Vulnerabilità |
Il concetto di «vulnerabilità» è uno degli organizzatori concettuali forti della psichiatria contemporanea, le cui radici affondano nel passato, quando la medicina ancora dialogava con la filosofia. Già negli scritti galenici si può rintracciare un analogo costrutto teorico-clinico: la malattia origina dall'impatto fra una serie di cause esterne - dieta, regime di vita, ambiente fisico e sociale - e una disposizione corporea suscettibile al loro influsso. La malattia scaturisce da predisposizioni patologiche inerenti ai corpi a causa di una cattiva mixis (impasto materiale) e di una cattiva krasis (temperamento). La nozione stoica di proclivitas integra in questo concetto la dimensione temporale: è la diatesi che predispone all’affectus e quindi al morbus - gli stadi in cui il male si è insediato reversibilmente - e può concludere la propria parabola nell’aegrotatio inveterata, che corrisponde al nostro concetto di cronicità. Questo schema nosodromico (cronologico-patogenetico) preconizza uno dei cardini della moderna nozione di vulnerabilità: la proclivitas, infatti, non è solo uno stato preesistente al morbus, essa è un tratto del corpo e dell'anima che persiste anche dopo che il morbus è guarito. Nell'era moderna, il primo autore a usare il termine «vulnerabilità» è probabilmente lo psichiatra tedesco K. F. Canstatt, il quale nel 1841 ipotizza che una sproporzionata reattività agli stimoli esterni costituisca la predisposizione allo sviluppo di sintomi psicopatologici. Dunque, quando il termine viene adottato dal moderno «modello della vulnerabilità», esso già possiede una propria complessa fisionomia semantica. Esiste, in primo luogo, un uso del concetto di vulnerabilità «naturalistico», il cui significato coincide con quello di anormalità preesistente o fattore di rischio per una specifica malattia. Questa accezione può dirsi naturalistica perché è riferibile a uno stile descrittivo, in auge nella medicina positivistica: in quest'ottica, le malattie esistono come enti di natura, e a ciascuna di esse corrisponde un insieme di cause scatenanti, una fase d'esordio e una di stato, un decorso prestabilito ed esiti specifici; si cerca di individuare i precursori di un'entità morbosa, principalmente allo scopo di affinare la diagnostica, stabilire netti confini nosografia, possibilmente precisare la prognosi. Se la nozione di vulnerabilità si sedimenta su questa accezione naturalistica (lineare e non dialettica) di eziologia essa diventa un fossile inutilizzabile per la ricerca e per la clinica. Un uso più pertinente rispetto a quello naturalistico è di un altro tipo che si potrebbe definire «euristico»: il modello della vulnerabilità fornisce la cornice epistemologica che inquadra molteplici istanze eziologiche e patogenetiche, ciascuna delle quali, presa singolarmente, non basta a spiegare la genesi della patologia. Questo concetto, che si sviluppa nell'ambito della ricerca sulle origini della schizofrenia, trascende dunque la concezione di una diatesi preschizofrenica e si pone come modello sopraordinato atto a integrare tutti i singoli modelli eziologici -un supermodello interdisciplinare capace di abbracciarli per una comprensione dell'eziologia. Sotto il profilo epistemologico lo scopo principale è stato il delineare una cornice generale cruciale per ogni modello dello sviluppo degli episodi schizofrenici. Autori diversi hanno sviluppato variamente questo modello, ora ponendo l'accento sulla dialettica vulnerabilità-stress, enfatizzando l'importanza dei fattori psicosociali; ora mettendo in rilievo il ruolo dei disordini cognitivi come fattori modulanti tra variabili biologiche e psicosociali; altri, infine, hanno sottolineato l'interazione tra fattori biologici e personologici. All'origine del concetto moderno di vulnerabilità in psichiatria è posta una petitio principii polemica nei confronti del concetto di cronicità schizofrenica: la caratteristica persistente della schizofrenia non è il perdurare dell'episodio schizofrenico stesso, ma la vulnerabilità allo sviluppo di tali episodi del disturbo. Gli episodi sono «stati» limitati nel tempo ma la vulnerabilità in se stessa è un tratto persistente. Il paradigma della vulnerabilità, pertanto, si contrappone all'ipoteca di cronicità posta fin dagli inizi sui percorsi schizofrenici, il cui corollario è considerare (in omaggio al paradigma naturalistico) le psicosi schizofreniche sic et simpliciter come malattie. E’’ il concetto stesso di malattia che appare eccessivamente limitato se si vuol comprendere la varietà dei quadri di stato e dei decorsi. «Malattia», infatti, finisce col designare sia la causa sia i sintomi conclamati, sia ciò che si suppone come primario sia ciò che si osserva in quanto epifenomeno secondario. Per questo si passa dal concetto di malattia a quello di vulnerabilità. Un fondamentale supporto clinico di quest'ultimo concetto è il riscontro della dimensionalità dei sintomi psicotici. Su un centinaio di pazienti esaminati, circa la metà presentava sintomi deliranti dubbi e circa tre quarti sintomi allucinatori dubbi. A partire da questo dato, si mette in dubbio l'idea che i sintomi psicotici siano entità discrete; i risultati della ricerca, viceversa, provano che i sintomi psicotici sono descrivibili e rilevabili più accuratamente se concepiti come punti su un continuum che unisce la normalità alla patologia. Per spiegare l'eterogeneità e la dimensionalità dei sintomi psicotici, e il relativo polimorfismo dei quadri e dei decorsi schizofrenici, è necessario chiamare in causa il ruolo di mediazione della persona tra il disturbo primario e il fenotipo schizofrenico. Il concetto di vulnerabilità, quindi, viene ad essere scomposto in due parti: una a significato eziologico e una personologica a significato patoplastico (o immunoplastico). La persona diventa così la chiave per la comprensione della malattia mentale (Strauss, 1992). La ricaduta teorico-pratica è duplice: distinguendo più efficacemente i meccanismi di coping dalla malattia diviene possibile isolare le caratteristiche della malattia stessa e i suoi antecedenti. Differenziando il coping dalla malattia diviene anche possibile comprendere gli sforzi di guarigione e prevenzione attuati dalla persona, e apprendere quali di tali processi possano essere efficaci e pertanto rilevanti per il trattamento. Già E. Bleuler (1955) aveva sottolineato come una lesione che agisce sulla psiche può determinare quadri clinici di ogni genere, e come d'altra parte alla base di un medesimo quadro psicopatologico vi possano essere cause molteplici. A questo proposito suona premonitrice l'affermazione di E. Minkowski (1953) secondo la quale la nozione di schizofrenia in quanto malattia mentale tende adesso a scomporsi in due fattori di ordine diverso: in primo luogo c'è la schizoidia, fattore costituzionale specifico per eccellenza, più o meno invariabile di per se stesso nel corso della vita individuale; in secondo luogo, c'è un fattore nocivo di natura evolutiva, suscettibile di determinare un processo mentale morboso. Questo fattore non ha di per sé un colore ben definito, è di natura più indeterminata e il quadro che darà dipenderà prima di tutto dal terreno sul quale agirà. Congiunto alla schizoidia, la trasformerà in un processo morboso specifico, in schizofrenia. È l'atto di nascita del «modello dialettico della vulnerabilità». Questa affermazione precorre di cinquant'anni il nucleo concettuale del paradigma della vulnerabilità. In primo luogo, è necessario prendere in considerazione il fattore «persona», se si vuol tentare di capire come un dato relativamente aspecifico (la vulnerabilità «schizotropica») possa determinare l'insorgenza di quadri schizofrenici conclamati. Minkowski aveva postulato che per diventare schizofrenici non era sufficiente una predisposizione allo sviluppo di modificazioni peculiari del campo di coscienza; affinché si possa sviluppare una psicosi schizofrenica conclamata, a ciò è necessario che si aggiunga una particolare configurazione della persona. Un mondo schizofrenico viene a costituirsi solo e soltanto se entrano in rapporto una certa configurazione antropoliogica e una particolare modificazione del campo di coscienza. L'affermazione di Minkowski, in realtà, va oltre quanto sostenuto da Bleuler e J. Strauss: per l'allievo di Bleuler la personalità svolge molto più che una semplice funzione patoplastica, poiché riveste il ruolo di condizione «necessaria» affinché si realizzi la sindrome schizofrenici, mentre la noxa che può determinare il processo morboso rappresenta anch'essa una condizione necessaria, ma assolutamente non sufficiente. Successivamente, autori di eterogenea ispirazione hanno aderito a questo modello patogenetico. Tra questi in primis J. Wyrsch, secondo il quale sono le interazioni tra la persona del malato e i disturbi primari a dischiudere la comprensione delle manifestazioni della sindrome schizofrenica - cioè i suoi sintomi e i suoi decorsi. Su questa linea anche W. Janzarik, secondo il quale i quadri schizofrenici sono il risultato del rapporto tra dinamica irruttiva e intenzionalità stabilizzatrice. Anche il modello di G. Huber dei sintomi base ripropone questo schema: i fenomeni finali schizofrenici (i sintomi schneideriani di primo rango) sono il riluttato della reazione personologica all'irrompere nel campo di coscienza di esperienze disturbanti di tipo percettivo e cognitivo (i sintomi base), a loro volta diretta espressione della disfunzione neuropatologica fondamentale. Il contributo più significativo della scuola di Huber resta comunque la sua analisi delle modificazioni del campo di esperienza che si manifestano prima dell'insorgere dei quadri schizofrenici conclamati - quei fenomeni, cioè, che rappresentano l’«esperienza della vulnerabilità». Concentrando l'attenzione sui prodromi, gli esiti e i periodi intercritici dei percorsi schizofrenici, piuttosto che sulle fasi acute e conclamate della patologia, Huber e colleghi videro dischiudersi uno spazio in gran parte inesplorato: lo spazio della psicosi in assenza di floridi sintomi psicotici. Assai meglio dello studio della sindrome schizofrenica nel periodo di acuzie, l'analisi degli stadi base pre-, intra- e postpsicotici rivela una ricchissima semeiotica psicopatologica che è venuta formalizzandosi nel concetto di sintomo base. Gli insiemi fenomenici in cui sono raggruppabili i sintomi base sono: la perdita del controllo (sensazioni di deragliamento sul piano dei comportamenti o su quello cognitivo, o di blocco, o disturbi riferibili a sfortunati tentativi di compenso), i disturbi delle percezioni semplici (esperienze illusionali tipo micropsie, oppure metamorfopsie) e complesse (distorsioni visive, uditive e propriocettive relative a oggetti più strutturati, difficoltà a integrare stimoli di modalità sensoriali diverse), i disturbi del linguaggio espressivo e recettivo (turbe della comprensione e della produzione del linguaggio), i disturbi cognitivi del pensiero (interferenze di pensiero, disturbi della dirigibilità dei pensieri e altre esperienze di depersonalizzazione autopsichica), i disturbi della memoria (in particolare di quella a breve termine), i disturbi della motricità (disturbi del feedback propriocettivo, emergere tematico di attività normalmente automatiche, blocchi motori), la perdita degli automatismi (le abitudini sono dimenticate, cosicché le sequenze di azione devono essere faticosamente riordinate), l'anedonia (perdita della capacità di discriminare tra emozioni diverse in situazioni in cui l'eccitazione supera una data intensità) e i disturbi da sovrabbondanza di stimoli (flooding psicosensoriale, oppure iperarousalin assenza di filtro delle afferenze percettive). L'esperienza soggettiva fondamentale che, nell'esistenza schizofrenica, precorre i sintomi conclamati della schizofrenia consiste in una forma peculiare di depersonalizzazione, in un disturbo profondo dell'esperienza di sé: « Non sento più la presenza della mia persona», «Talvolta è come se non fossi io quello che sta pensando», «Mi sento distante da me stessa», «Mi lavo, e devo farlo di nuovo perché perdo il contatto con ciò che sto facendo». Questi fenomeni, talvolta quasi ineffabili e comunque perturbanti, costituiscono una forma tipica di perdita del contatto con se stesso, di scollamento tra sé e sé, di smarrimento dell'unità tra colui che sente e colui che è sentito. La depersonalizzazione auto-, somato- e allopsichica che caratterizza le fasi premorbose e prodromiche consiste, appunto, nella profonda alterazione di questa modalità preriflessiva e tacita di coscienza di sé detta «ipseità» (Henry, 1963): il sentimento dell'essere incarnato in se stesso, l'esperienza del proprio Sé (autoaffezione) in cui colui che prova e colui che è provato non sono che uno (Henry, 2000). Il fenomeno dell'ipseità ha un ruolo fondante per qualsiasi tipo di esperienza; è la precondizione silente di ogni esperienza, l'orizzonte che la rende possibile. La crisi dell'ipseità è considerata il nucleo fondamentale della vulnerabilità alla schizofrenia. Il fenomeno dell'«iperriflessività» rappresenta, insieme alla crisi dell'ipseità, il secondo organizzatore fenomenologico della depersonalizzazione schizofrenica: «Quando cammino, talvolta divento consapevole di ogni singolo passo», «Percepisco i miei pensieri qui nella fronte», «Vivo la mia vita in terza persona», Questa vita in terza persona è la controfaccia del disturbo dell'ipseità, nel senso che la crisi dell'ipseità e l'iperriflessività sono le due facce della stessa medaglia: lo scollamento tra sé e sé si accompagna al vedersi dall'esterno, all'assumere la propria esistenza come oggetto esterno di attenzione cosciente. Il fenomeno dell'oggettivazione morbosa è il capolinea di questo progressivo scollamento del Sé da se stesso e, in quanto tale, è l'organizzatore fenomenologico dei sintomi schizofrenici conclamati. Le esperienze e i deliri di influenzamento somatico e psichico ne sono un esempio lampante: un organo o una funzione corporea vengono dapprima percepiti, nel senso che emergono dallo sfondo tacito in cui normalmente sono sperimentati; vengono così vissuti come esterni al proprio Sé, e successivamente viene concepita come esterna e oggettiva l'intenzione o la volontà che li governa. Le allucinazioni uditive sono l'oggettualizzazione del dialogo interiore sul quale è fondata la coscienza di sé preriflessiva e riflessiva. Normalmente, questo dialogo di se stesso con se stesso passa inosservato e sotto silenzio in quanto «abitato» nell'ipseità. Nella riflessività, questo dialogo interiore viene percepito esplicitamente, e poi sonoramente e infine spazializzato e attribuito ad agenzie esterne in linea con la perdita dell'ipseità. I neologismi rappresentano un'altra manifestazione lampante dell'oggettualizzazione della propria vita psichica: parole create per esprimere vissuti altrimenti ineffabili (spesso scaturiti dalla perdita di quell'abitudine tacita nei confronti di sé e del mondo mantenuta dal sentimento di ipseità), divengono oggetti concreti e a loro volta sanciscono il carattere di ogget-tualità e concretezza di ciò che designano. In questa sequenza (che non dev'essere certo letta come la catena di montaggio dei sintomi schizofrenici) appare una profonda coerenza di significato tra i fenomeni che contraddistinguono la vulnerabilità - cioè la perdita dell'ipseità e iperriflessività - e i fenomeni schizofrenici finali e conclamati, contrassegnati dall'instaurarsi dell'oggettivazione morbosa. Esiste, inoltre, un'altrettanto profonda coerenza di significato tra le modificazioni psicopatologiche del campo di coscienza schizofrenico e la persona dello schizofrenico, intesa come configurazioni di valori e credenze che sanciscono un atteggiamento stabile verso la vita. Riguardo al primo punto, vulnerabilità e sintomi psicotici appartengono al medesimo circolo semantico, quello del disturbo del Sé inteso come progressivo squilibrarsi della dialettica del Sé in quanto unità nella duplicità. Sussiste, cioè, una continuità, ben più significativa delle eventuali discontinuità e differenze, tra il complesso perdita dell'ipseità-iperriflessività e il fenomeno dell'oggettivazione morbosa. Questa continuità consiste, appunto, nel progressivo distacco di sé da sé tramite la crisi dell'ipseità, il circolo vizioso dell'iperriflessività e, infine, l'oggettivazione morbosa. Riguardo al secondo punto, inoltre, non sembra necessario ipotizzare una discontinuità tra la sfera di significati a cui rimandano le modificazioni basiche del campo di coscienza e il mondo delle credenze e dei valori della persona vulnerabile. Una comune tendenza all'oggettivazione rappresenta, al tempo stesso, il vulnus e il telos della coscienza schizofrenica: una duplice ma identica tendenza, immanente alla coscienza di sé e alla sfera dei valori della persona schizofrenica, verso l'oggettivazione del proprio corpo e della propria vita psichica (ridotti a meccanismi fungenti), e dell'intersoggettività (ridotta ad algoritmi sociali). La tendenza a questa scissione tra coscienza e materia, e tra Sé e mondo, così come la tendenza all'oggettivazione e alla spazializzazione della vita sono l'organizzatore di significato fondamentale dell'esistenza vulnerabile alla schizofrenia. GIOVANNI STANGHELLINI |