Narrazione |
Occorre riconoscere nella narrazione, orale o scritta, una delle più antiche e universalmente diffuse attività dell'uomo, dalla indiscussa valenza simbolica, creatrice, trasformatrice, e insieme mnestica. Ne consegue il pensarla come espressione, più o meno esteticamente elaborata, di un bisogno elementare, profondamente iscritto nella natura umana, e l'intenderla sia come una funzione, tra le più basilari, del Sé, sia come in quanto tale «costitutiva» del Sé. Narrare si configura allora come un bisogno/desiderio originantesi dalla necessità di frapporre uno spazio tra l'irrompere delle emozioni e il Sé, che le deve sì vivere, ma anche pensare e ordinare per non esserne sommerso. Da questo punto di vista la narrazione, al pari del simbolo, che in essa trova naturale espressione, richiede la contemporanea attivazione di tre operazioni: il ricongiungimento, seppur momentaneo, con una dimensione magmatica fatta sia di ricordi strutturati che di sensazioni informi; il distanziamento da questa dimensione, senza il quale essa non potrebbe darsi; e infine la risignificazione, quale obiettivo cui tende già per sua natura, ma che può ricevere una modulazione e una implementazione dal campo analitico. Sebbene il termine «narrazione» non ricorra nella sua opera, S. Freud è stato un grande narratore e il riferimento alla letteratura è stato sempre costante nei suoi lavori, a partire dal presupposto che poeti e romanzieri siano stati in qualche modo, con la loro attitudine a esplorare il mondo dei sentimenti, precursori della psicoanalisi. Di qui, attraverso un percorso lungo e non indolore, è possibile pervenire a una concezione dell'esperienza psicoanalitica come ermeneutica vivente, decostruzione-costruzione degli orizzonti di senso, situazione di riapertura di storia e temporalità. D'altra parte, soprattutto nella sua versione nordamericana, la narrazione ha assunto progressivamente la configurazione di paradigma emergente, parallelamente alla cosiddetta «crisi della metapsicologia». Di conseguenza, il termine narrazione ha assunto un significato più specifico e ristretto che, a fronte dei reciproci rimandi all'interpretazione, si è nutrito proprio di una contrapposizione, seppure di difficile (e forzata) teorizzazione, con essa. Sono stati soprattutto R. Schafer e D. Spence a ridefinire in tali termini la narrazione in psicoanalisi. Per il primo, che significativamente intitola una delle sue ultime opere Rinarrare una vita, il processo analitico si sviluppa all'interno di precise storylines che costituiscono delle sorte di grandi narrazioni (l'Edipo, il Sé grandioso, le vicissitudini della separazione e dell'individuazione, ecc.) e inducono a vedere l'analista come cocreatore di un testo. Ne deriva perciò l'idea della psicoanalisi come metodo narrativo per costruire una seconda realtà, sebbene in verità Schafer tenga a precisare come l'aspetto narrativo non rappresenti un'alternativa alla verità o alla realtà, poiché non è possibile un accesso a queste ultime non mediato narrativamente. Questa oscillazione, non priva di contraddizioni, tra un costruzionismo radicale e uno moderato la ritroviamo anche in Spence (1982), che introduce la famosa dicotomia tra verità narrativa e verità storica, giungendo a suggerire l'idea che la verità si possa creare mediante l'enunciazione, e proponendo conseguentemente di adottare il criterio estetico della coerenza e della competenza al fine di valutare il «potere di convincimento» di una narrazione. La critica nordamericana a queste posizioni ha soprattutto evidenziato il rischio di condurre la narrazione a trasformarsi nella cocreazione del passato dell'analizzando da parte della relazione attuale analista-analizzando (Hardy, 1999): inducendo alcuni a parlare criticamente di «creazionismo» (Ahumada, 1994). Molto opportunamente Hardy rammenta che l'analista non può essere in tutto e per tutto analogo a uno scrittore creativo, dal momento che il primo utilizza l'immaginazione non per creare una vita che avrebbe potuto essere vissuta, ma per comprendere e rimediare la realtà di un'esistenza in corso. Questi autori sembrano insomma contrapporre alla dicotomia di Spence una posizione che potrebbe compendiarsi nel sostenere che la narrazione è sempre narrazione di una storia. Forse certe radicalizzazioni, soprattutto sul piano teorico, nascono dalla constatazione clinica, oggi largamente condivisa e certo dissonante rispetto all'originaria posizione freudiana di marca illuminista, che il valore di verità di una narrazione terapeutica ha di per sé un impatto decisamente modesto e che, al contrario, come terapeuti, siamo inevitabilmente coinvolti nella creazione di significati. Ciò non di meno nasce qui un certo equivoco. Infatti, l'ammissione che al terapeuta spetti creare significati (ma non fatti o realtà psichiche) e che il valore di verità di una ricostruzione poco abbia a che fare con la sua efficacia terapeutica, non contraddice la necessità che tale creazione sia iscritta (e limitata) all'interno di una comprensione della realtà psichica (attuale e remota) e della realtà storica dell'altro, e che il significato sia coerente con i dati esperienziali ed emotivi del soggetto. Come sostiene F. Barale (1999), la narrazione non sta in un «dopo» rispetto a un'esperienza e a una verità dell'esperienza che si rinuncia a cercare: è direttamente, intrinsecamente e radicalmente costitutiva dell'esperienza stessa (e della sua verità). A differenza di quella nordamericana, la critica di marca francese alla narrazione si è rivolta non tanto contro il suo allontanamento dalle idee di storia, verità e realtà psichica, quanto piuttosto contro la sua pretesa di coerenza ed esaustività. J. Laplanche, ad esempio, affronta tali problematiche vincolando il narrativo alla rimozione. Muovendo la sua critica agli psicoanalisti «narrativisti» americani, egli assume, seppure per distanziarsene radicalmente, l'idea di narrativa come modo con cui l'essere umano è portato a formulare a se stesso, in forma di racconto più o meno coerente, la propria esistenza, sino a constatare che dal punto di vista clinico la narrativa privilegia la costruzione di un racconto coerente, soddisfacente, integrato (Laplanche, 1998). Ma la «messa in racconto» ha solo una funzione difensiva, o non piuttosto anche creativa e trasformativa? «Messa in racconto» e rimozione debbono procedere necessariamente di pari passo? O non è questa solo una possibilità, un rischio, del resto comune sia alle correnti narrativiste americane sia alla stessa metapsicologia, che sempre ha ambito a configurarsi come una narrazione «forte»? Parimenti M. Bertrand (1998), partendo da un'idea di analisi che mira a slegare e decostruire, evidenzia il carattere difensivo e inautentico delle costruzioni narrative (e dunque l'antiteticità tra narrazione e libera associazione), pur ammettendo che l'atto di raccontare può essere benefico in un duplice senso: nel permettere una simbolizzazione, nel trasformare la passività in attività. Il riconoscimento dei benefici dell'atto del raccontare, ammessi anche dai critici della prospettiva narrativa, bene si combina col riconoscimento, proveniente da diversi orientamenti, della rilevanza della narrazione nel caso delle patologie più gravi. Ciò a partire da concezioni che evidenziano, da un lato, il continuo tentativo dello psicotico di destoricizzarsi e annullare gli eventi, dall'altro l'importanza, per il borderline, di costruirsi una rappresentazione del Sé e degli altri, quand'anche di segno negativo, mediata narrativamente. Per inciso, si può notare il significativo rapporto che viene a istituirsi, tanto sul piano teorico che clinico, tra narrazione e rappresentazione. Se in questi pazienti risulta evidente una compromissione della capacità di mentalizzazione, o un deficit della «metacognizione», ecco allora che l'emergere della capacità di raccontarsi diviene un momento essenziale anche della terapia del borderline. Ma i limiti della narrazione (o piuttosto di una certa idea di narrazione), segnalati, tra gli altri, da Laplanche e Bertrand, possono essere ripensati e superati solo a partire dalla questione del linguaggio. Su un ambito di tale complessità occorre forse rinviare alla filosofia per sottolineare, se non altro, la polisemia del termine e soprattutto la polisemia tra i diversi linguaggi possibili. Assume allora rilievo la posizione di P. Ricoeur allorché sostiene che tra un linguaggio troppo semplice, che spiega tutto, e uno che sottintende, vi sono quei livelli di linguaggio in cui l'esplicito crea un nuovo implicito. Secondo Ricoeur, la funzione narrativa può talora consistere nell'ispessire, nell'aumentare l'opacità, cioè nel rinviare al mistero, ma ancora attraverso il linguaggio. Una siffatta definizione di narrativa rimanda soprattutto al linguaggio frammentario della poesia, e risponde indirettamente all'obiezione di coerentismo avanzata da Laplanche. Come sostiene ancora Ricoeur, la destinazione primordiale del linguaggio, infatti, non è tanto la comunicazione, bensì la manifestazione di un'enigmaticità ai confini con l'indicibile. Una concezione del genere non è assolutamente estranea al pensiero psicoanalitico. Basterà ricordare, tra i più significativi, gli studi di H. Loewald (1980) sul linguaggio, volti a enfatizzare proprio l'antico nesso tra la cosa e la parola, l'iniziale unità primordiale. Con essi l'autore ci rende attenti alla dimensione non semantica del linguaggio stesso, a ragione della quale le parole sono ingredienti indistinguibili di un'esperienza percettiva globale; esse non servono a comunicare significati, ma il suono, il tono della voce, il ritmo del discorso sono fusi all'interno di un evento globale di percezione e apprendimento. Solo in seguito, con l'instaurarsi del processo secondario, si creerà la distinzione tra suoni come ingredienti di un'esperienza totale e ciò che i suoni vogliono indicare e significare, tra significante sonoro e significante concettuale. Nella parola il processo primario e il processo secondario si riconciliano, afferma Loewald, che ricorda la formula di P. Valéry, secondo cui le parole ci obbligano ad essere più che a capire, per concludere che, al momento propizio, questo è proprio quello che accade durante la seduta psicoanalitica. Più recentemente, una posizione analoga è stata espressa da Th. Ogden nell'invitare a cogliere nel linguaggio in analisi non solo un veicolo di significati e stati d'animo, ma anche uno strumento per la creazione di pensieri e sentimenti, di modo che l'utilizzo descrittivo del linguaggio dovrebbe dialetticamente coesistere con un utilizzo che conduca a una modalità indiretta di creazione e comunicazione del significato, relativamente indipendente dal contenuto semantico del linguaggio stesso. E’ evidente come una tale concezione del linguaggio trasformi radicalmente l'idea di narrazione. Conseguenza importante delle posizioni di Loewald e di Ricceur, infatti, è che essa risulterà strettamente correlata non solo con la rappresentazione, come si è detto, ma anche con l'«irrappresentabile». Un tale tipo di narrazione, a forte valenza simbolica e psicoanalitica, mira perciò a connettere il paziente con la magmaticità del proprio mondo emozionale, e insieme, poiché lo fa attraverso lo strumento del linguaggio, a consentirgli l'opportuna presa di distanza da essa. Da questo punto di vista, la frequente e comune asserzione secondo cui ha più valore il modo in cui è formulata un'interpretazione che il suo contenuto acquista un valore maggiore: non solo perché il calore e la tonalità affettiva dell'interpretazione sono essenziali nel consentirne il congiungimento con il vissuto emotivo, ma anche perché è attraverso la modalità formale dell'interpretazione che si gioca la possibilità di riuscire contemporaneamente a chiarire e a rinviare al mistero. All'interno di un siffatto orizzonte di pensiero sembra potersi collocare anche il contributo di A. Ferro (2002), specie laddove segnala come l'arte dello psicoanalista sia proprio nel regolare la «respirazione» del campo analitico: dall'insaturazione-inspirazione, che espande il campo, alla saturazione-espirazione, che collassa il campo in una scelta interpretativa. Anche per Ferro la psicoanalisi è inevitabilmente un metodo narrativo, il cui scopo è però cogliere le emozioni a monte del racconto e renderle pensabili attraverso i loro «derivati narrativi». L'autore, muovendo da una prospettiva bioniana, intende le narrazioni come derivati degli elementi a (di per sé «inattingibili»), intesi come una sorta di «pensiero onirico della veglia», a sua volta originantesi da elementi β sottoposti a trasformazione dalla funzione α. In quest'ottica, compito della psicoanalisi non è tanto il «disvelamento» quanto la «trasformazione». Di conseguenza diviene importante il modo in cui le narrazioni consentono delle trasformazioni e il modo in cui le trasformazioni avvengono attraverso le narrazioni, vale a dire la scelta del genere narrativo attraverso cui le emozioni sono tradotte. In base a quanto precede, non avrebbe dunque molto senso assumere posizione pro o contro una psicoanalisi narrativa. Del resto, è senza dubbio ineccepibile riconoscere come il termine «narrazione» abbia in psicoanalisi un alone semantico sia troppo predefinito, sia troppo ampio, in quanto lo si può intendere riferito ai racconti dei pazienti, a una particolare qualità (l'insaturazione) delle interpretazioni, all'uso privilegiato della verità narrativa in luogo di quella storica, e così via. Meglio allora riferirsi con esso a quel modo di stare in seduta dell'analista tale che egli partecipi con il paziente alla «costruzione di un senso» in modo fortemente dialogico, senza particolari cesure interpretative. In ogni caso, occorre riconoscere che all'interno della relazione analitica si danno sempre molteplici modelli narrativi, e che appare utile tentare un'articolazione dialettica tra di essi, di modo che l'eventuale, provvisoria sistematizzazione del discorso non faccia che precludere a una nuova apertura semantica, così come il senso inconcluso non possa che generare ulteriori nuovi significati. Beninteso, una volta scelta un'opzione dialettica che miri a porre i modelli narrativi in tensione tra loro, l'analista non può evitare di decidere di volta in volta quale registro privilegiare. Qui possono nascere contrapposizioni tra orientamenti più propensi verso l'uno o l'altro, o tra analisti, ma prima ancora possono emergere incertezze e interrogativi nell'analista stesso. Infatti, sul piano del contenuto, occorre a un certo punto rinunciare a tutte le storie possibili a favore della storia che urge per essere narrata, e che comporta la perdita di altre possibilità narrative. Quanto ai modelli, in linea di massima, la narrazione «forte» (contrassegnata da situazioni ben concatenate tra loro, organizzate per contrapposizione e confronti) sembra coerente con la narrazione degli eventi reali, specie quelli di significato traumatico, così come il modello della narrazione «debole» (in cui vige una sorta di ipertrofia del vissuto e di enigmaticità dei personaggi) offrirebbe migliori possibilità di «appaiamento» con l'inconscio rimosso, e il modello dell'«antinarrazione» (situazioni frammentate e disperse, in cui la causalità è sostituita dalla casualità) con l'inconscio irrappresentabile. Tuttavia tali affinità possono rivelarsi talora una sorta di trappola, nella misura in cui, al contrario, è proprio lo stile antinarrativo dell'analista che può rivitalizzare la perduta capacità di significare un evento traumatico, così come una narrazione forte può consentire a un paziente grave di non trattenersi troppo a lungo e pericolosamente vicino alla magmaticità caotica di un inconscio ancora privo della capacità di produrre rappresentazioni. Al di là dell'appartenenza di scuola, valore prioritario spetta forse proprio alla capacità modulatoria dell'analista. Giunti a questo punto è forse possibile riassumere i punti essenziali e le problematiche tuttora aperte del rapporto tra psicoanalisi e narrazione. In primo luogo, si è detto come la narrazione sia un'attitudine basilare e costitutiva dell'essere umano. In termini filosofici questo è bene espresso da Heidegger e Gadamer attraverso il riconoscimento dell'universalità dell'ermeneutica, cioè della ineludibile posizione interpretante che assume l'uomo dinanzi al mondo. Ma attualmente questa stessa attitudine è oggetto di interesse anche da parte della neurobiologia. Da questo punto di vista, è possibile assumere il sogno come la forma di narrazione più primitiva e più direttamente connessa con i soggiacenti meccanismi neurobiologici. Come segnala A. Oliverio (2003), la moderna neurobiologia, pur vedendo il materiale del sogno derivare da una caotica attività sottocorticale che genera casualmente rappresentazioni visive, riconosce tuttavia che queste stesse sono ordinate dalle funzioni corticali in un insieme di rappresentazioni più coerenti in ragione del bisogno della mente di produrre significati. Questo è ben in linea con la convinzione che i sogni, come le metafore, hanno il compito fondamentale di rappresentare concetti nella loro complessità e profondità, piuttosto che quello di nascondere e distorcere e conduce alla possibile concettualizzazione di una particolare forma di strutturazione dei contenuti mentali che può definirsi organizzatore narrativo del sogno. Anche il sogno può essere perciò inteso originarsi da una sorta di tensione verso la narrazione, quasi che il desiderio che esso intende appagare sia proprio il desiderio di sognare, di produrre e raccontare in modo compiuto e non il desiderio di un oggetto. Fenomeni altrettanto originari della vita mentale, stavolta più su di un versante relazionale che intrapsichico, sono lo scambio di narrazioni che avviene tra il bambino e la madre e, parallelamente, le narrazioni di Sé e degli altri (metarappresentazioni) che andranno a influire sull'integrità del Sé. Il secondo punto essenziale riguarda lo statuto epistemologico della narrazione in analisi. Proprio l'esempio del sogno meglio illustra la coesistenza di due specifici livelli di «messa in ordine»: c'è il «sogno» così come ci sono le «narrazioni del sogno», c'è la narrazione originaria che il paziente si è costruito in epoca più o meno remota, così come ci sono le narrazioni e gli scambi narrativi nell’hic et nunc della relazione analitica; ci sono gli eventi storici e la sempre mutevole «realtà psichica» e c'è la loro narrazione-trasformazione in analisi. C'è infine il fenomeno dell'après coup, cioè della significazione a posteriori e della trasformazione del valore dell'esperienza attraverso il ricordo, che già nel 1896 Freud aveva colto (la Nach-träglichkeit) e che tutt'oggi rimane di grande rilievo per la teoria psicoanalitica. Tutto ciò fa sì che la narrazione non possa che situarsi tra «scoperta» e «creazione» del significato, anzi sia proprio finalizzata al tentativo di connettere tra di loro questi due momenti. E’ proprio in questa trasmissione di possibilità di ulteriore significatività (ma a partire da un significato) che si gioca in buona parte l'analisi, permettendo all'indicibile, all'irrappresentabile, al dato sensoriale informe di farsi linguaggio e di costituirsi come emozione e come pensiero. Per questo, si è detto, è necessario connettere dialetticamente i vari possibili registri della narrazione. Ma ciò comporta, soprattutto, riconoscere i limiti stessi della narrazione, nella misura in cui questo continuo passaggio da e verso l'inconscio (l'inconscio rimosso e l'inconscio irrappresentabile) rimanda a un'ulteriorità indefinita e infinita. La narrazione - cioè l'ammissione di un rapporto tra l'emozione e la parola - finisce allora paradossalmente col segnalare proprio l'irriducibilità dello scarto che li lega, la persistenza di un «altrove» rispetto al racconto e al linguaggio. Ed è proprio questo «altrove» che il processo analitico mira a trasformare. Per questo, la psicoanalisi si situa selettivamente nel punto di giunzione tra il rappresentabile e l'irrappresentabile, tra il narrabile e l'inenarrabile. GIUSEPPE MARTINI |