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Corporazione proprietaria
Con il termine Corporazione proprietaria si intende una teoria
economica, sviluppata durante il Fascismo, in cui la corporazione
diventa proprietaria dell'azienda in cui opera.
La Corporazione proprietaria nasce da un'idea di Ugo Spirito, per la
prima volta espressa durante il II Convegno di Studi sindacali e
corporativi, tenutosi a Ferrara nel maggio del 1932.
«Fascismo e corporativismo vedevo con fede di rivoluzionario
orientato verso una concezione di carattere comunistico che ebbe il
suo punto culminante nella proposta della corporazione proprietaria
al Congresso di Ferrara del '32. Da Bottai attendevo una esplicita
collaborazione in tale direzione, sia pure entro i limiti di una
situazione politica estremamente difficile, dominata, oltre che
dalle due forze capitalistiche, soprattutto da una cultura liberale
e conservatrice, da Croce e Einaudi. »
(Ugo Spirito, Memorie di un incosciente p. 190,
Rusconi, Milano, 1977)
Con Corporazione proprietaria si intende quindi il prodotto della
trasformazione di una società anonima di capitali in
corporazione[1], passando dallo status giuridico di azienda privata
a quello di istituto di diritto pubblico, in modo da costringere il
capitale ad uscire dal circuito decisionale per essere relegato in
quello passivo ed esterno della semplice partecipazione all'utile.
Tale trasformazione doveva portare a due conseguenze:
* il passaggio del controllo del capitale dagli
azionisti, soggetto passivo in ottica di produttività e
lavoro, ai lavoratori dell'azienda;
* il trasferimento dei mezzi di produzione, e quindi
della proprietà stessa dell'azienda, alla corporazione.[2]
In quest'ottica vi è una trasformazione del lavoratore in
autentico protagonista dell'azienda nella quale, a parità di
diritto, sono soci tutti coloro che vi esplicano un'attività
produttiva[3] e, con le parole dello Spirito stesso, il capitale
passa dagli azionisti ai lavoratori che diventano:
«proprietari della corporazione per la parte loro spettante in
conformità dei particolari gradi gerarchici. »
(Ugo Spirito, Capitalismo e corporativismo,
1934.)
La proposta rientrava quindi da una parte nella continuazione della
concezione fascista di collaborazione di classe (in opposizione alla
lotta di classe marxista ed al liberalismo capitalista), eliminando
la distinzione tra datore di lavoro e lavoratore dipendente;
dall'altra nella spinta in senso pubblicistico della
proprietà[4], secondo i principi dello Stato etico
gentiliano[5], prospettando un progressivo esaurimento della
proprietà privata nell'esercizio pubblico dell'azienda.
Quest'ultima concezione era insita nella concezione gentiliana del
rapporto tra individuo e Stato, compartecipi di una medesima
entità, in quanto lo Stato corporativo organizza e disciplina
al suo interno tutta la vita della società.[6]
La corporazione proprietaria, inoltre, si inserisce nella concezione
ideologica del fascismo in ambito lavorativo ed economico
riferendosi all'articolo VII della Carta del Lavoro:
« (...) l'organizzazione dell'impresa è responsabile
dell'indirizzo della produzione di fronte allo Stato (...) è
anche giusto che i tecnici, gli impiegati, gli operai, i quali sono
chiamati a realizzare un dato progetto, siano considerati con
collaboratori attivi e intelligenti, e che da ciò derivi una
somma reciproca di doveri e di diritti »
(Arnaldo Mussolini Commento alla Carta del Lavoro
Istituto Editoriale Scientifico, Milano, 1928.)
« (...) la soluzione logica appare quella della 'corporazione
proprietaria' e dei corporati azionisti della corporazione. E' una
soluzione che, almeno sulla carta, risolve le antinomie (...) unisce
il capitale e il lavoro, elimina il sistema dualistico, fonde
l'azienda con la corporazione e infine consente una effettiva
immedesimazione della vita economica individuale con quella statale
»
(Ugo Spirito, Individuo e Stato nell'economia
corporativa, relazione al II Convegno di Studi sindacali e
corporativi, Ferrara, maggio 1932[7])
Con la Corporazione proprietaria, Spirito intendeva creare uno degli
strumenti capaci di contrastare e vincere la lotta contro marxismo e
capitalismo, dando luogo ad una "Nazione di produttori" che si
autodisciplini attraverso il sistema appunto delle corporazioni,
invece di vivere una lotta sociale e di classe continua e senza
fine, che facessero coincidere l'interesse individuale con quello
nazionale e comunitario grazie all'appartenenza di tutti i
lavoratori stessi agli organi d'azienda[8].
Eredità
Il concetto di Corporazione proprietaria venne ripreso durante la
Repubblica Sociale Italiana (RSI), quando venne teorizzata e tentata
la socializzazione delle imprese.
Opinioni e reazioni
Critiche tecniche
La Corporazione proprietaria conterrebbe, secondo alcuni,
inevitabili imperfezioni tecniche derivanti dal suo essere una
elaborazione teorica: ad esempio, laddove si suggerisce la
cointeressenza obbligatoria dei lavoratori agli utili dell'impresa,
avviene che, durante le depressioni economiche, il lavoratore
coinvolto nella gestione secondo una quota gerarchica legata al
grado produttivo della sua azienda, subirebbe i danni derivanti in
termini di salario senza poter applicare strumenti correttivi.
Reazioni politiche
A scanso dell'immagine del fascismo estraneo ad ogni critica o
dibattito, la sinistra fascista si trova divisa, riguardo alla
Corporazione proprietaria, in due principali schieramenti: quello
dei teorici, ossia i corporativisti (Spirito, Arnaldo Volpicelli,
Nello Quilici ad esempio), ed i pragmatici, ossia i sindacalisti
(Luigi Razza, Pietro Capoferri, Lanzillo, Giampaoli, Bagnasco ad
es.)
Benito Mussolini fu entusiasta dell'idea concepita da Spirito, dando
a tale entusiasmo un gesto di pubblico ed ufficiale apprezzamento
sulle pagine de Il Popolo d'Italia, spazzando via ogni ipotesi di
estremizzazione "comunista" del fascismo fatta da parte borghese.
« Spirito (...) supera le opposte posizioni dell'economia
liberale e dell'economia socialista e spiega anche il suo punto di
vista circa l'identità fra individuo e Stato, tesi che non
merita i 'vade retro' scandalizzati di molta gente che non comprende
e quindi detesta ogni filosofico ragionare. Le tesi di Spirito non
ci sembrano poi eccessivamente lontane dalla più pura
ortodossia dottrinale (...) »
(Benito Mussolini[10])
Giuseppe Bottai, solitamente inserito tra le file del fascismo di
sinistra ma, in realtà, sempre legato agli ambienti della
destra e della borghesia (legame con i quali si vedrà in
occasione dell'Ordine del giorno Grandi) riteneva che lo Stato non
dovesse occuparsi di politica economica né entrare
direttamente nelle scelte aziendali, ritenendosi completamente
estraneo al totalitarismo, in una completa accezione liberale
dell'economia.
La sinistra sindacale fascista si trovò su posizioni
contrastanti con il concetto di Corporazione proprietaria a causa di
un arroccamento di tipo ideologico: rimasti su posizioni classiste
nel passaggio dal socialismo eterodosso al fascismo, i maggiori
esponenti pre-rivoluzionari del sindacalismo fascista (Lanzillo,
Giampaoli, Bagnasco, ecc.) videro il progetto di annullare il
sindacalismo nel corporativismo come un progetto reazionario,
rimanendo ancorati alla concezione della lotta di classe come uno
scontro benefico per gli interessi individuali e nazionali.