Autismo cosiddetto «infantile» (disturbo autistico)

La storia recente del «disturbo autistico» inizia nel 1943, quando L. Kanner pubblicò le sue osservazioni su undici bambini affetti da ciò che chiamò «disturbo autistico del contatto affettivo». Il loro tratto comune era un particolare isolamento, solo superficialmente simile a un disinteresse o a una reazione di «ritiro». Kanner intuì che quell'isolamento esprimeva una specifica e originaria difficoltà nella condivisione dell'esperienza, una disabilità a situarsi sulla stessa lunghezza d'onda degli interlocutori. Era come se quei bambini fossero cresciuti entro un mondo umano quasi incomprensibile, privo di quella famigliarità immediata, di quella «evidenza naturale» che consente ai piccoli dell'uomo di esplorare ed estendere l'orizzonte intersoggettivo a partire da prerequisiti spontanei di comprensione. Al posto di questo spontaneo orientamento, un desiderio ossessivo di ripetitività e la chiusura in un repertorio stereotipico di interessi, spesso povero ed elementare, altre volte più o meno ricco o elaborato. Tutti i bambini di Kanner avevano inoltre problemi col linguaggio; molti ne erano totalmente o quasi privi.

Isolamento, chiusura in un universo ripetitivo, stereotipico e ossessivo, disturbo profondo della comunicazione e del linguaggio, strutturale incompetenza sociale, furono le caratteristiche di fondo che Kanner individuò. Accanto ad esse Kanner descrisse un'altra caratteristica: la presenza di tipici isolotti di capacità, di competenze e abilità conservate. Questi parziali aspetti di luce e di intelligenza, che da sempre costituiscono un aspetto affascinante e misterioso dell'autismo coesistendo, in gradi diversi, alla grave disabilità, e che tuttora differenziano l'autismo dal ritardo mentale semplice, indussero Kanner a ritenere che questi bambini fossero, dal punto di vista cognitivo, di normale intelligenza e aperti a un'evoluzione positiva. Entrambe le ipotesi ottimistiche (normale profilo cognitivo ed evoluzione positiva) furono purtroppo smentite. Almeno il 70% delle persone autistiche ha anche un ritardo mentale più o meno grave e l'evoluzione rimane comunque assai problematica, sia per la maggioranza con ritardo che per la minoranza con livelli cognitivi nella norma. Inoltre, le peculiarità dell'autismo mettono spesso in scacco le normali strategie riabilitative della psichiatria. Con acume fenomenologico da grande clinico Kanner intuì comunque, almeno inizialmente, che l'autismo infantile era qualcosa di non banalizzabile come una chiusura difensiva o la conseguenza di esperienze negative, ma qualcosa di originario, che riguardava le condizioni stesse del costituirsi della relazionalità. La magistrale descrizione di Kanner, che definì da allora l'autismo infantile, aveva numerosi antecedenti (tralasciando le descrizioni antiche, basti ricordare, all'inizio del '900, quelle di S. De Sanctis o di Th. Heller; o, in ambito psicoanalitico, al Dick descritto nel 1930 da M. Klein). In quelle descrizioni l'autismo era visto in genere come forma precocissima di ciò che E. Kraepelin aveva chiamato «demenza precoce» e E. Bleuler «schizofrenia». Pochi mesi dopo Kanner, in tempo di guerra, reciprocamente all'insaputa, il pediatra viennese H. Asperger descrisse su una rivista tedesca (1944) la sua «psicopatia autistica dell'infanzia». Il lavoro di Asperger, influenzato dalla psicopatologia e dalla caratterologia tedesca dell'epoca, con gli interessi ivi presenti per le personalità abnormi e per il tema del «corpo proprio», fu a lungo ignorato, fino a quando fu ripreso negli anni '60 da A. Van Krevelen e, soprattutto, nel 1981, da L. Wing. Asperger descrive la «psicopatia autistica» come una sorta di precocissimo «disturbo di personalità», su base costituzionale-temperamentale, che si esprime fondamentalmente attraverso un impaccio dell'intersoggettività e della comunicazione spontanea, a partire dalla tipica «goffaggine» corporea. Questo impaccio poteva coesistere, nella descrizione di Asperger, con uno sviluppo cognitivo normale. Anche il linguaggio poteva evolvere normalmente, almeno nelle sue componenti «cognitive», sintattiche, semantiche e referenziali, ma rimaneva caratteristicamente deficitario nei suoi aspetti pragmatici, prosodici, fatici; in sostanza, negli aspetti che più squisitamente esprimono competenze e intenzioni interattive e «comunicative».

Il destino del lavoro di Asperger fu di dare il nome («disturbo di Asperger») a un sotto gruppo di quelli che attualmente vengono chiamati «disturbi generalizzati dello sviluppo», peraltro solo in parte corrispondente alla descrizione originaria e caratterizzalo, oltre che dalla disabilità sociale e da interessi idiosincrasici, da alto funzionamento cognitivo e buon sviluppo del linguaggio (eccetto, appunto, che nelle sue componenti fatiche, prosodico-espressive e pragmatiche). L'intuizione di Kanner («questi bambini sembrano venuti al mondo privi di quella capacità innata di formare il normale contatto affettivo che è fornita biologicamente») fu tuttavia rapidamente catturata nel parali igma psicogenetista che dominava la psichiatria dell'epoca. Fu lo stesso Kanner, in-lluenzato dai pregiudizi del tempo, notando l'elevato livello intellettuale dei genitori del suo campione (banale bias di selezione) e le loro difficoltà nella relazione con i figli, ;i coniare successivamente, scambiando le conseguenze per le cause, l'espressione «genitori frigorifero»: abbaglio di cui con onestà chiese scusa, alla fine della sua vita. Ma la mitologia dei genitori frigorifero, soluzione banale all'inquietante enigma dell'autismo, era destinata a dominare la psichiatria per almeno due decenni e a prolungarsi fino a quasi i nostri giorni. Testo emblematico di questa lunga storia fu La fortezza vuota di B. Bettelheim 1967). Quest'opera, vero falso scientifico (furono inventate le casistiche, alterate le diagnosi e le evoluzioni) ma fortunato bestseller, accreditò nell'immaginario collettivo l'idea dell'autismo come «difesa estrema a situazioni estreme» (per Bettelheim l'odio e il desiderio inconscio da parte dei genitori che il piccolo autistico non esistesse) simili alle difese che l'autore sosteneva aver visto all'opera nei campi di concentramento nazisti. Ma la psicogenesi dell'autismo ebbe versioni molto varie, non sempre così rudi; accanto a quelle che ipotizzavano comunque un inconscio rifiuto dei genitori, altre, più sofisticate, cercavano di radicare in modi meno linearmente causalistici l'autismo in uno sviluppo patologico delle relazioni oggettuali e dell'apparato psichico, comunque dovuto a carenze di contenimento, rispecchiamento, sintonizzazione e interazione, vitalità, pensiero, funzione triangolante paterna o, recentemente, rêverie, da parte degli ambienti primari di cura. Vi erano del resto motivi di fraintendimento. L'autismo aveva alcune rassomiglianze superficiali con i quadri da deprivazione relazionale e affettiva (ad esempio l'istituzionalizzazione precoce descritta da R. Spitz). Un'ampia letteratura, su questa linea, collegò l'autismo ai fenomeni di ritiro relazionale, rinuncia e impotenza che la ricerca sulle interazioni precoci andava evidenziando a seguito di difettosa sintonizzazione, depressione o altri difetti di comunicazione dei caregivers. L'autismo vero, in realtà, era ben altra cosa. Come la grande psicoanalista infantile M. Mahler aveva notato (1968), alcune ricerche storiche erano già allora a disposizione; ad esempio quelle di A. Freud e S. Dann sui bambini cresciuti effettivamente in campo di concentramento, o quella, ancora precedente, di W. Goldfarb sulle instabilità e gravi deprivazioni relazionali precoci. In nessun caso, anche estremo, si produceva autismo. Gravi distorsioni relazionali e psicologiche si, ovviamente, ma autismo no, in assenza di specifica vulnerabilità. Considerazioni confermate da D. Skuse (1984), che studiò l'evoluzione di bambini tenuti a lungo in situazione di grave deprivazione affettiva e/o materiale. Tutti questi bambini, ricollocati in situazioni mediamente normali, manifestarono una ripresa, talvolta sorprendente. Come avviene, in genere, nelle situazioni «simil-autistiche» da deprivazione. Essi patirono importanti danni psicologici; ma, come segnalò la Mahler, all'opposto di quanto avviene nei bambini autistici, incapaci di usufruire anche di normali apporti genitoriali, i bambini deprivati riuscivano a raccogliere, con stupefacente tenacia, fin l'ultima stilla di stimolazione umana, anche il più misero sostituto di cure materne.

Tra la fine degli anni '60 e gli anni '70 erano cominciate a comparire, del resto, le prime evidenze sperimentali che, convergendo da diversi ambiti di ricerca, chiusero definitivamente, nei decenni successivi, almeno nella comunità scientifica, la questione della psicogenesi dell'autismo. Possono essere riassunte in questo modo: 1) non esiste alcuna evidenza che nelle storie psicologiche o nelle famiglie dei bambini autistici vi sia qualcosa di diverso o di specifico rispetto a tutti i gruppi di controllo, normali o affetti da altre patologie; 2) non esiste una particolare prevalenza dell'autismo in particolari ceti o gruppi sociali (la prevalenza nella popolazione generale dell'autismo kanneriano era di 0,5 su mille); 3) l'autismo non è la «conseguenza» di alterate interazioni, ma un fenomeno originario, che altera esso stesso alla radice le capacità specie-specifiche di comunicare efficacemente e di orientarsi nel mondo interumano. Ma tra gli anni '70 e gli anni '80, sotto la spinta dei dati scientifici, l'intera concezione dell'autismo entrò in una fase di accelerata trasformazione, che ne mise in discussione le basi. Il termine «autismo», come è noto, fu derivato da Kanner e Asperger da quello che la psicopatologia bleuleriana definiva uno dei fenomeni fondamentali della schizofrenia. Ma a sua volta l'«autismo» bleuleriano discendeva esplicitamente dall'« autoerotismo» di Freud, inteso come fase normale dello sviluppo, caratterizzata da chiusura in una autosensualità che proteggeva da un eccesso di stimoli esterni e prolungava in qualche modo la condizione uterina. In generale, l'idea di fondo delle concezioni psicoanalitiche delle «psicosi» (di cui l'autismo infantile era considerato la forma più precoce) era che esse rappresentassero una regressione/fissazione a fasi arcaiche dello sviluppo. Questa è anche l'idea che regge le prime grandi descrizioni psicoanalitiche dell'autismo, come quella della Mahler o, successivamente, d F.Tustin (1972; 1981). L'autismo come «conchiglia» difensiva, come «non nascita» psicologica, che difende il soggetto da angosce catastrofiche rinserrandolo in una condizione di mancato sviluppo (o facendolo regredire ad essa). Ma la ricerca psicologica dimostrò che nello sviluppo normale non esiste alcuna fase autistica: il neonato umano è fin dall'inizio impegnato in un fitto sistema di interazioni e di imitazioni precocissime (consentite da dispositivi innati), è dotato di attive procedure di esplorazione dell'ambiente, di capacità di sintonizzazione che consentono l'incontro con l'oggetto umano e, attraverso di esso, la fondazione e l'estensione dell'intersoggettività e del sentimento di «essere in relazione con».

Non c'è proprio nulla nello sviluppo non autistico che corrisponda alle caratteristiche dell'autismo; viceversa, lo sviluppo autistico mostra spesso fin dall'inizio caratteristiche peculiari, che indicano una originaria parziale alterazione dei dispositivi dell'intersoggettività (Volkmar et al., 2005). Molteplici dati, convergenti da vari fronti della ricerca, a partire dagli anni '80 imposero l'idea che all'origine dell'autismo vi sia un'alterazione del neurosviluppo, che provoca fin dall'inizio una cascata di esperienze abnormi e una conseguente alterazione dell'intera esperienza. La cascata di esperienze abnormi a sua volta priva progressivamente il soggetto di esperienze fisiologiche e produce distorsioni e disevoluzioni degli assetti neurofunzionali. L'importanza degli aspetti genetici, dimostrata tra la fine degli anni '70 e l'inizio degli anni '80, si è da allora progressivamente consolidata, anche se la genetica dell'autismo è una genetica non mendeliana, complessa, in cui la vulnerabilità all'autismo chiama in causa una eterogeneità di loci e alidi e complesse interazioni gene-ambiente. Fin dagli anni '80 comparvero evidenze crescenti circa la frequenza di significative alterazioni neuropatologiche, di ampiezza, densità e arborizzazione dendritica a carico di numerose aree, in particolare nelle regioni fronto-temporo-limbiche e cerebellari. Furono confermate precedenti osservazioni di un'atipica crescita del cervello nei primi anni di vita, con aumento complessivo iniziale di volume della sostanza bianca seguito da successiva alterata riorganizzazione e connettività. Il prolungamento dell'osservazione nel ciclo di vita e l'affinamento delle tecniche corresse la precedente sottovalutazione dell'importanza dell'epilessia e di disfunzioni elettroencefalografiche subcliniche (un secondo picco di epilessia espressa è nell'adolescenza e nella giovane età adulta). La «svolta cognitivista» degli anni '70-'80 negli studi sull'autismo, preceduta dal lavoro pionieristico di B. Hermelin e N. O'Connor (1970), ne definì progressivamente il particolare profilo cognitivo. Iniziarono sistematici studi sui diversi aspetti dell'evoluzione autistica. La presa d'atto di tutto ciò produsse una profonda revisione. Sul piano nosografico, innanzitutto, la differenziazione dell'autismo dall'ambito delle schizofrenie. Da precoce «psicosi» o «schizofrenia infantile», con il DSM-III (1980) l'autismo viene inquadrato nella nuova categoria dei «disturbi pervasivi dello sviluppo» (ove tuttora è situato, assieme al disturbo di Asperger, al disturbo disintegrativo della fanciullezza e al disturbo di Rett). Dal 1987, poi (DSM-III-R), dalla nosografia americana scompare, oltre al termine «psicosi», anche l'aggettivo «infantile». La scomparsa del sostantivo segna la rottura con le concezioni precedenti; quella dell'aggettivo è la presa d'atto di un'evidenza: l'autismo si manifesta nell'infanzia ma, con poche eccezioni e sia pure con evoluzioni diverse, dura tutta la vita. I bambini autistici diventano, in genere, adulti autistici. Lo studio sistematico dell'evoluzione dell'autismo nell'età adulta, dopo le prime descrizioni aneddotiche e le prime piccole casistiche, inizia, con studi estesi e di popolazione, solo nella seconda metà degli anni '70. La considerazione prospettica del problema, nell'arco di tutto il ciclo di vita, ha contribuito a una revisione delle concezioni (Barale e Ucelli, 2003). Vanno segnalate alcune altre linee evolutive delle concezioni recenti dell'autismo. La concezione classica dell'autismo, come arresto/regressione a una fase primitiva della psicosessualità, era certamente infondata; ma consentiva una definizione coerente e unitaria. La concezione che ad essa si sostituisce, a partire dagli anni '80, ha fondamenti più solidi, ma è molto meno definita e unitaria. Il costrutto nosografico dei «disturbi generalizzati dello sviluppo», ad esempio, si fonda sulla triade «Wing-Gould» (disturbo qualitativo delle capacità di interazione sociale; disturbo qualitativo delle capacità immaginative e di comunicazione, sia linguistiche che non linguistiche; repertorio ristretto e ripetitivo di interessi e attività) e sulla dimostrazione epidemiologica (Wing e Gould, 1979) che questi tre domini sintomatologici, definiti operazionalmente, sono associati non casualmente, sia pure in molte forme diverse di combinazioni possibili. Si tratta tuttavia di un costrutto sindromico a maglie molto larghe; le molte combinazioni possibili di gravità e peso dei fenomeni clinici relativi ai tre domini è inoltre all'origine del concetto di «spettro autistico», che ulteriormente estende e sfuma i confini dell'autismo classico. Tant'è che le stime di prevalenza, su questa base, si sono moltiplicate.

L'idea di una eterogeneità entro ciò che chiamiamo «autismo» peraltro è stata alimentata e confermata proprio dalla ricerca biologica. Il disturbo del neurosviluppo che, per opinione consolidata, è all'origine dell'autismo non ha infatti un'unica eziologia, ma può essere a sua volta determinato da molteplici percorsi eziopatogenetici (fondamentalmente di due tipi: genetici e neuropatologici acquisiti), la cui individuazione è in continua espansione e che peraltro possono essere in interazione tra loro. In sostanza, il termine «autismo» ha finito col perdere in definizione psicopatologica e indicare condizioni anche molto diverse. Vi è una differenza enorme, ad esempio, tra un autismo ad alto funzionamento su base sottilmente genetica e un autismo su base cerebropatica o malformativa con grave ritardo mentale. L'autismo non è una «malattia» e le persone non «hanno» l'autismo allo stesso modo di una polmonite o del diabete. Autorevoli studiosi sostengono che perfino il termine «sindrome» è troppo ristretto, che sarebbe meglio parlare di «sindromi» autistiche, al plurale e che «autismo» avrà un destino analogo a «ritardo mentale»: vale a dire di diventare un termine che indica non una sindrome (tanto meno una malattia) ma un tratto generale, una condizione comune a sindromi diverse, che la ricerca si incaricherà di definire nelle loro specifiche eziopatogenesi.

Un'altra evoluzione, abbandonato il modello psicogenetista, è stata l'espansione della ricerca sulle caratteristiche cognitive, dell'organizzazione percettiva, dell'attenzione, del linguaggio, delle competenze sociali, dell'attaccamento, dell'affettività, dell'imitazione, negli sviluppi autistici, o meglio nelle diverse forme di sviluppo autistico. Si è costituito così un patrimonio di conoscenze empiriche e cliniche complesso, di impossibile descrizione in questa sede (una trattazione è in Barale e Ucelli, 2006) che ha portato negli anni '90 alla formulazione di alcuni modelli, di alcune ipotesi e aree di ricerca attorno alla . natura di quel tratto generale di disabilità comunicativo-sociale che accomuna sindromi eterogenee e che continuiamo a chiamare «autismo».

Un primo modello, «affettivo», erede dell'originaria intuizione di Kanner, ritiene che all'origine di ciò che chiamiamo ancora «autismo» vi sia un'alterazione dei dispositivi innati che consentono il contatto affettivo, le capacità originarie e immediate di empatia e di interazione, come si esprimono, ad esempio, nei fenomeni precocissimi di imitazione. In particolare P. Hobson ha posto in luce i deficit di sintonizzazione e di decifrazione dei segnali sociali (in particolare le espressioni mimiche) alla base del disturbo dell'intersoggettività, nelle sue basi imitative originarie. Le osservazioni sui disturbi dell'imitazione hanno una lunga storia nell'autismo; i dispositivi e le competenze imitative hanno un ruolo centrale nella mappatura «Sé/Altro», nel sentimento originario di rektedness e nella costruzione dell'intersoggettività. Il tema, che ha anche una tradizione psicoanalitica, ha avuto espansione in anni recenti: si è inserito nelle ipotesi «simulazioniste» sullo sviluppo dell'intelligenza sociale, ha incrociato i dati delle ricerche di D. Stern (1985) e, infine, lo sviluppo della neurofisiologia dei «neuroni specchio» (Gallese, 2006), che sta fornendo ad esso un'importante base neurofisiologica.

Un secondo modello, che si sviluppa invece in ambito cognitivista, è quello della «teoria della mente». Esso ipotizza nell'autismo uno specifico intoppo nella sequenza di acquisizioni cognitive che consente di orientarsi socialmente, le capacità di «teoria della mente», ovvero le capacità di attribuire continuamente agli altri stati mentali e di intendere e prevedere il comportamento altrui come governato da stati intenzionali. Capacità di orientamento nel mondo interumano preriflessive e automatiche, che si sviluppano secondo sequenze specie-specifiche universali e radicate nella biologia. L'ipotesi dell'autismo come mindblindness o agnosia degli stati mentali e intenzionali, o comunque alterazione delle capacità di teoria della mente (su base genetica o neuropatologica), si è sviluppata su un'ampia base empirica. Essa ha costituito uno dei maggiori paradigmi di ricerca nell'ambito dell'autismo nei decenni trascorsi e ha incrociato sia le ricerche neuropsicologiche e di neuroimaging, sia gli studi sul linguaggio, sia i temi tradizionali di filosofia della mente. Un terzo modello è quello che ipotizza all'origine dell'«autisticità» un deficit di quelle funzioni neuropsicologiche generali chiamate «esecutive», perché sovrainten-dono alla pianificazione, monitoraggio, controllo, coordinamento ed esecuzione di azioni e di sequenze di azioni finalizzate. L'integrità delle funzioni esecutive consente l'inibizione di risposte automatiche e l'assunzione e il mantenimento di un assetto problem solving. Il modello del deficit delle funzioni esecutive ha anch'esso una lunga storia. Essa parte dalle osservazioni di A. Damasio sul ruolo dell'integrità dei lobi frontali (e dei circuiti fronto-limbici-cerebellari) nell'organizzare sequenze di comportamenti intenzionali; transita per la neurofisiologia della corteccia prefrontale e il ruolo che essa ha nel creare «rappresentazioni anticipatorie» (forward models) nel comportamento intenzionale; si innesta sull'evidenza di come difficoltà nelle funzioni esecutive siano particolarmente estese nella popolazione autistica (più di qualsiasi deficit di teoria della mente); ben si adatta ;i spiegare caratteristiche importanti e «di base» dell'autismo (difficoltà nell'imitazione, rigidità, stereotipie, difficoltà di inibizione di risposte automatiche e di modifica delle routine, difficoltà sia di esecuzione che di rappresentazione di sequenze motorie finalizzate complesse, ecc.); trova infine conferme in evidenze di alterazioni nella maturazione e nel funzionamento dei circuiti fronto-limbici-cerebellari nell'autismo. Nel modello, i problemi di teoria della mente e in generale la disabilità sociale sono visti come secondari alla difficoltà nelle funzioni esecutive, la cui integrità è prerequisito della capacità di organizzare l'esperienza del mondo (e la propria) come insiemi finalizzati e quindi anche della comprensione di intenzioni e stati mentali. Il tema delle funzioni esecutive è visto in sostanza come alla base (neurofisiologica) del problema dell'intenzionalità umana e della possibilità di acquisizione di un'esperienza insieme del Sé e dell'Altro come soggetti agenti nel mondo.

Infine, un accenno al modello del «deficit di coerenza centrale». Anch'esso ha una lunga storia, che inizia con Kanner stesso, che aveva segnalato la difficoltà di questi bambini a cogliere gli insiemi senza una dettagliata attenzione ai singoli costituenti, prosegue con gli studi degli anni '70 e '80 sugli stili cognitivi, percettivi e la memoria e si prolunga fino ai giorni nostri articolandosi con i dati della ricerca di base, in particolare con le recenti ipotesi di «disconnessione» o debole connessione funzionale suggerite da diversi dati di neuroimaging funzionale. Un aspetto interessante di questo modello è il suo potere esplicatorio non solo delle «disabilità», ma delle particolari «abilità» spesso presenti nell'autismo, liberate proprio, forse, dai deboli vincoli di coerenza centrale (ad esempio stili percettivi originali, capacità di individuazione di dettagli e figure nascoste, orecchio musicale assoluto, indipendenza percettiva «dal campo», e così via). In realtà tutti i modelli degli anni '90 (contatto affettivo, teoria della mente, funzioni esecutive, coerenza centrale) nelle loro pretese di spiegazione unitaria presentano limiti e rigidità; nessuno di essi fornisce una spiegazione sufficiente della complessità dell'autismo. La loro evoluzione, convergente verso la comune area dei prerequisiti basali della socialità, inoltre, li ha largamente embricati, sovrapponendo le tematiche. Ma, soprattutto, le moderne tecniche di visualizzazione, in particolare funzionale, concentrandosi sulle caratteristiche nucleari comuni a tutte le forme di autismo hanno cominciato a fornirci una mappa, sia pure ancora rudimentale, degli assetti neurofunzionali autistici e delle loro peculiarità. Con queste conoscenze le ipotesi degli anni '90 si confrontano e rimodellano. Dati interessanti stanno emergendo in particolare sulla disabilità linguistica e comunicativa e su quella di percezione, cognizione e motivazione sociale. Vengono posti in luce sia funzionamenti atipici di alcune specifiche aree cerebrali sia, soprattutto, alterazioni più generali della connettività funzionale e del funzionamento armonico e integrato di complessi circuiti. In questo insieme di conoscenze in espansione le caratteristiche nucleari dell'autismo appaiono sempre più descrizioni di aree di sviluppo critiche e atipiche, da ripensare in un'ottica evolutiva e sempre meno dei puri deficit. Nell'impostazione delle strategie e dei contesti abilitativi ciò è importante. L'autismo non è la semplice mancanza di questa o quella funzione; è uno sviluppo singolare, radicato in peculiarità e deficit originari, in cui si intrecciano molteplici piani, in modi diversi a seconda delle diverse eziopatogenesi e anche delle diverse storie personali. Come ha scritto U. Frith (1989), in esso non c'è aspetto che si presti ad algoritmi semplici, tipo«tutto/nulla», «c'è/non c'è (una funzione, una capacità)». Per progettare interventi e contesti occorre dunque tenere bene in conto le caratteristiche peculiari dell'autismo, valutare accuratamente criticità e deficit, ma anche aver ben presente che quasi sempre non di un puro deficit si tratta. E, soprattutto tener bene in conto che da quelle peculiarità, da quelle alterazioni, comunque si sviluppano mondi di esperienza, particolari soggettività; incerte e aurorali, forse, ma che, per questo, è ancora più prezioso e necessario comprendere. Che dire infine della psicoanalisi nei confronti dell'autismo? Dopo le grandi descrizioni cliniche degli anni '60-'80 (Mahler, Tustin, Meltzer), ricche di intuizioni «dall'interno» dell'esperienza autistica, la psicoanalisi ha scontato con una marginalizzazione l'abbaglio psicogenetista con cui è stata largamente identificata. Eppure, studiosi non psicoanalisti hanno in diverse occasioni segnalato come il segmento mancante alle attuali descrizioni della crescita e dell'organizzazione autistica sia proprio quello della sua psicodinamica. Come ha auspicato Hobson, una psicoanalisi cauta e autocritica potrebbe ritrovare un ruolo prezioso nella visione complessiva del fenomeno, equilibrandone una certa immagine disumana, riduttiva e meccanicistica e tenendo viva l'attenzione per gli aspetti affettivi e relazionali delle crescite autistiche e dei loro contesti; ma potrà far questo se riuscirà a sbarazzarsi definitivamente di ogni abbaglio eziologico e di ogni pretesa autarchica di una teoria psicoanalitica dell'autismo, prendendo atto dell'evoluzione delle conoscenze e chinandosi con pazienza e interesse sui dati che provengono dalle altre discipline.

FRANCESCO BARALE e STEFANIA UCELLI