Bleuler, Eugen

Il nome di E. Bleuler (1857-1939) è indissolubilmente legato al concetto di schizofrenia, o meglio alla riformulazione della nozione kraepeliniana di demenza precoce. Nato a Zollikon, nei pressi di Zurigo, Bleuler proveniva da una famiglia di origine contadina. Una famiglia che aveva preso parte a quei movimenti politici che avevano reclamato uguaglianza di diritti, di possibilità di studio e di formazione per gli appartenenti alle classi rurali. Il successo di queste rivendicazioni aveva portato alla fondazione, nel 1833, dell'Università di Zurigo, che aveva sancito l'acquisizione del diritto alla promozione sociale ed educativa della classe contadina. Entrato in contatto con W. Griesinger e B. von Gudden, incaricati della direzione dell'ospedale Burghölzli di Zurigo (una delle cliniche psichiatriche universitarie più importanti di tutti i paesi di lingua tedesca), Bleuler lavorò come interno all'ospedale psichiatrico di Waldau, nei pressi di Berna e completò la sua formazione a Parigi (con Charcot e Magnan), Londra e Monaco. Nel 1886, a 29 anni, diventa direttore di una clinica psichiatrica presso Sciaffusa. Nel 1898 succede ad A. Forel come direttore del Burghölzli. Il ciclo di lezioni tenute in quegli anni costituirà il nucleo originario della sua rivoluzionaria visione della schizofrenia. Nel 1901 affida a uno dei suoi collaboratori, C. G. Jung, il compito di presentare l'Interpretazione dei sogni di S. Freud. L'interesse per la psicoanalisi e per il lavoro di Freud aveva del resto già cominciato a svilupparsi: dopo un iniziale interesse per l'ipnosi, abbandonata per la limitatezza dei risultati, Bleuler aveva rivolto la sua attenzione ai primi contributi freudiani sull'afasia e sull'isteria. Tra il 1908 e il 1911, rivedendo criticamente il lavoro iniziato da E. Kraepelin, Bleuler porta a maturazione la sua riflessione sulla schizofrenia e pubblica un capitolo su questo tema nello Handbuch der Psychiatrie curato da G. Aschaffenburg. Nel frattempo il Burghölzli, sotto la sua direzione, è diventato un punto di eccellenza della psichiatria europea. In quegli anni lo frequentano P. Janet, S. Spielrein, E. Jones, A. Meyer, oltre a esponenti del mondo della psicopatologia fenomenologico-esistenziale come L. Binswanger ed E. Minkowski. Lo stesso Freud vi soggiornò nel corso di una visita a Jung nel 1908. Jung, in particolare, lavorò al Burghölzli per diversi anni, a partire dal dicembre del 1900, come assistente di Bleuler. Furono anni decisivi per la sua formazione. Le osservazioni e le ipotesi formulate da Jung sulla psicosi trovarono espressione in Psicologia della dementiapraecox, un testo pubblicato nel 1907 che rappresentò anche per Bleuler un punto di riferimento.

Nel 1911 Bleuler pubblica il testo che lo farà passare alla storia della psichiatria: Dementia praecox o il gruppo delle schizofrenie. Il punto di partenza delle sue argomentazioni è la concezione «integralmente kraepeliniana» della demenza precoce, un gruppo di malattie - scrive Bleuler nella Premessa - che conosciamo da troppo poco tempo per poterle isolare e descrivere con chiarezza. Tutto è ancora fluttuante, incompiuto, provvisorio e come tale necessita di un attento riesame. Proprio a testimoniare l'importanza del lavoro di Jung e degli altri suoi collaboratori, Bleuler precisa che non sarà possibile distinguere nel testo le osservazioni e le idee che appartengono all'uno e all'altro. Le parole «deterioramento» e «demenza», che Kraepelin ha posto alla base del suo ragionamento clinico, sono assolutamente inadeguate a descrivere i disturbi caratteristici della schizofrenia. I pazienti ai quali ci vogliamo riferire - sostiene con forza Bleuler - non sono affatto assimilabili a dementi veri e propri. La demenza delle psicosi organiche è completamente diversa, in quanto compromette globalmente le funzioni psichiche. Nei pazienti con demenza precoce invece molte funzioni psichiche sono conservate, tanto che, in particolari circostanze, anche un paziente apparentemente deteriorato può sviluppare prestazioni di elevata qualità. La demenza precoce di Kraepelin è in realtà per Bleuler una pseudodemenza: ciò che a prima vista può configurarsi come deterioramento è il risultato di un intreccio di fenomeni patologici che incrinano il flusso associativo e turbano profondamente l'affettività. Lo schizofrenico insomma non è un semplice demente: lo può sembrare, in certi momenti e soprattutto in rapporto a certi complessi. Ogni psichiatra - sostiene Bleuler - ha potuto verificare nella sua pratica clinica che molte forme catatoniche, ebefreniche o paranoidi non evolvono in deterioramento. Tanto che lo stesso Kraepelin è stato costretto rivedere la centralità del deterioramento e ad ammettere che esistono molti casi che guariscono. Ma questa osservazione mette in crisi la definizione stessa della malattia. Per questi motivi, sostiene Bleuler, non possiamo sottrarci all'ingrato compito di forgiare un nuovo nome meno equivoco per indicare questo gruppo di malattie: attribuendo alla demenza precoce il nuovo nome di schizofrenia Bleuler intende dimostrare il ruolo svolto dalla scissione delle diverse funzioni psichiche. Nonostante il nome sia al singolare, si tratta di un gruppo di malattie caratterizzato da un'alterazione specifica del pensiero, del sentimento e del rapporto con il mondo esterno. Il nucleo patogenetico è rappresentato da una scissione delle funzioni psichiche: di qui il termine di schizofrenia, neologismo nato dalla combinazione di schizein (dividere) efren (spirito, intelligenza), che rimanda alla scissione, disarticolazione, disaggregazione delle funzioni psichiche e della personalità come fatto clinico centrale. In questo modo si compie il ribaltamento dell'impostazione kraepeliniana: non solo il criterio dell'esito viene assolutamente spodestato e sostituito da una serie di criteri clinici che poco possono dirci sulle molte, possibili evoluzioni, ma anche tutti i sintomi che Kraepelin considerava centrali nella manifestazione del disturbo vengono derubricati a sintomi accessori. Per Bleuler infatti i sintomi fondamentali della schizofrenia non sono certo il deterioramento o il delirio, quanto piuttosto un gruppo di sintomi legato al disturbo delle associazioni.

A questa impostazione corrisponde una delle due dicotomie centrali nel modello della schizofrenia elaborato da Bleuler: due dicotomie che vengono spesso erroneamente considerate sovrapponibili o interscambiabili, ma che in realtà non lo sono affatto. Nel senso che riguardano lo stesso ambito psicopatologico, ma considerato da una differente prospettiva. La prima dicotomia è di Carattere squisitamente clinico: si tratta della distinzione tra sintomi fondamentali e sintomi accessori. Bleuler ne parla nella parte del suo saggio dedicata alla sintomatologia della schizofrenia come di una dicotomia da applicare nel contesto della valutazione clinica. Da un lato vi sono sintomi «fondamentali», presenti in ogni caso e in ogni fase della malattia (sintomi cronici o fondamentali); dall'altro vi sono sintomi «accessori» (idee deliranti, allucinazioni, sintomi catatonici), che possono dominare il quadro o viceversa mancare anche per tutto il decorso. I sintomi che Kraepelin considerava caratteristici della malattia sono ora invece relegati nell'ambito dei sintomi accessori, sintomi cioè la cui presenza non è indispensabile per la diagnosi.

I sintomi fondamentali sono costituiti dal disturbo delle associazioni, dal disturbo dell'affettività, dall'autismo e dall'ambivalenza. Il disturbo delle associazioni è uno de-gli elementi cardinali del modello bleuleriano. Nella schizofrenia le associazioni perdono le loro connessioni: dei mille fili che leggono i nostri pensieri - scrive Bleuler -la malattia ne interrompe ora alcuni, ora altri, senza una regola precisa. Ne origina una sequenza di pensieri dall'aspetto strano, illogico o bizzarro.

Sul piano dell'affettività, la regola generale è quella secondo la quale una psicosi acuta «guaribile» diventa cronica quando l'affettività si deteriora, scivolando in indifferenza. Gli schizofrenici - scrive Bleuler - talora descrivono le loro sofferenze come in un tema di fisica. Ma questo appiattimento dell'affettività è più facile da sentire che non da descrivere. Pur tuttavia, al di là di questo stato di blocco affettivo, lo schizofrenico non perde la facoltà di produrre affetti. Anzi, precisa Bleuler, con un po' di pazienza è possibile mettere in evidenza gli affetti presenti in malati che sembrano vivere una vita vegetativa: il dolore per un amore perduto, ad esempio, si risveglia con straordinaria vivacità anche dopo decenni di apparente appiattimento degli affetti. L'ambivalenza è conseguenza diretta dell'alterazione schizofrenica delle associazioni: la stessa rappresentazione può essere contemporaneamente connotata sia da sentimenti positivi sia negativi (ambivalenza affettiva). Oppure la stessa azione può essere iniziata e interrotta (ambivalenza della volontà). Un'altra caratteristica fondamentale della schizofrenia è l'alterazione della relazione reciproca tra vita interiore e mondo esterno, nel senso che la vita interiore assume una preponderanza patologica, configurando quella condizione alla quale Bleuler, con un altro neologismo, ha dato il nome di autismo schizofrenico. Una nozione, quella di autismo, già anticipata in un articolo del 1910 dove Bleuler scriveva che tutti i pazienti schizofrenici sono altamente autistici, cioè distaccati dalla realtà, ritirati in una vita fantasmatica. I sintomi accessori invece sono quelli che danno l'impronta caratteristica al quadro clinico e comprendono dispercezioni prevalentemente uditive e somatiche, idee deliranti, disturbi del linguaggio, sintomi catatonici.

La seconda dicotomia introdotta da Bleuler è invece una dicotomia di carattere teorico esplicativo. L'autore ne parla infatti nella parte finale del suo contributo, dedicata alla teoria dei sintomi e della malattia. E necessario - sostiene Bleuler - distinguere nettamente i sintomi che sono diretta espressione del processo morboso, da quei sintomi che sono invece il prodotto della reazione della psiche del soggetto al processo morboso. I primi sono i «sintomi primari», i secondi sono i «sintomi secondari». I sintomi primari sarebbero sintomi in stretto rapporto di derivazione da un ipotetico processo morboso che peraltro non conosciamo e che darebbe la prima e più diretta manifestazione di sé attraverso una caduta della tensione associativa. Sono sintomi non sempre osservabili. La maggior parte dei sintomi che si osservano direttamente nella schizofrenia è rappresentata infatti da quelli secondari: sintomi manifesti che sono il prodotto dell'incontro tra il processo patologico e la personalità di quel determinato paziente. In questo senso i sintomi secondari sono sintomi indiretti, legati a come la persona reagisce o prende posizione nei confronti della malattia. Nella grande attenzione che Bleuler dedica alla capacità del soggetto di prendere posizione nei confronti della malattia si rintraccia l'idea di un processo patologico che non si espande in un corpo inerte, senza incontrare resistenza, quanto piuttosto l'idea che esista una parte della persona che guarda con apprensione al diffondersi della malattia e che è capace di prendere posizione verso di essa, tentando almeno di arginarne gli effetti. Dall'incontro tra processo patologico e persona scaturiscono fenomeni di mediazione, tentativi di adattamento più o meno riusciti ai disturbi primari, costituiti appunto dai sintomi secondari. In questo senso i sintomi secondari vanno considerati come il prodotto di un'elaborazione psicologica individuale. Per quanto riguarda le forme cliniche della schizofrenia, Bleuler aggiunge alle tre varietà descritte da Kraepelin una quarta forma dallo statuto controverso: la schizofrenia simplex, una forma caratterizzata da un indebolimento dell'intelligenza, affettività, volontà, della capacità di lavorare e di badare a se stessi. Questi aspetti tuttavia sono di grado così variabile da essere in qualche caso non avvertiti come patologici e da consentire una sorta di vita vegetativa, oppure viceversa da configurare un particolare assetto di personalità caratterizzato dalla stramberia: tra le «teste strambe» di tutti i generi, tra i grandi riformatori, i filosofi, gli scrittori, gli artisti si trovano non di rado -scrive Bleuler - molte forme di schizofrenia simplex.

Il modello patogenetico bleuleriano amplia significativamente l'area della schizofrenia: da un lato, infatti, uno dei concetti portanti della schizofrenia, l'autismo, viene posto in continuità con esperienze normali tipiche della creazione artistica, dell'innamoramento, della fantasticheria, del sogno, dei miti; da un altro lato, la schizofrenia viene a comprendere anche forme a carattere acuto; da un altro lato ancora, si espande verso forme scarsamente caratterizzate dal punto di vista sintomatico (schizofrenia simplex). Un secondo punto di differenziazione rispetto a Kraepelin è rappresentato dall'attenzione alla dimensione psicologica del disturbo e alla capacità elaborativa del soggetto. Bleuler continua a ipotizzare una base organica della schizofrenia che, nel contatto con la personalità del soggetto, dà luogo a una sovrastruttura psicogena nella quale la maggior parte dei sintomi manifesti (allucinazioni, idee deliranti, molti comportamenti) dipendono da fattori e meccanismi psicologici. A quegli psicoanalisti che pretendono di considerare la schizofrenia nel suo complesso come un'affezione psicogena, Bleuler risponde che questa opinione è completamente erronea. La schizofrenia ha in comune con le psicosi organiche da un lato i sintomi derivanti direttamente da un processo cerebrale e ha in comune con le nevrosi, dall'altro, lo sviluppo di sintomi psicogeni. Quindi soltanto i sintomi più appariscenti della schizofrenia possono essere considerati di natura psicogena. Ma questi ultimi sono lontani dal costituire le manifestazioni fondamentali e primitive del processo schizofrenico. Nell'elaborazione di un modello patogenetico dei sintomi secondari Bleuler mette alla prova il contributo della psicoanalisi e fonda una concezione dinamica della psichiatria destinata a lasciare una traccia indelebile nella psichiatria clinica e nella psicopatologia del XX secolo. Una concezione nella quale i sintomi non sono da vedersi come entità fisse e cristallizzate, ma come fenomeni di compromesso, meccanismi di adattamento, esiti di un processo di negoziazione interna che resta in qualche misura sempre aperto e che fornisce delle indicazioni, se non sull'eziologia del disturbo, almeno sulla sua patogenesi. Il modello bleuleriano è in fondo proprio questo: un modello patogenetico della schizofrenia, di un disturbo nel quale si riconoscono meccanismi di funzionamento mentale che condizionano pesantemente il pensiero, la volontà, gli affetti, ecc. Il ruolo della psicoanalisi in questa impostazione è centrale, ma non tanto come tecnica terapeutica quanto come teoria che consente di sviluppare un modello interpretativo di alcuni aspetti della schizofrenia. Tuttavia, se da un lato Bleuler ricorre alla psicoanalisi, dall'altro se ne tiene a debita distanza. Come se ne avesse colto il potenziale esplicativo fortemente innovativo, ma non avesse voluto compromettersi troppo con il movimento psicoanalitico. E noto quanto in quegli anni Freud avvertisse la necessità di dare consistenza al movimento e all'istituzione psicoanalitica attraverso il coinvolgimento di esponenti del mondo universitario che, grazie al loro prestigio, gli avrebbero assicurato il sostegno della psichiatria accademica. Nonostante si riconoscesse in molte idee della psicoanalisi, Bleuler si sottrasse sistematicamente alle pressioni che Freud esercitava su di lui per indurlo ad assumere la carica di presidente della Società psicoanalitica svizzera. Uno degli aspetti nei confronti del quale Bleuler dichiarava apertamente la propria intolleranza era rappresentato dal dogmatismo: quell'atmosfera di chiusura che permeava il ristretto gruppo degli psicoanalisti, più simile - soprattutto in quella fase storica - a una setta religiosa o a un partito politico che non a una società scientifica.

MARIO ROSSI MONTI