Test |
Il test, o reattivo mentale, è uno strumento per la misurazione di variabili psicologiche. Una classica definizione è quella di A. Ana-stasi (1954), che lo presenta come «misura obiettiva e standardizzata di un campione di comportamento»; in tale definizione sono impliciti i presupposti essenziali che sono alla base dell'ideazione, della costruzione e dell'uso dei test in psicologia. In primo luogo, il presupposto della misurazione dello psichico, tutt'altro che scontata prima della diffusione delle correnti naturalistiche e positivistiche di fine '800. L'idea della psiche come «anima», come interiorità profonda e misteriosa, aveva già perso terreno nel pensiero illuminista che inizia a porla «di fronte» come objectum, al pari degli altri oggetti di natura, per ispezionarla e indagarla nelle sue condizioni. Lo stesso concetto di «diagnosi psicologica» prende forma dalle idee settecentesche che introducono per la prima volta i criteri di «normalità» e di «devianza dalla norma» nell'ambito psichico. A conferma dell'origine illuministica della diagnosi psicologica, già nel 1732 il filosofo tedesco razionalista Ch. Wolff coniava il termine «psicometria», avanzando l'idea che fosse possibile applicare ai fenomeni psichici i metodi e gli strumenti scientifici fino ad allora delegati a controllare il mondo fisico. Tale processo di naturalizzazione è portato a compimento dal positivismo di fine '800; il progetto della psicometria si definisce progressivamente come tentativo di attribuire numeri alle variabili psicologiche, secondo precise regole di corrispondenza, e di stabilire una «normalità psichica» cui fare riferimento per valutare i singoli individui. Tale progetto trova appoggio in una serie di motivi culturali propri dell'epoca: la concezione di «adattamento» introdotta dall'evoluzionismo darwiniano, il liberismo sociale ed economico, con le sue idee di efficienza e produttività, e la recente diffusione delle procedure di analisi statistica. Negli anni '30 il comportamentismo costituirà una ratifica decisiva di questo programma di ricerca, per la sua prescrizione di limitare l'oggetto della psicologia al comportamento osservabile e di conformare il metodo a quello sperimentale adottato dalle scienze più mature. La psicometria, quindi, oltre che sul presupposto «misurazionista», si basa sulla registrazione del comportamento e sul principio statistico detta normalità della distribuzione di frequenze. Il primo presupposto consente di guardare il fenomeno psichico come una variabile (cioè come una caratteristica che può assumere diversi valori in un dato intervallo); il secondo considera il comportamento quale indicatore di variabili non osservabili direttamente; il terzo prevede che le variabili psicologiche, come tutte le altre variabili, si distribuiscano «normalmente», secondo la nota rappresentazione grafica della curva a forma di campana o «curva di Gauss». L'avvio della ricerca psicometrica è comunemente attribuito allo scienziato inglese F. Galton. Negli ultimi decenni dell'800 egli predispone un laboratorio per i suoi studi sull'ereditarietà ed escogita una serie di dispositivi atti a misurare le caratteristiche degli individui e le loro differenze individuali. Accogliendo l'empirismo di J. Locke e i principi di selezione naturale dell'evoluzionismo, Galton assume che le capacità sensoriali siano indicatori di intelligenza e che l'estensione delle capacità uditive, visive, olfattive possa essere considerata come indice attendibile di un buon adattamento alla realtà. Il contributo di Galton alla misurazione psicologica consiste, inoltre, nell'elaborazione di procedure statistiche per l'analisi dei dati e nell'introduzione di quell'idea di «co-relazione» che, ripresa dal suo allievo K. Pearson, si rivelerà determinante per le metodologie della psicologia scientifica. Altra figura di rilievo nello sviluppo del testing psicologico è J. Cattell, allievo di W. Wundt, che conia il termine «test mentali» e divulga nell'America del primo '900 le promettenti possibilità della psicologia applicata. Un passaggio importante in questo percorso è costituito dagli studi del francese A. Binet, che individua nelle abilità d'azione, non più sensoriali ma produttive, gli indicatori dell'intelligenza. Alcune prove prestazionali (ricordare una sequenza di numeri, ricostruire figure, conoscere il significato di parole astratte, ecc.), applicate su bambini, permettono di valutare il risultato medio dei soggetti della stessa età, indicata come «età mentale», cui rapportare quella cronologica dei soggetti esaminati. Nasce così, nel 1905, il primo test d'intelligenza (Binet-Simon) a valutazione scalare, che prelude all'introduzione, nel 1916, dell'indice del quoziente intellettivo (QI), destinato ad avere larghissima diffusione sia in Europa che in America. Dopo l'intelligenza, anche la personalità diventa oggetto di misurazione e, anche in questo caso, ciò che propriamente viene misurato è un comportamento, inteso come indicatore di una caratteristica psichica latente: il «tratto». Le «teorie dei tratti», rappresentate da psicologi quali G. Allport, H. Eysenck e R. Cattell, concepiscono la personalità come un insieme organizzato di caratteristiche: i tratti descritti come «disposizioni stabili e generalizzate» che ogni individuo possiede in misura diversa e che lo dispongono a emettere certi comportamenti in certe situazioni. La rilevazione e la misurazione dei tratti salienti avrebbe quindi una funzione sia descrittiva sia predittiva. I primi strumenti di misura della personalità sono costruiti sottoponendo ad analisi fattoriale un gran numero di aggettivi descrittivi di caratteristiche personologiche. Tale procedura statistica, ideata da Ch. Spearman nei primi anni del '900, consente di identificare le dimensioni latenti che spiegano le correlazioni tra le variabili. Il 16 PF (Personality Factor) di Cattell del 1949, ad esempio, considera 16 dimensioni bipolari (del tipo sottomissione/dominanza, rudezza/delicatezza), corrispondenti ad altrettanti tratti che, nelle intenzioni, dovevano esaurire la descrizione della sfera di personalità umana. I presupposti da cui nasce e si sviluppa la pratica del testing assumono, in sintesi, che le caratteristiche psicologiche (l'intelligenza, la socievolezza, l'ansia, ecc.), siano misurabili attraverso la loro traduzione operativa in comportamenti considerati quali indici della variabile latente. La costruzione dei test risponde a questa esigenza di registrare un appropriato campione di comportamento attraverso stimoli capaci di elicitare una risposta osservabile e quantificabile. Il punteggio ottenuto al test, detto «punteggio grezzo», tuttavia, non ha alcun valore di per sé, se non è trasformato in modo da renderlo rapportabile al valore medio ottenuto dal campione normativo, cioè da un campione di soggetti «omogenei» scelto con opportuni criteri statistici. Le norme di un test si riferiscono, di conseguenza, alla prestazione ottenuta in quel test dal campione di riferimento. Per rendere possibile il confronto, le procedure psicometriche richiedono condizioni di somministrazione rigorosamente standardizzate. Le domande poste ai soggetti, o le prestazioni richieste, devono essere identiche, come identiche devono essere le modalità di presentazione e le consegne: la successione degli stimoli, la distanza fisica tra esaminatore ed esaminato, la disposizione-tipo dell'ambiente, il tono di voce, ecc., devono essere regolati in modo da limitare al massimo qualunque interferenza soggettiva. In questo modo si ottiene una «valutazione oggettiva», tale cioè che i risultati siano interpretabili allo stesso modo, chiunque sia la persona che compie la misurazione e quella che viene misurata e qualunque siano le circostanze in cui la misurazione è compiuta (Boncori, 1993). Gli obiettivi e i criteri d'uso del testing psicologico sono rimasti fondamentalmente invariati fino ad oggi, anche se le procedure statistiche utilizzate si sono evolute e perfezionate e si è moltiplicato il numero dei test e il loro spettro di azione. Impiegati già all'epoca della Prima guerra mondiale per la selezione dei militari, la loro applicazione si è progressivamente estesa a quasi tutte le istituzioni: nella scuola, nel lavoro e nelle organizzazioni, nei servizi sanitari, nei centri di orientamento scolastico-professionale, nel settore medico-legale, oltre che nella pratica clinico-terapeutica e nella ricerca psicologica. I test psicologici si presentano, in sostanza, come un insieme di unità-stimolo (item): fogli in cui sono elencate affermazioni o domande cui il soggetto deve rispondere scegliendo tra alternative, materiali da comporre, problemi da risolvere, figure ambigue da interpretare, disegni da completare, ecc. La prestazione del soggetto deve essere quantificata attraverso procedure che assegnano un punteggio alle risposte sintomatiche della presenza della variabile in esame (risposte alfa). Questa fase di scoring del test, un tempo agevolata da apposite griglie, è ora quasi sempre affidata a sistemi computerizzati che, in base alle norme di riferimento, svolgono anche il lavoro di trasformazione dei punteggi grezzi in punteggi standardizzati, collocano il soggetto lungo la dimensione considerata e, spesso, forniscono anche la lettura dei risultati attraverso statement descrittivi preassegnati in base a regole di corrispondenza. Il testing automatizzalo sembra così realizzare l'obiettivo dell'oggettività che regola, fin dall'inizio, il progetto di misurazione psicologica. Tale obiettivo si riflette anche nei requisiti psicometrici essenziali che ogni test deve possedere per chiamarsi tale e svolgere la sua funzione di misura: quelli della validità e dell'attendibilità, requisiti che rispondono a un'istanza comune alle misurazioni fisiche e psichiche. La validità si definisce come la capacità di un test di misurare effettivamente la caratteristica che si intende misurare. Questo concetto, apparentemente tautologico, nasconde, in realtà, problemi di grande rilievo, sia teorici che statistici, tanto che un'apposita commissione dell'American Psychological Association ha dedicato anni di studio al suo chiarimento, arrivando a definire quattro tipi di validità: la validità di contenuto, la validità interna, la validità di criterio e la validità di costrutto. La validità di contenuto è la stima di quanto gli item del test possano rilevare un campione di comportamento rappresentativo della variabile che si vuole misurare. La validità interna (o fattoriale) è espressa dal coefficiente di correlazione tra gli item del test quale prova della loro «dimensionalità», cioè della loro capacità di misurare lo stesso costrutto. La validità di criterio è la misura della correlazione tra risultati al test e altre variabili capaci di documentare ciò che il test si propone di valutare (ad es. i voti scolastici, se si tratta di un test di profitto). Si distingue in validità concorrente e validità predittiva. Nel primo caso, il criterio di confronto è il livello di concordanza tra test e variabile-criterio; nel secondo caso è dato dall'effettivo verificarsi delle previsioni consentite dal test. La validità di costrutto si riferisce, infine, alla chiara definizione, in base a una teoria, del costrutto che si intende valutare ed è il prerequisito necessario alla misurazione degli altri tipi di validità. L'attendibilità (o fedeltà) di un test fa riferimento alla coerenza dei punteggi ottenuti da uno stesso soggetto in una ripetizione di misurazioni. Il coefficiente di attendibilità è dato dalla correlazione tra i punteggi ottenuti in diverse somministrazioni del test ed esprime la stabilità nella misura della variabile. In termini statistici, il coefficiente di correlazione tra le misure deve escludere l'errore casuale. Il controllo dell'attendibilità può essere effettuato con diverse procedure: 1) verifica attraverso il re-test: si somministra a un gruppo di soggetti lo stesso test in tempi diversi per calcolare il coefficiente di stabilità; 2) verifica attraverso «forme parallele» di test per calcolare il coefficiente di equivalenza; 3) verifica attraverso la divisione a metà (split-half) del punteggio-test: si considerano i due subtotali e si effettua un confronto tra la prima metà dei risultati e l'altra metà per calcolare il coefficiente di consistenza (indice di omogeneità o di costanza interna); 4) verifica attraverso l'accordo tra i punteggi espressi dagli esaminatori. I test psicologici sono stati classificati secondo diversi criteri, che fanno riferimento al materiale utilizzato, al modo di presentazione degli stimoli, al compito richiesto al soggetto, alle possibilità di applicazione individuale e di gruppo. Qui ci si limita a segnalare la tendenza più condivisa di classificazione che distingue i reattivi, in base all'oggetto di misurazione, in test cognitivi e test «non cognitivi» o di personalità. I test cognitivi sono prove prestazionali che richiedono al soggetto la soluzione di compiù verbali, logici, matematici. Comprendono i test di intelligenza, di profitto e di attitudini. I test d'intelligenza, sviluppati a partire dal classico test di Binet, si sono evoluti in senso teorico e metrico-statistico; oltre che la funzione generale «intelligenza» (fattore g di Spearman), essi misurano abilità specifiche (verbale, spaziale, percettiva, numerica, di memoria, ecc.), rendendo possibile una valutazione pili articolata e analitica degli individui. I test di profitto misurano le competenze acquisite dopo un processo formativo e le abilità con cui tale competenze sono elaborate; sono generalmente utilizzati per verificare l'apprendimento scolastico o i requisiti di ammissione a cicli di istruzione e professionali. I test di attitudini sono costituiti da gruppi coerenti o «batterie» di strumenti delegati a rilevare capacità specifiche quali la capacità visiva, di attenzione, di sintesi, di creatività, ecc.; sono impiegati soprattutto per la selezione del personale nelle organizzazioni lavorative. I test di personalità si propongono la misurazione di variabili psicologiche affettivo-emotive, sociali e di interesse, definite tradizionalmente - anche se non secondo un accordo unanime - come «non cognitive». Essi sono, a loro volta, distinti in due grandi categorie: i test oggettivi di personalità e i test proiettivi. La prima categoria è rappresentata da questionari e inventari che propongono, rispettivamente, quesiti e affermazioni relative a interessi, desideri, opinioni, reazioni agli eventi, ecc., alle quali il soggetto deve dare il suo assenso o dissenso, scegliendo tra alternative dicotomiche del tipo «sì-no» o tricotomiche del tipo « vero-falso-non so». Gli inventari più recenti utilizzano enunciati seguiti da scale di valutazione da 5 o 7 punti. Tali strumenti sono chiamati anche self-report, in quanto comportano un'autovalutazione rispetto alle dimensioni proposte. Si dicono, inoltre, mul-tidimensionali quando misurano più di un tratto e unidimensionali quando considerano un solo tratto. I più diffusi strumenti che rientrano nella prima specie sono il Minnesota Multiphasic Personality Inventory, ideato negli anni '40 da S. Hathaway, psicofisiologo, e J. Ch. McKinley, neuropsichiatra, per discriminare i soggetti patologici da quelli non patologici, il Millon Clinical Multiaxial Inventory, il Big-Five Questionnaire; sono invece esempi di strumenti unidimensionali lo State-Trade Anxiety Inventory, il Beck Depression Inventory e il Self Control Schedule. Mentre i test oggettivi di personalità seguono i criteri di costruzione e di interpretazione tipici della psicometria, l'altra categoria di strumenti per la valutazione della personalità, quella dei proiettivi, si basa, appunto, sull'ipotesi della proiezione, secondo la quale il soggetto tende a dare forma all'esperienza trasferendo in essa pensieri, sentimenti, emozioni personali. Per facilitare tale processo, le tecniche proiettive presentano stimoli poco strutturati o ambigui. L'esempio più noto è costituito dalle tavole del test di Rorschach (dal nome dello psichiatra svizzero che lo ideò negli anni '20); le tavole presentano macchie indistinte, di fronte alle quali il soggetto è invitato a dire «che cosa potrebbe essere». La differenza più evidente, rispetto ai questionari, è che nei metodi proiettivi si sollecita la produzione spontanea del soggetto, permettendo l'espressione di dinamiche consce e inconsce. Il concetto di proiezione, infatti, ha origine nella psicoanalisi di S. Freud, quale meccanismo inconscio di espulsione di contenuti inaccettabili alla coscienza, ma il significato che ha assunto nell'ambito delle tecniche proiettive si è esteso, indicando, più in generale, l'attribuzione di un senso personale allo stimolo ambiguo presentato. Le tecniche proiettive si distinguono generalmente in «strutturali» e «tematiche». Le prime, di cui il Rorschach è la più importante rappresentazione, tendono a cogliere la struttura dinamica della personalità attraverso l'indagine dello stile personale cognitivo, affettivo e sociale. Le seconde, sempre sulla base di stimoli dal significato incompleto, sollecitano temi specifici relativi a conflitti, sentimenti, paure. Il soggetto, in questo caso, è invitato a raccontare una storia a partire da immagini di persone indefinite e situate in contesti altrettanto sfumati, come nel Tat (Tematic Apperception Test), nell'Ort (Object Relations Technique) o come nei test per bambini quali il Cat (Children Apperception Test), il Blacky Pictures che, attraverso la rappresentazione della famiglia di un cagnolino, indaga sullo sviluppo psicosessuale infantile, e il Patte-Noir che per scopi analoghi si serve di un maialino dalla zampa nera. Altri test, detti semiproiettivi, richiedono di completare frasi interrotte (test di Rosenzweig, test di Sacks), di produrre disegni (disegno della figura umana, dell'albero, della famiglia, della casa), di scegliere colori (test di Lüscher) o di manipolare materiali (Sceno-test, Test del villaggio). L'ipotesi proiettiva implica sia l'ambiguità degli stimoli presentati, sia l'introduzione di (attori qualitativi nell'interpretazione, ma ciò non significa che questi strumenti rinuncino alla misurazione. Le risposte del Rorschach, ad esempio, sono classificate attraverso sistemi di siglatura che consentono un confronto puntuale con le medie statistiche e con i gruppi-criterio, dando luogo a diagnosi classificatorie del tipo di quelle ottenibili con i questionari e gli inventari. Non si è ancora spenta, tuttavia, la polemica tra sostenitori e detrattori delle tecniche proiettive, spesso accusate di non corrispondere ai requisiti psicometrici previsti per i test. In linea di massima si può affermare che alcuni sistemi di siglatura dei protocolli tendono ad avvicinare le tecniche proiettive alle procedure psicometriche, ma che l'impianto complessivo di tali strumenti consiglia di riservare ad essi la denominazione di tecniche di indagine o di metodi proiettivi escludendo, a rigore, il termine test. Per contro, la possibilità che tali tecniche offrono di indagare la personalità in modo più globale e profondo di quanto previsto dai test oggettivi, le rende strumenti di elezione nell'ambito diagnostico e clinico. A partire dagli anni '60 l'impiego dei test è stato sottoposto a un movimento critico che investe sia il loro impianto scientifico sia il loro uso ideologico. Di fronte alle pesanti accuse che imputavano ai test un'intrusione indebita nella sfera del personale, una ingiusta classificazione degli individui dentro categorie ispirate ai valori della cultura americana e che denunciavano l'approssimazione di chi, sulla base dei test, prendeva decisioni sulla vita altrui, l'American Psychological Association ha fondato nel 1965 un comitato per lo studio degli effetti sociali del testing, che pubblica periodicamente le norme per una corretta costruzione e somministrazione dei reattivi psicologici. Gli indirizzi più attuali nell'uso dei test tendono a porre in secondo piano la loro funzione classificatoria e psicometrica a favore di un ruolo sempre importante, ma collocato nel più ampio contesto diagnostico e clinico, in una prospettiva multidimensionale in cui si dà più spazio alla soggettività e alla conoscenza personale. Anche nella ricerca psicologica, in misura proporzionale all'estensione e all'approfondimento delle conoscenze statistiche, si è sviluppata una maggiore consapevolezza delle possibilità e dei limiti dei test, utilizzati ormai quasi sempre a servizio di ipotesi teoriche definite e dentro una rete di implicazioni conoscitive più ampie che restituiscono a questa decisiva invenzione scientifica l'originario significato di strumento. MARIA ARMEZZANI |