Innato/acquisito |
La contrapposizione fra «innato» e «acquisito», in psicologia, spesso genera confusioni. E utile perciò chiarire subito che non si tratta di semplici opposti: non ha senso affermare che se un tratto è acquisito, allora non è innato, o viceversa. In senso generale, tutti i tratti psicologici sono acquisiti, sono presenti in un certo momento della vita di un individuo, ma non lo sono in un momento precedente della sua esistenza in ambiente intra- o extrauterino. La morula, il gruppetto di cellule che si forma nella prima settimana dopo la fecondazione, e che si avvia a radicarsi nella parete dell'utero materno, non ha alcuna capacità cognitiva. La concezione di tratto innato come «non acquisito», nel senso di presente da sempre nella vita di un individuo, come volevano alcune teorie preformiste medioevali, non ha quindi alcun posto nelle scienze cognitive contemporanee. Ricondurre il concetto prescientifico di innato a una potente nozione della biologia molecolare, in particolare a quella di gene, è certamente attraente. Molti scienziati sono favorevoli a tale riduzionismo biologico. In questa prospettiva, sono innate solo le competenze psicologiche determinate geneticamente. Nonostante i vantaggi che possono derivare da questo riduzionismo, ci sono seri dubbi sul fatto che esso sia, in questo periodo storico, una posizione teorica facilmente difendibile. Un primo problema deriva dalla nozione stessa di «determinazione genetica». Essa è intesa da alcuni in senso causale, e da altri nel senso di codifica di un certo tratto nei geni. In entrambi i casi, tuttavia, il processo di determinazione genetica resta ancora poco compreso, se si escludono casi specifici di costruzione di proteine da parte di certi geni. Siamo ancora lontani dal comprendere come un insieme di geni possa generare una complessa capacità cognitiva. Certo, possiamo ipotizzare un loro coinvolgimento nella formazione di un circuito cerebrale, o di un meccanismo fisiologico che si suppone sia la base neurale di tale competenza, ma questo è ben diverso dal dire che un insieme di geni codifica un certo concetto, un principio grammaticale o un assunto sulla razionalità degli agenti. I biologi, in proposito, talvolta sottolineano che i geni codificano e costruiscono proteine, non conoscenze sul mondo. Se una riduzione biologica del concetto di «conoscenza innata» a «conoscenza genetica mente determinata» non sembra, in questo momento storico, una via facilmente percorribile, è forse più utile cercarne una chiarificazione all'interno delle scienze cognitive stesse. Una posizione su cui si trova ampio accordo afferma che ciò che è innato non è appreso e, reciprocamente, ciò che è appreso non è innato. Nei modelli di molti psicologi e scienziati cognitivi, innate sono tutte quelle competenze e tratti che emergono naturalmente nel corso dello sviluppo e che non possono in nessun modo essere il prodotto di processi di apprendimento, sia nel senso tradizionale di processi associativi e di imitazione (Skinner, 1957), sia nel senso più recente di assimilazione, accomodamento 0 cambiamento concettuale (Surian e Leslie, 1999). Consideriamo, tuttavia, il caso di un'afasia causata da un'emorragia cerebrale. Questo tratto psicologico non è, ovviamente, un tratto innato, ma non è nemmeno appreso, perché il processo che lo ha causato non è di natura mentale: la sua spiegazione causale è interamente all'interno di uno schema concettuale causale privo di riferimenti a processi di apprendimento, associativo o di altro tipo. Poniamo che, in seguito all'iniezione di una sostanza stupefacente, una persona inizi a vedere cose che in realtà non esistono: non possiamo certo sostenere che questa persona abbia «appreso» ad allucinare. Vi sono quindi capacità o tratti che non possono essere qualificati come innati, ma nemmeno come appresi ed è perciò sbagliato affermare che è appreso tutto ciò che non è innato, per lo meno in qualsiasi senso accettabile di appreso. L'innatismo è stato talvolta descritto come contrapposto all'interazionismo, il quale postula l'esistenza di complesse interazioni fra geni e ambiente. J. Elman e collaboratori (1996), ad esempio, definiscono come inna-tiste le ipotesi secondo le quali una componente del sistema cognitivo emerge a causa di un certo insieme di geni, in assenza di interazioni fra geni e ambiente esterno o interno (intercellulare). Le ipotesi innatiste, definite in questo modo, sono necessariamente tutte false, poiché tanto i più semplici tratti fisici, quanto le più complesse competenze psicologiche, sono il frutto di complesse interazioni fra ambiente e corredo genetico. In realtà, nessuno dei teorici contemporanei dell'innatismo sostiene ipotesi così estreme. L'obiezione interazionista manca il bersaglio perché non riconosce che, fra gli scopi prioritari delle teorie innatiste, vi è proprio quello di giungere a chiarire come capacità preprogrammate e input ambientali interagiscano, permettendo l'ontogenesi delle competenze concettuali universali e delle credenze specifiche di una certa cultura. Le discussioni sull'origine innata di alcune rappresentazioni e processi mentali hanno occupato, per molti secoli, un posto di primo piano nella riflessione filosofica e nella ricerca scientifica sulla mente. La dottrina platonica delle idee innate è il più illustre precursore delle moderne teorie innatiste. Nel XVII secolo, questo problema è stato al centro della contrapposizione tra i filosofi empiristi, che difendevano il ruolo dei meccanismi di apprendimento associativi, e quelli razionalisti, schierati a favore di posizioni radicalmente innatiste. Il dibattito si è talvolta esteso alle questioni politiche o ideologiche, per le sue importanti implicazioni in ambito educativo, medico e legale. Le teorie empiriste sono state frequentemente citate e difese nelle ricerche psicologiche di ispirazione comportamentista, ma sono anche state oggetto di attacchi e confutazioni sperimentali da parte di psicologi della cognizione infantile. Le teorie razionaliste affermano l'origine innata del ragionamento logico e matematico, della comprensione causale, della capacità di percepire lo spazio tridimensionale e di molti altri aspetti della psiche umana. Il problema della natura innata delle conoscenze, riportato all'attenzione di psicologi e neuroscienziati da N. Chomsky (1981), J. Fodor (1981) e altri protagonisti della moderna scienza cognitiva, è oggi al centro dei dibattiti sull'acquisizione delle conoscenze grammaticali, fisiche, matematiche, biologiche e psicologiche. L'ambito in cui più efficacemente si sono mossi i teorici contemporanei dell'innatismo è quello dello sviluppo grammaticale. Le teorie innatiste sullo sviluppo sintattico sostengono che la competenza grammaticale posseduta da un individuo deve essere descritta come conoscenza di regole e principi che includono categorie sintattiche come sintagma nominale, soggetto sintattico, oggetto, verbo e sostantivo comune. La capacità di un parlante di comprendere e produrre frasi grammaticali mai sentite prima suggerisce il possesso di queste categorie. La principale argomentazione innatista a proposito dei concetti sintattici è nota come «argomento della povertà dello stimolo». Chomsky e gli altri studiosi dell'apprendibilità del linguaggio sostengono che l'input a cui è esposto il bambino non è sufficientemente ricco da permettergli di apprendere tali categorie e i principi che a loro si richiamano. La povertà dello stimolo emerge in vari modi. In alcuni studi, è messa in risalto dall'analisi sintattica di frasi la cui interpretazione non può avvenire senza un ricco contributo fornito da conoscenze che il bambino dovrebbe già possedere quando inizia a imparare la lingua a cui è esposto. Un altro dato coerente con l'argomento della povertà dello stimolo proviene dalle ricerche sul comportamento degli adulti nei confronti dei bambini. In questi comportamenti manca, molto spesso, il feedback negativo sulla scorrettezza grammaticale delle frasi. L'assenza di prove negative priva il bambino di indicazioni su quali strutture e combinazioni di parole non sono ammesse in una certa lingua. In assenza di conoscenze grammaticali innate e di feedback negativo, il bambino dovrebbe generare per molti anni un numero enorme di errori, in particolare errori di generalizzazione illecita. L'assenza di questi errori nelle precoci espressioni infantili dimostra, secondo i teorici dell'apprendibilità del linguaggio, che il bambino affronta il compito di apprendere la grammatica con un ricco insieme di principi e concetti sintattici innati. Tuttavia, i bambini non vengono al mondo conoscendo la sintassi di una particolare lingua naturale. É dunque l'interazione fra i principi innati della grammatica universale e l'esperienza conversazionale a permettere loro di apprendere velocemente, senza sforzo e commettendo ben pochi errori, la grammatica della lingua naturale a cui sono esposti. La prospettiva innatista riceve sostegno anche da altri tipi di prove, che provengono da numerose ricerche in psicolinguistica evolutiva e psicologia dello sviluppo. Tre sono le caratteristiche di un pattern evolutivo che suggeriscono l'origine innata di una certa competenza: l'universalità, la precocità e l'esistenza di un periodo critico. Nessuna di queste prove, tuttavia, in assenza di particolari assunti teorici, costituisce una forte confutazione delle ipotesi empiriste alternative. L'universalità di una conoscenza, ad esempio, può essere talvolta il risultato di un'esposizione generalizzata al medesimo input. La precocità è una prova convincente a favore delle ipotesi innatiste solo se è possibile dimostrare che non vi sono state precedenti esperienze associative, sufficienti all'apprendimento di una certa capacità. L'esistenza di un periodo critico, infine, nelle prospettive empiriste è ricondotta all'influenza di fattori generali di tipo attentivo e mnestico, fattori non specifici per l'apprendimento di un particolare tipo di conoscenza. Innatisti ed empiristi contemporanei concordano tutti sulla tesi che le conoscenze presenti nella mente di un adulto sono il risultato dell'applicazione di meccanismi innati di apprendimento. La differenza principale fra questi orientamenti sorge quando bisogna chiarire il funzionamento di questi meccanismi. Per i teorici innatisti essi sono, in buona parte, specifici per dominio e guidano in modo incanalato l'apprendimento di un particolare tipo di informazioni, svolgendo computazioni specifiche e utilizzando nozioni astratte. Alcune ipotesi innatiste hanno quindi ricevuto sostegno dagli studi sull'apprendimento dominio-specifico in varie specie animali e in bambini con sviluppo atipico. I bias generati da questi meccanismi non sono limitati ai livelli precoci di elaborazione sensoriali, ma possono riguardare caratteristiche strutturali astratte, rilevate da modalità diverse, Per gli empiristi, invece, i meccanismi di apprendimento sono principalmente processi generali per dominio che, partendo da associazioni di semplici sensazioni, producono nozioni complesse e astratte. Le preferenze iniziali per particolari stimoli od oggetti si assume siano determinati da caratteristiche rilevabili a livelli di base dell'elaborazione sensoriale o percettiva, Tuttavia, dopo 300 anni di teorizzazione empirista, non si conoscono ancora meccanismi di apprendimento in grado di produrre concetti come «animale», «veicolo» o «libertà», a partire da semplici sensazioni e processi associativi. Gli esempi usati ci aiutano ora a illustrare un altro importante aspetto delle discussioni contemporanee sul carattere innato delle conoscenze. Queste discussioni, spesso, tendono a non limitarsi al problema dell'origine di una certa capacità, ma si estendono al più vasto problema di come vadano descritte le competenze mentali. Questa estensione si trova già in uno dei primi manifesti cognitivisti, la recensione che Chomsky scrisse al Comportamento verbale di B, Skinner (1957), e si può osservare oggi nella contrapposizione fra le concezioni della mente «classiche», basate su rappresentazioni simboliche, e le più recenti concezioni connes-sioniste. Le ipotesi innatiste includono solitamente una serie di assunti sull'architettura cognitiva e certi argomenti logici, ad esempio quello della povertà dello stimolo, possono derivare proprio da tali assunti. I sostenitori dei modelli empiristi hanno perciò tentato di dimostrarne l'infondatezza. Per negare il carattere innato dei concetti grammaticali, ad esempio, alcuni studiosi hanno cercato di dimostrare che la conoscenza grammaticale non è realizzata da regole e simboli, come sostengono le teorie generative, ma da reti neurali e rappresentazioni subsimboliche (Seidenberg, 1997). I modelli basati sulle reti neurali non sono, tuttavia, legati necessariamente a posizioni empiriste sull'origine delle conoscenze. La forza di questo legame dipende dalle caratteristiche particolari della rete proposta: se i suoi pesi sono, all'inizio delle fasi apprendimento, distribuiti in modo da permettere la generazione di bias attentivi rivolti verso caratteristiche complesse dell'input ambientale, tale modello può essere coerente con le ipotesi innatiste sull'apprendimento in un particolare dominio. La relazione fra alcune ipotesi innatiste e particolari concezioni dell'architettura neurale rivela perché il dibattito su tali ipotesi sia così difficile da risolvere, ma spiega anche perché alla loro verifica, o confutazione, si siano dedicati molti laboratori e alcuni fra i maggiori scienziati cognitivi. LUCA SURIAN |