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Còppola, Francesco.
Scrittore politico (Napoli 1878 - Anacapri 1957), giornalista, nel
1910 fu tra i fondatori dell'Associazione nazionalista italiana.
Volontario di guerra, attivo sostenitore della tesi della "vittoria
mutilata" contro il trattato di Versailles, fu poi fautore della
fusione di nazionalismo e fascismo. Prof. di storia dei trattati
all'univ. di Perugia (1929) e poi di diritto internazionale a Roma,
accademico d'Italia dal 1929. Dal 1919 al 1943 prima con A. Rocco,
poi da solo, diresse la rivista Politica.
*
DBI
di Vincenzo Clemente
COPPOLA, Francesco.
Nacque a Napoli il 27 sett. 1878 da Filippo e da Matilde Pisacane.
Laureatosi in giurisprudenza, iniziò l'attività di
giornalista nel 1904 come redattore del Giornale d'Italia
(1904-1908) e poi della Tribuna (1908-1914). Nel 1910 con Enrico
Corradini e Luigi Federzoni fondò l'Associaz. nazionalista
italiana (A.N.I.) e nel 1911 fu tra i fondatori dell'Ideanazionale
settimanale, del cui comitato direttivo fu membro con E. Corradini,
M. Maraviglia, L. Federzoni e R. Forges Davanzati.
Nelle polemiche del periodo di decantazione ideologica dei movimento
nazionalista il C. si segnalò per una professione di
antisemitismo del novembre 1911, che prese spunto da una lettera di
Ch. Maurras (vedi L'Idea nazionale, 16 nov. 1911), suscitando accese
discussioni. Ad essa si sarebbe richiamato S. Sighele in una
successiva polemica con L'Idea nazionale (aprile 1912) nella quale
esplodeva il dissidio tra nazionalisti "democratici" e gruppo
direttivo del giornale, in seguito alla quale Sighele usciva
dall'A.N.I. Alla chiarificazione antidemocratica ed antisocialista
il C. contribuì con due importanti articoli: Nazionalismo e
democrazia (in L'Idea nazionale, 28 dic. 1911) e Per intenderci
sulla democrazia (ibid., 4 genn. 1912) sostenendo l'equazione tra
democrazia e socialismo e criticando nella democrazia la forma
mentis individualista, antiliberale ed anticlericale,
internazionalista ed irreligiosa, umanitaria e pacifista,
soprattutto disorganizzante e per conseguenza antinazionale. Nei
confronti del clericalismo e dell'elettorato clericale prese
posizione in un articolo dal titolo Tra i pensatori dell'Asino e i
dottori dell'Osservatore (ibid., 9 genn. 1913) in termini che
intendono chiaramente subordinare il profondo dissidio con l'essenza
evangelica ad intenti elettorali ed alla propria ideologia: faceva
infatti appello ad un cattolicesimo inteso come forza d'ordine, di
aggregazione nazionale, con funzione antisovversiva. Di fatto la
prima pattuglia nazionalista entrava in Parlamento a seguito delle
elezioni del 1913 dopo una campagna imperniata sull'opposizione ai
blocchi democratico-socialisti, sollecitando l'apporto elettorale
clerico-moderato. L'articolo del C. aveva intanto suscitato un
dibattito - protrattosi nei numeri del 16 e 25 genn. 1913 - cui
intervennero F. Meda, E. Martire, L. Federzoni e F. Aquilanti. Il
congresso di Milano (16-18 maggio 1914) avrebbe infine consumato la
separazione dei nazionalisti dai liberali, assumendo in ciò
gran rilievo l'apporto di A. Rocco e M. Pantaleoni.
Il C. partecipò alla campagna per l'intervento con articoli
quali Per la democrazia o per l'Italia? (L'Idea nazionale, 3 ott.
1914) e Il "sacro egoismo" (ibid., 20 ott. 1914): in questi ed in
altri articoli del periodo della neutralità egli prese le
distanze dall'ideologia intesista e democratica della guerra ed
enunciò le ragioni "vere" che avevano mosso le potenze alla
lotta, di carattere imperialista. La grande guerra gli si prospetta
infatti come l'occasione storica che consentirà alla
"dinamica necessità rivoluzionaria della nuova Italia"
l'ascesa al rango di potenza mondiale, nel quadro di una "immensa
eredità di dominio e d'influenza" che la guerra avrebbe
immancabilmente aperto, prefigurandosi la dissoluzione degli Imperi
ottomano ed asburgico.
In Precisiamo le idee (ibid., 16nov. 194) ed ancor più in Le
ragioni politiche della nostra guerra (ibid., 17 marzo 1915),
già si elencano gli esorbitanti obbiettivi territoriali ed
imperialisti che i nazionalisti si prefiggono: unità
nazionale, sicurezza dei confini, domini nell'Adriatico (con basi a
Pola ed a Valona), nel Mediterraneo (eredità ottomana nel
Mediterraneo orientale), espansione economica (sostituirci
all'Austria nel Levante, rilevandone i traffici di Trieste e di
Fiume; penetrare nei Balcani sostituendoci alla Germania in Asia
Minore); emancipazione dell'industria e dell'economia italiana, in
specie la siderurgica e la marittima, dal capitale tedesco;
partecipazione dell'Italia alle vicende mondiali ed acquisizione di
titoli per una più ampia partecipazione avvenire.
Il C. fu inoltre uno dei protagonisti di quel tentativo, coronato in
parte da successo, della propaganda nazionalista di appropriarsi
dell'agitazione interventista imprimendo ad essa la propria impronta
imperialista e soprattutto prevaricando gli orientamenti
parlamentari con la mobilitazione della piazza e l'appello diretto
alla Corona, con scritti quali Il Re (ibid., 13 maggio 1915) e
IlParlamento contro l'Italia (ibid., 15 maggio 1915): "...o
ilParlamento abbatterà la Nazione - si legge in questo - o la
Nazione rovescerà il Parlamento".Una prima raccolta di
articoli del C. già apparsi sull'Idea nazionale tra l'ottobre
1914 ed il dicembre 1915 si intitola La crisi italiana MCMXIV-MCMXV
(Roma 1916). Il C. vi premette un importante saggio: sullo sfondo di
un Risorgimento al quale "l'Italia come popolo, come nazione, non
partecipò quasi; assistette...", e di un postrisorgimento che
vede la "vecchia Italia" dominata dal parlamentarismo democratico,
si individua la crescita vigorosa della "razza", la "nuova Italia".
Ad essa il nazionalismo ha sul nascere inteso collegarsi,
costituendosi a coscienza del "rinnovamento spirituale della
nazione" ("... alle risorgenti energie etniche e spirituali il
nazionalismo italiano dava un denominatore ed una direzione
nazionale, una coscienza ed una volontà sistematici, un'anima
ed una dottrina, le inquadrava, le disciplinava in un movimento
politico").
La guerra in atto, che era non già l'ultima del Risorgimento
bensì la prima dell'Italia potenza mondiale, doveva avere
carattere "totale" e non già particolare o locale
(antiaustriaca, irredentistica e limitatamente adriatica), e doveva
sanzionare la nascita della potenza mediterranea italiana.
Già nel '16 il C. auspicava l'accaparramento di titoli e
pegni da far valere di fronte a tutti nella liquidazione finale. I
richiami ad una solidarietà latina sono da intendersi in una
visuale per grandi blocchi di potenze imperialiste, ed in nulla
intendono derogare alla tesi della necessaria revisione dei ruoli
politici che l'Italia avrebbe dovuto far valere nei confronti della
Francia.
Di rilievo, nel 1918, il suo dissociarsi, con pochissimi altri
nazionalisti (A. Rocco, P. Foscari, A. Tamaro) dall'A.N.I.
allorché questa aderì al patto di Roma in sostegno
della iniziativa di emancipazione delle nazionalità soggette
all'Impero asburgico nel quadro della strategia di guerra
dell'Intesa. Si deve a ciò il suo provvisorio allontanamento
(1918-20) dall'Idea nazionale ed il suo passaggio al Resto del
Carlino, nel settembre 1918, dalle cui colonne combatté i
"quattordici punti" di Wilson appena enunciati tra cui in
particolare il diritto di nazionalità e di
autodeterminazione, il solidarismo internazionale e la
Società delle nazioni.
Fin dal 1917 il C. aveva lanciato, con Alfredo Rocco, il Programma
di una rivista settimanale politica (Roma 1917) cui si proponeva il
titolo di La Nuova Enciclopedia, in quanto avrebbe dovuto
rappresentare nel suo complesso "un'opera analoga, per valore
intellettuale, politico e storico, a quella dell'Enciclopedia
delsec. XVIII". Nel programma si dice essere il problema econoniico
italiano non già un problema di distribuzione interna, bensi
di produzione nazionale e di distribuzione inttrnazionale della
ricchezza; si enuncia un indirizzo doganale protezionista ed il
riconoscimento dei produttori di ogni ordine come "organi dinamici
della vita economica, e quindi della espansione nazionale nel
mondo". Il progetto di rivista non andava per il momento in porto,
ma alcuni dei propositi enunciati connoteranno la rivista Politica
fondata dai medesimi l'anno successivo. Politica, "rivistadi
cultura, di critica, di informazione e di azione. politica", di cui
il C. fu direttore, uscì con periodicità mensile dal
15 dic. 1918 affiancando l'Idea nazionale come palestra
"scientifica" del nazionalismo, all'indomani della fine della guerra
e della vittoria italiana. Di notevole rilievo ne fu il Manifesto,
elaborato unitamente dal C. e dal Rocco. Vi si enunciava, accanto
alla dottrina classica del darwinismo politico, la trionfalistica
conclusione secondo cui "tutto conduce l'Italia alla sua missione
imperiale". In una visione ciclica della storia nazionale che si
viene chiarendo nei termini di "più grande Risorgimento", la
guerra segna la conclusione della fase della "evoluzione nazionale"
e l'inizio della "evoluzione imperiale".
Il Programma e la rivista riscossero adesioni e collaborazioni oltre
la cerchia nazionalista: vi scrissero nei primi tempi Croce,
Gentile, De Ruggiero, G. Volpe, Salandra. Portando attenzione
preminente alle questioni internazionali nel periodo della
elaborazione della pace, essa vantava la collaborazione di
"tecnici", specie in questioni adriatiche, danubiano-balcaniche, di
emigrazione e coloniali (A. Tamaro, A. Dudan, U. Nani) e di
personalità con ruoli ufficiali quali L. Vitetti, R.
Cantalupo, C. Tumidei, C. Zoli. Per successo e per autorità
Politica poté nel 1921 reclamizzarsi come la maggiore rivista
italiana e l'unica grande rivista di politica estera.
Continuerà a vivere per venticinque anni (centocinquantadue
fascicoli), mantenendo una sua autonomia e consequenzialità
ideologica, sia pure in un ruolo di crescente gregarietà e di
progressivo svuotamento del vigore politico dei primi anni.
L'articolo del C. La pace italiana (in Politica, fasc. 1, dic. 1918)
aveva rilanciato all'indomani dell'armistizio le "minime ed
inderogabili" richieste territoriali, coloniali ed economiche che
l'Italia avrebbe dovuto presentare nella trattativa per la pace
secondo lo schema enunciato fin dal marzo 1915. Nei mesi seguenti il
C. seguì direttamente le trattative parigine, con articoli
che, apparsi su Politica, sarebbero stati raccolti in La pace
democratica (Bologna 1921: periodo Orlando-Sonnino, dall'armistizio
al trattato di Versailles) e La fine dell'Intesa (ibid. 1921:
periodo Nitti-Tittoni, dal trattato di Versailles al trattato di
Sèvres, giugno 1919-maggio '20). Un terzo volume, che avrebbe
dovuto intitolarsi La liquidazione della vittoria (periodo
Giolitti-Sforza: dal trattato di Sèvres al trattato di
Rapallo) non venne poi raccolto, ma è facile ricostruirne
l'indice dagli articoli pubblicati dal C. tra il maggio ed il
dicembre 1920.
Avendo per anni rinfocolato il mito "imperiale" della guerra e della
vittoria italiana ed eccitato le esorbitanti attese di compensi,
l'esperienza del 1919, per i nazionalisti profondamente deludente,
provocava in essi i miti complementari della "vittoria mutilata" e
del "rinunciatarismo" dei nostri governi tardoliberali. Al di
là delle esasperate requisitorie contro il wilsonismo,
l'imperialismo anglosassone, le pretese francesi di fondare
nell'Europa centrorientale una politica antitedesca senza tenere nel
debito conto l'Italia, il "subdolo procacciantismo e la smisurata
avidità" degli antagonisti balcanici delle attese italiane -
in specie Iugoslavia e Grecia -, sembra nel complesso giustificata
la critica di "irrealtà nazionalista" (Salvatorelli) per la
singolare inconsistenza politica di questa ideologia. Ben altrimenti
efficace la campagna nazionalista nel circondare i negoziatori
italiani di discredito interno e di isolamento internazionale in
quei delicatissimi momenti.
Nell'ottobre 1919, imminenti le elezioni, il C. e Rocco si erano
recati a Fiume per proporre a D'Annunzio una "marcia" dei legionari
su Trieste: i leaders nazionalisti ritenevano che all'annunzio
dell'occupazione di Trieste a Roma sarebbe tutto crollato
(Salvatorelli-Mira). Nell'ottobre 1920 un analogo piano d'azione fu
minutamente discusso in seno al Comitato centrale dell'A.N.I. e di
nuovo proposto a D'Annunzio: segni di un intento eversivo cui faceva
riscontro la campagna aperta dal Tamaro sull'Idea nazionale ed in
Politica per una dittatura, dalla metà del '20.
Da questo momento la funzione del nazionalismo come coscienza
critica della controrivoluzione preventiva borghese viene
sviluppandosi in tutta la sua forza sul terreno politico e
parlamentare. Si parlava di progressiva cattura ideologica di un
movimento fascista ancora magmatico e disponibile alla cooptazione
in un blocco di potere tardoliberale, di rovesciamento del
"diciannovismo" socialisteggiante del primo fascismo, di un ruolo di
vera e propria egemonia nello svolgere dalla prassi mussoliniana
d'illegalismo e di governo violento la dottrina e l'edificio
giuridico dello stato "totale" (Ungari, Gaeta). Dopo un periodo di
concorrenzialità delle rispettive organizzazioni fu
determinante la fusione dell'A. N. I. col Partito nazionale fascista
(febbraio 1923). propugnata dal C. stesso. La vittoria mussoliniana
venne da questo salutata, dopo il successo militare della grande
guerra, come nuova "vittoria dell'idealità nazionalista sopra
le ideologie democratiche della decadenza europea". A poco
più di un mese dalla marcia su Roma, in La restaurazione
antidemocratica (in Politica, fasc. 39, dic. 1922), propose un
significativo sistema di correlazioni tra la "rivoluzione fascista"
e l'ideologia nazionalista: "Nata [la rivoluzione fascista], sia
pure inconsapevolmente, da uno stato d'animo nazionalista, preceduta
e guidata idealmente dal nazionalismo in tutti i carripi della
politica, fiancheggiata dal nazionalismo nella dura battaglia
quotidiana, sanzionata e consacrata dal nazionalismo nella sua
vittoria, essa non può non riconoscere nel nazionalismo la
propria coscienza, la propria essenza e la propria regola. A patto -
asseriva il C. - che la rivoluzione fascista si riconosca e si
affermi consapevolmente in quella organica interpretazione del
più grande Risorgimento e della storia italiana nella storia
del mondo che è appunto la dottrina nazionalista". Il C.
parlava in questo articolo di "fase fascista della rivoluzione
nazionalista" ed additava alla "grande restaurazione nazionalista di
cui la rivoluzione fascista non è fino ad oggi che l'ultima
fase vittoriosa" il "compito immenso di ricostruire lo Stato
italiano, fondare l'Impero italiano".
Importante e non adeguatamente valutato il ruolo del C. nel
progressivo nuovo orientamento della politica estera mussoliniana
durante il primo decennio del regime, per l'assunzione dei capisaldi
revisionistì ed imperialisti e per la determinazione delle
priorità. Fin dal 1923 il C. indicava al nuovo governo la
necessità di una "coscienza unitaria ed organica dei problemi
storici italiani": al centro del necessario programma poneva il
Levante ed il Mediterraneo, ed indicava quali elementi essenziali
l'atteggiamento britannico, una politica danubiano-balcanica atta a
"paralizzare il sistema degli Slavi meridionali gravitante
sull'Adriatico", l'interesse alla permanenza di un contrappeso
tedesco sul Reno tale da impedire che la Francia concentrasse tutto
il suo sforzo nella competizione mediterranea. Rivolgendosi ad un
governo che, "sia pure ancora paralizzato dal risorto mito
dell'immediato pareggio finanziario", sembrava aver preso coscienza
della necessità di ricostituire una forza militare, lo
sollecitava a reinserirsi subito nella nuova gara degli armamenti,
specialmente navali ed aerei, colmando le distanze. Il C. raccolse i
due articoli qui sopra esaminati in un quaderno di Politica
intitolato La rivoluzione fascista e la politica mondiale (Roma
1923) per il primo anniversario del governo fascista.
Delegato italiano alla Società delle nazioni nel periodo in
cui la crisi di Corfù provocava i primi attacchi fascisti
alla istituzione ginevrina, ed ancora nel 1924 allorché
l'Assemblea approvò il protocollo di Ginevra "per il
regolamento pacifico delle dispute internazionali", pur ribadendo la
propria ostilità di dottrinario antipacifista ed imperialista
nei confronti di quella istituzione che considerava un "relitto
spettacolare fossilizzato del sorpassato sec. XIX", sconsigliava
tuttavia l'Italia dall'abbandonarla.
Nel 1925 fu membro della delegazione italiana nella commissione
della Società delle nazioni addetta alla importante questione
del disarmo. Raccoglierà i suoi maggiori scritti relativi
alla politica ginevrina (1921-1928) in La pace coatta (Milano 1929).
Membro della Commissione dei diciotto nominata dal governo il 31
genn. 1925 per concludere la riforma costituzionale fascista diretta
da Alfredo Rocco, il C. vi rappresentava una minoranza di Destra
(cosidetto "gruppo Coppola") la quale, discutendosi il problema
sindacale e l'ordinamento corporativo, si poneva in atteggiamento di
radicale rifiuto nei confronti di ogni soluzione di tipo
corporativo, dominata a suo giudizio da "superstizione
socialistica", e tale da "cristallizzare il cittadino entro Pangusta
cerchia dei suoi interessi di categoria", impedendogli "una visione
ideale della patria", e sminuendo la funzione dello Stato "a
semplice federazione gerarchica d'interessi".
Accademico d'Italia dal 3 marzo 1929, professore di diplomazia e
storia dei trattati presso la facoltà di scienze politiche
dell'università di Perugia (1929), quindi di diritto
internazionale nella università di Roma, fu dal 1926 al '29
redattore della Tribuna, dal 1932 collaboratore della Gazzetta del
Popolo, collaboratore alla Nuova Antologia.
Fin dal giugno 1927, in una polemica condotta dalle colonne della
Tribuna con T. Interlandi del Tevere, il C. prevedeva prima o poi
inevitabile una guerra dell'Occidente europeo, simbolizzato da Roma
cattolica e fascista, contro il "sovversivismo asiatico" (gli
articoli della Tribuna furono raccolti, sotto il titolo di Roma e
Antiroma, in Politica, fasc. 78, maggio-luglio 1927). In occasione
della conciliazione egli si segnalava con articoli quali La croce e
l'aquila (ibid., fasc. 84-85, febbraioaprile 1929) e Roma, il
cristianesimo, il cattolicesimo e l'Italia (ibid., fasc. 88-89,
ottobre-dicembre 1929), in rivendicazione della tradizione
universalistica ed imperiale dell'Italia nei confronti del
"particolarismo risorgimentale": dopo duemila anni di interiore
dissidio il popolo italiano ritrovava l'unità religiosa e
patriottica dello spirito; ordine cattolico ed ordine fascista, ora
ricongiunti, erano il segno del genio romano nel mondo. Tale
interpretazione suscitava reazioni e polemiche da parte cattolica.
Nel periodo 1928-32 ed ahcora fino al 1935 la politica estera del
regime fu assai vicina alla linea - che aveva nel C. il massimo
assertore - di un revisionismo da attuare pacificamente nell'ambito
di una solidarietà latino-cattolica egemonizzata dal
fascismo, in funzione imperiafista ed anticomunista. Tappa
significativa della auspicata intesa generale italo-francese sono
nel marzo 1928 i negoziati avviati nelle conversazioni Mussolini-de
Beaumarchais, che il C. predisponeva pubblicisficamente sulla
Tribuna (Esame in profondità, 22 dic. 1927) ed in Politica
(Italia e Francia, fasc. 80, febbr. 1928), manifestando
ufficiosamente le aspettative italiane. Più tardi, nel
gennaio 1935, gli accordi Mussolini-Laval ed i susseguenti accordi
di Stresa sembreranno per un momento aver conseguito l'intento.
Quantunque decisamente contrario al progetto briandista di
confederazione europea, si oppose nel '30 alle correnti interne che
negavano ogni solidarietà europea (Europa, antieuropa e
paneuropa, in Politica, fasc. 90-91, sett. 1930). Tra gli interventi
in politica estera degli anni successivi è da segnalare, in
occasione del tentativo di unione doganale austro-tedesca del marzo
1931, la ripresa dei progetto di una restaurazione asburgica in
Austria ed Ungheria, che il C. aveva già sostenuto nel 1921
in polemica con l'allora ministro degli Esteri Carlo Sforza (cfr.
Anschluss o Asburgo 1921-1931, ibid., fasc. 96-97, maggio 1931):
l'ipotesi, che in quell'anno mirava essenzialmente a ricostituire un
antemurale antislavo facendo leva sulla ragione dinastica, avrebbe
dovuto nel '31 e negli anni successivi scongiurare la minaccia
dell'annessione austriaca alla Germania.
Una relazione da lui tenuta al convegno Volta del novembre 1932 sul
tema "l'Europa", intitolata La crisi dell'Europa e la sua "cattiva
coscienza", per la sua visione conciliante e collaborazionista - da
intendersi nella prospettiva mussoliniana della preparazione dei
patto a quattro e nei suoi sforzi per prendere le distanze da Hitler
presentando il fascismo in una luce diversa dal nazionalsocialismo -
ebbe l'effetto di provocare un intervento polemico di A. Rosenberg
(cfr. Reale Accad. d'Italia, Fondaz. A. Volta, Convegno di scienze
morali e storiche, 14-20 nov- 1932. L'Europa, Roma 1933, I, pp.
254-272). Nel 1933 assecondava la politica di direttorio europeo
promossa da Mussofini nel patto a quattro (Il patto a Quattro. Roma
e l'Europa, in Politica, fasc. 107-108, febbraio-aprile 1933).
Pur riconoscendo le benemerenze del partito nazionalsocialista nei
più recenti sviluppi tedeschi, si manifestava nel 1932
sfavorevole ad una presa del potere di Hitler, cui per la chiusa
ideologia razzista e per gli spunti socialisti negava una reale
parentela col fascismo; a questo mostra di preferire il governo di
von Papen e di Hindenburg (cfr. la Postilla a La lotta politica in
Germania di G. Piazza, in Politica., fasc. 103-104, giugno-agosto
1932). In La politica danubiana e l'Italia (ibid., fasc. 113-114,
gennaio 1935) aveva occasione di ribadire, prendendo spunto dal
tentato putsch nazista di Vienna del 25 luglio 1934, una tenace
diffidenza verso la Germania hitleriana: in ciò anche la
"questione austriaca", con le sue implicazioni sudorientali. giocava
certo un ruolo importante. Il discorso del C. continuerà ad
indirizzarsi ad una Francia cui si faceva carico di non voler
riconoscere all'Italia la posizione di potenzì continentale
"a interessi generali", preferendo puntellare un sistema della
Piccola Intesa non in grado dì contenere la pressione
espansiva della Germania nell'area sudorientale. Solo la sfrenata
mistica antibolscevica cui il C. si abbandonerà negli anni
successivi varrà a dare giustificazione all'allineamento -
che appare comunque circoscritto a ragioni di solidarietà
estrinseca - alla politica ufficiale dell'asse Roma-Berlino.La
guerra d'Etiopia (ottobre 1935-maggio '36) e la proclamazione
dell'Impero aprirono un nuovo ciclo nella politica del regime, cui
il C. dette ampio supporto ideologico ed apologetico in La vittoria
bifronte (in Politica, fasc. 117-118, agosto 1936): vittoria
ideologica - oltreché militare e coloniale - sulla
Società delle nazioni che contro l'Italia aveva aperto la
"guerra delle sanzioni". Un volume dal titolo La vittoria bifronte
(Milano 1936) raccoglie, accanto a questo, altri articoli minori
pubblicati dal C. sulla Gazzetta del Popolo tra il 9 luglio 1935 ed
il 16 luglio 1936 e già periodicamente raccolti in Politica
sotto la rubrica "Momenti della guerra societaria": pesantemente
ahtisocietari ed antibritannici contengono moniti e sollecitazioni
alla politica francese perché sottraendosi all'egemonia
inglese si schieri a fianco dell'Italia e riconosca a questa la
leadership spirituale e politica di un blocco "di conservazione"
occidentale.
La guerra di Spagna (luglio 1936-gennaio 1939) sembrava confermare
la previsione di un inevitabile confronto di blocchi ideologici. La
conferenza e gli articoli (1935-38) raccolti in Fascismo e
bolscevismo (Roma 1938) elaboravano i temi della sovversione
internazionale bolscevica alle spalle dell'Europa, del cedimento
francese (patto franco-sovietico del 1° maggio 1935) e della
impotenza delle "grandi democrazie" europee e della Società
delle nazioni a far argine a quella infiltrazione.
Dopo aver seguito il nuovo orientamento del regime verso la Germania
all'insegna dell'antibolscevismo, esplosa la seconda guerra
mondiale, rilanciava nelle pagine di Politica ilvecchio tema
imperialista della "guerra rivoluzionaria", e l'altro della crociata
per il salvataggio della civiltà europea: Italia e Germania,
"le due più legittime rappresentanti della civiltà
europea" combattevano nelle loro "guerre nazionali" una guerra "per
la salvezza e la conservazione dell'Europa contro la barbarie
bolscevica e quella americana, ed alla complice e suicida
cecità britannica" responsabile della chiamata in Europa dei
nuovi barbari (La chiamata dei barbari, in La Gazzetta del Popolo,
16 maggio 1939; Considerazioni su questa guerra, I, in Politica,
fasc. 141146, febbraio 1941 e II, ibid., fasc. 149-152, aprile
1943).
Morì ad Anacapri il 10 febbr. 1957.