Formazione dello psicoanalista

La formazione costituisce un punto di dibattito costante all'interno del movimento psicoanalitico. Ciò è legato, ovviamente, alla necessità di adeguamento all'evoluzione della disciplina, ma è anche espressione di una difficoltà intrinseca al problema. Tanto che, trattandosi di psico-analisi, può essere addirittura incongruo parlare di formazione, visto che una forma è sempre qualcosa di concluso, mentre un'analisi spezza le forme. In linea generale, la formazione dello psicoanalista si compone di due parti, assai differenti tra loro per statuto epistemico e che debbono potersi incontrare in ciascuno psicoanalista. La prima è costituita dalla psicoanalisi personale e dalle supervisioni, la seconda dalla conoscenza sufficientemente approfondita della psicoanalisi ai suoi vari livelli (teoria, metodo, clinica) e delle scienze con le quali essa ha necessari rapporti. L'esigenza che, per diventare psicoanalista, l'aspirante si sottoponga a un trattamento psicoanalitico, costituisce a un tempo un'indicazione coerente con le basi teoriche della psicoanalisi e una differenziazione precisa rispetto a tutte le altre scienze: in nessuna di queste ultime, infatti, si richiede come condizione necessaria (anche se non sufficiente) di sperimentare preliminarmente che cosa voglia dire porsi come oggetto di uno specifico metodo di indagine. Tuttavia, se la premessa fondante di ogni psicoanalisi è l'esistenza, in ogni individuo, di qualcosa che va al di là dei dati della coscienza e che, quindi, non è disponibile al soggetto ma, in qualche e spessissimo notevole misura, lo determina, è coerente che si richieda, a chi intende indagare l'inconscio altrui, la consapevolezza non solo dei propri conflitti e dei propri scotomi inconsci (e il loro possibile superamento), ma anche delle modalità di lavoro psichico inconscio che possiamo, ad altro livello, raffigurarci attraverso la finzione dell'apparato psichico. Un ulteriore e fondamentale elemento alla, base della necessità di una psicoanalisi per chi desidera diventare psicoanalista sta nell'elevato livello di frustrazione narcisistica cui l'esperienza psicoanalitica espone: altro è sapere che la psicoanalisi è stata, dopo quella copernicana e quella darwiniana, la terza grande rivoluzione-umiliazione che ha dovuto subire l'umanità, altro è sperimentarlo. Il transfert e il controtransfert costituiscono, in ogni caso, un banco di prova del narcisismo dell'analista e debbono poter essere costantemente riconosciuti se si vuol procedere alla loro analisi. Al di là dell'esigenza generale di un'analisi, nella storia del movimento psicoanalitico si è però ben presto posto un interrogativo che si può così formulare: quale analisi per quale analista? Inizialmente, la posizione di S. Freud - il quale ovviamente non aveva potuto compiere una propria psicoanalisi se non nella forma dell'autoanalisi (Anzieu, 1959) e nella relazione con un amico assente (W. Fliess) - non è stata rigidamente prescrittiva: l'analisi personale era considerata raccomandabile, o altamente raccomandabile, ma non veniva considerata una conditio sine qua non nella formazione dell'analista. L'autoanalisi, viceversa, era una pratica consueta e che Freud continuò per tutta la vita (Jones, 1953). Già nel secondo decennio del '900, tuttavia, la prescrizione era divenuta praticamente obbligatoria (Freud, 1912b). A Vienna, durante la permanenza di Freud, non era tuttavia stata codificata una procedura di accesso all'esercizio della psicoanalisi né era stato codificato un training psicoanalitico a sé stante: la persona interessata a divenire analista veniva ammessa (o no) alla partecipazione alle attività della Società psicoanalitica di Vienna. Progressivamente, soprattutto con lo sviluppo della psicoanalisi in Germania (e in particolare a Berlino, ove attorno a M. Eitingon, H. Sachs e K. Abraham nacque il primo Istituto psicoanalitico), la prescrizione dell'analisi personale si trasformò nella questione dell'analisi «didattica», ossia si ritenne che l'analisi del candidato psicoanalista dovesse essere non solo particolarmente approfondita ma anche condotta da analisti particolarmente esperti: si assisteva dunque a un costituirsi parallelo di istituzioni psicoanalitiche, di gruppi di analisti «specializzati» e di trattamenti psicoanalitici qualificati dall'aggettivo «didattico». All'interno di questa tendenza, poi, si differenziavano coloro i quali ritenevano che comunque l'analisi didattica dovesse conservare le caratteristiche di privatezza di qualsiasi analisi e coloro i quali, viceversa, ritenevano che, proprio per la particolare conoscenza che lo psicoanalista didatta poteva acquisire del candidato, egli dovesse riferire ai comitati di formazione degli istituti di psicoanalisi sui progressi o, al contrario, sulle difficoltà incontrate nel corso di tali analisi, costituendo questo apporto un elemento qualificante per la decisione di ammettere o meno l'analizzando alle attività dell'Istituto di formazione, dunque di autorizzarlo a condurre a sua volta delle analisi sotto supervisione e a frequentare i corsi e i seminari teorici dell'Istituto.

Da un lato, queste evoluzioni avvenivano conseguentemente a un aumento, fino a una prevalenza numerica, di medici nelle società psicoanalitiche. L'estremo di questa linea di sviluppo - l'analista didatta reporting per l'Istituto - si ebbe negli Stati Uniti, dove le società psicoanalitiche ammettevano alla formazione solamente i laureati in medicina, fatto che dette luogo ad aspre polemiche (Eissler, 1965). Dall'altro, erano conseguenza della costituzione progressiva di istituzioni psicoanalitiche, che tendevano a garantire la trasmissione della psicoanalisi e a evitare le deviazioni non solo teoriche ma anche pratiche nell'applicazione del metodo psicoanalitico.

L'interrogativo iniziale, dunque, conteneva varie questioni. La prima era relativa alla formazione prepsicoanalitica del candidato. Doveva essere un medico? O non era invece preferibile che i candidati arrivassero da qualunque base culturale e che la loro domanda venisse vagliata unicamente in base al loro interesse alla psicoanalisi ? Si poneva qui - in tutta la sua centrale importanza -la questione dell'analisi dei «laici» (Freud, 1926; Eissler, 1965). Se la psicoanalisi è una scienza a sé stante, infatti, un problema che le si pone è quello della sua trasmissione, che, da un lato, non può dipendere dalla trasmissione di altre scienze, e dall'altro deve evitare di sopportare il peso delle deformazioni prospettiche - sintomatiche o meno -che le formazioni precedenti possono provocare o legittimare (la tendenza di molti medici a curare copre motivazioni inconsce che hanno poco a che fare con la comprensione del paziente).

La seconda era relativa invece alle caratteristiche del trattamento psicoanalitico cui il candidato psicoanalista doveva sottoporsi: si trattava di un'analisi personale o di un'analisi con finalità specifiche («didattiche») ? E ancora: si trattava comunque di un'analisi o la presenza (nell'attività psichica dell'analizzando e quindi in quella dell'analista) del «progetto» di diventare psicoanalista introduceva un elemento particolare, che la differenziava dalle altre psicoanalisi ? Viceversa: la presenza di un particolare contenuto nell'attività psichica dell'analizzando (in questo caso il progetto di diventare psicoanalista) è indicativa di una specificità che richieda una speculare specificità dell'analista ? Il dibattito su queste questioni è tuttora aperto ed è stato affrontato in molti modi diversi. Si è sostenuto, ad esempio, che l'analisi con prospettive didattiche avesse un fine, quello dello sviluppo di una supposta funzione analitica della mente, e si è controbattuto che l'introduzione, o l'esistenza, di un fine in una psicoanalisi ne altera dalle basi le caratteristiche di ricerca non finalizzata. Di fatto, oggi esistono società psicoanalitiche nelle quali prevale il criterio di garantire lo svolgimento del processo psicoanalitico riducendo al minimo quella che allora viene giudicata l'«interferenza» istituzionale (ad esempio chiedendo all'analista la semplice certificazione di inizio e di fine analisi del richiedente la formazione presso l'Istituto), e società nelle quali prevale il criterio di valorizzare l'apporto dell'analista nel momento del trattamento psicoanalitico, richiedendogli e riconoscendogli dunque una particolare e specifica preparazione e un particolare status societario («psicoanalista didatta o di training»), o anche nelle fasi della valutazione delle tappe formative del candidato.

Inoltre, al di là di queste questioni che riguardano le caratteristiche dell'analisi dei candidati a divenire psicoanalisti, esiste la

vexata quaestio delle caratteristiche personali che, comunque, questo candidato deve avere o acquisire. Formulate in termini positivi, queste caratteristiche comprendono un buon equilibrio narcisistico, sufficientemente forte da tollerare le inevitabili frustrazioni connesse con l'esperienza dell'inconscio, e un adeguato sviluppo delle relazioni intrapsichiche e interpersonali con le rappresentazioni degli oggetti esterni e con gli oggetti stessi: dunque una configurazione dell'Io sufficientemente elastica e non acriticamente succube degli imperativi inconsci derivanti dall'Es o dal Super-io. Questa definizione è volutamente strutturale e non legata ai contenuti psichici, perché in tal modo non tocca la specificità degli equilibri libidici che si organizzano attorno ai nodi conflittuali qualificanti e condizionanti l'espressione della soggettività, tipicamente quelli relativi al superamento del conflitto edipico: esiste una soluzione adeguata a questo conflitto ? O non bisogna invece pensare che l'essenziale sia che la configurazione dinamica risultante consenta il riconoscimento della diversità dell'altro e delle necessità conseguenti per comprenderlo ? La difficoltà pratica di definizione di questi equilibri aveva condotto, e per certi aspetti tuttora conduce, al rischio di una selezione su base prevalentemente negativa (non venivano ammesse persone con valenze o tratti psicotici o perversi, ad esempio, o con strutture di carattere troppo rigide). All'interno della prima parte della formazione dello psicoanalista, abbiamo incluso più sopra le «supervisioni»: si tratta di una scelta precisa che conviene dichiarare, in quanto il processo mutativo del candidato che avviene durante la supervisione del trattamento psicoanalitico da lui condotto si è solo progressivamente imposto come un elemento specificamente psicoanalitico. Per molto tempo nella formazione dello psicoanalista era contemplata la necessità di una o più (in generale due) analisi di controllo, sul modello berlinese (Balint, 1952). La supervisione veniva dunque concepita come un procedimento che consentiva all'istituzione di controllare l'acquisizione del metodo psicoanalitico che il candidato iniziava ad esercitare attivamente. Il ruolo del supervisore era sia quello di insegnante sia quello di correttore di eventuali distorsioni e di aiutante nella comprensione delle dinamiche profonde del paziente, sia infine quello, al termine del periodo richiesto (in generale di due o tre anni per ogni psicoanalisi), di certificazione dell'avvenuta acquisizione di sufficienti capacità cliniche o anche di partecipazione alla discussione della commissione di valutazione incaricata di consentire o meno l'ingresso del candidato nella società psicoanalitica. Ora, benché sia frequente che il candidato stia ancora continuando la propria analisi personale allorché inizia il trattamento psicoanalitico di pazienti, e quindi abbia la possibilità di analizzare le ripercussioni inconsce di tale situazione, la supervisione ha inevitabilmente una dimensione psicoanalitica ma specifica, perché, da un lato, riguarda la comunicazione a un altro del racconto di quanto avviene (difficoltà, scoperte, transfert, controtransfert) durante un'altra analisi, e implica dunque la possibilità che la relazione con il supervisore assuma a sua volta una dimensione transferale importante, dall'altro, questa relazione è però centrata sull'analisi delle vicissitudini di un terzo, il paziente, o di una coppia (l'analista in formazione e il suo paziente) e non sulle associazioni del candidato, come avverrebbe in un'analisi. La delicatezza del processo di supervisione, nel quale prevalgono di volta in volta, e a seconda delle caratteristiche personali e scientifiche dei partecipanti, gli elementi di insegnamento (compresi quelli di valutazione) e quelli di approfondimento delle caratteristiche «lavorative» dell'apparato psichico del candidato, le sue specifiche resistenze a riconoscere l'inconscio, a tollerare il transfert nelle sue mutevolissime manifestazioni, a elaborare il controtransfert, fa si che esso si configuri come una situazione psicoanalitica eterocentrata ma bisognosa di un adeguato setting che ne protegga e incentivi lo sviluppo processuale. Perciò in molte società psicoanalitiche è prevalso il criterio di rendere sempre minore il compito istituzionale dello psicoanalista supervisore, limitandolo alla certificazione finale - in genere contenente una valutazione del cammino compiuto dal candidato -dell'avvenuta supervisione e lasciando interamente alla commissione preposta (della quale il supervisore non fa dunque parte) il compito della valutazione relativa alla idoneità o meno del candidato a entrare a far parte della società psicoanalitica. La seconda parte della formazione dello psicoanalista comprende la frequenza di corsi e seminari presso l'Istituto di formazione di una società psicoanalitica. Fino agli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale, questi corsi e seminari comprendevano, pressoché ovunque, la lettura e lo studio delle opere di Freud e degli scritti degli psicoanalisti delle prime due generazioni, e un buon numero di seminari centrati sulla discussione di materiale clinico. In realtà, stando alle descrizioni che ci sono pervenute, la lettura e lo studio della letteratura psicoanalitica era, in una certa misura, data per scontata: il potere attrattivo della nuova scienza bastava a garantire che l'allievo avesse anche un interesse intellettuale e scientifico spiccato e, semmai, ci fu un periodo nel quale prevalse la tendenza a sconsigliare la lettura di testi psicoanalitici, perlomeno fintantoché la propria analisi era in corso, per proteggere la possibilità di scoprire su se stessi - in modo certamente più autentico e profondo - la natura dello psichico inconscio.

Già allora, tuttavia, si era posta la questione del tipo e della quantità di discipline e di saperi che il futuro analista doveva frequentare con sufficiente familiarità. Questo dibattito era centrato sulla consapevolezza dell'identità dello psicoanalista in quanto «scienziato antropico», per usare un'espressione di K. Eissler (1965) che conserva una sua validità: se la psicoanalisi è la scienza che si occupa specificamente dell'essere umano a partire dalla sua attività psichica, non solo non possono essere estranei all'analista i campi delle scienze sociali e (a un altro livello) di quelle biologiche, ma ancor prima è importante che l'analista acquisti una coscienza critica dei prodotti psichici dell'umanità (dalla mitologia alle regole sociali, per arrivare anche a una concezione critica della scienza) i quali, conquistando una loro relativa autonomia dal singolo individuo e proprio perché la conquistano, diventano fattori che lo determinano e che non sono immediatamente riducibili ad esso. Th. Adorno ha indicato in termini estremamente cogenti l'irriducibilità della sociologia alla psicoanalisi (e viceversa), ma ha anche conseguentemente posto il problema della necessaria consapevolezza che si richiede all'analista relativamente alla complessità dei fattori che rendono quel particolare individuo quello che è attualmente e, per contro, che costituiscono l'individuo in generale. Etnologia, antropologia, linguistica, sociologia, ma anche biologia generale e neurologia (oggi neuroscienze) e perfino la fisica non dovrebbero far parte della formazione culturale e scientifica dello psicoanalista, oltre alla conoscenza della propria letteratura scientifica e delle linee di ricerca attuali ? Nella Società psicoanalitica viennese, ricorda Eis-sler, quasi tutte le aree della conoscenza umana erano rappresentate da psicoanalisti che erano divenuti tali dopo la loro specifica formazione in quei campi e che portavano nel dibattito la ricchezza della differenza, che arricchiva tutti i membri. Ovviamente, sia lo sviluppo della psicoanalisi, di nuove e differenziate linee di ricerca (e il conseguente enorme aumento di pubblicazioni psicoanalitiche), sia, e ancor prima, la limitazione intrinseca a ogni individuo, rendono oggi difficile anche avere una conoscenza di prima mano costantemente aggiornata della sola letteratura psicoanalitica. Ma, al di là della inevitabile e necessaria personalizzazione degli interessi e delle linee di ricerca, la questione di fondo permane. E dunque i seminari e i corsi degli istituti di psicoanalisi riflettono anche questa difficoltà: da un lato, servirebbe alla formazione dell'analista una ideale facoltà di antropologia (nel senso letterale del termine), dall'altro, è necessario trasmettere almeno le basi metodologiche e teoriche della disciplina, garantendo anche un livello di discussione a partire dall'esperienza clinica che consenta il continuo lavoro psichico di collegamento tra aree differenti di lavoro dell'apparato psichico. In particolare, anche la ricezione e l'elaborazione dell'eredità freudiana sta divenendo difficile, anche a causa della progressiva necessità - in funzione della distanza anche temporale dal mondo di Freud - di acquisire strumenti critici di lettura che evitino tanto l'idealizzazione del fondatore quanto la sua denigrazione. Questi ultimi movimenti propri a ciascun gruppo - del resto già delineati in numerosi scritti da Freud stesso (1912-13; 1938b) come caratteristici dell'umanità e quindi anche degli psicoanalisti - possono essere superati solo attraverso la consapevolezza della natura omicida dell'essere umano, della sua necessità mitopoietica, della sua intolleranza alla conoscenza, e attraverso l'acquisizione di strumenti critici che consentano una lettura scientifica dei testi.

Se ora ci permettiamo di dare uno sguardo al contesto della formazione dello psicoanalista oggi, dobbiamo constatare che essa non sfugge all'impatto di una serie di fattori sociali attuali: lo sviluppo delle conoscenze costituisce di per sé un fattore di limitazione della possibilità di acquisirle, in qualunque campo; la tendenza alla normazione (fino alla militarizzazione) di ogni aspetto della vita individuale si riflette nella richiesta agli analisti di essere sempre più «clinici» e sempre meno «scienziati antropici», anche tramite norme e leggi statali che regolano l'esercizio delle attività psicoterapeutiche (e, tra esse, la psicoanalisi); la repressione della creatività individuale tipica di un mondo che trasforma l'individuo in consumatore si traduce in un pratico invito al conformismo o all'ecumenismo teorico che consuma qualsiasi prodotto. Questi vari fattori spingono a «fare» lo psicoanalista, non a esserlo. La consapevolezza di questi rischi, variamente teorizzati e variamente controbattuti, non garantisce il loro evitamento: lo consente solo. È già molto, rispetto alla situazione delle altre scienze, ma rimane assai poco, tenendo conto del pericolo che provoca la non

avvertenza dei movimenti sociali indicati (e di quelli inconsci che li utilizzano). La formazione dello psicoanalista, dunque, non può che ripetere, ma criticamente, la condizione umana. Dipendente dai limiti fisici individuali, dal condizionamento dell'atmosfera simbolica sociale, dalle dinamiche intrapsichiche e da quelle tra le generazioni, raffigura essa stessa la difficoltà e la gioia di coltivare quella pianta rara e delicata che si chiama libertà.

ALBERTO SEMI