Diagnosi psichiatrica

La classificazione è un processo cognitivo fondamentale, giacché consente di strutturare e ordinare il mondo fenomenico in categorie in base alle somiglianze e alle differenze tra le persone o gli oggetti, e alla relazione che intercorre tra essi. In campo medico un sistema classificatorio adempie a tre funzioni precipue: 1) una funzione di denominazione, attraverso la quale viene dato un nome comune a un gruppo di fenomeni per rendere possibile la comunicazione tra clinici, ricercatori e utenti; 2) una funzione di qualificazione, volta ad arricchire il contenuto informativo del nome (o della categoria diagnostica) aggiungendovi importanti caratteristiche descrittive quali i sintomi tipici propri del disturbo in questione, l'età di insorgenza, la sua gravità, ecc.; 3) una funzione di predizione, che ha lo scopo di fornire un giudizio di natura probabilistica circa il decorso e l'esito del disturbo stesso, così come un giudizio circa la risposta al trattamento. La validità predittiva della diagnosi ha una particolare rilevanza: infatti, nella psichiatria clinica i giudizi circa la validità diagnostica riguardano essenzialmente il valore predittivo, e di conseguenza l'utilità pratica della diagnosi; pertanto la diagnosi, rappresentando di fatto un'ipotesi, viene confermata (o confutata) in ultima analisi a partire dalle sue conseguenze. In medicina si possono riconoscere due differenti tipi di approccio nella costruzione di un sistema nosografico-classificatorio: un approccio empirico e uno inferenziale. Il primo è strettamente limitato ai fatti direttamente osservabili, sui quali costruisce le proprie categorie classificatorie, ed ha acquistato assoluta preminenza in campo biomedico; il secondo, invece, avanza inferenze o ipotesi circa le possibili cause e gli ipotetici processi sottostanti ai fenomeni osservabili. Attualmente la nosografia medica si presenta estremamente disomogenea e ispirata a criteri eclettici: alcune malattie sono classificate secondo un criterio di tipo sintomatologico-sindromico, altre sono denominate e classificate a livello morfologico, altre rappresentano entità classificate a livello di un'accertata disfunzione biochimica, altre ancora costituiscono anormalità funzionali e sono classificate come tali, infine alcune prendono il proprio nome e valenza classificatoria dal nome dell'agente microbico coinvolto. Le categorie diagnostiche ottenute privilegiando la descrizione dei sintomi e la configurazione di sindromi specifiche sono essenzialmente fondate su considerazioni attuariali (Cooper e Morgan, 1973), poiché vengono messe insieme osservazioni compiute su ampi numeri di pazienti. Una sindrome è rappresentata da un insieme di segni e sintomi che tendono a manifestarsi insieme, caratterizzati da un decorso più o meno caratteristico.

Esistono modelli diagnostico-classificatori di tipo verticale e di tipo orizzontale. Il modello verticale, noto anche come modello gerarchico, organizza le varie categorie tassonomiche (ad es. demenza, schizofrenia o fobia) in una serie di livelli differenziati, solitamente distinti secondo la loro preminenza dal punto di vista eziopatogenetico e clinico, nei quali i livelli più bassi sono sussunti come parti di quelli più elevati. Ad esempio, la diagnosi di un disturbo demenziale, a cui è attribuito un livello gerarchico molto elevato, preclude la diagnosi di fobia, a cui è riconosciuta una posizione gerarchica molto più bassa. Il modello orizzontale è conosciuto come multiassiale: in esso varie classi di attributi (quali sintomi o fattori eziologici, o altri ancora) sono ordinati in una serie di categorie parallele o allineate. In siffatto modello viene incoraggiata la raccolta di tutte le informazioni possibili e la loro registrazione su assi specifici, che vengono ad acquisire un ruolo preciso sia dal punto di vista diagnostico che clinico-operativo (asse del disturbo psichiatrico, asse della personalità, asse del funzionamento psicosociale, ecc.). Non viene riconosciuto un modello gerarchico rigido tra i vari disturbi, ma viene invece raccomandata la rilevazione della cosiddetta «comorbidità» (ossia la presenza simultanea di disturbi diversi), che le ricerche epidemiologiche hanno mostrato rappresentare un'evenienza abbastanza comune. Un'importante distinzione, in campo psicopatologico, va anche posta tra un approccio diagnostico di tipo categoriale, attraverso il quale le categorie diagnostiche sono ben differenziate qualitativamente, separate tra loro e mutuamente esclusive, e un approccio di tipo dimensionale, in cui le specifiche entità morbose vengono considerate come deviazioni quantitative di un continuum relativo alla personalità, alla percezione, alla cognizione, all'umore, ecc. A parere di numerosi autori, un approccio dimensionale si presta meglio alla classificazione dei disturbi meno gravi, che rappresentano deviazioni puramente quantitative da una norma definita in vario modo, mentre un approccio categoriale meglio si adatta alla classificazione dei disturbi più gravi (quali le psicosi), che si differenziano in modo qualitativamente più o meno netto rispetto a condizioni di normalità. Nelle vigenti classificazioni, comunque, via via che si procede verso un livello di maggiore specificazione diagnostica, si passa gradualmente (e inevitabilmente) da un approccio di tipo categoriale a uno dimensionale; ad esempio, la diagnosi di episodio depressivo corrisponde effettivamente a una categoria diagnostica precisabile e definita qualitativamente; tuttavia, nel momento in cui si cerca di operare un'ulteriore precisazione diagnostica, con la creazione di sottocategorie (ad es. episodio depressivo lieve o di media gravità), si adotta un criterio quantitativo implicito di gravità, quindi dimensionale. Le sottocategorie vanno dunque interpretate come un tentativo di incorporare caratteristiche quali gravità, decorso e presenza di caratteri aggiuntivi in un sistema diagnostico categoriale. La definizione del confine tra normalità e «patologia», tuttavia, si pone sia per i modelli categoriali che per quelli dimensionali, e pone alla psichiatria il problema di decidere ad esempio dove finisca un umore «triste» e dove cominci un disturbo depressivo; tali decisioni sono puramente arbitrarie e vanno decise pragmaticamente. I due più importanti sistemi diagnostico-classificatori psichiatrici attuali sono rappresentati dalla Decima revisione della classificazione intemazionale delle sindromi e dei disturbi psichici e comportamentali (ICD-10, 1992), prodotto dall'Organizzazione mondiale della sanità, e dalla quarta revisione del Manuale diagnostico e statistico dell'American Psychiatric Association (DSM-IV, 1994). L'ICD-10 comprende 100 principali categorie diagnostiche, con un aumento quindi di tre volte rispetto al numero di categorie incluse nella precedente versione (ICD-9). I disturbi di personalità sono stati classificati nell'asse principale insieme agli altri disturbi mentali e alle sindromi comportamentali.

Il DSM, pubblicato nella sua terza edizione nel 1980, si impose all'attenzione internazionale soprattutto per l'adozione - per la prima volta - di criteri diagnostici specifici per ciascun disturbo mentale. I criteri diagnostici sono costituiti dalla descrizione di

una serie di sintomi, espressi nel modo più chiaro possibile, necessari per fare diagnosi, secondo un approccio di tipo descrittivo. Essi hanno due funzioni distinte: servono a definire i vari disturbi mentali e a diagnosticarli nella pratica clinica. A tal fine, ciascun criterio diagnostico dovrebbe idealmente riflettere una caratteristica centrale del disturbo che deve definire e, nel contempo, massimizzare il suo potere diagnostico differenziale rispetto a disturbi simili (è questo il caso dei cosiddetti sintomi «patognomo-nici»). Oltre a queste innovazioni formali, il DSM-III ha ampliato i criteri diagnostici dei disturbi dell'umore ed eliminato i termini «nevrosi» e «isteria», ritenuti aspecifici e intrinsecamente ambigui. Nel 1994 è apparso il DSM-IV, che comprende cinque assi: I. disturbi clinici e altre condizioni che possono essere oggetto di attenzione clinica; II. disturbi di personalità e ritardo mentale; III. condizioni mediche generali; IV, problemi psicosociali e ambientali; V. valutazione globale del funzionamento. Nell'asse II possono essere registrate anche caratteristiche di personalità a carattere disfunzionale di particolare rilievo e i meccanismi di difesa. Sull'asse IV vanno registrate le problematiche psicosociali e ambientali che possono influenzare la diagnosi, il trattamento e la prognosi dei disturbi mentali, e in particolare quelle che sono state presenti nell'anno precedente alla valutazione.

Nel complesso, il DSM-IV comprende 17 classi diagnostiche principali: 1) disturbi di solito diagnosticati inizialmente nell'infanzia, nella fanciullezza o nell'adolescenza; 2) delirium, demenza e altri disturbi amnestici e cognitivi; 3) disturbi mentali dovuti a una condizione medica generale non classificata altrove; 4) disturbi legati a sostanze; 5) schizofrenia e altri disturbi psicotici; 6) disturbi dell'umore; 7) disturbi d'ansia; 8) disturbi somatoformi; 9) disturbi fittizi; io) disturbi dissociativi; 11) disturbi sessuali e dell'identità sessuale; 12) disturbi alimentari; 13) disturbi del sonno; 14) disturbi del controllo dell'impulsività non classificati altrove; 15) disturbi di adattamento; 16) disturbi di personalità [in asse II]; 17) altre condizioni che possono essere oggetto di attenzione clinica, Particolare attenzione viene posta anche nei confronti delle possibili concause di tipo medico, o relative all'uso di sostanze, nel determinismo della maggior parte dei disturbi psichiatrici, In campo diagnostico due costrutti sono di essenziale importanza: la validità e l'attendibilità delle diagnosi. R. Kendell e A. Jablensky (2003) hanno suggerito che una categoria diagnostica dovrebbe essere considerata «valida» solo se è soddisfatta almeno una delle seguenti condizioni: 1) nel caso si tratti di una sindrome, deve essere possibile dimostrare che essa costituisce un'effettiva entità autonoma, separata dalle sindromi affini e da una condizione di normalità da precisi confini; 2) se la categoria diagnostica è caratterizzata dalla presenza di una o più anomalie di particolare rilievo (fisiologiche, anatomiche, istologiche, cromosomiche o molecolari), devono esistere chiare differenze qualitative tra le caratteristiche patologiche in questione e quelle che si riscontrano in altre condizioni cliniche che appaiono simili in senso sindromico. Ben diverso dal concetto di validità è quello di attendibilità (reliability): esso si riferisce al grado con cui operatori diversi concordano sulle diagnosi fatte indipendentemente sugli stessi pazienti. In psichiatria il livello di attendibilità diagnostica relativo alle valutazioni cliniche «libere», ossia condotte in assenza di procedure standardizzate, oscilla fra il 30 e il 65% dei casi. Il problema dell'attendibilità delle diagnosi psichiatriche è che - con pochissime eccezioni - la disciplina tuttora non dispone di golden standards, ossia di validatori esterni (indipendenti dall'osservatore) relativi alle varie categorie diagnostiche (rappresentati, ad esempio, da test di laboratorio o da indagini strumentali specifiche), che consentano di accrescere in maniera sostanziale l'attendibilità diagnostica.

Le principali fonti di inattendibilità diagnostica all'origine del possibile disaccordo diagnostico tra clinici diversi possono essere suddivise in cinque categorie principali, tecnicamente definite come fonti di variabilità (Spitzer et al., 1978): a) una variabilità legata al soggetto (un paziente mostra un quadro clinico differente in momenti diversi: ad esempio un paziente ricoverato per un'intossicazione alcolica acuta può, dopo alcuni giorni, sviluppare un delirium tremens); b) una variabilità legata all'occasione della valutazione diagnostica (un paziente esibisce fasi diverse della stessa condizione morbosa in momenti diversi: si pensi a un paziente con un disturbo bipolare, il quale può essere depresso in un determinato momento e maniaco in un tempo successivo); c) una variabilità legata all'informazione (clinici diversi possono utilizzare fonti di informazione diverse per valutare lo stesso paziente: ad esempio, un clinico può fare domande a un paziente relative ad aspetti specifici della sua condizione, che invece un altro clinico può non porre ritenendole non pertinenti, o irrilevanti; o ancora un clinico può ottenere informazioni dai familiari del paziente, mentre un altro no); d) una variabilità legata all'osservazione (clinici diversi, confrontati con la stessa situazione, differiscono tra loro rispetto a quel che notano; ad esempio, può esservi un disaccordo relativamente al riscontro o meno di esperienze allucinatorie, o rispetto a un tratto della personalità del paziente); e) infine una variabilità legata ai criteri diagnostici utilizzati, in particolare relativa ai criteri diagnostici di esclusione o inclusione (espliciti o impliciti) utilizzati per arrivare a formulare un'ipotesi diagnostica.

La variabilità legata all'informazione può essere superata, o ridotta, migliorando le capacità di valutazione diagnostica e di osservazione dei clinici, e soprattutto facendo ricorso a tecniche di valutazione clinica standardizzata, quali le interviste strutturate o le scale di valutazione (rating scales). Le interviste strutturate, che hanno scopi e strutture diversi e utilizzano specifici algoritmi diagnostici, consentono di porre diagnosi secondo le categorie sia dell'ICD-10 che del DSM; tra quelle di uso clinico più comune (fondamentali nella ricerca) vanno ricordate la Structured Clinical Interview for DSM-IV (Scid) e il Present State Examination, di cui esistono molte revisioni successive. All'origine della variabilità diagnostica vi è comunque un fatto fondamentale, già sottolineato: la diagnosi clinica in psichiatria rimane intrinsecamente dipendente dall'abilità del clinico di elicitare, e dalla disponibilità del paziente a comunicare, un'esperienza soggettiva. In tal senso l'evidenza oggi richiesta per quasi tutte le diagnosi psichiatriche è essenzialmente di tipo fenomenologico e comportamentale-descrittivo. L'attendibilità diagnostica tende comunque a variare in funzione delle categorie diagnostiche considerate, essendo in genere più elevata nei disturbi a eziologia organica rispetto ai disturbi psicotici funzionali, e in questi ultimi rispetto ai disturbi meno gravi, quali disturbi d'ansia o depressioni di grado lieve-moderato, o anche disturbi di personalità. La mancanza di precisi marker diagnostici di tipo biologico (e talvolta sin-tomatologico) ha fatto si che venissero avanzate molte obiezioni all'impiego della diagnosi in campo psichiatrico, sostenendo che in campo psichiatrico-psicologico non esisterebbero leggi di carattere generale, ogni fenomeno rappresenterebbe un caso a sé, le generalizzazioni risulterebbero impossibili e da rifiutare, le persone sarebbero incommensurabili tra loro e in perenne divenire, ecc. Queste posizioni critiche sono state accentuate da coloro che denunciavano nella diagnosi sia un rischio di reificazione del paziente e della sua sofferenza, sia uno strumento di possibile stigmatizzazione, mettendo in evidenza il carattere artefattuale delle diagnosi psichiatriche. Mentre tali obiezioni hanno avuto comunque il merito sia di sottolineare la necessità di disporre di definizioni chiare ed esplicite, sia di investigare in maniera accurata e riflessiva i singoli casi, se tale approccio fosse adottato in maniera rigida sarebbe impossibile comunicare tra operatori (e utenti) differenti e apprendere dall'esperienza. Inoltre, come hanno dimostrato molti studi, pazienti con uno stesso disturbo, definito con criteri diagnostici rigorosi, presentano caratteristiche simili sia rispetto a variabili biologiche selettive, sia rispetto a varie caratteristiche cliniche di tipo sintomatolo-gico, di decorso e di esito. Il problema della diagnosi in psichiatria rimanda quindi anche a quello delle modalità decisionali che prevalgono nel lavoro clinico: le ricerche condotte sembrano dimostrare soprattutto la fiduciosa rapidità con cui si prendono decisioni diagnostiche e l'insufficiente nozione che lo psichiatra ha dei temi o momenti cruciali nella raccolta delle informazioni (Cooper, 1983). Ad esempio, in due studi relativi a colloqui clinici filmati, è emerso che gli psichiatri traevano impressioni diagnostiche abbastanza definite entro i primi tre minuti del colloquio. In un'altra ricerca, è stato dimostrato che dopo solo tre minuti di proiezione di interviste cliniche videoregistrate gli psichiatri partecipanti alla sperimentazione avevano già formulato un'ipotesi diagnostica, e questa era, nei tre quarti dei casi, identica alla diagnosi finale formulata in media dopo circa trenta minuti di proiezione. Variabili quali il sesso, l'età, la razza, il livello socioeconomico e culturale, lo stesso aspetto fisico del paziente, il setting in cui viene effettuata la valutazione, oltre a rappresentare informazioni che modificano le valutazioni probabilistiche del clinico (ad esempio, numerosi disturbi sono più frequenti in un sesso rispetto all'altro, o in persone di una specifica fascia d'età o di una specifica razza), possono anche influenzare e distorcere in maniera significativa le conclusioni diagnostiche del clinico, condizionando il livello di accordo diagnostico tra clinici diversi. Nella pratica diagnostica quotidiana, insomma, esiste un'elevata soggettività e arbitrarietà dei giudizi - che in parte si riscontra anche nelle specialità mediche considerate più «obiettive» - e che numerose variabili extracliniche influenzano significativamente il processo diagnostico e la sua attendibilità; l'importanza e il peso di queste variabili mutano con il mutare del setting in cui viene operata la valutazione e con il mutare del disturbo in questione. Un esempio clamoroso dell'arbitrarietà di molti giudizi diagnostici e della

possibilità di «falsificare» diagnosi psichiatriche, laddove le procedure seguite non siano ispirate a grande accuratezza e rigore, è fornito dal famoso esperimento realizzato da D. Rosenhan (1973) negli Stati Uniti: otto «pseudopazienti» si presentarono all'accettazione di altrettanti ospedali psichiatrici americani: tra essi vi erano tre psicologi, un pediatra, uno psichiatra, un pittore, una massaia e uno studente di psicologia. Tutti descrissero, ad eccezione del proprio lavoro, in maniera del tutto veritiera la propria storia personale e la propria situazione, secondo criteri di assoluta «normalità»; tuttavia tutti riferirono anche - come concordato con Rosenhan - di «sentire delle voci», che sembravano provenire da persone dello stesso sesso e che gli pseudopazienti stessi non erano in grado di spiegare. Con una sola eccezione, furono tutti ricoverati con diagnosi di schizofrenia e dimessi dopo qualche tempo con diagnosi di «schizofrenia in remissione». Va anche sottolineato che durante il ricovero gli pseudopazienti smisero di simulare ogni anormalità; tuttavia essi (come concordato) cominciarono ad annotare scrupolosamente su dei quaderni tutto quello che avveniva in reparto. Praticamente nessuno dei medici e degli infermieri si accorse che si trattava di un esperimento, mentre gli unici a sospettare che si trattasse di falsi pazienti furono proprio altri degenti psichiatrici. Inoltre, il fatto che gli pseudopazienti si comportassero in maniera del tutto normale e che annotassero di continuo quanto accadeva in reparto fu giudicato, come emerse dall'esame delle cartelle cliniche, come uno dei principali «segni» di malattia.

Da un punto di vista epistemologico, G. Federspil (1980) ha sottolineato che il processo diagnostico si colloca a metà tra un modello della conoscenza di tipo induttivo e uno di tipo ipotetico-deduttivo: l'osservazione dei fatti (la raccolta dei sintomi), la generazione di ipotesi (le possibili diagnosi), la loro confutazione o conferma (attraverso esami e risultati di laboratorio) si succedono e si intersecano inestricabilmente. Il processo diagnostico avanza, come vuole K. Popper, per «congetture e confutazioni» e i dati sperimentali vengono ricercati per falsificare teorie diagnostiche spesso in competizione. La diagnosi pertanto è sempre una diagnosi differenziale, che rappresenta una scelta operata tra diverse possibilità; in essa si procede, al contrario di quanto accade nelle scienze teoriche, dall'ignoto al noto. Inoltre, nella pratica clinica, si adottano spesso giudizi di tipo probabilistico. In conclusione, la definizione di specifiche diagnosi e la loro organizzazione in sistemi nosografici-classificatori hanno rappresentato un'importante tappa evolutiva nello sviluppo del pensiero psichiatrico-psicopatologico, consentendo la creazione di un «linguaggio comune» tra clinici, ricercatori e utenti. E tuttavia verosimile che i progressi nel campo delle neuroscienze, della biologia molecolare e della genetica stimoleranno una profonda revisione di tali classificazioni e delle singole diagnosi, e lo sviluppo di queste conoscenze consentirà anche un affinamento delle strategie preventive e terapeutiche.

GIOVANNI DE GIROLAMO