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La Farina, Giuseppe.
Uomo politico e storico (Messina 1815 - Torino 1863). Repubblicano,
prese parte, in Sicilia, ai moti del 1837 e alla rivoluzione del
1848. Esule in Francia e poi a Torino, aderì (1856) alla
monarchia e fu collaboratore di Cavour. Inviato (1860) in Sicilia
per promuoverne l'annessione al Piemonte, fu espulso da Garibaldi.
Deputato dal 1960.
Vita e attivitàDopo iniziali tentativi letterarî
(diresse lo Spettatore Zancleo), il suo atteggiamento favorevole ai
moti del 1837 lo costrinse a esulare in Toscana, dove tornò
nel 1841. Proseguendo i suoi studî storici, pubblicò
allora l'Italia nei suoi monumenti, ricordanze e costumi (1842);
Studi storici sul sec. XIII (1842); e una grande Storia d'Italia
narrata al popolo italiano (1846-54), d'intonazione neoghibellina.
Nel 1847 diresse a Firenze il giornale L'Alba, che fu tra i primi a
tendenza democratico-sociale, e si recò poi in Sicilia allo
scoppio della rivoluzione (1848). Eletto deputato alla camera dei
Comuni, fece parte della missione incaricata di offrire la corona di
Sicilia al duca di Genova; fu quindi ministro dell'Istruzione e,
dopo la caduta di Messina, della Guerra, spiegando in questo ultimo
incarico una febbrile attività. Dopo la rivoluzione,
esulò in Francia, dove scrisse una Istoria documentata della
rivoluzione siciliana (1850-51) e una Storia d'Italia dal 1815 al
1850 (1851-52). Tornato in Italia, fondò a Torino la Rivista
contemporanea e scrisse un romanzo storico (Gli Albigesi, 1855). Di
formazione repubblicana, La F. nel 1856 aderì alla monarchia,
divenendo fidato collaboratore di Cavour, la cui politica
appoggiò efficacemente presso l'opinione pubblica con la
Società nazionale (fondata appunto nel 1856). Superata la
crisi determinata dalle dimissioni di Cavour dopo Villafranca, La F.
riorganizzò la Società nazionale scioltasi nel 1859, e
nel 1860 si recò in Sicilia, con l'incarico di affrettarne
l'annessione al Piemonte: ma Garibaldi, deciso a conservare la sua
autonomia fino al compimento dell'impresa, lo espulse
clamorosamente. Tornò in Sicilia qualche mese dopo, ma la
violenta ostilità delle frazioni autonomista e repubblicana
lo costrinse di nuovo a lasciare l'isola. Deputato dal 1860,
passò all'opposizione dopo la morte di Cavour.
*
DBI
di Antonino Checco
LA FARINA, Giuseppe.
Nacque a Messina il 20 luglio 1815 da Carmelo e da Anna Muratori.
Sulla sua formazione esercitarono un peso fondamentale la temperie
politico-culturale cittadina, da tempo sorda all'indirizzo
separatista e più di recente apertasi alla predicazione
unitaria mazziniana, e l'influenza del padre, professore di
aritmetica e geometria nel collegio Carolino, che nel 1828 era stato
arrestato per la sua appartenenza alle sette e tradotto a Favignana
insieme con il figlio tredicenne.
Nel 1832 il L. cominciò a frequentare i corsi di diritto,
disciplina in cui, senza mai appassionarsi, si laureò nel
1835 a Catania; lo interessavano piuttosto gli studi letterari che
gli consentirono di entrare in rapporti più stretti con quel
nucleo cospicuo d'intellettuali e scrittori che, in contatto con
Napoli e con i nuclei studenteschi calabresi, avevano trovato nel
movimento romantico la via di un possibile rinnovamento politico.
Dal 1833 il L. esordì come pubblicista, prima collaborando a
Lo Spettatore zancleo - intorno al quale si raccolsero C. Gemelli,
G. Morelli, R. Mitchell, F. Bisazza, e G. Saccano - poi, dal 1835,
scrivendo articoli, recensioni e rassegne di vario genere in un
altro periodico, Il Faro, e pubblicando in particolare un Elogio del
cavaliere Vincenzo Bellini (Messina 1836), già letto in una
seduta dell'Accademia Peloritana (26 nov. 1835) in occasione della
morte del compositore.
Di questa esperienza romantica del L. restano però
soprattutto gli studi di dantistica, svolti nell'alveo
dell'interpretazione laica e ghibellina, l'adesione, mediata dalla
lettura delle opere di G. Romagnosi, alla categoria interpretativa
dell'incivilimento e l'ammirazione per S. Pellico. Proprio la
ricezione da parte del L. di spunti presenti nelle Mie prigioni e
nelle successive Addizioni di P. Maroncelli attesta quanto egli si
fosse inserito nei circuiti cittadini inclini a elaborare progetti
politici di segno cospirativo.
A metà degli anni Trenta il L. entrò nell'appena
costituito Comitato democratico avendo a fianco tra gli altri
Gemelli, Morelli, G. Grano, esponente di una ricca famiglia di
mercanti messinesi e tra i primi referenti di Mazzini in Sicilia, A.
Catania, ricco mercante maltese, e il medico E. Pancaldo.
Arrestato insieme con il padre e il fratello Silvestro per avere
diffuso una pubblicazione clandestina contro la polizia (1836), alla
stretta repressiva che colpì la Sicilia il L. rispose
rappresentando la sua città nella riunione di tutte le
società segrete siciliane convocata a Palermo e prendendo poi
parte al moto popolare che, facendo leva sulla epidemia del colera e
sull'aumento di prezzo dei generi alimentari, a metà 1837 si
andò sviluppando nelle città della Sicilia orientale.
Fu allora denunciato da una spia e messo nella impossibilità
di svolgere qualunque tipo di attività persino di tipo
letterario o genericamente culturale, cosa che lo indusse a lasciare
Messina e a portarsi, insieme con la moglie Luisa Di Francia, in
Toscana, dove giunse il 29 agosto (Livorno) per poi passare a
Firenze (12 settembre).
La città ("la divina Firenze dei caffè e dei circoli")
gli aprì molte possibilità di crescita culturale: si
abbonò al gabinetto di lettura di G.P. Vieusseux; conobbe
vari intellettuali, tra cui G.B. Niccolini; visitò le
biblioteche; commissionò le copie dei ritratti dei pittori
messinesi richiestegli dal padre; approfondì progetti di
nuovi commenti alla Commedia e prese visione dei manoscritti
dell'Alfieri; partecipò alla preparazione del congresso degli
scienziati italiani in un contesto cui non era estraneo l'intento
politico e cospirativo. Poi, con la stessa curiosità,
visitò Roma e, accolto nell'atelier di scultura di Pietro
Tenerani (1776-1869), ne ottenne un ritratto in bassorilievo.
Di questo suo primo esilio, oltre alla testimonianza contenuta nel
primo volume dell'Epistolario curato da Ausonio Franchi, altre
più dettagliate notizie si trovano nei suoi Ricordi della
Toscana e di Roma (in Il Faro, 1838, n. 16, pp. 180-235); allo
stesso periodo risale lo scritto Sulla vera effigie di Gesù
Cristo, inviato alla Accademia Peloritana e letto in sua assenza
nella seduta del 24 marzo 1838 (poi in Memorie storiche e letterarie
della R. Acc. Peloritana, a cura di G. Oliva, Messina 1884, pp. 106
ss.).
Rientrato a Messina sul finire del marzo 1838, il L., usando come
copertura l'attività di avvocato, entrò nel
ricostituito Comitato democratico che aveva come referente nel
comitato centrale di Napoli il medico messinese G. Raffaele.
Interlocutore assai attivo del comitato era, da Malta, N. Fabrizi,
che nel 1839 aveva fondato la Legione italica appunto per
rilanciare, dopo gli insuccessi mazziniani del 1833-34, l'iniziativa
rivoluzionaria facendo leva sulla Sicilia.
Parallelamente al lavorio clandestino, il L. portava avanti anche
quello culturale e velatamente propagandistico. Chiusi nel dicembre
1835 lo Spettatore zancleo e nel giugno 1838 Il Faro, nell'ottobre
1839 fondò, insieme con F. Bisazza e D. Ventimiglia, La
Sentinella del Peloro; quasi coeva fu la nascita della
Società del gabinetto letterario modellata sull'analoga
iniziativa del Vieusseux e presto affiancata dall'edizione di un
foglio, denominato Il Maurolico, e più tardi Giornale del
Gabinetto letterario, che annoverava tra i collaboratori M. d'Ayala,
S. Chindemi, V. Capialbi e L. Vigo. Ma lo stretto controllo cui vide
sottoposto il proprio lavoro giornalistico costrinse nel 1841 il L.
a tornare nell'esilio fiorentino.
Infatti, mentre negli anni 1839-41 le sue recensioni e i suoi saggi
di storia dell'arte pubblicati nella Sentinella del Peloro non
incontrarono ostacoli, furono i lavori con riferimenti storici
locali che subirono gravi mutilazioni (Messina e i suoi monumenti,
Messina 1840) ovvero non furono autorizzati, come nel caso di un
dramma scritto per raccogliere fondi per la costruzione di un
piccolo monumento in memoria del matematico messinese A. Jaci.
Esclusi i lavori per "campare la vita", frutto della collaborazione
con il raffinato editore Bardi (L'Italia con i suoi monumenti e le
sue leggende, Firenze 1842; La Svizzera storica e artistica, I-VII,
ibid. 1842-43; La China considerata nella sua storia, ne' suoi riti,
ne' suoi costumi, nella sua industria, nelle sue arti, e ne'
più memorabili avvenimenti della guerra attuale, I-IV, ibid.
1843-47), l'attività culturale del L. in quegli anni
fiorentini si volse tutta, anche sotto il profilo dei suoi contatti
diretti ed epistolari, alla maturazione di un ruolo e di una scelta
più netti. Nel 1842 apparve lo studio su Dante e il suo tempo
(Studi storici sul secolo XIII, Firenze 1842; 2ª ed., Bastia
1857), prodotto maturo di ricerche e raccolte documentarie del primo
esilio fiorentino e romano, solo in parte precedentemente utilizzate
e ora sistemate all'interno dello studio del contesto politico e
culturale del secolo di mezzo. L'opera, tuttavia, risultava pensata
e collocata entro la chiave interpretativa laico-ghibellina e
risorgimentale, in chiara antitesi con la rievocazione neoguelfa del
Medioevo. Tale orientamento trovò conferma nel sostegno
convinto offerto dal L. a G.B. Niccolini (che gli aveva inviato
copia del suo Arnaldo da Brescia e che gli chiedeva cosa pensasse
delle aspre critiche rivoltegli da C. Balbo nelle Speranze
d'Italia). All'accusa di Balbo, secondo cui il Niccolini s'era
allontanato dalla scuola italiana dei Manzoni, Pellico, Rosmini,
Cantù e Gioberti, per abbracciare quella straniera, il L.
replicò che quest'ultima non era "ateistica" ma antipapale, e
che in ciò il Niccolini seguiva la scuola italiana di Dante,
Machiavelli, Giannone e Alfieri. Nel carteggio con lo storico M.
Amari, in esilio a Parigi dopo la stampa a Palermo del celebre
studio su Un periodo delle istorie siciliane del secolo XIII (poi
ristampato nel 1843 a Parigi con il titolo più esplicito La
guerra del vespro siciliano), il L., mentre gli esprimeva la propria
solidarietà, lo invitava a ristampare la sua opera a Firenze,
a collaborare all'Archivio storico del Vieusseux (collaborazione,
poi, effettivamente avviata nell'ottobre 1844) e lo informava di
avere in corso una Storia delle opinioni guelfe e ghibelline dalla
loro origine a noi (lavoro non pubblicato e poi inserito nella
Storia d'Italia narrata al popolo italiano, i cui primi volumi
furono stampati nel 1846).
Fu, tuttavia, con Matteo Palizzi. Dramma storico (Firenze 1845) - e,
soprattutto, con la Prefazione - che il L., in vista di possibili
mutamenti del contesto italiano e quasi riconsiderando la sua
stagione romantica, definì contenuti, forme e finalità
del suo rinnovato impegno di letterato e scrittore.
Da questo versante la Prefazione risulta essere documento
programmatico della finalità sociale del lavoro
intellettuale, così come dei generi e dei canoni letterari a
esso più consoni: l'"utile" inteso nel suo significato di
corretto coinvolgimento popolare e di suscitatore di passioni e di
eroi positivi; la "coscienza" quale emancipazione dal fatalismo,
dalla superstizione, dallo scetticismo, dal conflitto tra
autorità e libertà. Ne discendevano la predilezione
per il "teatro come scuola dei popoli, il romanzo popolare, le
narrazioni storiche, il giornalismo politico" e "l'assunzione, come
vincoli vitali della scrittura e misura del giudizio critico, dei
parametri dell'utilità e dell'interesse del popolo" (G.
Resta, G. L. scrittore, in G. L.Atti, 1989, p. 121).
Sullo sfondo dell'intensa produzione letteraria e del lavoro
intellettuale di quegli anni si precisava la sua scelta
dell'unitarismo, così come, in linea con le indicazioni
mazziniane, era netto il rifiuto sia del municipalismo sia del
neoguelfismo, che erano le soluzioni avanzate dalla pubblicistica
moderata di matrice giobertiana e azegliana.
Per il L., invece - come peraltro risulta dall'Epistolario - tutte
le vicende insurrezionali del 1843-45 stavano a dimostrare quanto
ogni progresso della condizione dell'Italia fosse indissolubilmente
legato alla conquista di nuovi e più liberi ordinamenti,
strappati attraverso una lotta aperta, visibile e tale da allargare
il numero dei cittadini consapevoli del suo valore e significato. Il
problema era fare emergere, fra le tante proposte, richieste di
riforma e aperture dei principi, l'opzione più valida, quella
unitaria.
Una frase del L., contenuta in una lettera a M. Amari, sintetizza
efficacemente la miscela di sentimenti contrapposti: "I balbiani
sono in gran lavori; ne sperate voi nulla? Io no. E pure chi
naufraga si attacca spesso anche a un ferro rovente" (Epistolario,
I, p. 290). Grande realismo dunque, ma anche consapevolezza del
prospettarsi di un punto di svolta. Alla legge sulla libertà
di stampa in Toscana si era accompagnata la fondazione e il successo
del suo foglio, L'Alba (14 giugno 1847), di orientamento liberale e
con collaboratori come E. Mayer, G. Mazzoni, F. Marmocchi, C.
Rusconi, P. Thouar, A. Vannucci, G.B. Niccolini. E mentre il
fallimento del moto di Reggio Calabria e Messina (1-2 sett. 1847) lo
spingeva a considerare con molto scetticismo le aspettative popolari
e politiche suscitate da Pio IX che giudicava, così come il
governo toscano, troppo legato all'Austria, L'Alba veniva
accentuando il suo orientamento radicaleggiante e laico; d'altronde
molte delle riforme reclamate nelle campagne di stampa del giornale
(per non parlare delle questioni del lavoro, che tanto interesse
avevano destato in Germania), esclusa l'istituzione della guardia
civica, non trovavano udienza presso il governo toscano, attento a
sedare ogni manifestazione di protesta popolare.
L'11 febbr. 1848 il L. si rimise in viaggio per tornare a Messina,
già in rivolta e ripetutamente bombardata dai Borboni. Al suo
arrivo fu nominato membro del Comitato di guerra e colonnello delle
truppe; con Gemelli partecipò ai lavori per l'apertura del
Parlamento e si batté invano per una soluzione monocamerale.
Eletto deputato nel collegio messinese, fece approvare dal
Parlamento un progetto di legge sul porto franco e sull'abolizione
del macinato e, dichiarati decaduti i Borboni per un decreto da lui
stesso dettato in quanto segretario della Camera dei comuni,
cercò di far rinviare la scelta della monarchia
costituzionale; poi, con E. Amari e il barone Pisani, prese parte
alla missione diplomatica per ottenere il riconoscimento politico
del nuovo assetto della Sicilia presso le corti di Roma, Toscana e
Piemonte. Caduto il ministero Stabile e composto quello di V.
Fardella marchese di Torrearsa, il L. fu chiamato al ministero
dell'Istruzione (agosto 1848), in una fase in cui l'esclusione dai
dicasteri di membri della Camera alta e la nomina di F. Cordova alle
Finanze avevano incrinato i rapporti tra i due rami del Parlamento;
e tutto ciò quando già si minacciava da parte di
Ferdinando II l'invio di truppe in Sicilia e si approssimavano le
prime sconfitte del Piemonte contro l'Austria.
All'ottimismo palermitano (si assumeva come cosa ormai accolta dal
Borbone lo sgombero della Cittadella, che invece continuava a
scaricare bombe sulla città) corrisposero l'eroica resistenza
di Messina alle truppe borboniche, la sua caduta insieme con quella
di Milazzo e la chiamata al ministero della Guerra (settembre 1848)
del L., accolta per senso del dovere ma nella consapevolezza
dell'assoluta scarsità di armi, munizioni, denaro e di alti
ufficiali in grado di assumere compiti di comando delle operazioni
militari; e quando si mise al lavoro, gli giunse da Palermo la
comunicazione dell'armistizio già concluso. Accusato in
Parlamento di imperizia nella conduzione delle cose militari, il L.
tentò di fare approvare dalle Camere un progetto di legge per
la formazione di un corpo di sicurezza interna che sostituisse la
guardia nazionale, che era stata creata dal rivoluzionario P. Calvi,
ministro degli Interni, ma che progressivamente si era imposta allo
stesso esecutivo: e però l'opposizione al progetto fu tanto
forte da costringere il Torrearsa e l'intero esecutivo a dimettersi,
quando peraltro dalla Toscana e da Roma giungevano notizie che
dovevano incoraggiare condotte più responsabili e unitarie.
La lotta interna si fece invece più feroce dando vita a
circoli e giornali di tendenze opposte, rivelatori della netta
contrapposizione tra chi auspicava la rottura armata della tregua e
credeva ancora nella possibilità di resistere e chi invece
era pronto, con la mediazione di Inghilterra e Francia, a cedere le
armi. Insieme con M. Raeli, F. Crispi, G. Natoli, P. Paternostro e
C. Papa, il L. costituì e si mise a capo di una legione
universitaria destinata a operare in appoggio alle truppe regolari;
ma, giunto a Misilmeri, gli fu comunicato di rientrare a Palermo e
di sciogliere la legione avendo le Camere accettato la resa. Caddero
nel vuoto tutti i tentativi suoi e di pochi altri deputati per
convincere il presidente R. Settimo a respingere la resa
incondizionata.
Su questi avvenimenti il L. sarebbe tornato con la Istoria
documentata della rivoluzione siciliana e delle sue relazioni co'
governi italiani e stranieri (1846-49), edita nel 1850 dalla
Tipografia Elvetica di Capolago, e anche nella corrispondenza
privata, per mettere l'accento sulle molte divisioni interne, sulle
persistenze indipendentiste presenti in parte dello schieramento
liberale, anche quando si era profilata la possibilità di una
federazione italiana di Stati, sull'azione dissolvente della
diplomazia straniera, soprattutto francese, e sul mutamento della
politica italiana dopo la seconda disfatta piemontese a Novara.
Tra gli ultimi a lasciare l'isola, il 22 apr. 1849 il L. si
imbarcò alla volta di Marsiglia e di lì, il 1°
giugno 1849, raggiunse Parigi. Non gli fu applicata l'amnistia del
restaurato regime borbonico; similmente, il padre e il fratello non
poterono riprendere le loro attività professionali e
d'insegnamento, per cui al dolore della sconfitta e dell'esilio si
sommarono le gravi condizioni economiche familiari. Ripresi
immediatamente i contatti con l'editore Guigoni, il L. si
gettò nel lavoro di redazione della Storia d'Italia dal 1815
al 1850 e nella stesura di una Storia della rivoluzione siciliana,
disponendo, a suo dire, di documenti di prima mano connessi alle
cariche da lui ricoperte e ai rapporti diplomatici fra la Sicilia e
gli altri Stati d'Italia. In effetti l'opera fu completata nel corso
dell'anno e pubblicata nel luglio del 1850, aggiungendosi
polemicamente alle altre (G. Pepe, G. La Masa) e dando la stura alle
ricostruzioni polemiche di altri protagonisti (G. Raffaele, P.
Calvi).
Nel 1851 apparvero a Torino i 6 volumi della Storia d'Italia dal
1815 al 1850 (che L. Zini avrebbe proseguito portandola fino al
1866): oltre a ribadirvi gli antichi convincimenti sul temporalismo
come più valido punto d'appoggio per la dominazione
straniera, il L. riaffermava la sua idea di libertà, come
essa prende via via corpo e si manifesta nella eterna lotta contro
il principio di autorità. Ma affioravano qua e là
nell'opera, sulla scorta del fallimento della rivoluzione siciliana,
riflessioni e dubbi sulla bontà dei metodi rivoluzionari e
sulla legittimazione dei gruppi dirigenti, e ne derivava la scelta
d'isolamento del L. a Parigi rispetto ai travagli e alle
difficoltà operative insorti nei rapporti tra Mazzini e gli
esuli italiani, costituitisi in Comitato democratico. Tra il L. e
Mazzini corse allora nei mesi di maggio-giugno 1851 un carteggio che
ruotava intorno a due grandi questioni: quella della più
produttiva organizzazione della rappresentanza degli esuli e della
composizione dei comitati; e quella, conseguente, delle basi
politico-dottrinarie dell'iniziativa, da cui dipendeva il tipo di
sbocco istituzionale della rivoluzione nazionale.
Comunque, sollecitato dallo stesso Mazzini, il L. non rifiutò
di collaborare alla costituzione del comitato parigino; si
professò repubblicano convinto ma si disse avverso
all'ipotesi di un governo insurrezionale concentrato nelle mani di
pochi uomini, avanzata da A. Saliceti sulla stampa e data per
accettata dal Comitato nazionale (con istruzioni segrete ai comitati
interni ai vari paesi), quando lo stesso Comitato sulla questione
aveva aperto una discussione che era ancora in atto. E che la
questione non fosse di metodo, ma politica, lo palesavano
l'esperienza dell'insorgenza del 12 genn. 1848 a Palermo e la
dannosa - a giudizio del L. - prevenzione e preclusione settaria
rispetto al rapido mutamento delle condizioni della lotta politica e
nei confronti di gruppi e personaggi di orientamento eterodosso.
Si trattava in sostanza per il L. di respingere la rigidità
dottrinaria e l'esclusivismo settario che avevano caratterizzato le
insurrezioni precedenti e che si erano rese inaccettabili dopo che
la questione nazionale era entrata nel novero delle grandi questioni
europee. Con la lettera a Mazzini del 3 giugno 1851 il L. lasciava
dunque scorgere il suo orientamento per il futuro: "Io sono qual era
pria del 48, qual fui nel 48 e 49, cioè unitario e
repubblicano. Non credo che oggi le due questioni si possan
dividere; ma in ogni caso io sono unitario innanzi tutto,
perché per me primo bisogno d'Italia è essere"
(Epistolario, I, p. 415); e pochi mesi dopo: "La repubblica è
per me il modo d'essere e l'unità l'essere; e se i fati ci
niegassero un'Italia repubblicana, sarebbe per me stoltezza non
volere un'Italia" (ibid., p. 417).
Sul piano privato seguì un periodo denso di dolori per
l'arresto del fratello Silvestro, per la condanna a ventiquattro
anni di galera di due suoi cognati e per la perdita del padre.
Spostatosi a Tours nel luglio 1853, trovò sostegno
nell'ospitalità di Ernesta Fumagalli Torti e nell'amicizia di
V. Gallina, mentre le lezioni private d'italiano lo aiutavano a
sopperire alle necessità economiche, aggravate dalla perdita
durante la rivoluzione delle rendite e dei risparmi. L'interruzione
degli studi non gli impedì tuttavia di scrivere il romanzo
storico Gli Albigesi che stamperà nel 1855 a Genova.
Durante il suo esilio in Francia (1849-54) oltre i lavori già
citati furono pubblicati: Un chapitre de l'histoire de la
révolution sicilienne de 1848-49. Campagne d'avril…, Paris
1850 (ed. it., Firenze 1850); Storia delle contenzioni fra la
podestà ecclesiastica e la civile dai tempi di Gregorio VII
ai nostri, Torino 1853.
Il 21 ag. 1854 il L. rientrò in Italia e si stabilì a
Torino. Si diede subito a preparare con l'editore Pomba un nuovo
periodico, la Rivista enciclopedica italiana, chiamando a
collaborare, fra gli altri, A. Vannucci e G. Montanelli.
Difficoltà finanziarie sopraggiunte provocarono la chiusura
della testata nel giugno 1856, non prima però che il L.
avesse pubblicato (cfr. vol. II, 1855, pp. 3-8) un importante
articolo, Della partecipazione del Piemonte alla guerra d'Oriente,
in cui erano rintuzzate le polemiche mazziniane; alla fine del
conflitto apparve anche un indirizzo di plauso a Cavour redatto
insieme con M. d'Ayala.
Parallelamente, partiva la sua propaganda filopiemontese diretta
agli esuli meridionali a Malta, a Genova e in Francia. Poi, con
l'adesione al progetto di D. Manin e G. Pallavicino, dal 1°
giugno 1856 il L. prese a fare uscire il Piccolo Corriere d'Italia,
mentre con l'opuscolo Murat e l'Unità italiana confutava
decisamente l'eventualità che ai problemi del Regno borbonico
si desse la soluzione murattiana, caldeggiata da gruppi di esuli
meridionali. Prese di qui l'avvio di rapporti politici molto stretti
con Cavour e di una strategia avente due obiettivi di fondo:
rafforzare la rete organizzativa della Società nazionale;
mantenere in vita, attraverso l'ascendente dello stesso L., i
contatti tra il governo piemontese e gli esponenti più in
vista della Sinistra democratica, onde affiancare alla via
diplomatica alcuni atti insurrezionali mirati.
I fatti di Lunigiana (25-26 luglio 1856), con il coinvolgimento di
esponenti moderati, la tolleranza sulla presenza clandestina di
Mazzini a Genova per preparare un moto insurrezionale nel
Mezzogiorno e in Sicilia nell'estate del 1857 (su cui peraltro
già dal 1855 lavorava lo stesso L.), la partecipazione di G.
Nicotera alla spedizione di Sapri in qualità di agente
cavouriano, testimoniano a sufficienza che, almeno sino
all'attentato di F. Orsini a Parigi (gennaio 1858), la strategia
cavouriana sembrò produrre effetti positivi. Quanto alla
rivoluzione antiborbonica, il L. sosteneva la necessità che
essa scoppiasse in Sicilia al grido di "Italia e Vittorio Emanuele"
e quindi con un indirizzo unitario, il solo che avrebbe consentito
l'adesione dei liberali napoletani e reso possibile il sostegno
militare di uno Stato militarmente organizzato per contrastare la
reazione dell'esercito borbonico.
Fondando la Società nazionale italiana (1857) e ottenendo
l'adesione di Garibaldi, il L., che della Società assunse la
segreteria, compì l'atto politico più qualificante in
vista di quell'insurrezione dell'Italia centrale che avrebbe
accompagnato la guerra contro l'Austria; non poté però
impedire che tra gli esponenti moderati dell'emigrazione siciliana
emergesse un vasto schieramento attardato ancora su rivendicazioni
indipendentiste e antinapoletane (F. Ferrara, V. D'Ondes Reggio, E.
Amari, F.P. Perez), spinte sino all'accettazione di restaurazioni
murattiane o alla ricerca di tutele inglesi.
All'intenso lavorio svolto dal L. nel 1858 per la sollevazione e
l'invio di volontari per l'imminente conflitto, soprattutto
dall'Italia centrosettentrionale, si accompagnò l'infittirsi
dei rapporti con Garibaldi e la definizione di un piano per
l'insurrezione di Massa e Carrara, concordato con lo stesso Cavour.
Nello stesso tempo il L. diffondeva il suo Credo politico della
Società nazionale italiana e La rivoluzione, la dittatura e
le alleanze (Torino 1859), un vero e proprio manifesto programmatico
di un'organizzazione che non voleva avere più nulla di
settario e si proponeva di affiancare concretamente l'azione
diplomatica condotta dal Cavour in Europa. In questa ottica la
Società nazionale raccoglieva fondi, reclutava volontari dai
vari Stati italiani e li smistava verso Torino (compresi i disertori
dell'esercito austriaco), e dalle colonne del Piccolo Corriere
confutava le critiche rivolte da Mazzini alla politica sabauda.
I frutti della strategia lafariniana si cominciarono a raccogliere
quando allo scoppio della guerra con l'Austria tennero dietro le
sollevazioni popolari nell'Italia centrale.
La crisi venne dopo, allorché, adirato per la cessione di
Nizza e della Savoia, Garibaldi lasciò la presidenza della
Società nazionale e riprese a lavorare con i mazziniani per
un rilancio dell'iniziativa democratica. Per non restare tagliato
fuori, il L. si adoperò per riprendere i contatti con
Garibaldi e convincere lo stesso Cavour a non ostacolare la partenza
dei garibaldini da Quarto, agevolandone anzi la navigazione verso la
Sicilia, onde evitare possibili e pericolose digressioni verso lo
Stato pontificio. Politicamente anche più importante fu
l'azione con cui il L. procurò alla spedizione l'appoggio
degli affiliati siciliani della Società nazionale e
creò il Fondo per un soccorso alle province non ancora
libere.
Caduta Palermo, Cavour - preoccupato per le prime misure prese da F.
Crispi come segretario della dittatura - inviò il L. in
Sicilia insieme con F. Cordova (1° giugno 1860), trascurando il
fatto che il L., che era stato eletto deputato nel collegio di Busto
Arsizio (VII legislatura), per aver votato a favore della cessione
di Nizza era considerato da Garibaldi alla stregua di un nemico; a
ciò si aggiunga che i due cavouriani si resero protagonisti
di alcune iniziative plateali volte a enfatizzare il pericolo
repubblicano e a ottenere l'annessione immediata dell'isola, e come
tali sgradite a Garibaldi che il 7 luglio ordinò l'arresto e
quindi l'espulsione del L.; pari trattamento fu volutamente
riservato a due spie.
In Sicilia il L. poté tornare solo il 2 dic. 1860 in veste di
consigliere della Luogotenenza per la sicurezza e gli affari
interni. Non riuscendo però a mitigare l'opinione negativa di
chi gli rimproverava il suo unitarismo, il 27 genn. 1861 dovette
rinunciare alla carica e tornare a Torino. Qui, dopo l'apertura
solenne del Parlamento (VIII legislatura, 18 febbr. 1861), il L.,
eletto nel II collegio di Messina, fu nominato vicepresidente della
Camera elettiva, ai cui lavori partecipò interessandosi
soprattutto al tema della separazione della potestà civile da
quella religiosa. Altri contributi parlamentari importanti
riguardarono il decentramento amministrativo, da lui avversato, il
disavanzo dello Stato, la vendita straordinaria dei titoli della
rendita pubblica, la libertà d'associazione, il brigantaggio.
Nell'estate del 1863, già in precarie condizioni di salute,
il L. si recò a Messina a riabbracciare la madre e i suoi
amici più cari. Tornato a Torino a metà agosto, il 5
sett. 1863 non sopravvisse a una violenta apoplessia cerebrale.