Legislazione psichiatrica

La storia della psichiatria come istituzione e come disciplina è stata, fin dai suoi esordi, legata a leggi e regolamenti. In quanto istituzione deputata al trattamento di un particolare gruppo di cittadini (con tutti i significati che di volta in volta la parola trattamento ha acquisito), in tutto il mondo occidentale la psichiatria ha sempre mantenuto aperto un dialogo con il potere legislativo, al quale ha costantemente fornito gli elementi tecnico-scientifici della propria epoca e con il quale ha negoziato i propri limiti, il proprio mandato e la propria dimensione. L'ambito legislativo che definisce i rapporti tra lo Stato e il cittadino malato di mente è molto ampio - qui si cercherà di tracciare la storia della legislazione psichiatrica per antonomasia, vale a dire della legislazione ordinaria che ha disegnato i sistemi di trattamento psichiatrico in Italia attraverso due grandi riforme, quella del 1904 e quella del 1978.

La legge n. 36 del 14 febbraio 1904, che reca come titolo «Legge sui manicomi e sugli alienati», fu probabilmente uno degli ultimi tasselli apportati alla costruzione delle istituzioni e delle infrastrutture dello Stato nazionale unitario. Particolari circostanze storiche e intense polemiche ritardarono di oltre cinquant'anni la sua approvazione. La costruzione degli ospedali psichiatrici negli stati preunitari era iniziata intorno al 1820, quasi contemporaneamente ai grandi stati europei e sulla scia della epopea gloriosa di Ph. Pinel in Francia, anche se gli ospedali italiani avevano sempre operato sulla base dei sistemi seminformali o di semplici regolamenti. La storica legge psichiatrica francese del 1838 diede impulso a iniziative legislative in tutti gli stati europei, fortemente sostenute e promosse dalle società scientifiche di psichiatria sorte nello stesso periodo. La Loi 30 Juin 1838 sur les alienés, fortemente ispirata dai principi di Pinel e J.-B. Parchappe, animata e sostenuta dall'intenso lavoro politico preparatorio di G. Ferrus, allievo di Pinel, primario a Bicètre e, dal 1835, ispettore generale di tutti gli ospedali psichiatrici francesi, fu la prima a organizzare un sistema nazionale coerente di ospedali psichiatrici e a regolarne l'assistenza. Essa obbligava ogni dipartimento (l'equivalente in Italia delle province) a disporre di una istituzione di cura per i malati mentali, ne regolava le modalità di ricovero volontario e coatto, conteneva disposizioni patrimoniali e stabiliva modalità di finanziamento attraverso quote a carico delle famiglie e della collettività. A parte gli aspetti finanziari superati nel '900 dalla Sécurité Sociale, l'intero impianto della legge è rimasto intatto fino alla promulgazione della legge n. 527 del 27 giugno 1990 che ha modificalo alcune modalità di ammissione in ospedale, ma non l'impianto provinciale dell'assistenza e la centralità dell'ospedale, per quanto quest'ultima sia stata attenuata dalle esperienze «di settore» della seconda metà del '900. Si tratta dell'unica legislazione psichiatrica europea rimasta in vigore per oltre 150 anni.

E’’’ del 1850 la prima proposta di legge sulla psichiatria nel Regno di Sardegna, poi bloccata dalle tumultuose vicende del Risorgimento, ripresa dal 1890, più volte sul punto di essere approvata, ma sempre rinviata per divergenze regionali e antagonismi tra scuole scientifiche locali. La legge del 1904, per quanto approvata con i suddetti ritardi, rifletteva bene le caratteristiche, le concezioni e le esigenze della propria epoca impregnata di «positivismo».

Era una legge quadro con solo 11 articoli compresi quelli di natura finanziaria, mentre il dettagliatissimo regolamento applicativo comprendeva ben 92 articoli. La figura che maggiormente legò il proprio nome alla sua approvazione fu quella di L. Bianchi, direttore dell'ospedale psichiatrico di Napoli, neurologo e alienista di rilievo europeo. L'approvazione della legge fu salutata in tutta Italia come una grande conquista civile, senza rilevanti controversie sul suo impianto; una legge destinata a migliorare le condizioni di vita degli alienati pericolosi e a proteggere la società dalla loro pericolosità e dal turbamento causato dai loro comportamenti. In essa non è rintracciabile alcun mandato terapeutico o riabilitativo, ma pili semplicemente custodialistico, sicuramente in linea con le concezioni prevalentemente organi-cistiche del disturbo mentale in auge all'epoca. In generale si presupponeva che le malattie mentali fossero malattie cerebrali, nella maggior parte dei casi di tipo degenerativo e di fatto sostanzialmente irreversibili e incurabili. Occorre tenere conto del fatto che effettivamente all'inizio del secolo gli ospedali psichiatrici ospitavano al loro interno un'ampia quota di pazienti con malattie a eziologia organica, la cui causa e il cui trattamento vennero scoperti solo in seguito. In alcuni ospedali del Nord la maggioranza dei pazienti era affetta da pellagra, mentre in alcuni ospedali del Sud prevalevano i pazienti affetti da paralisi progressiva di origine luetica. Gli psichiatri nutrivano fiducia su imminenti scoperte della causa organica degli altri disturbi mentali. In attesa di ciò e delle conseguenti soluzioni «terapeutiche», continuavano a prevalere i principi che fino ad allora avevano connotato il trattamento psichiatrico e la relazione di cura, se così possiamo chiamarla, con la persona affetta da disturbi mentali: custodia e soprattutto protezione, per il malato e per gli altri cittadini, attraverso il ricovero.

Si collocava quindi in una posizione centrale il problema della «pericolosità» della persona affetta da un disturbo mentale. Recitava infatti l'art. 1 che devono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualsiasi causa da alienazione mentale quando siano pericolose per sé o per gli altri, o riescano di pubblico scandalo e non siano e non possano essere convenientemente custodite e curate in altri luoghi. La legge si disinteressava totalmente degli alienati mentali non pericolosi, che non subivano alcuna limitazione della libertà personale, ma che non avevano neppure alcun diritto di cura.

L'internamento era stabilito in via ordinaria dal pretore, sulla base di un certificato medico e su richiesta dei parenti, dei tutori e di chiunque altro, nell'interesse degli infermi e della società. Più frequente era il ricovero «d'urgenza» in via provvisoria per massimo un mese, deciso dall'Autorità di pubblica sicurezza sulla base di una semplice certificazione medica e successiva segnalazione alla Procura del Re (in seguito della Repubblica). Non vi è dubbio che la legge rendeva molto semplici le procedure per il ricovero e molto alto il potere del direttore del manicomio nel determinare il destino del ricoverato. Una volta trascorso il periodo di osservazione di un mese egli poteva disporre il ricovero a tempo indeterminato, che tra l'altro comportava la perdita di tutti i diritti civili. Si tratta di uno degli aspetti maggiormente contestati nel dopoguerra per i margini di abuso che comportava e che in alcuni casi furono effettivamente esercitati. Con la legge del 1904 le competenze istituzionali relative all'assistenza psichiatrica vennero affidate alle province, ognuna delle quali doveva dotarsi di un ospedale psichiatrico provinciale, ove coerentemente applicare la legge. Gli istituti manicomiali vennero costruiti secondo linee guida ben precise e divennero istituzioni di un certo prestigio nell'ambito delle collettività locali, anche se ancora nel 1978, all'epoca della seconda riforma, ben 20 province non ne erano ancora provviste. Alcune città (ad es. Imola in Emilia Romagna e Pergine in Trentino) costruirono addirittura su di essi una fonte certa di lavoro e ricchezza. Il direttore aveva un potere assoluto all'interno dell'ospedale.

Egli era in genere un notabile rispettato, colto, dedito alla supervisione del personale e alla costruzione degli ambienti secondo le norme di igiene più aggiornate, alla raccolta precisa dei dati, alla verifica dell'umanità del trattamento, oltre che alla collaborazione con tribunali e altre istituzioni cittadine. Viveva in genere con la famiglia all'interno dell'ospedale, così come molti medici interni. Gli infermieri, reclutati tra persone senza qualifiche e prive di formazione se non «sul campo», erano direttamente responsabilizzati nella custodia dei malati e forse anche per questo diventarono rapidamente la componente meno disponibile a sperimentazioni di apertura e trattamenti alternativi. Le possibilità di sviluppo di relazioni più propriamente terapeutiche erano vanificate dalla separazione del mondo manicomiale rispetto al sistema sanitario e dalla localizzazione in ambienti strutturalmente inadatti al recupero e alla riabilitazione dei pazienti. Ciononostante l'ospedale psichiatrico fu un'istituzione che ebbe una sua coerenza e una propria ragion d'essere per diversi decenni, finché l'idea di un sistema di cura non apparve praticabile. Sebbene già negli anni '30, con l'introduzione delle prime forme di terapia di ordine biologico - prima la pire-toterapia, poi l'insulinoterapia, l'elettroshock e la psicochirurgia -, qualche timida voce si fosse levata in favore di una revisione del sistema e della legge, fu solo nel dopoguerra che l'ospedale visse la sua stagione di crisi e la sua fine. Gli anni del dopoguerra furono fortemente innovativi tanto nel disegnare una nuova forma di società quanto nel ritmo delle scoperte scientifiche che investirono anche il campo della psichiatria. Il ruolo dell'individuo, il rispetto dei diritti umani e civili, il primato della soggettività e del vissuto, furono tutti elementi che attraversarono l'intera società occidentale, compresa quella italiana, e ai quali la psichiatria dette un fondamentale contributo, ricavandone a sua volta una grande spinta per rinnovarsi radicalmente. Le esperienze di comunità terapeutiche in Inghilterra, di reparti aperti e di trattamento ambulatoriale in Francia, il diffondersi della fenomenologia e della psicoanalisi nel nostro paese, crearono tanto nei professionisti quanto in parte dell'opinione pubblica una profondissima insoddisfazione per lo stato delle istituzioni psichiatriche.

Inoltre, dalla fine degli anni '50 si assistette all'introduzione e all'impiego sempre più diffuso degli psicofarmaci, che generò nei terapeuti un notevole ottimismo circa le possibilità di recupero o addirittura «li guarigione dei pazienti. Nei primi anni '60 si diffusero in Italia alcune esperienze alternative ispirate da un lato alla «psichiatria di settore» francese e alla psicoterapia istituzionale (ad es. Varese), dall'altro al tentativo, ancora più radicale rispetto a tali orientamenti, di gestire il problema della malattia mentale del tutto al di fuori della logica manicomiale (le esperienze più famose a Gorizia, Perugia e Arezzo). In queste esperienze gruppi di professionisti con volontà innovatrice trovarono spesso consenso in un clima politico e amministrativo locale convergente e sintonico. La formalizzazione di una possibilità nuova di «prendere in carico» i pazienti psichiatrici venne definitivamente sancita anche a livello scientifico durante il Congresso nazionale di psichiatria sociale tenutosi a Bologna nel 1964.

All'inizio degli anni '70 pochi operatori nutrivano ancora dubbi sulla necessità di una riforma del sistema psichiatrico. Rispetto al tipo di riforma sussistevano fondamentalmente due posizioni. La prima era ispirata alla «psichiatria di settore» francese, e proponeva di arrivare al superamento dell'ospedale psichiatrico attraverso una progressiva riforma dell'organizzazione psichiatrica provinciale, con una maggiore umanizzazione delle strutture manicomiali, un maggiore coinvolgimento del territorio e un programma graduale di dimissioni dei pazienti, sia in famiglia che presso altre strutture meno protette. Tutto questo attraverso la costituzione di unità operative multiprofessionali, divise per attribuzioni territoriali ben definite, con la funzione di garantire la continuità terapeutica sia durante i periodi di ricovero in ospedale psichiatrico, sia presso l'ambulatorio, il domicilio, i luoghi di lavoro. Al modello della «psichiatria di settore» si contrapponeva una diversa «nuova psichiatria», che rifiutava ogni compromesso con l'assistenza manicomiale e con le forme più tradizionali di cura psichiatrica, non prevedendo la possibilità di riformare una pratica giudicata comunque oppressiva e mistificante. Il punto di partenza di questa «nuova psichiatria» può essere senz'altro identificato con l'esperienza di F. Basaglia a Gorizia.

Nel 1962 Basaglia, come direttore dell'ospedale psichiatrico di Gorizia, iniziò un programma di rinnovamento delle istituzioni psichiatriche della provincia. Tale rinnovamento ottenne in breve tempo alcuni risultati significativi, tra i quali la costituzione della prima comunità terapeutica in Italia, sul modello realizzato da M. Jones in Inghilterra. In un periodo immediatamente successivo, però, Basaglia e i suoi collaboratori si allontanarono da modelli di rinnovamento delle istituzioni, ponendo come obiettivo della propria azione quello di ottenere una messa in crisi globale delle strutture su cui può mantenersi una realtà coercitiva e oppressiva, quale quella manicomiale. Questa critica così radicale delle istituzioni e delle funzioni diagnostiche e terapeutiche della psichiatria tradizionale costituisce la parte fondante di un progetto finalizzato a ottenere, attraverso alcune fasi di passaggio, la totale distruzione dell'istituzione manicomiale e la proiezione verso l'esterno della gestione psichiatrica e delle contraddizioni sociali e politiche che vi sono connesse. Da questa seconda «nuova psichiatria» si articoleranno e si concretizzeranno le posizioni di Basaglia, G. Jervis, S. Piro e dei principali protagonisti delle esperienze di Psichiatria Democratica. Nel 1968, con la promulgazione della Legge Mariotti, venne reso possibile il ricovero volontario in ospedale psichiatrico permettendo di fatto l'assistenza anche di coloro che, pur essendo affetti da gravi disturbi mentali, manifestavano consapevolezza e partecipazione al trattamento. Questa innovazione istituzionale rappresentò la validazione delle nuove pratiche attraverso relazioni di cura meno asimmetriche e totalizzanti. Tuttavia anche la Legge Mariotti incise solo superficialmente sulle tradizionali modalità di assistenza psichiatrica e non trovò un consenso, amministrativo e operativo, sufficiente per poter modificare in senso comunitario e territoriale l'assistenza psichiatrica su scala nazionale. Localmente, però, si diffusero esperienze di sensibilizzazione ai problemi dell'assistenza e della riabilitazione psicosociale dei pazienti ricoverati negli ospedali psichiatrici. A fianco dei sempre più frequenti programmi di dimissione, nacquero i centri di igiene mentale (Cim), unità operative territoriali inizialmente predisposte a prendere in carico nel proprio territorio i pazienti dimessi dall'ospedale psichiatrico. In alcune province italiane nacquero gruppi di operatori all'interno delle strutture manicomiali che si dedicarono con fervore a progetti di deistituzionalizzazione e riabilitazione sul territorio. In alcune aree urbane, come Torino, Milano e Bologna, e poi a Padova, Pesaro, L'Aquila, Firenze, Pescara, si consolidarono esperienze a carattere sperimentale di «settorizzazione» dell'assistenza psichiatrica, come tentativo di progettare una presa in carico garantita a tutti i cittadini affetti da disturbi mentali e di favorire il rientro dei pazienti ricoverati presso le strutture manicomiali nel loro contesto di origine. Nelle regioni meridionali solo dall'inizio degli anni '70 si manifestarono elementi evolutivi, di connessione tra l'impegno antiistituzionale di natura etico-politica e la sua realizzazione operativa in sperimentazioni alternative. Queste esperienze (ad es. a Reggio Calabria) hanno avuto il merito di costituire una sorta di opposizione, in molti casi premiata da successo, nei confronti della politica di espansione del modello manicomiale che era ancora dominante in molte regioni meridionali. Ad esempio negli anni '70 la Regione Calabria curò la progettazione, per fortuna mai giunta a livello operativo, di ben quattro nuovi ospedali psichiatrici. Una specificità tutta «meridionale» dell'assistenza psichiatrica consolidò quelle esperienze di deportazione e concentrazione dei pazienti, con una delega totale al privato, che anche dopo la riforma del 1978 hanno avuto un'influenza negativa sui progetti di definitivo superamento del residuo manicomiale in molte aree del Sud. A parte queste realtà locali, non vi è dubbio che, in generale, in Italia il clima politico di quegli anni condusse a una presa di coscienza e una sensibilizzazione diffusa a buona parte della popolazione dell'inutilità del modello manicomiale e della necessità di riformare radicalmente tutto il sistema psichiatrico. All'interno degli stessi ospedali psichiatrici si intensificarono momenti di discussione e di verifica, dibattiti pubblici, assemblee. Aumentarono significativamente le iniziative di riabilitazione psicosociale nei confronti dei pazienti ricoverati, di umanizzazione delle dinamiche assistenziali all'interno dei reparti, di animazione e di socializzazione con il coinvolgimento della popolazione: si venne a creare una diversa permeabilità dell'istituzione manicomiale rispetto al territorio. La tradizionale e rassicurante staticità del modello manicomiale venne messa in discussione fin dalle sue radici, attraverso il sovvertimento di concetti cardine, quali la necessità continua di protezione e di sorveglianza, la pericolosità sociale. Queste parole d'ordine vennero sostituite da presa in carico sul territorio, reinserimento sociale, socializzazione. E’’ in questo clima, al tempo stesso professionale e politico, che maturarono le condizioni per la riforma dell'assistenza psichiatrica sancita dalla legge n. 180 del 1978. Negli anni '70 vennero a compimento le grandi riforme della società civile, come le leggi sul divorzio e sull'aborto, l'istituzione del Servizio sanitario nazionale. In questo contesto anche la legge di riforma psichiatrica concorse a ridisegnare il quadro di un paese più moderno. Il dibattito e le sperimentazioni in corso da oltre quindici anni ebbero una decisiva accelerazione nel 1978 a causa della contemporanea discussione dei progetti di riforma sanitaria e dell'indizione di un referendum da parte del Partito radicale per l'abrogazione della legge del 1904.

I vari partiti di maggioranza e di opposizione si erano già da tempo accordati per una riforma complessiva che comprendesse la psichiatria all'interno del Servizio sanitario nazionale con contenuti e procedure radicalmente riformati. I tempi di approvazione furono ulteriormente accelerati dalla necessità di evitare la celebrazione del referendum in un clima politico di forte destabilizzazione (coincidente con i giorni del sequestro e dell'uccisione di A. Moro) che avrebbe probabilmente portato la maggior parte dell'elettorato su posizioni di conservazione della legge del 1904.

Al termine di frenetiche consultazioni tra componenti politiche e tecniche, nelle quali si confrontarono gli esponenti di partiti politici di maggioranza e di opposizione e professionisti dei due orientamenti sopra esposti, prevalse una linea di radicale orientamento antiistituzionale, concretizzatasi nella presentazione alle Camere della legge che fu approvata come legge n. 180 del 31 maggio 1978 sui trattamenti e gli accertamenti sanitari obbligatori, successivamente trasferita nei suoi contenuti sostanziali pressoché integralmente nella legge n. 833 (artt. 33, 34 e 35) del dicembre dello stesso anno, nota come legge di istituzione del Servizio sanitario nazionale.

Quella che molti hanno definito una vera e propria rivoluzione fu determinata da soli tre articoli di legge che tuttora rispettivamente regolano: le norme per gli accertamenti e i trattamenti sanitari volontari e obbligatori (art. 33); gli accertamenti e i trattamenti sanitari volontari e obbligatori per malattia mentale (art. 34); il procedimento relativo agli accertamenti e ai trattamenti sanitari obbligatori in condizioni di degenza 1 «pedaliera per malattia mentale e tutela giurisdizionale (art. 35). È quindi a partire dalla definizione della regolamentazione degli accertamenti e trattamenti sanitari, volontari e obbligatori, che si sono determinate conseguenze importanti che hanno riguardato non solo la riorganizzazione o, meglio, l'organizzazione di servizi di psichiatria qua-si completamente nuovi, ma anche cambiamenti che hanno interessato gli ospedali generali, la condotta dei sanitari, i comportamenti sociali, e le norme giuridiche. I principi e le disposizioni salienti degli articoli di interesse psichiatrico della legge 833 sono i seguenti:

1) la cessazione di un circuito assistenziale alternativo e separato per i malati mentali (fino ad allora affidato come detto alle amministrazioni provinciali che gestivano gli ospedali psichiatrici) e il conseguente ingresso di tutte le strutture psichiatriche pubbliche esistenti nel Servizio sanitario nazionale;

2) la modificazione radicale degli obiettivi dell'intervento psichiatrico: allo psichiatra viene affidato il compito della cura del paziente rispetto al precedente mandato che imponeva l'obbligo prioritario della custodia del paziente, della salvaguardia sociale verso la sua pericolosità, della tutela dell'ordine pubblico;

3) la completa equiparazione della salute psichica alla salute fisica e quindi del paziente psichiatrico a qualsiasi altro paziente;

4) una importante ridefinizione giuridica dei pazienti psichiatrici, considerati, nella legislazione precedente, con diritti diversi e minori e nell'attuale completamente restituiti alla dignità di cittadini con pieni diritti umani e civili;

5) la centralità della metodologia dell'intervento territoriale e comunitario rispetto a quella basata sul ricovero, con il conseguente assunto della priorità dell'intervento sanitario praticato su base volontaria, quindi con il consenso del paziente, rispetto al trattamento obbligatorio;

6) la completa e definitiva chiusura degli ospedali psichiatrici alle nuove ospedalizzazioni e la collocazione negli ospedali generali di reparti di ricovero, i servizi psichiatrici di diagnosi e cura (Spdc), per le emergenze e per i trattamenti sanitari obbligatori. I compiti attuativi della riforma psichiatrica furono demandati alle singole regioni, le quali si sono mosse con tempi, modalità, orientamenti e risultati fra di loro assai diversi. Alcune hanno varato, nell'ambito dei rispettivi piani sanitari, progetti obiettivi regionali (Veneto, Marche, Abruzzo, Toscana, Lombardia); altre si sono limitate ad adottare provvedimenti urgenti o parcellizzati; altre ancora, per molti anni, non sono intervenute con alcun provvedimento o con una produzione legislativa esigua (Valle d'Aosta, Sardegna). Situazioni così differenziate fra le varie regioni hanno prodotto la realizzazione di un sistema di servizi così disomogeneo, sia nelle strutture che nelle modalità di intervento, da giustificare la necessità di due specifici progetti obiettivi nazionali: il progetto obiettivo «Tutela della salute mentale 1994-1997», emanato con Dpr il 7/04/1994, e il progetto obiettivo «Tutela della salute mentale 1999-2002», Dpr 10/11/1999. Quest'ultimo costituisce a tutt'oggi il documento di policy di riferimento dell'intero sistema psichiatrico su scala nazionale.

E’’’ importante anche notare che sebbene la riforma prevedesse la chiusura degli ormai ex ospedali psichiatrici a partire dal 1980, il processo di superamento di queste strutture si è completato solo diciotto anni dopo e ha richiesto supporti legislativi specifici, che hanno di volta in volta incentivato o imposto provvedimenti attivi finalizzati alla loro chiusura, stante la lentezza con cui il processo stesso avanzava (Legge finanziaria 724/1994, art. 3, comma 5; Direttiva ministero della Sanità 20 dicembre 1996 «Linee Guida per la chiusura degli ex Ospedali Psichiatrici», Legge finanziaria 622/1996, art. 1, commi 20-25; Legge finanziaria 449/1997, art. 32, commi 4, 5, 6). Il processo di chiusura dei manicomi e di realizzazione della riforma psichiatrica è strettamente intrecciato allo sviluppo del Servizio sanitario nazionale, delle autonomie locali, degli altri servizi di welfare e allo sviluppo di una cultura professionale fortemente incentrata sulla cura, il rispetto della soggettività e dei diritti umani e civili di cittadinanza. Non può certamente essere questa la sede per una valutazione degli esiti di questo processo, che inevitabilmente si tradurrebbe in valutazioni di tipo tecnico e politico. Da una prospettiva meramente storica si può solamente dire che lo strumento legislativo è stato fondamentale nel produrre una rivoluzione su scala nazionale, nel rendere la prassi a morfologia della legge, laddove in altri paesi le leggi seguono nel tempo, adattandosi a morfologia della prassi. Nel contesto internazionale l'Italia è l'unico paese al mondo in cui si sia realizzata una chiusura completa e definitiva delle istituzioni manicomiali e ciò è tanto più ragguardevole tenuto conto del fatto che trent'anni fa il nostro paese godeva di una cattiva reputazione internazionale per l'obsolescenza di queste istituzioni e l'arretratezza dei metodi di cura. Una rivoluzione di questa portata si è realizzata in un lasso di tempo relativamente breve, senza significativi incidenti di percorso, portando la psichiatria italiana all'attenzione e alla curiosità scientifica della ribalta internazionale. I significativi problemi tuttora esistenti e le nuove esigenze emerse nel periodo di realizzazione della riforma non possono comunque intaccare il senso storico di una riforma che nello strumento legislativo ha avuto al tempo stesso la sua consacrazione e il suo inizio. Non è un caso che molti oggi vedano ancora nello strumento legislativo il mezzo più idoneo ed efficace per rispondere alle esigenze e ai problemi ancora insoluti. Il numero di progetti di legge di riforma della riforma presentati in Parlamento nel corso degli ultimi dieci anni, e la discussione che alcuni di essi hanno suscitato nel panorama professionale nazionale, testimoniano ancora una volta del legame esistente tra psichiatria come disciplina e istituzione e attività legislativa.

ANGELO FIORITO