Riabilitazione psichiatrica

Il concetto di «riabilitazione» ha fatto il suo ingresso nel campo della psichiatria in tempi relativamente recenti, e solo da poco vi ha trovato piena accoglienza. D'altronde le sue radici originarie si trovano in ambiti estranei al pensiero e alla pratica psichiatrica: in primo luogo nelle scienze giuridiche, e secondariamente in quella branca della medicina che si occupa di rieducare la funzione di organi o apparati compromessi da eventi morbosi. Nel primo caso l'obiettivo è il reintegro di chi ha colpevolmente infranto le norme sociali nel godimento dei diritti di fronte alla legge, dopo avere scontato la pena. Nel secondo si tratta di recuperare nei limiti del possibile un'autonomia compatibile col danno subito. Questa duplice origine è alla base della coesistenza non completamente risolta nella riabilitazione psichiatrica tra le istanze di integrazione sociale e l'accento sul recupero delle capacità individuali.
In ogni caso, per lungo tempo la riabilitazione si è connotata nell'ambito psichiatrico come un insieme di pratiche confinate ai margini della clinica e ad essa subalterne, prive di dignità concettuale e professionale. Tale ruolo secondario è testimoniato dall'assenza quasi completa fino alla metà degli anni '60 del '900 di riferimenti alla riabilitazione nei più diffusi e prestigiosi manuali di psichiatria. Il primo testo importante che vi dedica uno spazio specifico è quello di S. Arieti, in cui figura un contributo di F. Braceland (1966) che, seppur breve, illustra il concetto di riabilitazione in relazione alla psichiatria, ne delinea l'evoluzione storica e ne riassume le applicazioni. L'autore sottolineava che gli sconvolgimenti legati alla Seconda guerra mondiale e all'immediato dopoguerra avevano creato le condizioni favorevoli affinché l'idea di riabilitare i malati mentali si facesse strada. Si trattava di condizioni sia interne che esterne alla disciplina psichiatrica. Innanzitutto un numero considerevole di psichiatri, soprattutto negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, si erano trovati a operare nell'ambito della sanità militare in un contesto che indicava per i soldati con disturbi mentali il recupero e la reintegrazione nell'esercito, anziché la custodia e l'isolamento, come obiettivo prioritario, in contrasto col modello dominante della psichiatria asilare. Una serie di fattori, inoltre, contribuì a mettere in discussione il tradizionale assetto manicomiale. In alcuni paesi europei le privazioni della guerra avevano colpito in modo particolarmente duro i manicomi, ma paradossalmente le difficoltà comuni avevano creato in alcuni casi un clima nuovo di solidarietà tra personale e internati, mentre questi ultimi di fronte a circostanze sfavorevoli avevano mostrato insolite capacità di adattamento. F. Jaeggi (1963) riferisce alcuni episodi significativi: in Francia, nello sbandamento seguito all'invasione tedesca, molti ricoverati dell'ospedale di Charité sur Loire erano fuggiti, riuscendo in gran parte a sopravvivere e adattarsi all'ambiente esterno. In Inghilterra un bombardamento aveva danneggiato seriamente l'ospedale di Croydon, mettendone in crisi i sistemi di sicurezza (porte chiuse, sbarre alle finestre) senza che l'improvvisa impossibilità di tenere i malati reclusi provocasse le conseguenze drammatiche paventate dalla direzione. Infine la scoperta dei campi di concentramento e il resoconto dei sopravvissuti sulle loro terribili esperienze di internati avevano messo impietosamente in luce le somiglianze tra i lager e i manicomi, sollevando dubbi sulla funzione terapeutica di questi ultimi. Cominciarono a farsi strada esigenze di umanizzazione istituzionale, che assunsero forme diverse ma convergenti a seconda delle differenti realtà sociali e culturali. In Francia, dove circa metà dei ricoverati erano morti di stenti durante la guerra e alcuni manicomi erano stati rifugio di combattenti della Resistenza, nacque il movimento della psicoterapia istituzionale, animato da F. Tosquelles, esule dalla Spagna franchista con un'esperienza di psichiatra nell'esercito repubblicano durante la guerra civile. In Inghilterra si sviluppò il modello della comunità terapeutica e dell'ospedale aperto, la cui figura più significativa fu M. Jones. Non a caso a quest'ultimo l'Organizzazione mondiale della sanità commissionò un rapporto dedicato per la prima volta alla riabilitazione psichiatrica, che così otteneva il suo primo riconoscimento ufficiale (Jones, 1952). A queste spinte, frutto dell'insoddisfazione verso il manicomio, si aggiungeva la tensione al cambiamento generata dal clima positivo ed entusiasta della ricostruzione postbellica. Soprattutto in Inghilterra le iniziative sorte per rispondere al problema del reinserimento dei soldati reduci dal fronte, molti dei quali con esiti di malattie invalidanti, fornirono un modello per il recupero attraverso la riabilitazione dei malati di mente, con enfasi sul lavoro insieme come mezzo di recupero e obiettivo tangibile. Non va dimenticato infatti che l'espansione economica in atto a partire dagli anni '50 creava una domanda di forza lavoro e offriva opportunità di occupazione. La cosiddetta «terapia industriale», cioè la creazione all'interno degli ospedali di laboratori protetti, talvolta collegati alle imprese esistenti nelle aree circostanti, fu il tentativo di fare della riabilitazione lavorativa uno degli elementi portanti di un rinnovato modello di ospedale psichiatrico. Proprio in quegli anni la popolazione manicomiale in Inghilterra iniziava per la prima volta, dopo un secolo di espansione, a diminuire, con il ritorno nella società di migliaia di ricoverati, che ponevano problemi nuovi. Poco dopo lo stesso fenomeno si manifestava negli Stati Uniti e più tardi investiva, con maggiore o minore intensità, la maggioranza dei paesi industrializzati, raggiungendo anche l'Italia agli inizi degli anni '70. Vi sono state numerose discussioni sui fattori che hanno determinato la riduzione progressiva della popolazione manicomiale. Negli ambienti della psichiatria ufficiale è stato sottolineato il ruolo di una ritrovata funzione terapeutica dei manicomi rinnovati, potenziata anche dai farmaci antipsicotici, introdotti a partire dalla metà degli anni '50. In realtà si è trattato di un fenomeno sociale complesso, in cui hanno avuto un peso preponderante diversi elementi, come l'attenzione per i diritti civili dei ricoverati, l'espansione economica, la spinta alla riduzione dei costi di istituzioni sempre più mastodontiche. E’ certo comunque che l'ospedale psichiatrico perdeva attrattiva sotto il peso di critiche sempre più aspre alla sua funzione e ai suoi modelli organizzativi e cominciava invece a essere considerato fonte di un aggravamento iatrogeno della malattia. Di fatto la dimissione dei ricoverati, più che essere un prodotto dell'introduzione di più aggiornati metodi terapeutici, divenne il motore di un impulso nuovo verso la riabilitazione nella comunità. Una revisione critica della riabilitazione nel contesto manicomiale mostra infatti che, nonostante gli indubbi effetti di rinnovamento istituzionale, essa in realtà era andata raramente al dì là dell'intrattenimento (Saraceno, 1995). Anche l'ergoterapia, i laboratori protetti, la terapia industriale non si sono mai dimostrati determinanti nel favorire un reale ingresso nel mondo del lavoro dei pazienti psichiatrici.
Quali che siano state le cause, il fatto che un numero crescente di persone con disturbi mentali gravi trascorresse gran parte della sua vita nell'ambito sociale normale creò le condizioni perché l'attenzione si focalizzasse sul funzionamento sociale e sulle relazioni in un contesto reale, mettendo in luce problemi, aspettative e obiettivi non percepibili nell'artificiale universo asilare. La critica al ruolo del manicomio tuttavia si articolò ben presto in due versioni: una debole, per cui è più corretto parlare di «deospedalizzazione», intesa come ridimensionamento, ma non superamento, dell'istituzione manicomiale umanizzata e ridotta a un ruolo non più centrale in un sistema di servizi più articolato; e una forte, per cui l'obiettivo è la «deistituzionalizzazione», ovvero il superamento completo del modello manicomiale nei suoi aspetti fondanti e non il suo semplice ridimensionamento. Ponendosi in quest'ottica, F. Basaglia (1971) assunse un punto di vista radicale e innovativo, sostenendo che bisognava individuare l'oggetto della riabilitazione a diversi livelli: quello individuale, cioè il malato e la sua malattia; quello sovrastrutturale in cui il malato era costretto, cioè l'istituzione; e quello strutturale, definito dal ruolo strategico che l'istituzione ha all'interno del sistema sociale di cui è espressione. Per parlare di riabilitazione era dunque indispensabile che questi tre piani risultassero complementari l'uno all'altro, secondo una finalità comune, nel senso che il malato doveva trovare nell'istituzione deputata alla sua cura la risposta ai bisogni rappresentati dalla propria malattia e nella realtà esterna gli elementi indispensabili al suo reinserimento e recupero. Successive elaborazioni di questa impostazione portarono alla posizione secondo cui la risposta ai bisogni del malato poteva avvenire solo «mettendo tra parentesi» la malattia stessa. Si può riscontrare una convergenza tra questa posizione e la prospettiva di un campo specifico della riabilitazione autonomo rispetto alla clinica derivante dalla distinzione proposta dall'Oms (1980) tra malattia, menomazione, disabilità e handicap.
Tale distinzione si basava sulle seguenti definizioni: 1) la «malattia» come condizioni-fisica o mentale percepita come deviazioni dallo stato di salute normale e descrivibili-in termini di sintomi e segni; 2) la «meno mazione» come danno organico o funzionale a carico di una struttura o funzione ami tomica, fisiologica o psicologica; 3) la «di sabilità» come limitazione o perdita di capacità operative prodotta da una menomazione; 4) l'«handicap» come svantaggio con seguente a una disabilità che impedisce o limita l'adempimento di un ruolo socialmeii te adeguato per un soggetto. In base a questo approccio era chiaro che la disabilità, a livello individuale, e l'handicap, risultante dall'interazione tra il soggetto ma lato e il contesto sociale, delineavano l'oggetto della riabilitazione. Anche se oggi possiamo rilevare in questo schema un'eccessiva semplificazione, riscontrabile nell'idea di una progressione lineare dalla malattia all'handicap, il valore innovativo derivante dal suo trasferimento al campo psichiatrico era evidente.
Un contributo indiretto, ma di grande portata, alla formazione di una base scientifica e concettuale alle pratiche riabilitative venne in quegli anni da una serie di studi longitudinali sull'esito della schizofrenia, i cui risultati, resi noti a partire dai primi anni '70, mettevano in luce diversi aspetti importanti. Innanzitutto, il decorso della schizofrenia non appare affatto uniformemente progressivo verso un esito sfavorevole, come le classiche concezioni da E. Kraepelin in poi avevano sempre sostenuto. Quello che emerge, piuttosto, è un'estrema eterogeneità, con esiti possibili che vanno dalla completa guarigione, in una proporzione di casi valutabile fra il 20 e il 30%, alla grave disabilità invalidante, in una proporzione che si aggira tra il 10 e il 20%. Cambiamenti significativi in senso favorevole si osservano anche in casi cronicizzati da lungo tempo a un livello gravemente disfunzionale. Peraltro, in un certo numero di casi la disabilità sociale sembra essere presente assai precocemente, a volte addirittura precedendo l'insorgenza della psicosi. In secondo luogo, il decorso risulta assai più favorevole nei paesi a basso reddito con una maggioranza di popolazione rurale, rispetto ai paesi industrializzati del mondo occidentale. Anche se rimangono incerti i fattori che contribuiscono a determinare questo dato, l'opinione prevalente è che siano in gioco variabili connesse al contesto socioculturale. Infine, il decorso stesso non si presenta come un fenomeno unitario, in quanto vi è scarsa correlazione tra le variabili di tipo clinico, come i sintomi psicopatologici o le ricadute, e quelle di tipo sociale, come il funzionamento sociale o lavorativo. E’’ quindi possibile in molti casi un sostanziale recupero sul piano sociale e un miglioramento della qualità di vita anche con la persistente presenza di sintomi gravi, solitamente ritenuti invalidanti, come deliri, allucinazioni o disturbi del pensiero.
Da questi dati epidemiologici è legittimo trarre alcune significative conclusioni: il decorso della schizofrenia e, per estensione, dei gravi disturbi psicotici è un processo aperto, la cui direzione può essere influenzata verso esiti diversi ed è sensibile, almeno in parte, ad alcune caratteristiche della rete sociale con cui il soggetto interagisce. Onesta plasticità rende credibile l'ipotesi che opportuni interventi psicosociali possano avere effetti favorevoli e conferma l'osservazione, già formulata in precedenza, che le caratteristiche dell'ambiente istituzionale avessero invece effetti intrinsecamente negativi. Inoltre, l'indipendenza dell'evoluzione sul piano sociale rispetto a quello clinico giustifica lo sviluppo di interventi attenti in modo particolare al recupero sociale. La riabilitazione poteva dunque, in via di principio, fare un salto di qualità da un coacervo informe di pratiche dettate dal buon senso e dallo spirito umanitario a un'area di intervento ben precisa. A testimonianza di questa evoluzione nascevano una rivista e un'associazione scientifica: il « Psychosocial Rehabilitation Journal», pubblicato negli Stati uniti a partire dal 1978, e l'Associazione mondiale di riabilitazione psicosociale, fondata nel 1986. Va notato l'uso dell'aggettivo «psicosociale», anziché «psichiatrica», usato in entrambi i casi per qualificare la riabilitazione. Proprio dagli Stati Uniti, e segnatamente dal gruppo di Boston, è venuta la maggiore spinta verso una codificazione della riabilitazione come disciplina autonoma che copre un dominio distinto da quello della terapia in senso stretto, col suo ambito d'intervento, le sue tecniche, i suoi statuti, le sue figure professionali. Questa visione tecnologica si affianca e a volte si contrappone a una visione strategica, che emerge invece dalla dichiarazione di consenso pubblicata dall'Organizzazione mondiale della sanità (1996). In questo documento la riabilitazione psicosociale è definita come un processo che deve fornire agli individui che abbiano una disabilità o un handicap dovuto a una malattia mentale tutte le opportunità per raggiungere un livello ottimale di funzionamento indipendente nella società. Dunque la riabilitazione implica sia un miglioramento delle competenze individuali sia l'introduzione di modifiche ambientali, in modo da creare le condizioni per la migliore qualità di vita possibile a chiunque soffra di una compromissione delle proprie capacità mentali tale da implicare un certo livello di disabilità. Essa è quindi una strategia complessa e ambiziosa, in quanto investe diversi scenari e diversi livelli, dalle istituzioni di cura ai contesti abitativi e lavorativi fino all'intera società. Essa è parte essenziale e integrante della presa in carico complessiva degli individui portatori di disabilità, e coinvolge numerosi soggetti: gli utenti e gli operatori, le famiglie, i datori di lavoro, i dirigenti e gli amministratori dei servizi, la comunità intera. In forza di tale complessità, i modi per fornire riabilitazione variano a seconda dei luoghi e dei contesti culturali, economici, politici, sociali e organizzativi. E’ chiaro che una visione strategica di questo tipo, più che delimitare un campo specifico, accentua l'aspetto trasversale della riabilitazione rispetto all'intero spettro delle pratiche psichiatriche. Non va disconosciuto il ruolo di tecniche e modelli d'intervento ben definiti, utili per ottenere risultati coerenti con gli obiettivi della riabilitazione, tenendo conto della necessità che si integrino in un processo più ampio, le cui caratteristiche fondamentali si declinano a seconda dei diversi ambiti in cui il processo riabilitativo si sviluppa. Sulle indicazioni relative ai modelli d'intervento ultimamente si è raggiunto un certo consenso e sono state fatte revisioni sulle evidenze disponibili in merito alla loro efficacia. In generale, possiamo suddividerli in: 1) interventi miranti a favorire l'inserimento nel lavoro o lo sviluppo delle capacità lavorative, 2) interventi centrati sulla promozione delle competenze sociali individuali, 3) interventi sulla comunicazione e sul clima emotivo all'interno delle famiglie, 4) interventi miranti a fornire informazioni sui disturbi mentali, a favorirne l'autogestione e a migliorare le capacità di soluzione dei problemi. La qualità della ricerca sulle singole tipologie di intervento è variabile; va tuttavia rilevato che ogni modello presenta problemi se trasferito in modo rigido al di fuori dal contesto in cui è stato progettato, e che per essere efficace va preferibilmente applicato nel contesto reale di vita dell'utente. Per tale motivo la comunità, e quindi i servizi a forte proiezione comunitaria formano il setting privilegiato della riabilitazione. Due aspetti sembrano comunque centrali nel processo della riabilitazione: il primo è la qualità della relazione fra utente e professionista, il secondo l'aumento di potere dell'utente (empowerment, con un termine inglese assai diffuso) come filo conduttore e obiettivo principale del processo stesso, attraverso il potenziamento delle risorse sia interne che esterne. Quest'ultimo aspetto si è collegato di recente all'impetuosa scesa in campo degli utenti come soggetti attivi della riabilitazione, sia come singoli che come gruppi organizzati (Chamberlin, 2001). E’ questa probabilmente la frontiera su cui si misurerà nei prossimi anni lo sviluppo della riabilitazione in psichiatria.

ANGELO BARBATO