E’ tuttavia difficile passare dalla teoria strutturale delle classi, fondata sulla distinzione delle fonti di reddito, all'osservazione storica dei gruppi sociali. Infatti, una classe non costituisce un'unità per il semplice fatto che dal punto di vista dell'analisi economica i proventi hanno una sola e medesima fonte; bisogna, evidentemente, che vi si aggiunga una certa comunanza psicologica, eventualmente una certa coscienza di unità o persino una volontà d'azione comune.
Questa osservazione porta a una terza categoria di testi marxisti. Nel 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, Marx spiega perché un gran numero di persone, anche se svolgono la stessa attività economica e conducono lo stesso genere di vita, non costituiscono necessariamente una classe sociale:
I contadini piccoli proprietari costituiscono una massa enorme, i cui membri vivono nella stessa situazione, ma senza essere uniti gli uni agli altri da molteplici relazioni. Il loro modo di produzione, anziché stabilire tra loro reciproci rapporti, li isola gli uni dagli altri. Questo isolamento è aggravato dai cattivi mezzi di comunicazione della Francia e dalla povertà dei contadini stessi. Il loro campo di produzione, il piccolo appezzamento di terreno, non consente nessuna divisione di lavoro nella sua coltivazione, nessuna applicazione di procedimenti scientifici e quindi nessuna varietà di sviluppo, nessuna diversità di talenti, nessuna ricchezza di rapporti sociali. Ogni singola famiglia contadina è quasi sufficiente a se stessa, produce direttamente la maggior parte di ciò che consuma, e guadagna quindi i suoi mezzi di sussistenza più nello scambio con la natura che nel commercio con la società. Un piccolo appezzamento di terreno, il contadino e la sua famiglia; un p0' più in là un altro piccolo appezzamento di terreno, un altro contadino e un'altra famiglia. Alcune decine di queste famiglie costituiscono un villaggio e alcune decine di villaggi un dipartimento. Così la grande massa della nazione francese si forma con una semplice somma di grandezze identiche, allo stesso modo che un sacco di patate risulta dalle patate che sono in un sacco. Nella misura in cui milioni di famiglie vivono in condizioni economiche tali che distinguono il loro modo di vita, i loro interessi e la loro cultura da quelli di altre classi e li contrappongono a esse in modo ostile, esse formano una classe. Ma nella misura in cui tra i contadini piccoli proprietari esistono soltanto legami locali, e l'identità dei loro interessi non crea tra loro una comunità, un'unione politica su scala nazionale e una organizzazione politica, essi non costituiscono una classe. (pp. 353-54)
In altre parole, avere in comune l'attività, il modo di pensare e la forma di vita è la condizione necessaria alla realtà di una classe sociale, ma non la condizione sufficiente. Perché esista una classe, è necessario che esista una presa di coscienza dell'unità e il senso della separazione dalle altre classi sociali, anzi un senso di ostilità nei loro confronti. Al limite, ndividui separati non costituiscono una classe se non nella misura in cui conducono una lotta comune contro un'altra classe.
Se teniamo conto dell'insieme di questi passi, mi sembra che si pervenga non a una teoria completa e professorale delle classi, ma a una teoria politico-sociologica, che è, d'altronde, abbastanza chiara.
Marx è partito dall'idea di una fondamentale contraddizione di interessi tra salariati e capitalisti. Inoltre, era convinto che questa opposizione dominasse la società capitalistica nel suo insieme e che avrebbe assunto una forma sempre più semplice col procedere dell'evoluzione storica.
Ma, da un altro lato, come osservatore della realtà storica, costatava come tutti, ed era un eccellente osservatore, la pluralità dei gruppi sociali: gli è che la classe, nel senso preciso del termine, non si confonde con un gruppo sociale qualsiasi. Essa comporta, al di là di un'esistenza comune, la presa di coscienza di questa comunanza sul piano nazionale e la volontà di un'azione comune in vista di una determinata organizzazione della collettività.
A questo livello, si capisce che agli occhi di Marx non esistevano, in realtà, che due grandi classi, perché nella società capitalistica esistono soltanto due gruppi che hanno veramente rappresentazioni contraddittorie di ciò che la società deve essere, ognuna delle quali ha realmente una volontà politica e storica definita.
Nel caso degli operai come in quello dei proprietari dei mezzi di produzione, i diversi criteri che si possono immaginare o osservare, si sono confusi. Gli operai dell'industria hanno un modo determinato di esistenza, che dipende dalla condizione che viene loro assegnata nella società capitalistica. sono consapevoli della loro solidarietà, prendono coscienza del loro antagonismo nei confronti degli altri gruppi sociali. Essi pertanto costituiscono, nel senso preciso del termine, una classe sociale, che si definisce politicamente e storicamente con una volontà propria che li pone in una opposizione essenziale con i capitalisti Ciò non esclude l'esistenza di sottogruppi all'interno di ciascuna di queste classi, più di quel che non escluda la presenza di gruppi che non siano stati ancora assorbiti nel campo dell'uno o dell'altro dei due grandi attori del dramma storico. Ma questi gruppi esterni o marginali, i commercianti, i piccoli borghesi, i sopravvissuti dell'antica struttura della società, col procedere dell'evoluzione storica, saranno obbligati a entrare nei ranghi del proletariato o in quelli del capitalismo.
Due sono i punti equivoci o discutibili di questa teoria.
All'inizio dell'analisi, Marx paragona l'ascesa della borghesia a quella del proletariato Dai suoi primi scritti, descrive l'avvento di un quarto stato come analogo all'ascesa del terzo. La borghesia ha sviluppato forze di produzione dal seno della società feudale; allo stesso modo il proletariato è in procinto di sviluppare forze di produzione nel seno della società capitalistica. Ora, questa assimilazione è, a mio parere, errata: ci vuole passione politica, e genialità nel contempo, per non vedere che i due casi sono radicalmente diversi.
La borghesia, sia mercantile o industriale, quando creò forze di produzione in seno alla società feudale, era realmente una classe nuova, formatasi all'interno della società antica. Ma la borghesia, fosse commerciale o industriale, era una minoranza privilegiata, che esercitava funzioni socialmente indispensabili: si opponeva alla classe feudale dirigente come un'aristocrazia economica si oppone a un'aristocrazia militare. Ci si spiega come questa classe privilegiata, storicamente nuova, abbia potuto creare, in seno alla società feudale, forze e rapporti di produzione nuovi, e come abbia fatto saltare la sovrastruttura politica della feudalità. La Rivoluzione francese, agli occhi di Marx, costituisce il momento in cui la classe borghese si impadronisce del potere politico che i resti della classe politicamente dirigente, la feudalità, si riservavano.
Invece il proletariato, nella società capitalistica, non è una minoranza privilegiata, ma la grande massa dei lavoratori non privilegiati, né crea forze o rapporti di produzione nuovi in seno alla società capitalistica; gli operai sono gli esecutori di un sistema di produzione che è diretto sia dai capitalisti, sia dai tecnici.
Pertanto, l'equiparazione dell'ascesa del proletariato a quella della borghesia è sociologicamente falsa. Per stabilire l'equivalenza tra l'ascesa della borghesia e quella del proletariato, i marxisti sono costretti a ricorrere all'uso di quello che essi condannano, quando è applicato dagli altri: il mito. Per equiparare l'ascesa del proletariato a quella della borghesia, è necessario, infatti, confondere la minoranza che dirige il partito politico, e si richiama al proletariato, col proletariato stesso.
In altre parole, al punto d'arrivo, per conservare la similitudine tra l'ascesa della borghesia e quella del proletariato, è necessario che Lenin, Stalin, Chruiéëv, Brenev e Kosygin, siano, uno dopo l'altro, il proletariato.
Nel caso della borghesia, i borghesi sono i privilegiati; sono loro che dirigono il commercio e l'industria, sono loro che governano. Quando il proletariato fa la sua rivoluzione, sono gli uomini che si richiamano al proletariato che dirigono le imprese commerciali e industriali e che esercitano il potere.
La borghesia è una minoranza privilegiata, che è passata dalla situazione di dominio sociale all'esercizio politico del potere; il proletariato è la grande massa non privilegiata che, in quanto tale, non può diventare la minoranza privilegiata e dominante.
Non voglio pronunciare in questa sede alcun giudizio sui meriti rispettivi di un regime che si richiama alla borghesia e di uno che si richiama al proletariato: quello che intendo stabilire, perché a mio giudizio si tratta di fatti, è che l'ascesa del proletariato non può essere equiparata, se non miticamente, a quella della borghesia e che qui sta l'errore centrale, che salta agli occhi e le cui conseguenze furono immense, di tutta la concezione marxista della storia.
Marx ha voluto definire in modo univoco un sistema economico, sociale e politico con la classe che esercita il potere. Ora questa definizione del regime è insufficiente, perché comporta, in apparenza, una riduzione della politica all'economia, o dello stato al rapporto tra i gruppi sociali.
Sociologia ed economia
Marx si è sforzato di combinare una teoria del funzionamento dell'economia con una teoria del divenire dell'economia capitalistica. Questa sintesi della teoria e della storia comporta una duplice difficoltà intrinseca, all'inizio e alla fine.
Il regime capitalistico, così come Marx lo descrive, può funzionare soltanto a condizione che esista un gruppo di uomini che dispone di capitale e che, di conseguenza, è in grado di acquistare la forza-lavoro di coloro che non possiedono altro. Storicamente, come si è costituito questo gruppo di uomini? Qual è il processo di formazione dell'accumulazione primitiva del capitale, indispensabile perché il capitale stesso possa funzionare? La violenza, la forza, l'astuzia, il furto e altri procedimenti classici nella storia politica spiegano senza difficoltà la formazione di un gruppo di capitalisti. Ma sarebbe più difficile spiegare con l'economia la formazione di questo gruppo: l'analisi del funzionamento del capitalismo suppone, al punto di partenza, dei fenomeni extraeconomici, allo scopo di creare le condizioni nelle quali il regime possa funzionare.
Una difficoltà della stessa natura sorge alla fine. Nel Capitale non si trova alcuna dimostrazione concludente, né del momento nel quale il capitalismo cesserà di funzionare, né del fatto che a un dato momento deve cessare di funzionare. Per poter dimostrare economicamente l'autodistruzione del capitalismo, sarebbe necessario che l'economista potesse dire: il capitalismo non può funzionare con un tasso di profitto inferiore a una data percentuale; o ancora: la ripartizione dei redditi a partire da un certo momento è tale che il regime non è in grado di assorbire la sua produzione. Ma, in realtà, nel Capitale non si trova né l'una né l'altra di queste due dimostrazioni. Marx ha fornito un certo numero di ragioni che fanno ritenere che il regime capitalistico funzionerà sempre peggio, ma non ha provato sul piano economico la distruzione del capitalismo a opera delle sue contraddizioni intrinseche. Siamo dunque obbligati a introdurre al termine del processo, così come al punto di partenza, un fattore esterno all'economia del capitalismo e che è d'ordine politico.
La teoria puramente economica del capitalismo in quanto economia di sfruttamento comporta anch'essa una difficoltà essenziale. Questa teoria è fondata sul concetto di plusvalore, a sua volta inseparabile dalla teoria del salario. Ora, qualsiasi economia moderna è progressiva, nel senso che deve accumulare una parte del prodotto annuo allo scopo di ampliare le forze di produzione. Pertanto, se definiamo l'economia capitalistica come un'economia di sfruttamento, bisogna dimostrare in qual senso e in qual misura il meccanismo capitalistico di risparmio e d'investimento sia diverso dal meccanismo d'accumulazione che esiste o esisterebbe in una economia moderna di altro tipo.
Agli occhi di Marx, la caratteristica dell'economia capitalistica era un tasso elevato d'accumulazione del capitale: “Accumulate, accumulate, questa è la legge e questo dicono i profeti”. (Il Capitale, 1. I, p. 651).35
Ma in un'economia di tipo sovietico, l'accumulazione del 25 per cento del reddito nazionale annuo fu considerata, per lungo tempo, parte integrante della dottrina. Uno dei meriti che oggi gli apologisti dell'economia sovietica le rivendicano è l'alta percentuale di formazione del capitale.
Un secolo dopo Marx, la competizione ideologica tra i due sistemi ha per oggetto il tasso d'accumulazione praticato dall'uno e dall'altro nella misura in cui determina il tasso di sviluppo. Resta pertanto da sapere se il meccanismo capitalistico d'accumulazione è migliore o peggiore di quello di un altro regime (migliore per chi, o peggiore per chi?).
Nella sua analisi del capitalismo, Marx ha considerato simultaneamente le caratteristiche di ogni economia e le caratteristiche di un'economia moderna di tipo captalistico, perché non ne conosceva altre. Un secolo dopo, il vero problema, per un economista di tradizione autenticamente marxista, sarebbe di analizzare le particolarità di un'economia moderna d'altro tipo.
La teoria del salario, quella del plusvalore e quella dell'accumulazione cessano di essere pienamente soddisfacenti in se stesse; rappresentano piuttosto dei problemi o dei punti di partenza, che permettono di differenziare ciò che potremmo chiamare lo sfruttamento capitalistico dallo sfruttamento sovietico o, per usare altri termini, il plusvalore capitalistico dal plusvalore in regime sovietico. In nessun sistema si può dare ai lavoratori la totalità del valore da essi prodotto, perché bisogna riservarne una parte per l'accumulazione collettiva.
Questo non esclude, d'altra parte, l'esistenza di differenze sostanziali tra i due meccanismi: l'accumulazione, in regime capitalistico, passa per l'intermediario dei profitti individuali e del mercato, e la distribuzione dei redditi non è la stessa nei due regimi.
Queste osservazioni, facili un secolo dopo Marx, non comportano alcuna pretesa, che sarebbe ridicola, di superiorità: voglio semplicemente mostrare che Marx, osservando gli inizi del sistema capitalistico, non poteva facilmente distinguere da una parte ciò che è richiesto da un sistema basato sulla proprietà privata e dall'altra ciò che è necessariamente richiesto dalla fase di sviluppo di un'economia come quella che l'Inghilterra attraversava nel momento in cui egli l'osservava, e infine da ciò che è l'essenza stessa di qualsiasi economia industriale.
Oggi, il compito di un'analisi sociologica dell'economia sta precisamente nel distinguere tra questi tre tipi di elementi: caratteristiche collegate a qualsiasi economia moderna, caratteristiche collegate a un particolare sistema dell'economia moderna e, infine, caratteristiche collegate a una fase di sviluppo dell'economia.
Questa distinzione è difficile perché tutti questi elementi sono presenti nella realtà e mescolati tra di loro. Ma se vogliamo pronunciare un giudizio critico, politico o morale su un dato sistema, è evidentemente necessario non addebitargli ciò che è imputabile ad altre determinanti.
La teoria dell'accumulazione e del plusvalore è il tipo stesso della confusione tra questi diversi elementi. Qualsiasi economia moderna richiede accumulazione. Il suo tasso è più o meno elevato, secondo la fase di sviluppo e anche secondo le intenzioni del governo della società considerata. Ciò che varia, invece, è il meccanismo economico-sociale del plusvalore, o anche il modo di circolazione del risparmio. Un'economia di tipo pianificato possiede un circuito di risparmio di stile relativamente semplice, mentre un'economia in cui sussista la proprietà privata degli strumenti di produzione comporta un meccanismo più complicato, che mescola il mercato libero e i prelevamenti imposti d'autorità. Essa non tollera facilmente la determinazione autoritaria dell'ammontare del risparmio e del tasso di formazione del capitale in rapporto al prodotto nazionale.
Le relazioni tra l'analisi economica e quella sociologica sollevano infine il problema delle relazioni tra regimi politici e sistemi economici. A mio giudizio, questo è il punto della sociologia di Marx più vulnerabile dalla critica.
Nel Capitale, come del resto nelle altre opere di Marx, su questo problema decisivo si trova soltanto un piccolo numero di idee, che non sono neppure sempre le stesse.
Lo stato è considerato sostanzialmente come lo strumento di dominio di una classe. Ne segue che un regime politico è definito dalla classe che esercita il potere. I regimi di democrazia borghese sono assimilati a regimi in cui la classe capitalistica esercita il potere, pur mantenendo una facciata di istituzioni libere. In opposizione al sistema economico-sociale costituito da classi antagoniste e dal dominio di una classe sulle altre, Marx abbozza la rappresentazione di un sistema economico-sociale in cui non esisterebbe più dominio di classe. Per questo, e per così dire per definizione, lo stato dovrà sparire perché esiste soltanto nella misura in cui una classe ne ha bisogno per sfruttare le altre.
Tra la società antagonista e quella del futuro non antagonistica si pone quella che è stata chiamata la dittatura del proletariato, espressione che si trova in particolare in un celebre testo del 1875, la Critica del programma del partito operaio tedesco o Critica del programma di Gotha.36 La dittatura del proletariato è il supremo rafforzamento dello stato prima del momento cruciale in cui lo stato sparirà. Prima di scomparire, lo stato raggiunge la sua piena realizzazione.
La dittatura del proletariato era definita poco chiaramente nei testi di Marx nei quali coesistevano di fatto due rappresentazioni: la prima era di tradizione giacobina e assimilava la dittatura del proletariato al potere assoluto di un partito che si richiamava alle masse popolari; l'altra, quasi opposta, era stata suggerita a Marx dall'esperienza della Comune di Parigi, che tendeva alla scomparsa dello stato centralizzato.
Questa concezione della politica e della scomparsa dello stato in una società non antagonistica, mi sembra la concezione sociologica più facilmente confutabile di tutta l'opera di Marx.
Nessuno nega che nella società, e in particolare in una società moderna, esistano funzioni comuni di amministrazione e di autorità che bisogna esercitare. Nessuno può ragionevolmente pensare che una società industriale tanto complessa quanto la nostra possa fare a meno di un'amministrazione e di un'amministrazione sotto certi aspetti centralizzata.
Inoltre, se supponiamo una pianificazione dell'economia, è inconcepibile che non vi siano degli organismi centralizzati che prendano decisioni fondamentali, richieste dall'idea stessa di pianificazione. Queste decisioni suppongono funzionari che noi chiamiamo correntemente statali. Pertanto, a meno d'immaginare uno stadio di assoluta abbondanza, nel quale il problema della coordinazione della produzione non si pone più, un regime di economia pianificata esige un rafforzamento delle funzioni amministrative e direttive esercitate dal potere centrale.
In questo senso, le due idee di pianificazione dell'economia e di dissoluzione dello stato sono contraddittorie per l'avvenire che si può prevedere, fintanto che importerà produrre quanto più possibile, produrre in funzione delle direttive del piano e distribuire la produzione tra le classi sociali secondo le idee dei governanti.
Se si chiama stato l'insieme delle funzioni amministrative e direttive della collettività, lo stato non può venir meno in nessuna società industriale e meno ancora lo può in una società industriale pianificata, perché la pianificazione centrale, per definizione, comporta che il governo prenda un numero di decisioni maggiore che in un'economia capitalistica, che si definisce, parzialmente, con il decentramento del potere di decisione.
L'eliminazione dello stato, dunque, non può avere che un senso simbolico: ciò che scompare è il carattere di classe dello stato considerato. Infatti, si può pensare che, a partire dal momento in cui non esiste più antagonismo di classi, queste funzioni amministrative e direttive, invece di esprimere l'intenzione egoistica di un gruppo particolare, divengano l'espressione di tutta quanta la società. In questo senso, si può effettivamente concepire la scomparsa del carattere di classe, di dominio e di sfruttamento dello stato stesso.
Ma, nel regime capitalistico, lo stato può essere definito essenzialmente dal potere di una data classe?
L'idea centrale di Marx è che la società capitalistica è antagonistica e che tutti i caratteri essenziali di questo sistema derivano da questo fenomeno. Come si potrebbe avere una società senza antagonismi? Tutta quanta l'argomentazione riposa sulla differenza di natura tra la classe borghese che esercita il potere, quando detiene gli strumenti di produzione, e il proletariato considerato come la classe che succederà alla borghesia.
Dire tuttavia che il proletariato è una classe universale che assume il potere, può avere soltanto un significato simbolico, perché la massa degli operai nelle officine non può essere confusa con una minoranza dominante che esercita il potere. La formula “il proletariato al potere” è soltanto una formula simbolica, per dire: il partito o il gruppo d'uomini che si richiama alla massa popolare.
Nella società in cui la proprietà privata degli strumenti di produzione è scomparsa, non esiste più, per definizione, antagonismo legato a questa proprietà, ma vi sono uomini che esercitano il potere in nome delle masse popolari. Esiste, dunque, uno stato che adempie le funzioni amministrative e direttive indispensabili a qualsiasi società sviluppata. Una società di questo tipo non comporta gli stessi antagonismi di una società nella quale esiste la proprietà privata degli strumenti di produzione. Ma una società in cui lo stato, con decisioni economiche, determina in larga misura la condizione di tutti e di ciascuno può evidentemente comportare antagonismi tra gruppi, sia tra gruppi orizzontali, contadini da un lato, operai dall'altro, sia tra gruppi verticali, tra quelli che sono posti in basso e quelli che sono posti in alto nella gerarchia.
Non dico che in una società in cui la condizione di ciascuno dipende dal piano e in cui questo piano è stabilito dallo stato, esistano necessariamente dei conflitti; ma neppure si può dedurre la certezza di una società senza antagonismi per il semplice fatto che è scomparsa la proprietà privata degli strumenti di produzione e la condizione di ognuno dipende dalle decisioni dello stato. Se queste sono prese da individui o da una minoranza, possono corrispondere agli interessi degli uni o degli altri. Non esiste armonia prestabilita tra gli interessi dei diversi gruppi in una società pianificata.
Il potere dello stato non scompare né può scomparire in una simile società. Una società pianificata può certamente essere governata con equità, ma non v'è nessuna garanzia a priori che i dirigenti del piano prendano decisioni che corrispondono agli interessi di tutti o agli interessi supremi della collettività, nella misura in cui, del resto, questi possono essere definiti.
La sicura scomparsa degli antagonismi supporrebbe o che le rivalità dei gruppi non abbiano altra origine che la proprietà privata degli strumenti di produzione, o che lo stato scompaia. Ma nessuna di queste due ipotesi è verosimile. Non v'è motivo che tutti gli interessi dei membri della collettività siano in armonia dal giorno in cui i mezzi di produzione cessano d'essere oggetto di appropriazione individuale. Scompare un tipo di antagonismo, non tutti gli antagonismi possibili. E dal momento che continuano a sussistere le funzioni amministrative o direttive, perdura, per definizione, il rischio che coloro che esercitano queste funzioni siano o ingiusti o male informati o irragionevoli, e che i governati non siano soddisfatti delle decisioni prese dai governanti.
Infine, al di là di queste osservazioni, sussiste un problema fondamentale, quello della riduzione della politica in quanto tale all'economia.
La sociologia di Marx, almeno nella sua forma profetica, suppone la riduzione dell'ordine politico a quello economico, cioè il venire meno dello stato a partire dal momento in cui si impongono la proprietà collettiva dei mezzi di produzione e la pianificazione. Ma l'ordine politico è essenzialmente irriducibile a quello economico: qualunque sia il sistema economico e sociale, il problema politico continuerà a sussistere, perché esso consiste nel determinare chi governa, come sono scelti i governanti, come è esercitato il potere, qual è la relazione di consenso o di rivolta tra governanti e governati. L'ordine della realtà politica è essenziale e autonomo quanto l'ordine dell'economia; questi due ordini sono reciprocamente correlati. Il modo in cui sono organizzate la produzione o la distribuzione delle risorse collettive influenza il modo in cui è risolto il problema dell'autorità, e, inversamente, il modo in cui è risolto il problema dell'autorità influenza quello in cui è risolto il problema della produzione e della distribuzione delle risorse. L'errore sta nel pensare che una certa organizzazione della produzione e della distribuzione delle risorse risolva automaticamente il problema del potere, sopprimendolo. Il mito della scomparsa dello stato, è il mito dello stato che esiste soltanto per produrre e distribuire le risorse e che, una volta risolto questo problema, non vi sia più bisogno dello stato, cioè del potere.37
Questo mito è doppiamente ingannatore: in primo luogo, perché la gestione pianificata dell'economia comporta un rafforzamento dello stato, e se anche non lo comportasse continuerebbe a esistere, nella società moderna, un problema del potere, cioè del modo di esercitare l'autorità.
In altre parole, non è possibile definire un regime politico semplicemente con la classe che si suppone eserciti il potere. Non si può definire il regime politico del capitalismo col potere dei detentori dei monopoli, non più di quanto si possa definire quello di una società socialista col potere del proletariato. Nel sistema capitalistico non sono i detentori dei monopoli che esercitano, di persona, il potere; e nel regime socialista non è il proletariato che esercita, come corpo, il potere. In entrambi i casi si tratta di determinare quali siano gli uomini che esercitano le funzioni politiche, come sono reclutati, come esercitano l'autorità, qual è la relazione tra governanti e governati.
La sociologia dei regimi politici non può essere ridotta a una semplice appendice della sociologia dell'economia o delle classi sociali.
Marx ha parlato spesso delle ideologie e ha cercato di spiegare i modi di pensare o i sistemi intellettuali con il contesto sociale.
L'interpretazione delle idee con la realtà sociale può essere fatta seguendo diversi metodi. Si possono spiegare i modi di pensare col modo di produzione o con lo stile tecnico della società in questione. Ma la spiegazione che ha ottenuto il maggior successo è quella che attribuisce idee determinate a una certa classe sociale.
In generale, Marx intende per ideologia la falsa coscienza o la falsa rappresentazione che una classe sociale si fa della sua situazione e della società nel suo insieme. In larga misura, considera le teorie degli economisti borghesi come un'ideologia di classe. Non già che egli attribuisca agli economisti borghesi l'intenzione d'ingannare i lettori o di dare una falsa interpretazione della realtà, ma tende a pensare che una classe non può vedere il mondo se non in base alla sua situazione. Come direbbe Sartre, il borghese vede il mondo definito dai diritti che egli possiede. L'immagine giuridica di un mondo di diritti e di obbligazioni è la rappresentazione sociale nella quale il borghese esprime il suo essere e, nel contempo, la sua situazione.
Questa teoria della falsa coscienza legata alla coscienza di classe può essere applicata a numerose idee o sistemi intellettuali. Quando si tratta di dottrine economiche e sociali, si può, a rigore, ritenere che l'ideologia sia una falsa coscienza e che il soggetto di questa falsa coscienza sia la classe; tale concezione comporta però due difficoltà.
Se una classe si forma, in base alla sua situazione, una falsa idea del mondo, se, per esempio, la classe borghese non comprende il meccanismo del plusvalore o resta prigioniera dell'illusione del feticismo della merce, come mai un certo individuo riesce a liberarsi da queste illusioni, da questa falsa coscienza?
E, d'altra parte, se tutte le classi hanno un modo di pensare deformato e parziale, non esiste più una verità. In che cosa un'ideologia può essere superiore a un'altra, dal momento che tutte sono inseparabili dalla classe che le concepisce o le adotta? Il pensiero marxista è tentato di rispondere a questi interrogativi che tra le ideologie ve n'è una che vale più delle altre, perché esiste una classe che può, essa sì, pensare il mondo nella sua verità.
Nel mondo capitalistico, il proletariato, e soltanto lui, pensa la verità del mondo, perché solo lui può pensare ciò che verrà dopo la rivoluzione.
Lukács, uno degli ultimi grandi filosofi marxisti, in Geschichte und Klassenbewusstsein, ha cercato di dimostrare così che le ideologie di classe non sono tutte equivalenti e che l'ideologia della classe proletaria è vera, perché il proletariato, nella situazione in cui l'ha posto il capitalismo, è in grado, e lo è lui solo, di pensare la società nel suo sviluppo, nel suo cammino verso la rivoluzione, e dunque nella sua verità.38
Una prima teoria dell'ideologia cerca dunque di evitare lo slittamento verso il relativismo integrale, conservando tuttavia il legame tra le ideologie e la classe e la verità di una delle ideologie.
La difficoltà di una formula di questo genere, sta nel fatto che è facile mettere in dubbio la verità ditale ideologia di classe, essendo agevole ai sostenitori delle altre ideologie e delle altre classi rispondere che tutti i ricercatori sono sullo stesso piano: se si suppone che la mia visione del capitalismo sia determinata dal mio interesse di borghese, la vostra visione proletaria è determinata dal vostro interesse di proletari. Perché gli interessi degli out, come si dice in inglese, avrebbero maggior valore, in quanto tali, degli interessi degli in? Perché gli interessi di coloro che stanno dalla parte sbagliata della barriera avrebbero maggior valore, in quanto tali, degli interessi di quelli che si trovano dalla parte giusta? Tanto più che le posizioni possono rovesciarsi, e, di fatto, ogni tanto si rovesciano.
Questo modo d'argomentare non può portare che a uno scetticismo integrale, nel quale tutte le ideologie si equivalgono, essendo tutte deformate e parziali, interessate e, di conseguenza, menzognere.
Per questo le ricerche si sono volte in un'altra direzione, che mi sembra preferibile, la stessa nella quale si è impegnata la sociologia della conoscenza, che stabilisce delle distinzioni tra i diversi tipi di costruzioni intellettuali. Ogni pensiero è legato in un certo modo all'ambiente sociale, ma il legame della pittura, della fisica, della matematica, dell'economia politica o delle dottrine politiche con la realtà sociale non è affatto lo stesso.
Conviene distinguere i modi di pensare o le teorie scientifiche che sono legate alla realtà sociale ma non ne dipendono, dalle ideologie o false coscienze che sono il risultato, nella coscienza degli uomini, di situazioni di classe, che impediscono di vedere la verità.
Questo compito è lo stesso che i diversi sociologi della conoscenza, marxisti o no, cercano di assolvere in modo da salvare la verità universale di determinate scienze e il valore universale delle opere d'arte.
A un marxista importa tanto quanto a un non marxista di non ridurre il significato di un'opera scientifica o estetica al suo contenuto di classe. Marx, che era un grande ammiratore dell'arte greca, sapeva bene quanto i sociologi della conoscenza che il significato delle creazioni umane non si esaurisce nel loro contenuto di classe. Le opere d'arte hanno valore e significato anche per altre classi, anche per altri tempi.
Pur senza negare minimamente che il pensiero sia legato alla realtà sociale e che certe forme di pensiero siano legate alla classe sociale, è necessario ristabilire la distinzione tra le varie specie e tener ferme due proposizioni che mi sembrano indispensabili per evitare il nichilismo: esistono campi nei quali il pensatore può raggiungere una verità valida per tutti e non soltanto una verità di classe; esistono campi in cui le creazioni delle società hanno valore e portata per gli uomini di altre società.
Conclusione
Vi sono state, in ultima analisi, tre grandi crisi del pensiero marxista da un secolo a questa parte.39
La prima è quella che è già stata chiamata la crisi del revisionismo, quella della socialdemocrazia tedesca nei primi anni del XX secolo. E suoi due protagonisti furono Karl Kautsky e Eduard Bernstein e il tema di fondo era: l'economia capitalistica sta trasformandosi in modo tale che la rivoluzione che noi annunciamo e sulla quale contiamo si produca in conformità alla nostra attesa? Bernstein, il revisionista, dichiarava che gli antagonismi di classe non si esasperavano, che la concentrazione non si realizzava né così rapidamente né così completamente come era previsto e di conseguenza non era probabile che la dialettica storica avesse la compiacenza di realizzare la catastrofe della rivoluzione e la società senza antagonismi. Questa controversia Kautsky-Bernsteifl si concluse all'interno del partito socialdemocratico tedesco e della Seconda Internazionale con la vittoria di Kautsky e la disfatta dei revisionisti. La tesi ortodossa fu conservata.
La seconda crisi del pensiero marxista fu quella del bolscevismo. Un partito che si richiamava al marxismo assunse il potere in Russia e, come era naturale, definì la sua vittoria come la vittoria di una rivoluzione proletaria. Ma una frazione dei marxisti, gli ortodossi della Seconda Internazionale, la maggioranza dei socialisti tedeschi e dei socialisti occidentali la giudicarono diversamente. Dal 1917-1920 è nata all'interno dei partiti che si richiamavano a Marx una controversia, la cui questione centrale potrebbe essere riassunta in questo modo: il potere sovietico è una dittatura del proletariato o una dittatura sul proletariato? Queste espressioni furono usate a partire dagli anni 1917-1918 dai due grandi protagonisti di questa seconda crisi: Lenin e Kautsky. Nella prima crisi del revisionismo Kautsky era dalla parte degli ortodossi; in quella del bolscevismo, egli credeva sempre di esserlo, ma v'era una nuova ortodossia.
La tesi di Lenin era semplice: il partito bolscevico che si richiama al marxismo e al proletariato rappresenta il proletariato al potere; il potere del partito bolscevico è la dittatura del proletariato. Poiché, dopo tutto, non si era mai saputo con certezza in che cosa consistesse esattamente la dittatura del proletariato, l'ipotesi secondo la quale il potere del partito bolscevico fosse la dittatura del proletariato era seducente e nulla impediva di sostenerla. E inoltre tutto diventava facile, perché se il potere del partito bolscevico era il potere del proletariato, il regime bolscevico era un regime proletario, e la costruzione del socialismo ne veniva di conseguenza.
Invece se si accettava la tesi di Kautsky, secondo la quale una rivoluzione fatta in un paese non industrializzato, in cui la classe operaia era una minoranza, non poteva essere una rivoluzione veramente socialista, la dittatura di un partito, anche marxista, non era una dittatura del proletariato, ma una dittatura sul proletariato.
Successivamente vi sono state nel pensiero marxista due scuole: la prima che riconosceva nel regime dell'Unione Sovietica l'adempimento, con alcune modalità impreviste, delle previsioni di Marx, e l'altra che riteneva che l'essenza del pensiero marxista fosse deformata, perché il socialismo non comportava soltanto la proprietà collettiva e la pianificazione, ma anche la democrazia politica. E la seconda scuola marxista sosteneva che la pianificazione socialista senza democrazia non è il socialismo.
Bisognerebbe, d'altronde, stabilire quale parte ha rappresentato l'ideologia marxista nella costruzione del socialismo sovietico. E evidente che la società sovietica non è uscita bell'e armata dal cervello di Marx e che, in gran parte, è il risultato delle circostanze. Ma l'ideologia marxista, così come è stata interpretata dai bolscevichi, vi ha rappresentato una parte che è importante.
La terza crisi del pensiero marxista è quella in cui ci troviamo oggi. Essa verte su questo punto: se esiste un termine intermedio tra la versione bolscevica e quella, diciamo scandinavo-britannica, del socialismo.
Oggi vediamo bene una delle possibili modalità di una società socialista: la pianificazione centrale sotto la direzione di uno stato più o meno totalitario, che si confonde a sua volta con un partito che si richiama al socialismo. E la versione sovietica della dottrina marxista. Ma esiste una seconda versione, che è quella occidentale, la cui forma più perfezionata è probabilmente la società svedese e che presenta un miscuglio di istituzioni private e pubbliche, una riduzione delle disuguaglianze tra i redditi e l'eliminazione della maggior parte dei fenomeni sociali che erano motivo di scandalo. Pianificazione parziale e proprietà mista degli strumenti di produzione si combinano con le istituzioni democratiche dell'Occidente, cioè la pluralità dei partiti, le libere elezioni, la libera discussione delle idee e delle dottrine.
I marxisti ortodossi sono quelli che non dubitano che la vera erede di Marx sia la società sovietica. I socialisti occidentali non dubitano che la versione occidentale sia meno infedele allo spirito di Marx della versione sovietica; ma molti intellettuali marxisti non trovano soddisfacente né l'una né l'altra versione. Essi vorrebbero una società che fosse, in un certo senso, socialista e pianificata come la società sovietica, e, nel contempo, liberale come una società di tipo occidentale.
Tralascio la questione se questo terzo termine può esistere altro che nella mente dei filosofi, ma, dopotutto, come diceva Amleto a Orazio: «Vi sono più cose sulla terra e nel cielo che in tutti i sogni della nostra filosofia”. Forse esisterà un terzo termine, ma, per il momento, lo stato attuale della discussione dottrinale è l'esistenza di due tipi ideali, abbastanza chiaramente definibili, di due società che possono, più o meno, richiamarsi al socialismo, ma di cui l'una non è liberale e l'altra è borghese.
Lo scisma cino-sovietico apre una nuova fase: agli occhi di Mao Tsetung il regime e la società sovietica stanno imborghesendosi; i dirigenti di Mosca sono trattati da revisionisti, come Bernstein e i socialisti di destra all'inizio del secolo.
E Marx da quale parte starebbe? E inutile porsi domande su questo punto, perché egli non aveva concepito la differenziazione che il corso della storia ha realizzato. A partire dal momento in cui si è obbligati a dire che certi fenomeni criticati da Marx non sono imputabili al capitalismo ma alla società industriale o alla fase di sviluppo da lui osservata, si entra in un meccanismo di pensiero di cui Marx era naturalmente capace (perché era un grandissimo uomo), ma che fu estraneo al Marx realmente esistito. Secondo ogni probabilità egli, che aveva il temperamento del ribelle, non si entusiasmerebbe per nessuna delle versioni, per nessuna delle forme delle società che a lui si richiamano; preferirebbe l'una o l'altra? Mi sembra impossibile deciderlo e, in fin dei conti, abbastanza inutile. Se dovessi dare una risposta, essa non esprimerebbe altro che le mie preferenze. Mi sembra più onesto dire quali sono le mie preferenze, piuttosto che attribuirle a Marx, che non c'entra per nulla.
Note
1 Kostas Axelos, Marx, penseur de la technique, Ed. de Minuit, collana Arguments, Paris 1961 (trad. it., Marx pensatore della tecnica, Sugar, Milano 1963).
Il fatto di considerare il concetto di alienazione come una delle chiavi del pensiero di Marx è comune tanto a interpreti cristiani come padre Yves Calvez in La pensée de Karl Marx, Ed. du Seuil, Paris 1965 (trad. it., Il pensiero di Carlo Marx, Borla, Torino 1966), quanto a critici marxisti quali L. Goldmann o H. Lefebvre. Quest'ultimo così si esprime: «La critica del feticismo della merce, del denaro e del capitale è la vera chiave dell'opera dl Marx nella sua parte economica, cioè del Capitale» (Intervista al giornale “Arts”, 13 febbraio 1965); ma altrove precisa: «I testi di Marx sull'alienazione e le sue diverse forme sono dispersi in tutta l'opera, al punto che la loro unità restò inavvertita sino a data recente». (Le Marxisme, PUF, “Que sais-je?”, Paris 1958, p. 48; trad. it., Il marxismo visto da un marxista, Garzanti, Milano 1954).
2 Sbaglio a dire sulle rive della Senna; una ventina d'anni fa era sulle rive della Sprea a Berlino; oggi queste torme di marxismo sottile sono emigrate sulla riva sinistra della Senna, ove hanno suscitato appassionate discussioni, pubblicazioni interessanti, dotte controversie.
3. L'ideologia tedesca fu redatta da Marx ed Engels dal settembre 1845 al maggio 1846 a Bruxelles. Nella Prefazione a Per la critica dell'economia politica, nel 1859, Marx scriverà: “Decidemmo di mettere in chiaro, con un lavoro comune, il contrasto tra il nostro modo di vedere e la concezione Ideologica della filosofia tedesca, di fare i conti, in realtà, con la nostra anteriore coscienza filosofica. Il progetto fu realizzato sotto forma di una critica della filosofia posthegeliana. Il manoscritto, due grossi fascicoli in ottavo, era da tempo arrivato nel luogo dove doveva pubblicarsi, in Vestfalta, quando ricevemmo la notizia che nuove circostanze ne impedivano la pubblicazione. Abbandonammo tanto più volentieri il manoscritto alla critica roditrice dei topi, in quanto il nostro scopo fondamentale era ormai raggiunto, che era di veder chiaro in noi stessi”. (Per la critica dell'economia politica, Editori Riuniti, III ed., Roma 1971, p. 6.)
4. J . Schumpeter, Capitalism, Socialism and Democracy, Unwin & Allen, London 1943.47 (trad. it., Capitalismo, socialismo e democrazia, Ed. di Comunità, Milano 1955, 1 parte, “La dottrina marxista”, pp. 3-53. La prima edizione di questa opera in inlgese è del 1942. I capitoli su Marx sono stati ripresi in un'opera postuma di Schumpeter, Ten Great Economists, 1951 (trad. It., Epoche di storia delle dottrine e dei metodi. Dieci grandi economisti, Utet, Torino 1956.)
5 P. Bigo, Marxisme et humanisme, introduction a l'oeuvre economiqUe de Marx, PUF, Paris 1953, pp. 269.
6 Georges Gurvitch vi ha trovato, entro certi limiti, l'anticipazione delle sue Idee.
7. Marx-Engels, Manifesto del partito comunista, Edizioni Rinascita, Roma 1953, pp. 69-70.
8. L'elogio fatto da Marx della funzione rivoluzionaria e costruttiva della borghesia assume persino accenti lirici: “Essa ha creato ben altre meraviglie che le piramidi egiziane, gli acquedotti romani e le cattedrali gotiche, ha portato a termine ben altre spedizioni che le migrazioni di popoli e le crociate”. (Manifesto del partito comunista, trad. It. cit., pp. 76.77.)
9 Cfr. particolarmente Karl A. Wittfogel, Oriental Despotism, a comparative study of total power, Yale University Press, New Haven 1964 (trad. it., il dispotismo orientale, 2 voli., Vallecchi, Firenze 1968). Cfr. anche i seguenti articoli comparsi in “Le Contrat socia": Karl A. Wittfogel, Marx et le despotisme oriental, maggio 1957; Paul Barton, De despolisme oriental, maggio 1959; Despotisme et totalitarisme, luglio 1959; Despotisme. tolalitarisme et classes sociales, marzo 1960; Kostas Papaioannou, Marx et le despotisme, gennaio 1960.
Per una riflessione marxista ortodossa su questo problema, si veda il numero speciale della rivista “La Pensée” sul Modo di produzione asiatico, n. 114. aprile 1964. gli articoli di J. Chesneaux, Où en est la discussion sur le mode de production astatique, in “La Pensée a, n. 122, 1965 e di M. Godelier, La notion de mode de production asiatique, in “Les Temps modernes”, maggio 1965.
10 . Stalin, Problemi economici (lei socialismo nell'URSS, Ed. Rinascita, Roma 1952. “I tratti principali e le esigenze della legge economica fondamentale del capitalismo contemporaneo potrebbero essere formulati all'incirca in questo modo: realizzazione del massimo profitto capitalistico mediante lo sfruttamento, la rovina e l'impoverimento della maggior parte della popolazione di un determinato paese, mediante l'asservimento e la spoliazione sistematica dei popoli degli altri paesi, particolarmente dei paesi arretrati, e, infine, mediante le guerre e la militarizzazione dell'economia nazionale, utilizzata per realizzare profitti massimi [...] I tratti essenziali e le esigenze della legge economica fondamentale del socialismo potrebbero essere formulate all'incirca in questo modo: assicurazione del massimo soddisfacimento delle sempre crescenti esigenze materiali e culturali di tutta la società, mediante l'aumento ininterrotto e il perfezionamento della produzione socialista sulla base di una tecnica superiore.” (pp. 17-18.)
11. D'altronde, oltre la malattia e le difficoltà finanziarie, fu la coscienza di questa incompiutezza a indurre Marx a ritardare la pubblicazione dei due ultimi libri dei Capitale. Dal 1867 (data della pubblicazione del primo libro) alla morte, Marx non cessò di proseguire i suoi studi, che lo lasciavano insoddisfatto, e di rielaborare Il seguito dl quella che egli considerava l'opera della sua vita. Così nel settembre 1878 scrisse a Danielson che il secondo libro del Capitale sarebbe stato pronto per la stampa verso la fine del 1879, ma, il 10 aprile 1879, dichiara che non lo avrebbe pubblicato prima di aver osservato lo sviluppo e l'esito della crisi Industriale in Inghilterra.
12 Il tema della caduta secolare del tasso di profitto trova la sua origine in David Ricardo e fu sviluppato particolarmente da John Stuart Mill. Volendo dimostrare che I privati hanno sempre motivi per investire, Ricardo scrive: “In un paese non potrebbe esistere un capitale accumulato, qualunque ne sia l'ammontare, che non possa essere produttivamente impiegato sino al momento In cut i salari saranno tanto aumentati per effetto del rincaro degli articoli di necessità da restare soltanto una piccolissima parte per i profitti del capitale e da non esservi così più alcuna ragione di accumulare”. (Principi dell'economia politica e delle imposte, UTET, Torino 1948.) in altre parole, per Ricardo la caduta del tasso di profitto a zero è soltanto un'eventualità, che nascerebbe dall'aumento nella ripartizione del prodotto da parte dei salari nominali, se questi fossero spinti ai rialzo dell'aumento relativo dei prezzi dei beni indispensabili alla vita. Questo aumento dei prezzi sarebbe, a sua volta ii risultato dei gioco combinato dell'espansione della domanda indotta dallo sviluppo demografico e della resa decrescente dei terreni. Ma, giudicava Ricardo, l'ostacolo alla crescita rappresentato dalla resa decrescente dei terreni agricoli può essere superato dall'apertura sul mondo, dalla specializzazione internazionale e dalla libera importazione di frumento proveniente dall'estero.
Mill, dopo l'abolizione delle Corn Laws, riprende la teoria di Ricardo nei suoi Principles of Political Economy with some of their Applications to Social Philosophy (1848) (trad. it., Principi di economia politica, UTET, Torino 1953), ma ne dà una versione più evolutiva e più a lungo termine, che si apparenta alle tesi stagnazionistiche moderne. La diminuzione del tasso di profitto è la traduzione contabile, a livello d'impresa, del procedere della società verso lo stato stazionario, nel quale non esiterà più accumulazione netta di capitale. La legge della resa decrescente sta all'origine di tale caduta del profitto verso lo zero.
13 Tutt'al più possiamo dire, in un'analisi d'ispirazione keynesiana, che il tasso di profitto dell'ultima unità di capitale, il cui investimento è necessario per mantenere il pieno impiego (efficacia marginale del capitale), non deve essere inferiore al tasso d'interesse del danaro, così come viene stabilito dalla preferenza per la liquidità dei possessori di moneta. Ma uno schema di questo tipo è in realtà difficilmente integrabile con la teoria economica marxista, i cui strumenti intellettuali sono premarginalisti. D'altronde, esiste una certa contraddizione nell'analisi economica di Marx tra la legge della caduta tendenziale del tasso di profitto, che suppone implicitamente la legge degli sbocchi dei classici e la tesi della crisi per sottoconsumo operaio, che comporta un blocco dello sviluppo per mancanza di domanda effettiva. La distinzione tra breve termine e lungo termine non permette di risolvere il problema, perché queste due teorie hanno per scopo non di spiegare la tendenza a lungo termine da un lato, e le fluttuazioni dall'altro, ma una crisi generale di tutto quanto Il sistema economico. (Cfr. Joan Robinson, An Essay on Marxian Economics, MacMillan, London 1942, trad. Il., Marx e lo scienza economica, La Nuova Italia, Firenze 1951.)
14. In una lettera a Joseph Weydemeyer del 5 marzo 1852, Marx scrive: “Per quello che ml riguarda, non mi appartiene né il merito di avere scoperto l'esistenza delle classi nella società moderna, n quello di avere scoperto la lotta tra di loro. Già molto tempo prima dl me, alcuni storici borghesi avevano esposto l'evoluzione storica di questa lotta delle classi, e alcuni economisti borghesi avevano esposto l'anatomia economica delle classi. Quel che io ho fatto di nuovo è stato di dimostrare: 1. che l'esistenza delle classi è legata soltanto a determinate fasi dl sviluppo storico della produzione; 2. che la lotta delle classi conduce necessariamente alla dittatura del proletariato; 3. che questa dittatura stessa è soltanto il passaggio alla soppressione di tutte le classi e a una società senza classi”. (K, Marx-F. Engels, Sul materialismo storico. Ed. Rinascita, Roma 1949, pp. 72-73.)
15. A. Kojève, Introduction à la lecture de Hegel, Gallimard, Paris 1947. Per l'interpretazione marxista di Hegel, vedi anche: G. Lukàcs, Der junge Hegel, ZurichWien 1948 (trad. it,, Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica, Einaudi, Torino 1960) e l'analisi fatta di questo volume da J. Hyppolite nei suoi Etudes sur Marx et Hegel, M. Rivière, Paris 1955, pp. 82-104 (trad. it., Studi su Marx e Hegel, Bompiani, Milano 1965). G. Lukàcs arriva sino al punto di considerare come una leggenda reazionaria il tema di un periodo teologico di Hegel e studia la critica da questi fatta, nelle sue opere giovanili, dell'opera di Adam Smith. Hegel avrebbe visto le contraddizioni essenziali del capitalismo senza arrivare, naturalmente, a trovare la soluzione che sarebbe toccato a Marx di esporre.
16 G. Gurvitch, La sociologie de Karl Marx, Centre de documentation universitaire, Paris 1958, ciclostilato, pp. 93; Les Fondateurs de la sociologie contemporaine, vol. 1, Saint-Simon sociologue, Centre de documentation universitaire, Paris 1955, ciclostilato, pp. 62.
G. Gurvitch, nell'intento di ridurre quanto più possibile l'eredità hegeliana di Marx, ha dato un'interpretazione delle origini del pensiero marxista che pone l'accento sul saintsimonismo di Marx. G. Gurvitch dimostra, a mio giudizio in modo convincente, le influenze saintsimoniane che si sono fatte sentire sul pensiero del giovane Marx: “Marx deriva in linea diretta da Saint-Simon e dal saintsimonismo: da Hegel prende solo la terminologia, poiché l'hegelismo di sinistra altro non è che l'influenza saintsimoniana, talvolta apertamente dichiarata, su determinati hegeliani. Proudhon, da parte sua, prende moltissimo da SaintSimon, ma è un saintsimoniano ribelle, che sottopone il saintsimonismo a una critica stringente. Tuttavia, fu lui che, nel contempo, democratizzando il saintsimonismo e riallacciandolo al movimento operaio, ha spinto Marx verso un più profondo legame col saintsimonismo, un saintsimonismo proudhonizzato, che è stato la principale fonte di Marx, non soltanto agli inizi, ma lungo tutto il suo itinerario intellettuale”. (Corso citato su Saint-Simon, pp. 7-8.) Più avanti, dopo aver citato alcune frasi di Saint-Simon, del tipo: “La scienza della libertà ha i suoi fatti e le sue generalità come tutte le altre... Se vogliamo essere liberi, creiamo noi stessi la nostra libertà e non attendiamola da altra parte”, G. Gurvitch scrive ancora: “Alcuni testi giovanili di Marx, in particolare la quarta tesi su Feuerbach, hanno portato alcuni marxisti a parlare della sociologia di Marx come di una filosofia della libertà o di una scienza della libertà. E'la posizione di Henri Lefebvre, che attribuisce a Hegel, il filosofo più fatalista che si conosca, l'origine di questo aspetto del pensiero di Marx. In realtà, è del tutto evidente che, per quel tanto che si può trovare in Marx una scienza di libertà, essa deriva direttamente da Saint-Simon”. (Ibid., p. 25.)
Io non metto in dubbio che Marx abbia potuto, nel suo ambiente, conoscere le idee del saintsimoniani, per la semplice ragione che esse circolavano nell'Europa della giovinezza di Marx e si ritrovavano, sotto una forma o sotto l'altra, un po' dovunque, particolarmente nella stampa. Come oggi si trovano nel giornali le teorie sullo sviluppo e il sottosviluppo.
Ma, se Marx ha conosciuto le idee saintsimoniane, non ha potuto prendere da esse quello che è, ai miei occhi, l'anima della sua sociologia.
Marx nel saintsimonismo ha trovato l'opposizione tra due tipi di società, le società militari e quelle industriali, e le idee dell'applicazione della scienza all'industria, del rinnovamento dei metodi di produzione, della trasformazione del mondo grazie all'industria. Ma il nucleo centrale del pensiero marxista non è una concezione saintstmoniana o comtlana della società industriale; è invece il carattere contraddittorio della società industriale-capitalistica. Ma l'idea delle contraddizioni intrinseche del capitalismo non è Inclusa nell'eredità saintsimoniana o comtiana. Saint-Simon e Auguste Comte hanno in comune il primato dell'idea di organizzazione su quella dei conflitti sociali. Nessuno dei due credeva che i conflitti sociali fossero la molla principale dei movimenti storici, nessuno del due pensava che la società del loro tempo fosse dilaniata da contraddizioni insolubili.
Poiché ai miei occhi il centro del pensiero marxista sta nel carattere contraddittorio della società capitalistica e nel carattere essenziale della lotta di classe, mi rifiuto di vedere nel pensiero saintsimoniano uno degli influssi più importanti nella formazione del pensiero dl Marx.
Su questo problema del rapporti tra Marx e Saint-Simon si veda anche l'articolo di Airné Pain, Saint-Simon et Marx, in “Le Contrat Social”, gennaio 1961, vol V, n, 1.
17 Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, Firenze 1960, 2 voll.; Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, trad. It, di B. Croce, HI ed., Laterza, Bari 1951, 3 voll.
La Fenomenologia dello spirito è del 1807; l'Enciclopedia delle scienze filosofiche, quando Hegel era ancora vivente, ha avuto tre edizioni: 1817, 1827, 1830.
18 Grundlinien der Phhlosophie des Rechts (trad. It., Lineamenti dl filosofia del diritto, Laterza, Bari 1913), fu pubblicata da Hegel nel 1821 a Berlino. Quest'opera non è altro che una parte, più sviluppata, dell'Enciclopedia.
19. Esistono due testi che contengono una critica della Filosofia del diritto di Hegel: il primo è la Kritik des hegelschen Rechtsphilosophie-Einleitung (trad. it., Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, in Opere filosofiche giovanili, Ed. Riuniti, Roma 1963). Questo breve testo è conosciuto da molto tempo perché fu pubblicato da Marx nel 1844 a Parigi nel giornale che egli dirigeva con A. Ruge: “Deutsch-franzosische Jahrbùcher” o “Annali franco-tedeschi”.
Il secondo testo è la Kritik des hegelschen Staatrechts, d. l. Hegels Rechtsphilosophie (trad. It., v. Opere filosofiche giovanili, Ed. Riuniti, Roma 1963). Questo testo, molto più lungo, comporta una critica Interlineare di una frazione della Filosofia del diritto di Hegel, pubblicata soltanto negli anni '30 da D. Rjazanovv per conto dell'istituto Marx-Engels a Mosca, e da Landschut e Meyer a Lipsia.
Su questo punto si veda lo studio di J, Hyppolite, La conception hégélienne de I'Etat et sa critique par K. Marx, in Etudes sur Marx et Hegel, M. Rivière, Paris 1955, pp. 120.141 (trad. it., La concezione hegeliana dello Stato e la critica di Marx, in Saggi su Marx e Hegel, Bomplani, Milano 1963, pp. 127-152.)
20 Alcuni testi idilliaci di Marx tratteggiano anche una società futura in cui gli uomini andrebbero a pesca al mattino, all'officina durante il giorno, per ritirarsi la sera a coltivare lo spirito. Non è una rappresentazione assurda: ho conosciuto dei lavoratori di klbbuz, in Israele, che effettivamente la sera leggevano le opere di Platone. Ma è un caso eccezionale, almeno sino a oggi.
Nell'ideologia tedesca, Marx scrive: “Dal momento che il lavoro comincia a essere diviso, ciascuno ha una sfera di attività determinata ed esclusiva che gli viene imposta e dalla quale non può sfuggire: è cacciatore, pescatore, o critico, e tale deve restare se non vuole perdere I mezzi per vivere; laddove nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva, ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell'altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico...”. E così abolito “questo fissarsi dell'attività sociale, questo consolidamento del nostro proprio prodotto in un potere obiettivo che ci sovrasta, che cresce fino a sfuggire al nostro controllo, che contraddice le nostre aspettative, che annienta i nostri calcoli...”. (L'ideologia tedesca, Ed. Riuniti, Roma 1958, p. 29.)
21 Oekonomisch-philosophische Manusktipte (trad. it., Manoscritti economici-filosofici, in opere filosofiche giovanili, Ed. Riuniti, Roma 1963). Questi testi scritti da Marx a Parigi nel 1844 sono rimasti inediti sino al 1932 quando furono pubblicati da D. Rjazanov nell'edizione MEGA I e da S. Landschut e J.P. Meyer nei due volumi di scritti di Marx e intitolati Der historische Materialismus (A. Krdner, Leipzig).
22 In Hegel, i tre termini tradotti con alienazione sono Veräusserung, Entausserung e, talvolta, Entfremdung. Per Hegel, l'alienazione è il momento dialettico della differenza, della scissione tra il soggetto e la sostanza. L'alienazione è un processo di arricchimento ed è necessario che la coscienza passi per molteplici alienazioni per arricchirsi delle determinazioni che, alla fine, la costituiranno come totalità. All'inizio del capitolo sul sapere assoluto, Hegel scrive: “L'alienazione dell'autocoscienza, proprio lei, pone la cosalità, onde quest'alienazione ha significato non solo negativo, ma anche positivo, e ciò non solo per noi o in sé, ma anche per l'autocoscienza stessa. Per essa il negativo dell'oggetto o l'autosoppressione di quest'ultimo ha un significato positivo, ovvero essa sa quella nullità dell'oggetto, perché da una parte, essa aliena se stessa: Infatti in questa alienazione pone sé come oggetto o, in forza dell'inscindlbile unità dell'essere-per-sé, pone l'oggetto come se stessa. E, d'altra parte, In questo atto è contenuto l'altro momento, cioè quello in cui essa ha anche tolto e ripreso In se stessa quell'alienazione e oggettività, trovandosi dunque nel suo alter ego come in se stessa. Questo è il movimento della coscienza la quale, in tal movimento, è la totalità del propri momenti. Similmente la coscienza deve aver stabilito una relazione all'oggetto secondo la totalità delle sue determinazioni e così deve averlo attinto secondo ciascuna di esse”. (Fenomenologia dello spirito, II ed., vol. Ii, La Nuova Italia, Firenze 1960, pp. 287-288.)
Marx dà dell'alienazione un'altra interpretazione, perché “In un certo senso la totalità è già data, fin dall'inizio”. (J.-Y. Calvez, La Pensée de Karl Marx, Ed. du Seuil, Paris 1956; trad. it., Il pensiero di Carlo Marx, Borla, Torino 1966.) Secondo Marx, Hegel avrebbe confuso l'oggettivazione, cioè l'esteriorizzazione dell'uomo nella natura e nel mondo sociale, con l'alienazione. Come scrive J. Hyppolite commentando Marx: “L'alienazione non è l'oggettivazione. L'oggettivazione è naturale. Essa non è per la coscienza un modo di estraniarsi da sé, ma di esprimersi naturalmente”. (Logique et existence, PUF, Paris 1953, p. 236.) Marx si esprime in questi termini: “L'ente oggettivo agisce oggettivamente, e non potrebbe agire oggettivamente se l'oggettivo non fosse sua determinazione sostanziale. Esso non crea, pone soltanto oggetti, perché è posto da oggetti, perché è intrinsecamente natura”. (Manoscritti del 1844, in Opere filosofiche giovanili, Editori Riuniti, Roma 1963, p. 301.)
Questa distinzione, che si fonda su un “naturalismo conseguente” per il quale “l'uomo è immediatamente ente naturale” (ibid., p. 302), permette a Marx di ritenere del concetto dl alienazione e delle successive determinazioni della coscienza, così come sono esposte nella Fenomenologia dello spirito, soltanto l'aspetto critico. “La Fenomenologia è quindi la critica nascosta, ancora non chiara a se stessa e mistificatrice; ma in quanto tiene ferma l'alienazione umana, anche se l'uomo appaia soltanto nella figura dello spirito; si trovano in essa nascosti tutti gli elementi della critica, e spesso preparati e elaborati In guisa che sorpassa di molto Il punto di vista hegeliano.” (Ibid., p. 297.)
Per un commentatore di Hegel come J. Hyppolite, questa differenza radicale tra Hegel e Marx nel modo di concepire l'alienazione trova la sua origine nel fatto che, mentre Marx parte dall'uomo come ente della natura, cioè da una positività che non è in sé una negazione, Hegel “ha scoperto questa dimensione della pura soggettività che è il nulla”. (Op. cit., p. 239.) in Hegel, “nel cominciamento dialettico della storia, v'è Il desiderio senza limiti, del riconoscersi, ii desiderio del desiderio dell'altro, una potenza Inesauribile perché senza positlvltà prima” (p. 241).
23 Questa ambiguità nel Pensiero di Marx fu messa In luce particolarmente da Kostas Papaioannou, La fondation du marxisme, in “Le Contrat social”, n. 6, novembre-dicembre 1961, VOL V; L'homme total de Karl Marx, in «Preuves”, n. 149, luglio 1963; Marx et la critique de l'alienation, in “Preuves”, novembre 1964.
Per Kostas Papaioannou esisterebbe una radicale opposizione tra la filosofia del giovane Marx, quale si esprime, per esempio, nel Manoscritti dei 1844 e la filosofia della maturità come si mostra, per esempio, nel libro III del Capitale. A un pietismo produttivistico che farebbe del lavoro l'essenza esclusiva dell'uomo e della partecipazione non allenata all'attività produttiva il vero fine dell'esistenza, Marx avrebbe sostituito una saggezza molto classica, secondo la quale lo sviluppo umano “che solo possiede il valore di un fine in sé ed è Il vero regno della libertà” Incomincerebbe “oltre il regno della necessità”.
24 Questa visione oggettiva, d'altronde, può essere considerata, secondo gli osservatori, come favorevole o sfavorevole alla pace. Gli uni dicono: finché I dirigenti sovietici saranno convinti della morte necessaria del capitalismo, il mondo vivrà in un'atmosfera di crisi. Ms, al contrario, si può dire, con un sociologo inglese: finché i sovietici crederanno alla loro filosofia, non capiranno né la loro società, né la nostra; sicuri del loro trionfo necessario, ci lasceranno vivere in pace. Voglia il cielo che essi continuino a credere alla loro filosofia.
25 Cfr. Jean-Paul Sartre, Les communistes et la paix, in “Temps modernes”, nn. 81, 84-85 e 101, ristampato in Situations IV, Gallimard, Paris 1965 (trad. it., I comunisti e la pace, in Il filosofo e la politica, Editori Riuniti, Roma 1965); si vedano anche Situations VII, Gallimard, Paris 1965, e Critique de la raison dialect ique, Gallimard, Paris 1960 (trad. it., Critica della ragione dialettica, Il Saggiatore, Milano 1963, 2 voli.); Maurice Merleau-Ponty, Sens et non-sens, Nagel, Paris 1948 (trad. it., Senso e non senso, Il Saggiatore, Milano 1962); Humanisme et terreur, Gallimard, Paris 1947; Les Adventures de la dialectique, Gallimard, Paris 1953 (trad. It., Umanesimo e terrore e Le avventure della dialettica, Sugar, Milano 1965).
26 Sull'interpretazione kantiana del marxismo si veda: Max Adler: Marxistische Probleme -Marxismus und Ethik, 1913; Karl Vorlander Kant und Marx, II ed., 1926; Franz Mehring, Karl Marx Geschichte seines Lebens, Leipzig 1918 (trad. It., Vita di Marx, Ed. Rinascita, Roma 1953).
27 L. Goldmann, Recherches dialectiques, Gailimard, Paris 1959.
28 Il titolo tedesco dell'opera di Engels è Herrn Eugen Duhring's Umwälzung der Wissenschaft (trad. It., Antiduhripig, Ed. Rinascita, Roma 1956, iv ed.). L'opera fu prima pubblicata sul “Vorwarts” e sul “Volksstaat” nel 1877-78.
Si deve notare che l'Antiduhring è stato pubblicato quando Marx era ancora vivo e che Marx ha aiutato l'amico, quando lo redigeva, inviandogli note su diversi punti della storia del pensiero economico, note che saranno parzialmente riprese da Engels nel testo definitivo.
29 Lenin, Materialismo e empiriocriticismo. Note critiche su una filosofia reazionaria, Ed. Rinascita, Roma 1953. Lenin in quest'opera espone un materialismo e un realismo radicali:
“Il mondo materiale colto con i sensi, al quale noi stessi apparteniamo, è la sola realtà... la nostra coscienza e Il nostro pensiero, per quanto sovrasensibili possano sembrare, sono soltanto i prodotti dl un organo materiale e corporeo: II cervello. La materia non è un prodotto dello spirito; ma lo spirito, lui sì, non è che un prodotto superiore della materia”. O ancora: “Le leggi generali del movimento tanto del mondo quanto del pensiero umano sono sostanzialmente identiche, ma diverse nella loro espressione, nel senso che il cervello umano può applicarle consapevolmente mentre nella natura si aprono la via inconsapevolmente sotto forma di necessità esterna, attraverso una successione infinita dl cose apparentemente fortuite”. Questo libro doveva diventare la base del marxismo sovietico ortodosso. In una lettera a Gorkjj del 24 marzo 1908, Lenin aveva reclamato il diritto, come “uomo di partito”, di prendere posizione contro le “dottrine pericolose”, proponendo al suo corrispondente un “patto dl neutralità nei confronti dell'empiriocrlticismo” che non giustificava, diceva, “una lotta frazionista”.
30 L'ateismo, invece, è legato all'essenza del marxismo di Marx. Si può essere credenti e socialisti. ma non credenti e seguaci del marxismo-leninismo.
31 Nella prefazione a Per la critica dell'economia politica, Marx scrive: “I rapporti giuridici e le forme dello stato non possono essere compresi n per se stessi, n per la cosiddetta evoluzione generale dello spirito umano, ma hanno le loro radici nei rapporti materiali dell'esistenza...”. (Per la critica dell'economia politica, Ed. Riuniti, in ed., Roma 1971, p. 4.) E più avanti: “L'insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale su cui si eleva una sovrastruttura giuridica e politica”. O ancora: “Le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le forme ideologiche che permettono di concepire questo conflitto e di combatterlo”. (ibid, p. 5.) Uno dei capitoli dell'ideologia tedesca è intitolato: “Rapporti dello stato e del diritto con la proprietà”. Generalmente, per Marx, stato e diritto derivano dalle condizioni materiali di vita dei popoli e sono l'espressione della volontà dominante della classe che detiene Il potere nello stato.
32 Ecco il testo più significativo di Marx, Il Capitale, l. III, t. II, pp. 518 e 520-521: “Formazione di società per azioni. Donde: 1. Un ampliamento enorme della scala di produzione e delle imprese quale non sarebbe stato possibile con capitali individuali. Al tempo stesso tali imprese, che precedentemente erano governative, divengono ora sociali. 2. Il Capitale, che si fonda per se stesso su un modo di produzione sociale e presuppone una concentrazione sociale dei mezzi di produzione e delle forze-lavoro, acquista qui direttamente la forma di capitale sociale (capitale di individui direttamente associati) contrapposto al capitale privato, e le sue imprese si presentano come imprese sociali contrapposte alle imprese private. E' la soppressione del capitale come proprietà privata nell'ambito dei modo di produzione capitalistico stesso. 3. Trasformazione del capitalista realmente operante in semplice dirigente, amministratore dl capitale altrui, e dei proprietari di capitale in puri e semplici proprietari, puri e semplici capitalisti monetari.. Questo significa la soppressione del modo di produzione capitalistico nell'ambito dello stesso modo di produzione capitalistico, quindi è una contraddizione che si distrugge da se stessa, che prima facie si presenta come semplice momento di transizione verso una nuova forma di produzione. Essa si presenta poi come tale anche all'apparenza. In certe sfere stabilisce il monopolio e richiede quindi l'intervento dello stato. Ricostituisce una nuova aristocrazia finanziaria, una nuova categoria dl parassiti nella forma dl escogitatori di progetti, di fondatori e di direttori che sono tali semplicemente di nome; tutto un sistema di frodi e di imbrogli che ha per oggetto la fondazione di società, l'emissione e il commercio di azioni. E' produzione privata senza il controllo della proprietà privata”. In Marx, it critico, persino il libellista, non è mai troppo discosto dall'analisi dell'economista e dei sociologo.
33 Il Capitale, L. III, cap. LII, p. 1003. Marx prosegue: “Senza dubbio è in Inghilterra che la società moderna nella sua struttura economica ha raggiunto ti suo sviluppo più ampio e più classico. Tuttavia la stratificazione delle classi non appare lì nella sua forma pura. Fasi medie e di transizione cancellano anche qui tutte le linee di demarcazione (nella campagna tuttavia in grado molto minore che nelle città). Ma per la nostra analisi ciò è irrilevante. Abbiamo visto che la tendenza costante e la legge di sviluppo del modo di produzione capitalistico è di separare in grado sempre maggiore I mezzi di produzione dal lavoro e di concentrare progressivamente in larghi gruppi i mezzi di produzione dispersi, trasformando con ciò il lavoro in lavoro salariato e i mezzi di produzione in capitale. E a questa tendenza corrisponde, d'altro lato, la separazione autonoma della proprietà fondiaria dal capitale e del lavoro, o la trasformazione di tutta la proprietà fondiaria nella forma di proprietà fondiaria corrispondente al modo di produzione capitalistico.
La prima domanda a cui si deve rispondere è la seguente: che cosa costituisce una classe? La risposta risulterà automaticamente da quella data all'altra domanda: che cosa fa sì che gli operai salariati, i capitalisti e i proprietari fondiari formino le tre grandi classi sociali? A prima vista può sembrare che ciò sia dovuto all'identità del loro redditi e delle loro fonti di reddito. Sono tre grandi gruppi sociali, I cui componenti, gli individui che li formano, vivono rispettivamente di salario, di profitto e di rendita fondiaria, della val,orlzzazione della loro forza-lavoro, del loro capitale e della loro proprietà fondiaria.
Tuttavia, da questo punto di vista, anche i medici, ad es., e gli Impiegati verrebbero a formare due classi, poiché essi appartengono a due distinti gruppi sociali, e i redditi dei membri di ognuno dl questi gruppi affluiscono da una stessa fonte. Lo stesso varrebbe per l'inflnito frazionamento di Interessi e di posizioni, creato dalla divisione sociale del lavoro fra gli operai, i capitalisti e i propretari fondiari. Questi ultimi, ad es., divisi in possessori di vigneti, possessori di terreni arativi, di foreste, di miniere, di riserve dl pesca.”
(Qui Il manoscritto si interrompe. [Friedrich Engels.])
34 Le lotte di classe in Francia (1848.1850). Scritta tra il gennaio e l'ottobre del 1850, quest'opera che non fu pubblicata in volume e con questo titolo se non nel 1895, è costituita per la maggior parte di una serie di articoli apparsi nei primi quattro numeri della “Neue Rheinlsche Zeitung”, rivista economica e politica la cui pubblicazione incominciò a Londra ai primi di marzo del 1850. Per una traduzione italiana si veda Le lotte di classe in Francia (1848.1850), Ed. Rinascita, Roma 1950, da cui sono tratte le citazioni.
Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, scritto tra il dicembre 1851 e il marzo 1852, fu pubblicato per la prima volta a New York il 20 maggio 1852 da Weydemeyer. Ripubblicato a cura di Engela nel 1885, fu tradotto in francese per la prima volta nel 1891 e pubblicato a Lilla. Per una traduzione italiana si veda K. Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, Ed, Riuniti, Roma 1964, da cui sono tratte le citazioni.
35 Marx scrive nel libro I del Capitale: “Come fanatico della valorizzazione del valore egli costringe senza scrupoli l'umanità alla produzione per la produzione, spingendo quindi a uno sviluppo delle forze produttive sociali e alla creazione dl condizioni materiali di produzione che sole possono costituire la base reale di una forma superiore di società il cui principio fondamentale sia lo sviluppo pieno e libero di ogni individuo. Il capitalista è rispettabile solo come personificazione del capitale; in tale qualità condivide l'istinto assoluto per l'arricchimento proprio del tesaurizzatore. Ma ciò che in costui si presenta come mania individuale, nel capitalista è effetto del meccanismo sociale, all'interno del quale egli non è altro che una ruota dell'ingranaggio. Oltre a ciò, lo sviluppo della produzione capitalistica rende necessario un aumento continuo del capitale investito in un'impresa industriale, e la concorrenza impone a ogni capitalista individuale le leggi immanenti del modo di produzione capitalistico come leggi coercitive esterne. Lo costringe a espandere continuamente il suo capitale per mantenerlo, ed egli lo può espandere soltanto per mezzo dell'accumulazione progressiva”. (Il Capitale, L. I, p. 648.) Oancora: “Dunque, risparmiate, risparmiate, cioè convertite in capitale la maggior parte possibile del plusvalore o plusprodOtto! Accumulazione per accumulazione, produzione per produzione, in questa formula l'economia classica ha espresso la missione storica del periodo dei borghesi. Non si è illusa neppure un istante sulle doglie che accompagnano il parto della ricchezza, ma a che lamentarsi di ciò che è necessità storica? C vero che per l'economia classica il proletariato conta solo come macchina per la produzione di plusvalore, ma anche il capitalista conta per essa solo come macchina per la conversione di questo plusvalore in pluscapitale”. (Ibid., p. 651.)
36 La frase di Marx è la seguente: “Tra la società capitalistica e la società comunista vi è il periodo della trasformazione rivoluzionaria dell'una nell'altra. A esso corrisponde anche un periodo politico di transizione, il cui stato non può essere altro che la dittatura rivoluzionaria del proletariato”. (K. Marx, Critica del programma di Gotha, in K. Marx- F. Engels, Il partito e l'internazionale, Ed. Rinascita, Roma 1948, p. 240.) Marx usa questa espressione anche nella lettera a Joseph Weydemeyer (5 marzo 1852) citata nella nota 14, e troviamo già l'idea, se non la parola, nel Manifesto del partito comunista: "Il proletariato si servirà della sua supremazia politica per strappare alla borghesia, a poco a poco, tutto il capitale, per accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello stato, cioè del proletariato stesso organizzato come classe dominante, e per aumentare, con la massima rapidità possibile, la massa delle forze produttive". (Trad. it. cit., p. 114.)
Sulla frequenza dell'impiego del termine dittatura del proletariato a opera di Marx ed Engels, si veda Karl Draper, Marx and the Dictatorship of the Proletariat, "Cahiers de l'ISEA”, serie S, n. 6, novembre 1962
37 Questa svalutazione della sfera dell'attività politica, ridotta all' economia, Marx la condivideva con Saint-Simom e i liberali manchesteriani. Saint-Simon aveva scritto nell'Organisateur (Vol. IV, pp. 197-198): “In una società organizzata in vista dello scopo positivo di lavorare per la sua prosperità con le scienze, le belle arti e le arti e i mestieri”, in opposizione dunque alle società militari e teologiche “l'atto più importante, quello che sta nel fissare la direzione nella quale la società deve muoversi, non appartiene più agli uomini investiti di funzioni di governo, ma è esercitato dallo stesso corpo sociale. Di più, lo scopo e l'oggetto di una tale organizzazione sono così evidenti, così determinanti, che non v'è più posto per l'arbitrio degli uomini, e neppure per quello delle leggi. In un simile ordine di cose, i cittadini incaricati delle diverse funzioni sociali, anche le più elevate, non assolvono, da un certo punto di vista, che compili subalterni perché la loro funzione, per quanto importante, non consiste che nel muoversi in una direzione che non è stata fissata da loro. L'azione del governo allora è nulla, o quasi nulla In quanto azione di comando.” (Testo citato da G. Gurvitch. nel Cours sur les fondateurs de la sociologicecontemporaine “Saint-Simon, p. 29.) Sul pensiero politico di Marx si veda Maximilien Rubel, Le concept d démocraije chez Marx, in Le Contrat social ', luglio-agosto 1962; Kostas Papaioannou, Marx et l'Etat modern, in Le Contrat social”, luglio 1960.
38 Georg Lukécs, Geschichie und Klassenbewusstseifl, Berlin 1932 (trad. it., Storia e coscienza di classe, Sugar, Milano 1967.
39 Per un'analisi più particolareggiata cfr. il mio studio: L'impact du niarxisme au XX' siècle, Bollettino SEDEIS, “Etudes”, n. 906, 1 gennaio 1965.