Psicoterapia cognitivo-comportamentale |
Negli anni '50 del '900, il campo della psicoterapia, dominato dalla psicoanalisi, fu attraversato da una crescente esigenza di stabilire connessioni - per decenni considerate irrilevanti o impossibili dalla maggioranza degli psicoanalisti - con la ricerca scientifica di base in psicologia. Cominciò al contempo a manifestarsi insoddisfazione per la mancanza di prove controllate sull'efficacia della psicoterapia, e per la complessità, la durata e i costi dei trattamenti psicoanalitici, insostenibili per troppe persone sofferenti di disturbi emotivi, che avrebbero potuto beneficiare di un aiuto psicologico. La psicoterapia cognitivo-comportamentale nacque in risposta a tale esigenza e a tale insoddisfazione. Il primo passo nella sua costruzione fu la messa a punto della terapia del comportamento. I primi tentativi di stabilire connessioni fra teoria generale e teoria clinica, da una parte, e principi, metodi e risultati della psicologia sperimentale, dall'altra, furono basali sulle teorie dell'apprendimento e sulle ricerche ad esse correlate (Dollard e Miller, 1950). Questi tentativi non ebbero un seguito significativo all'interno della psicoanalisi. Diverso fu il successo degli sforzi volti a elaborare tecniche terapeutiche del tutto nuove sulla base delle teorie dell'approfondimento e dei risultati sperimentali che le sostenevano. Queste nuove tecniche, ispirate dal paradigma comportamentista, si rivelarono infatti capaci di offrire giovamento, in modo verificabile e in tempi brevi, ad alcuni circoscritti disturbi emotivi (tanto nell'ambito di quelle che allora si chiamava no nevrosi, quanto nell'ambito delle psicosi e dei disturbi psicosomatici). I primi tentativi furono effettuati, in modo indipendente fra loro, da clinici e da ricercatori del mondo anglosassone. A queste tecniche, nel loro insieme, fu successivamente dato il nome collettivo di «terapia del comportamento» (Wolpe e Lazarus, 1966). Studi di efficacia ben controllati (mai prodotti dagli psicoanalisti) dimostrarono che varie tecniche di terapia del comportamento, messe a punto ciascuna per uno specifico problema clinico (ad esempio, fobie semplici, tic, enuresi, difficoltà sessuali), erano efficaci nel controllare o mitigare il disturbo nella maggioranza dei pazienti. I tempi necessari per ottenere questi limitati, ma dimostrabili, risultati positivi erano inoltre assai brevi rispetto alla durata dei trattamenti psicoanalitici. Pur diverse fra loro, e relative ciascuna a uno specifico problema clinico, tali tecniche avevano un fondamento unitario nelle teorie comportamentiste dell'apprendimento. Ciò permise di formularne la base teorica comune facendo riferimento a una teoria generale dello sviluppo dei disturbi psicopatologici. La formulazione teorica più influente della terapia comportamentale fu opera dello psicologo H. Eysenck, che non era un clinico ma un ricercatore e un teorico. Grazie alla sua opera, la nascente terapia del comportamento ebbe a suo sostegno tanto le suddette prove di efficacia quanto una solida teoria unitaria di base (Eysenck, 1960). Ne derivò un graduale, ma notevole successo, tanto in ambito di ricerca quanto fra i clinici, tanto in psicologia quanto in psichiatria. La prima teoria proposta come fondamento della terapia comportamentale affermava che, pur sulla base di eventuali fattori genetici di temperamento, i disturbi psicopatologici si sviluppano in funzione della storia personale di apprendimento, non in funzione di dinamiche pulsionali e di meccanismi difensivi inconsci. La terapia, di conseguenza, doveva mirare a modificare le contingenze ambientali e i meccanismi di rinforzo degli apprendimenti disadattativi, oppure a generare nuovi e più adattativi processi di apprendimento. Gradualmente, nel corso degli anni '60 e '70, vennero messe a punto tecniche di terapia del comportamento finalizzate alla cura di fobie complesse (in particolare, il disturbo da attacchi di panico con agorafobia), dei disturbi ossessivo-compulsivi, dei disturbi del comportamento alimentare e sessuale, della depressione e dell'ansia sociale fino a specifici aspetti dei disturbi schizofrenici. L'uso clinico della terapia del comportamento cominciò presto a diffondersi anche al di fuori del mondo anglosassone. Prese così forma e si diffuse uno stile terapeutico in cui lo psicoterapeuta: 1) concentrava la propria indagine clinica sulle condotte osservabili del paziente, 2) limitava il proprio interesse per la storia del paziente e per le sue relazioni interpersonali al modo in cui singoli comportamenti disadattativi erano stati appresi e venivano mantenuti, e infine 3) aiutava il paziente a sviluppare nuovi comportamenti forieri di migliori risposte nell'interazione con l'ambiente e nell'estinzione di condizionamenti emozionali dolorosi. Proprio nel periodo del suo maggiore sviluppo, il paradigma teorico e di ricerca del comportamentismo, fino ad allora dominante nella psicologia sperimentale, cominciava a mostrare i primi segni di crisi. L'etologia, la psicolinguistica di N. Chomsky, la psicologia dello sviluppo cognitivo di J. Piaget, la neuropsicologia e la nascente scienza cognitiva iniziavano a confutare la tesi comportamentista secondo cui ogni mediazione interna fra stimoli ambientali e risposte comportamentali apprese fosse da trascurare in una scienza della mente rigorosa. Tali discipline convergevano nel dimostrare che anche ciò che non era direttamente osservabile nel comportamento poteva essere oggetto di una teoria suscettibile di verifiche o confutazioni sperimentali rigorose. Al paradigma comportamentista si andava così sostituendo quello cognitivista. Una sintesi assai influente delle critiche al comportamentismo, avanzate da prospettive interne al mondo della ricerca psicologica di base, fu prodotta da G. Miller, E. Galanter e K. Pribram (1960). La terapia del comportamento aveva dimostrato la possibilità di una psicoterapia 1) relativamente breve rispetto alla psicoanalisi; 2) più della psicoanalisi, suscettibile di studi controllati di efficacia; 3) che potesse svilupparsi in stretta correlazione con le discipline di base della psicologia sperimentale. La nascente psicologia cognitivista legittimava ora la ricerca di tecniche terapeutiche che, pur conservando e sviluppando tali caratteristiche, potessero andare oltre l'analisi del comportamento direttamente osservabile. Lo psicoterapeuta che voleva fondare la sua prassi su solide basi non doveva dunque pagare tale intenzione al prezzo di rinunciare allo studio dei processi di pensiero e all'indagine dell'esperienza soggettiva. Uno psicoanalista statunitense particolarmente interessato alle suddette tre caratteristiche della psicoterapia, A. Beck, fu il primo a utilizzare il termine «terapia cognitiva» per una nuova tecnica che si rivolgeva allo studio dei processi espliciti di pensiero nei disturbi emotivi, più che al comportamento osservabile (Beck, 1976). In particolare, la terapia cognitiva di Beck invitava a porre attenzione ai rapporti fra il modo di pensare del paziente, da una parte, e le sue esperienze emotive penose, dall'altra. Al di là di questa pur fondamentale differenza, la terapia cognitiva somigliava però, quanto a teoria di base e soprattutto quanto a stile di intervento, più alla terapia del comportamento che alla psicoanalisi. Tale terapia ave va dunque cominciato, almeno nel mondo anglosassone, a influenzare anche alcuni psicoanalisti. A. Ellis, un altro psicoterapeuta statunitense di formazione psicodinamica, si era interessato ai rapporti fra i pensieri espliciti del paziente e le sue emozioni dolorose. L'influenza della terapia del comportamento è evidente anche nel tipo di psicoterapia che Ellis (1962) mise a punto, e che denominò «terapia razionale-emotiva». La differenza principale fra la prospettiva di Ellis e quella di Beck, è che la prima si concentra maggiormente, nell’analizzare i rapporti fra pensiero ed emozione, sui contenuti irrazionali del pensiero (le credenze irrazionali patogene), mentre la seconda presta maggiore attenzione ai processi disfunzionali del pensiero (pensiero dicotomico, che procede in maniera assolutista per estremi opposti; inferenze arbitrarie; selezione arbitraria delle informazioni; generalizzazione eccessiva; personalizzazione). Nell'opera di Beck, inoltre, è maggiore l'influenza della psicologia sperimentale cognitivista, mentre la matrice fondamentale del pensiero di Ellis deriva pili dalla tradizione filosofica, in particolare stoica, che da quella psicologica sperimentale. La principale somiglianza fra queste due nuove tecniche terapeutiche è costituita dalla rinuncia ai cardini fondamentali della prassi e delle teoria psicoanalitica (esplorazione dell'attività mentale inconscia, comprensione dei disturbi in termini di meccanismi difensivi, e soprattutto teoria delle pulsioni), a vantaggio di interventi centrati su quanto il paziente pensa e prova nei momenti della vita nei quali i suoi sintomi si manifestano. Obiettivo centrale del terapeuta è la correzione, preferibilmente con metodi indiretti (dialogo socratico), dei contenuti (credenze) e dei processi cognitivi del paziente correlati con i disturbi emozionali. Nell'ambito della terapia del comportamento, alcuni clinici, prendendo atto della legittimità scientifica dell'esplorazione dei processi di pensiero e dell'esperienza cosciente, furono colpiti dalla compatibilità fra il proprio stile terapeutico e quello dei nuovi modi di avvicinarsi alla psicoterapia proposti da Ellis e da Beck. A. Lazarus, M. Mahoney e D. Meichenbaum, in particolare, contribuirono a coniugare esplicitamente le tecniche di terapia del comportamento con le nascenti tecniche di intervento focalizzate sui rapporti fra pensiero ed emozione. Il riferimento alla ricerca di base in psicologia prometteva la possibilità di rintracciare un fondamento teorico comune fra le «vecchie» tecniche comportamentali e quelle che erano state chiamate «cognitive» da Beck. Si cominciava così a cercare una vera integrazione anche teorica (e non una semplice eclettica giustapposizione nella prassi clinica quotidiana) fra tecniche centrate sul rapporto fra emozioni e comportamento (terapia comportamentale), e tecniche focalizzate sul rapporto fra pensieri ed emozioni (terapia cognitiva). Per realizzare tale integrazione, bisognava reinterpretare le tecniche di terapia del comportamento come modi per indurre anche cambiamenti cognitivi, e le tecniche di terapia cognitiva come modi per indurre anche cambiamenti di comportamento. In modo non dissimile, i ricercatori e i teorici della psicologia di base dovevano recuperare e rivedere in chiave cognitivista i risultati delle vecchie ricerche comportamentiste sull'apprendimento. La riflessione sulla teoria di fondo capace di giustificare l'uso congiunto di tecniche comportamentali e cognitive non si rivelò comunque impresa facile, e anzi è tuttora in parte irrisolta. Nonostante ciò, i terapeuti cognitivo-comportamentali non rallentarono comunque i tentativi di ampliare la gamma e l'efficacia della loro prassi clinica: nuove e sempre più articolate procedure terapeutiche vennero messe a punto, e la loro efficacia fu dimostrata effettuando studi controllati sugli esiti dei trattamenti. Il primo tentativo sistematico di riassumere le prove di efficacia per la psicoterapia di tutti i disturbi psicopatologici noti (Roth e Fonagy, 1996) ha evidenziato l'esistenza di convincenti dimostrazioni di efficacia delle tecniche cognitivo-comportamentali per la maggior parte dei disturbi, inclusi alcuni disturbi di personalità. Sono stati soprattutto terapeuti cognitivo-comportamentali appartenenti all'ambito culturale europeo-continentale a fermare l'attenzione sul problema irrisolto della teoria generale e del retroterra epistemologico della propria disciplina. L'epistemologia evoluzionista di K. Popper, coniugata alla nascente prospettiva evoluzionista in psicologia, da un lato, e l'epistemologia costruttivista di Piaget, dall'altro, furono i primi riferimenti utilizzati nel cercare di definire una base teorica unitaria per quel particolare genere di psicoterapia che andava emergendo dalle tecniche cognitivo-comportamentali. La considerazione unitaria della cognizione, dell'affettività e del comportamento sociale come frutti della selezione darwiniana poteva offrire un terreno epistemologico comune agli interventi terapeutici di stile cognitivo-comportamentale. Il riferimento al pensiero costruttivista, d'altra parte, permetteva di studiare tanto la cognizione esplicita quanto l'esperienza emozionale e la condotta osservabile come frutti di un continuo processo, individuale e sociale, di costruzione di conoscenza, non necessariamente esplicita. Anche in una prospettiva costruttivista, dunque, era possibile formulare una trama concettuale unitaria che connettesse fra loro pensieri, emozioni e comportamenti osservabili. La ricerca di una trama concettuale evoluzionista e costruttivista per la terapia cognitivo-comportamentale contribuì a orientare questa prospettiva clinica anche verso altri modelli di psicoterapia, oltre quelli finora menzionati. Alcuni modelli, come la psicoterapia dei costrutti personali derivata dalle teorie di G. Kelly (1955), si erano anch'essi interessati soprattutto allo studio dei processi di pensiero in relazione ai disturbi emozionali. Altri modelli erano invece nati dalla tradizione psicoanalitica ed erano rimasti al suo interno, ma avevano posto al centro dell'interesse il pensiero evoluzionista, lo studio dei processi cognitivi e la ricerca sperimentale: ad esempio, la teoria dell'attaccamento e la teoria della padronanza-controllo. Con l'allargamento della prospettiva cognitivo-comportamentale, attraverso l'epistemologia evoluzionista e costruttivista, a comprendere questi altri modelli di psicoterapia tornavano ad essere temi legittimi di interesse aspetti della vita mentale fino ad allora trascurati dai terapeuti cognitivo-comportamentali: l'organizzazione generale della personalità, la storia personale di sviluppo, l'intersoggettività dell'esperienza e il rapporto fra attività mentali coscienti e non coscienti. Un tale ritorno di interesse per temi che erano stati ritenuti, fino agli anni '70, non indagabili con metodi scientificamente soddisfacenti, era ormai sostenuto da un'autentica esplosione di ricerche controllate. Molti terapeuti cognitivo-comportamentali si pongono oggi obiettivi più ambiziosi della correzione cognitiva e dell'acquisizione di comportamenti adattativi, come lo sviluppo delle capacità metacognitive, quello della capacità cosciente di comprendere valore e senso delle emozioni in sé e negli altri, esperienze correttive (rispetto alla storia personale di sviluppo) all'interno della relazione terapeutica. La terapia comportamentale e la terapia cognitiva avevano rinunciato a mettere l'accento, sia nella teoria che nella prassi clinica, sui temi tradizionalmente centrali della psicoterapia: il rapporto fra attività mentali coscienti e non coscienti, lo sviluppo della personalità nelle sue matrici interpersonali e intersoggettive, l'analisi della relazione terapeutica, e la condivisione empatica dell'esperienza soggettiva. Il ritorno dell'interesse per tali temi, da parte di clinici, teorici e ricercatori in ambito cognitivista e cognitivo-comportamentale, ha suggerito a molti l'opportunità di ripristinare il termine «psicoterapia» anche per questa prospettiva di intervento. Altri preferiscono invece mantenere il vecchio termine «terapia» o «modificazione», a segnalare le caratteristiche di focalizzazione dell'intervento su problemi specifici, e la sua conseguente relativa brevità rispetto tanto alla psicoanalisi classica che alle psicoterapie psicoanalitiche. Fra i terapeuti di questa scuola, le prassi cliniche sono andate progressivamente differenziandosi, anche in relazione al grado di interesse mostrato per la teoria generale e l'epistemologia della psicoterapia. A indicare tali differenze stanno tre diverse denominazioni: terapia cognitiva standard (che indica la prospettiva originaria di Beck e i suoi sviluppi, poco interessati all'epistemologia evoluzionista e ancor meno a quella costruttivista), psicoterapia cognitivo-costruttivista e psicoterapia cognitivo-evoluzionista. L'assenza di problemi di fedeltà a una singola ortodossia teorica, caratteristica intrinseca di movimenti la cui origine stessa è multicentrica e dove non esiste un singolo fondatore o caposcuola, ha finora garantito che terapia cognitiva standard, terapia cognitivo-comportamentale, psicoterapia costrutti-vista e psicoterapia cognitivo-evoluzionista convivessero senza insanabili fratture nelle varie istituzioni del movimento stesso. La condivisa convinzione che le inevitabili controversie sulle teorie e sull'utilità delle prassi terapeutiche vadano, in ultima analisi, risolte sulla base della ricerca empirica, ha tenuto insieme questo vasto e ormai variegato movimento. La fiducia nel potere della ricerca scientifica nel selezionare le teorie più solide e le prassi terapeutiche più efficaci è uno dei contributi più importanti che il movimento ha fornito, e può continuare a fornire, alla psicoterapia contemporanea. GIOVANNI LIOTTI |