Telmo Pievani

La vita inaspettata

Raffaello Cortina, Milano 2011

Introduzione alla lettura di Luigi Anepeta

Il saggio è esplicitamente dedicato alla filosofia dell’evoluzionismo che, sulla base dei dati scientifici offerti dal darwinismo e dai suoi sviluppi ulteriori, tende a configurarsi come una visione dell’uomo, del mondo, e, in una certa misura, del cosmo alternativa alla teologia e a qualsivoglia teleologia.

Tale visione comporta, per un verso, l’accettazione della contingenza come fattore esplicativo della comparsa della specie umana (e di ogni altra specie). In quanto figlio della contingenza, vale a dire dell’interazione tra catene casuali che fanno capo alla mutazione genetica, alla deriva genetica e ai cambiamenti climatici, l’uomo non è un essere necessario: è semplicemente l’espressione di una possibilità, statisticamente remota e imprevedibile, che si è realizzata, ma si sarebbe potuta non realizzare. Per un altro verso, quell’accettazione, nella misura in cui umilia il narcisismo umano, dovrebbe promuovere un atteggiamento di coesistenza con tutti gli esseri viventi che popolano il pianeta e, in particolare, di solidarietà tra i rappresentanti dell’homo sapiens sapiens.

La filosofia evoluzionistica, in altri termini, muove da una base scientifica e approda ad un’etica.

Il problema è che il nesso tra teoria evoluzionistica ed etica è tutt’altro che immediato e scontato.

L’accettazione della contingenza è intrinseca ormai al processo di secolarizzazione in virtù del quale un numero sempre maggiore di individui, soprattutto nei Paesi occidentali, abbandonano la religione e accedono al nichilismo. Tale passaggio, però, non sembra affatto innescare un processo di identificazione empatica con gli altri esseri umani, quanto piuttosto promuovere, in genere, un esasperato narcisismo individualistico, che spesso si traduce nell’ideologia del carpe diem.

Si può obiettare che il nichilismo narcisistico non arriva all’altezza della filosofia evoluzionistica, che vede nella vita l’espressione di un’indefinita creatività spontanea, tanto più meravigliosa quanto più essa è dovuta al caso o alla contingenza. Ma, per arrivare a tanto, occorre la passione del biologo evoluzionista o del filosofo della scienza, che non è moneta corrente.

Il passaggio dalla teoria evoluzionistica all’etica, inoltre, nell’ottica di Pievani, sembra quasi coniugare una disincantata visione del mondo materialistico-esistenzialista e una sorta di neostoicismo, per cui l’individuo deve avere il coraggio di prendere atto della sua reale condizione nell’universo e confrontarsi con essa senza tremore.

Ritengo che questa ottica sia molto suggestiva, ma sostanzialmente elitaria, e, di fatto, molto difficile da adottare per l’uomo comune.

E’ vero che la filosofia scientifica non può preoccuparsi troppo dell’uomo comune. E’ altrettanto vero, però, che se essa propone una visione del mondo alternativa a quella teologica e teleologica, che caratterizza la cultura corrente, non può disinteressarsi del tutto della possibilità e della necessità di trasformarsi in un nuovo senso comune.

In Pievani, forse, questo disinteresse non c’è, e prevale, per una sorta di distorsione professionale, il riferimento ai tempi lunghi dell’evoluzione storica, destinati a fare approdare l’umanità alla verità sulla sua condizione contingente.

Al di là dell’apprezzamento per un libro scientificamente documentato e filosoficamente serio, un nodo che vale la pena approfondire riguarda proprio la storia. L’evoluzionismo è una disciplina storica e, in quanto tale, è stato costretto a cercare di definire i principi applicabili ai cambiamenti degli organismi e delle specie che intervengono in intervalli temporali molto lunghi. La contingenza è per l’appunto uno di questi principi. Essa implica che catene causali che riguardano aspetti diversi della realtà (il patrimonio genetico con le sue mutazioni, l’isolamento più o meno rilevante di un gruppo animale, i cambiamenti climatici) interagiscono ad un certo punto tra loro dando luogo a effetti imprevedibili e non necessari, come per esempio la nascita di una nuova specie. Un altro principio, non meno importante , è l’exaptation, vale a dire una trasformazione funzionale che avviene a partire da una struttura non selezionata a tale fine o addirittura non selezionata affatto, ma prodottasi casualmente in conseguenza di altre trasformazioni strutturali.

La contingenza e l’exaptation sembrano in grado di spiegare l’evoluzione della vita meglio di ogni altra teoria.

Ma è possibile applicare questi stessi principi alla storia sociale e culturale dell’uomo? Pievani sembra pensarlo laddove, sia pure marginalmente, stigmatizza le catastrofi politiche prodotte dall’applicazione alla società di schemi astratti. La critica è fondata, ma, forse, paradossalmente, non tiene conto di un principio ricavato dall’evoluzionismo: quello per cui, se è vero che l’evoluzione biologica dell’essere umano sembra stagnante in rapporto a quella culturale, il cui ritmo è vorticoso, nulla consente di pensare che essa si sia esaurita. Questo può essere considerato a due livelli.

Per un aspetto, non si può escludere che, nel cervello umano, esistano ancora numerose potenzialità esattate, che, un giorno o l’altro, potranno dar luogo ad ulteriori salti di qualità. Per essere più precisi, si può fare riferimento al mondo delle emozioni, gran parte delle quali scorrono al di fuori della coscienza. Poniamo per ipotesi che una cultura programmi un’evoluzione culturale dell’essere umano che privilegi, al di là dello sviluppo cognitivo, una conoscenza sempre maggiore del mondo emozionale e l’integrazione delle emozioni con la ragione. Quali emozioni avrebbero un significato rivoluzionario? Quelle più radicate in profondità, vale a dire il senso di dignità e di giustizia e l’empatia.

L’uomo prodotto da questa programmazione emozionale, che utilizzerebbe potenzialità già presenti nel cervello umano, non potrebbe tollerare situazioni sociali lesive della sua dignità e non potrebbe agire in maniera contrastante con l’empatia.

Per un altro aspetto, non si può escludere che, nei tempi lunghi dell’evoluzione, il cervello vada incontro ad ulteriori cambiamenti. Nessuno può prevedere di quali cambiamenti potrà trattarsi. C’è però un indizio prezioso che vorrei sottolineare.

Tutti gli esseri umani appartengono alla stessa specie, ma, all’interno di essa, come avviene per tutte le altre specie, si danno delle varietà. Una di queste, forse la più importante, concerne l’orientamento caratteriale che consente di distinguere il tipo estroverso e quello introverso. Ponendo tra parentesi i molteplici cambiamenti che intervengono sulla base dell’interazione con l’ambiente, io ritengo che l’introversione rappresenti una varietà evolutiva di grande significato. Essa è caratterizzata, infatti, da un grado di empatia solitamente elevato, da una capacità intuitiva fuori dell’ordinario, da una più o meno spiccata tendenza alla riflessione e all’introspezione e da un tasso di aggressività piuttosto basso che coincide spesso con una situazione di inoffensività. Se ipotizziamo che una varietà del genere possa, sia pure lentamente, prevalere a livello di genoma umano, il mondo che si costruirebbe a partire da essa sarebbe molto diverso da quello che conosciamo: un mondo di E. T., vale a dire di esseri di intelligenza superiore (nella misura in cui i potenziali cognitivi si valorizzerebbero per effetto della coltivazione delle emozioni), tendenzialmente pacifici e praticamente inoffensivi.

Certo, se le cose dovessero andare così sarebbe difficile sfuggire alla suggestione di una finalità intrinseca all’evoluzione. Nonostante Theilard de Chardin, che ha anticipato misticamente tale possibilità, si rimarrebbe comunque nell’ambito del materialismo evoluzionistico. Il motivo è quello su cui insiste più volte Pievani: l’uomo esiste, ma, se si fosse verificata una delle indefinite biforcazioni contingenti che ne hanno prodotto la comparsa, sarebbe semplicemente potuto non esserci.

Dato che c’è, non si può escludere che possa giungere a vivere meglio e ad essere degno dell’avventura cui è stato chiamato per un concorso di fattori altamente improbabili.

La prima parte del saggio è un aggiornamento della lunga esposizione dei processi di ominazione e di antropogenesi descritti in Homo sapiens e altre catastrofi. Riporto alcuni estratti dalla seconda parte del libro, che è squisitamente filosofica anche se, per fortuna, siamo nell'ambito della filosofia scientifica.

La vita inaspettata

[...]

3. Un’avvincente esplorazione di possibilità

(…)

L'assenza di una direzione e di una necessità intrinseca non consegna l'evoluzione al "cieco caso" e alla fredda democraticità del puro calcolo delle probabilità - come se lo scenario attuale dell'evoluzione fosse il risultato di una sequenza di lanci di dadi - bensì a un'interrelazione fra elementi casuali e storici, funzionali e strutturali, che produce una molteplicità di storie possibili. Non infinite, possibili. Fra queste, non tutte avranno la stessa probabilità di accadere, ma ciò che conta è che la storia che si è realizzata non era l'unica possibile e non era a priori prevedibile. Le cose potevano andare diversamente. Non era inscritto nel processo fin dall'inizio che dovesse andare a finire proprio così e non in un altro modo. Se anche una sola delle innumerevoli biforcazioni di eventi che ci precedono si fosse risolta diversamente, noi potremmo tranquillamente non esistere. E un variegato Universo alternativo, abitato da magnifici dinosauri piumati e policromatici, avrebbe potuto benissimo fare a meno di noi.

IL CASO E LE LEGGI

La reazione a questa scoperta non può che essere di sconcerto, disorientamento, forse anche fastidio: ma come, davvero l'evoluzione poteva fare a meno di tutte le nostre fisime di centralità? Riprendiamo una celebre metafora di Stephen J. Gould: se la storia naturale fosse una pellicola cinematografica e potessimo riportarla indietro, facendola scorrere cento volte otterremmo cento sceneggiature diverse, cento concatenazioni di eventi diverse, e dunque cento finali diversi (pur altrettanto commoventi e a sorpresa) del film. Ma come possiamo esserne sicuri, visto che in attesa della costruzione della prima macchina del tempo l'esperimento del film della vita non è scientificamente possibile né rilevante?

Affrontiamo il problema ai fianchi e immaginiamo due opposte situazioni limite. Se nel procedere della storia naturale fossero in azione principi e leggi così stringenti da rendere lo  scorrimento perfettamente calcolabile e prevedibile, non vi sarebbe alcun margine di manovra per sottrarsi al determinismo: date certe condizioni iniziali e al contorno, l'esito della concatenazione degli eventi sarebbe già scritto fin dal principio. Un ideale che ha conquistato schiere di scienziati e di filosofi. Se viceversa la storia naturale fosse consegnata a un caos generalizzato, non vi sarebbe modo di prevedere alcunché, non troveremmo né regolarità né schemi ripetuti di eventi, in un brusio indifferenziato di accadimenti senza senso e di urti casuali. Né il primo scenario né il secondo si addicono ai fatti noti riguardanti l'evoluzione dei viventi. Come scriveva Darwin all'amico Asa Gray, nell'evoluzione deve essere in azione una qualche interazione fra il dominio del caso e il dominio delle leggi, o se preferiamo nei termini di Jacques Monod fra il regno del caso e quello della necessità. Stabilire però dove si posiziona l'asticella di separazione fra il regno delle inflessibilità naturali e quello delle singolarità storiche è assai arduo.

Gli storici conoscono bene il problema, quando si interrogano sulla rilevanza di un dettaglio imprevisto a partire dal quale è scaturita una valanga di eventi. Diciamolo in un altro modo. Il grado di aleatorietà che attribuiamo a un processo evolutivo è dato dalla sua resistenza ai "contro-presenti" alternativi. Se qualsiasi dettaglio facesse deviare il flusso evolutivo in altri alveoli, sfociando in prodotti finali alternativi, non vi sarebbe alcuna "resistenza controfattuale": tutto sarebbe egualmente possibile e probabile, esisterebbero soltanto storie effettive, singolari, sequenze irripetibili di eventi la cui spiegazione sarebbe lunga tanto quanto il processo stesso. La teoria dell'evoluzione coinciderebbe con una descrizione infinitamente dettagliata dell'evoluzione stessa, perché non potrebbe discernere, come ogni teoria è tenuta a fare, i dettagli pertinenti e quelli ininfluenti. Si trasformerebbe in una cronaca sterminata in cui la mappa coincide con il territorio, e anche la caduta di un petalo e la crescita di un pelo sul mantello dell'ultimo mammut lanoso dell'isola di Wrangel meriterebbero una menzione. All'estremo opposto, se qualsiasi scenario alternativo conducesse al medesimo risultato, la resistenza controfattuale sarebbe massima (nessuna storia realmente divergente sarebbe possibile) e la spiegazione sarebbe non solo robusta, ma anche deterministica. Tutto quello che doveva succedere è successo.

Come si usa dire, la storia non si fa con i se. Tuttavia, l'esperimento mentale delle storie controfattuali ha una sua utilità se ben documentato (Ferguson, 1997). Discostate dai due estremi troviamo, nelle scienze naturali, alcune soluzioni meno radicali. Potremmo per esempio considerare il caso come un rumore di fondo o un disturbo tutto sommato marginale: le leggi che presiedono alla dinamica di un fenomeno o di un sistema fisico ci sono completamente note e tale dinamica sarebbe perfettamente prevedibile se non fosse che malauguratamente attriti, turbolenze e altre perturbazioni ne deviano la traiettoria. Ci accontentiamo allora di conoscere leggi e andamenti ideali, ben sapendo che la realtà disubbidirà. In tutt'altro senso, potremmo invece immaginare un sistema talmente denso di elementi eterogenei, di connessioni interne e di interrelazioni non lineari da apparirci "caotico" e indecifrabile, ma al cui interno emergono invece comportamenti ordinati, strutture e forme riconoscibili, persino regolarità matematicamente trattabili, come se fra ordine e caos vi fosse una sottile attrazione degli opposti. O ancora, potremmo ipotizzare di domare il caos prendendolo alla lontana, sui tempi lunghi: lasciamo correre il sistema più e più volte e grazie al calcolo delle probabilità e ai modelli ne estraiamo schemi, misure e leggi. Del resto anche la somma dei moti casuali delle particelle di gas in un recipiente sa restituire precisi valori e relazioni fra volumi, pressioni e temperature. In queste esemplificazioni classiche come si inserisce l'evoluzione, osservandola un po' da lontano?

POLISEMIE DEL CASO

Nel modo in cui spieghiamo la storia naturale oggi, il caso assume tre accezioni distinte. La prima è di tipo epistemologico, nel senso che misura soltanto la nostra ignoranza (o per meglio dire l'indifferenza) nei confronti delle cause di un fenomeno. Le mutazioni genetiche, combustibile indispensabile della diversità e del cambiamento evolutivo, sono definite "casuali" non perché non abbiano cause e ragioni (un intero catalogo di radiazioni e di sostanze chimiche sono infatti definite "mutagene" proprio perché inducono mutazioni), ma perché dal punto di vista della spiegazione evoluzionistica non è di alcuna utilità, oltre a essere pressoché impossibile, rincorrere la causa specifica che in un infinitesimale frangente della duplicazione ha prodotto un errore di copiatura di una base in un certo punto del genoma oppure un'altra delle innumerevoli alterazioni possibili del dna. Ne usciamo dunque un po' sbrigativamente definendo le mutazioni "casuali": succedono, per qualche ragione che non conosciamo o che non ci interessa conoscere. Si noti a tal proposito che il contesto esplicativo in cui ci muoviamo è dirimente: se fossimo epidemiologi, o studiosi dei fattori ambientali che incidono sull'insorgenza di una certa patologia tumorale, le cause delle mutazioni diventerebbero invece il nostro principale fuoco di interesse. Ma se siamo alle prese con l'evoluzione ci può bastare che le mutazioni siano considerate per il loro risultato effettivo: quello di fornire la materia prima sulla quale agiscono poi gli altri fattori di cambiamento.

Il caso ha però una seconda, e assai più importante, accezione in campo evoluzionistico. Diciamo che le mutazioni sono "casuali" anche perché le cause della loro comparsa, qualunque esse siano, sono del tutto indipendenti dagli effetti - positivi, negativi o neutrali - che esse avranno sui loro portatori, cioè sugli individui inseriti in una determinata nicchia ecologica. In altri termini, tranne che in casi particolari (come quando un forte stress ambientale fa aumentare il tasso di mutazione in alcuni microrganismi), non è l'ambiente esterno che dirige o indirizza o influenza la comparsa di una specifica mutazione in un individuo biologico. Sono due mondi di cause indipendenti. Quando è in azione la selezione naturale, due catene causali indipendenti si incontrano e interagiscono fra loro: la catena causale che porta alla costante insorgenza, di generazione in generazione, di variazioni genetiche all'interno delle popolazioni; la catena causale che a partire dalle mutevoli condizioni ambientali, cioè dalle "pressioni" selettive, produce una sopravvivenza differenziale degli organismi portatori di certe varianti anziché di altre. Alcuni se la cavano meglio nelle vicissitudini di un certo contesto ambientale, raggiungono con maggiore probabilità l'età riproduttiva e avranno più chance di avere una prole, e dunque di diffondere le loro varianti se ereditarie (Boncinelli, 2009).

Ora scomponiamo di nuovo le due dinamiche interne del processo: le mutazioni genetiche sono "casuali" rispetto agli effetti che avranno o non avranno sui portatori; le pressioni selettive sono l'effetto "casuale" di dinamiche ecologiche che non dipendono dal maggiore o minore grado di adattamento degli organismi. Sballottati in mezzo a queste due sfere di casualità, gli individui biologici cercano affannosamente di sopravvivere. Ma se guardiamo con attenzione, l'elemento qualificante di questo processo è che molteplici catene causali vengono a incontrarsi rendendo possibili esiti che alle nostre menti teleologiche apparivano come del tutto improbabili.

TEGOLE E ASTEROIDI

È il momento dell'entrata in scena della contingenza, cioè dell'attributo che da Aristotele in poi associamo agli enti la cui esistenza non è necessaria ma possibile, in quanto né giustificata né negata da alcunché di necessario e di esterno a essa. E dunque una categoria di possibilità e di autonomia. Quando due catene causali indipendenti come abbiamo visto si incontrano, producono un evento che definiamo "casuale", ma che sarebbe più corretto definire "contingente", perché frutto dell'interferenza non necessaria fra due dinamiche che, avendo per conto proprio una loro logica, l'hanno reso possibile. Se in una giornata decisamente sfortunata un uomo porta a passeggio il suo cane e transita sotto una grondaia proprio nel momento in cui sta cadendo una grossa tegola, diciamo che si è trattato di morte "accidentale". Che cosa è successo? La catena causale che ha portato quell'uomo a uscire con il cane proprio a quell'ora e a fare proprio quel tragitto (e prima ancora a prendere con sé un cane pur abitando in un condominio, a trasferirsi in quella città, e così via) incrocia beffardamente un'altra catena causale, che dalla mancata manutenzione porta al deterioramento di un vecchio tetto, dà questo al distacco delle tegole, al loro lento scivolamento verso il basso durante le giornate di pioggia e di neve, e infine al colpo di vento che innesca la caduta finale di una di esse lungo la verticale che termina proprio in quel punto del marciapiede in quel momento. Una coincidenza sfortunata: ma in che senso esattamente?

Se guardiamo dentro ciascuna delle due catene causali, tutto ha una logica e un filo, tanto che ci viene facile ricostruire la linea delle cause e delle conseguenze che hanno portato a un certo esito. Ma quando le due linee si incrociano, l'evento che si produce nella congiunzione ci appare invero improbabile e "casuale". Ciò è dovuto al fatto che le due catene causali sono del tutto indipendenti l'una dall'altra. Sono autonome e la loro congiunzione è solo possibile. Tuttavia, l'effetto della contingenza è così straniante che la nostra mente è portata a rovesciarlo. Quante volte, in evenienze analoghe, abbiamo sentito un commento di questo tipo: "Certo però, era proprio il suo destino". Perché se l'uomo quel giorno non avesse deciso di cambiare strada, se non fosse uscito mezz'ora prima del solito, se non avesse trovato la serratura ghiacciata, se l'edicolante non l'avesse trattenuto per fare quattro chiacchiere, se, se, se... non sarebbe successo niente.

L'intromissione dell'inaspettato si trasforma nella faccia spietata di un fato amaro. Ci concentriamo sul numero di coincidenze che malignamente hanno congiurato contro quell'uomo. Di questo passo ci convinciamo che "non può essere stato un caso", che deve esserci sotto qualcosa, che le due catene causali in realtà erano legate, che quella tegola conteneva un messaggio, un segno, il compimento di un destino. E' uno schema di ragionamento, tipicamente umano, che fa sì che ciò che appare molto improbabile ci sembri anche impossibile, e che come tale debba allora essere spiegato attraverso un disegno, un piano, l'intenzione di qualcuno (Girotto, Pievani, Vallortigara, 2008). In realtà gli eventi improbabili accadono sempre, sono la norma, e non hanno bisogno di finalità intrinseche. E quando partecipiamo a milioni alla lotteria sappiamo addirittura che un evento altamente improbabile, una vincita, succederà sicuramente a uno dei giocatori.

Nel corso dell'evoluzione le tegole sono piovute infinite volte, decretando la condanna di alcuni e la grande occasione per altri. Se 65 milioni di anni fa la caduta di un grosso asteroide o di un frammento di cometa ha davvero contribuito a dare il colpo di grazia alla schiera dei dinosauri - forse già declinante ma in fase di diversificazione in forme più piccole, piumate e colorate - portandoli all'estinzione tutti tranne gli antenati teropodi di quelli che poi diventeranno gli uccelli attuali, possiamo dire che i dinosauri sono stati decimati da un evento "casuale"? Per molti aspetti sì, ma non nello stesso senso in cui diciamo che è uscito lo zero alla roulette e che tutti gli altri numeri avevano la stessa probabilità di uscire. Piuttosto, la "contingenza" è dovuta al fatto che due catene causali, una esterna alla Terra e una interna, si sono incontrate, generando quella che sarebbe diventata una giornata nera per i dinosauri e un bel colpo di fortuna per noi.

Gli asteroidi da quando mondo è mondo intersecano le orbite dei pianeti, si schiantano sulla loro superficie e modificano la vita dei corpi celesti. E' la prassi nel nostro Sistema Solare. Per un astrofisico è un evento normale e oggi persino prevedibile: basta calcolare bene orbite e traiettorie. Mentre tutto ciò accadeva, sulla Terra del Cretaceo i dinosauri (probabilmente già a sangue caldo; Pontzer, Allen, Hutchinson, 2009) si stavano lentamente modificando da decine di milioni di anni secondo meccanismi e regole previsti dal "gioco interno" dell'evoluzione. I due treni di cause viaggiavano su binariseparati. È l'incontro delle due dinamiche - in quel momento e non in un altro, con un asteroide proprio di quelle dimensioni che va a colpire proprio una zona tropicale e non di striscio a latitudini più alte - ad aver deviato il corso della storia naturale. L'estinzione in massa di tutti i dinosauri non aviani (tutti gli ornitischi, tutti i sauropodi e gran parte dei teropodi, tranne il gruppo dei dromeosauri che porta ai primi uccelli), dei rettili volanti come gli pterosauri, e di molti altri esseri viventi di ogni ordine e grado, fu un evento contingente, oltre che una staffetta evolutiva su larga scala. Non era necessariamente inscritto nelle condizioni precedenti, soprattutto oggi che conosciamo le straordinarie risorse, la complessità sociale e le diversificate strategie adattative dei dinosauri.

I mammiferi si erano già diffusi e differenziati da decine di milioni di anni prima della catastrofe, ma tutto sommato restavano confinati a forme non molto dissimili da toporagni e roditori (con tutto il rispetto parlando, soprattutto per la loro deliziosa evoluzione dell'orecchio). Dopo lo spartiacque cosmico di 65 milioni di anni fa, durante il quale non furono spettatori passivi ma subirono anch'essi gravi perdite, la nuova era terziaria vide l'inizio di una spettacolare radiazione di forme, che in pochi milioni di anni portò quei toporagni a uscire dai loro interstizi evolutivi e a differenziarsi in piani corporei molto diversi, in virtù di mutazioni che interessarono non soltanto i dettagli delle morfologie ma anche le regolazioni dello sviluppo. Nonostante l'insidiosa competizione, soprattutto in Sudamerica, di giganteschi uccelli corridori carnivori oggi estinti, da quei piccoli precursori notturni dall'ottimo udito, opportunisti, con pelliccia e sangue caldo, assistiamo all'aprirsi di un ventaglio sorprendente di specie - eterogenee per strutture e taglie - che vanno dagli elefanti alle mucche, dai conigli ai lamantini, dagli ippopotami alle giraffe, dai pipistrelli alle balene, dai maiali alle scimmie.

I dinosauri stessi, che qui trattiamo come vittime degne di menzione ma anche di una certa compassione, devono probabilmente una parte delle loro fortune pregresse a non meno catastrofiche estinzioni di massa più remote, come quella alla fine del Triassico, 200 milioni di anni fa circa, si presume scatenata da un'ingente immissione di anidride carbonica in atmosfera causata dalle colossali eruzioni basaltiche che si produssero in concomitanza con la rottura del supercontinente Pangea (Whiteside et al., 2010). Il riscaldamento climatico (unito ad altre emissioni) fu letale per molti esseri viventi e mandò in declino il fiorente gruppo dei principali competitori dei dinosauri, i crurotarsi. Questi ultimi - secondo uno studio guidato nel 2008 da Steve Brusatte della Columbia University e dell'American Museum of Natural History di New York - non sembravano affatto in crisi prima del grande sussulto vulcanico, anzi mostravano una disparità di piani corporei e di stili di vita superiore a quella dei dinosauri a loro coevi, mentre i tassi di evoluzione erano analoghi (Brusatte et al., 2008). Tutto lascia quindi supporre che, senza quell'imprevedibile colpo di maglio esterno, la partita avrebbe segnato la prevalenza dei crurotarsi, i cui unici discendenti attuali sono invece i coccodrilli, rettili sempiterni.

E non è tutto, perché 51 milioni di anni prima, alla fine del Permiano, un'altra colossale estinzione di massa provocata da eruzioni vulcaniche su larga scala, questa volta in Siberia (Gra- sby, Sanei, Beauchamp, 2011), aveva spazzato via - secondo uno dei massimi esperti in materia, Michael J. Benton - il 90% degli organismi marini e il 70% di quelli terrestri, equivalenti al 57% di tutte le famiglie e all'83% di tutti i generi. Un'ecatombe micidiale, la più grande estinzione di massa di tutti i tempi, una potatura radicale dell'albero della vita che ha risparmiato soltanto un decimo dei rametti. Secondo Benton, quella volta c'è mancato poco che la vita scomparisse del tutto: non panda e dodo, ma animali, piante, funghi, plancton, microrganismi, tutto. I tempi di recupero dopo la decimazione, ricominciando dai pochi scampati, furono lunghissimi. I rettili rinacquero faticosamente dal Lystrosaurus e da poche altre specie. La storia naturale, ricostituitasi a partire da una piccola fetta della vita precedente, si barcamenò per milioni di anni nella miseria degli ambienti devastati dalla catastrofe (Benton, 2003).

Più che superiorità, qui c'è l'opportunismo dei sopravvissuti all'ultima, lunga notte tossica del Permiano. Ora, alla luce di queste conoscenze, è plausibile sostenere che l'"era dei mammiferi" - come è stata in modo un po' antropocentrico chiamata - sarebbe stata la stessa se i dinosauri non avessero lasciato libere le nicchie ecologiche dei vertebrati di grossa mole, se avessero continuato a svolgere il loro ruolo di insidiosi, rapidi e intelligenti competitori diffusi per terre e per mari? E a loro volta, nell'"era dei rettili", i dinosauri avrebbero dominato il pianeta senza gli sconvolgimenti precedenti e senza quei fiumi di basalto fuso, prodotti da un meccanismo globale (la tettonica a placche) che non guardò certo in faccia agli adattamenti delle singole specie e che spazzò via i pur valenti crurotarsi? Se la risposta è negativa, come tutte le evidenze ci suggeriscono, significa che i dinosauri hanno dominato per più di cento milioni di anni anche grazie alle sorti sfortunate dei cugini stretti dei coccodrilli, e che noi primati, letteralmente, siamo figli dei fiumi di basalto fuso e di quell'asteroide, e della loro contingente irruzione in un gioco evolutivo che stava andando da un'altra parte. Siamo tutti un po' postapocalittici.

IL POTERE CAUSALE DEL SINGOLO EVENTO

La morale del dinosauro estinto, e prima di lui del crurotarso estinto - e dopo di lui, chissà - sembrerebbe quella di non cantare mai vittoria troppo presto, perché i dominatori di un periodo storico possono soccombere dinanzi a un cambiamento globale delle condizioni. La biosfera di questi brutti scherzi ne tira parecchi. Secondo alcuni paleontologi è possibile che in alcune fasi del tempo profondo del Precambriano, e forse proprio a ridosso delle esplosioni di vita pluricellulare che abbiamo visto nel capitolo precedente, la Terra abbia subito il cosiddetto "effetto palla di neve": l'estensione delle calotte polari avrebbe amplificato l'effetto di respingimento dei raggi solari da parte delle superfici chiare, portando la Terra a ricoprirsi quasi interamente di ghiaccio come una palla di neve cosmica. Poi, per buona sorte della vita, gli eventi vulcanici, che in tempi successivi saranno così letali, hanno nuovamente immesso in atmosfera anidride carbonica e altri gas che hanno rinforzato l'effetto serra, restituendo alla Terra i suoi più ospitali tepori.

Ma in fondo, pensandoci bene, perché la tegola, l'asteroide, gli effetti palla di neve, i fiumi di basalto fuso e altri accidenti non calcolati ci sembrano così "casuali"? Perché per realizzarsi si sono dovute risolvere, in una direzione anziché in molte altre possibili, miriadi di microscopiche biforcazioni di eventi che avrebbero potuto (avrebbero cioè avuto "il potere di") spostare la locomotiva della storia su un altro binario. Questa è la terza accezione di casualità, ma ancora una volta sarebbe meglio dire "contingenza", che si riscontra in ambito storico ed evoluzionistico. Il singolo evento non è una coincidenza astrale che si tramuta in destino, ma un fenomeno con le sue ragioni che incontrando le ragioni di altri fenomeni ha il potere di influire sul fatto che l'evoluzione segua uno solo fra i molti, ma non infiniti, percorsi possibili. I "particolari" di cui scrive Darwin a Asa Gray si verificano per motivi definiti e potenzialmente conoscibili per via scientifica, ma non rientrano in un tessuto pianificato o determinato di eventi.

Si tratta in sostanza di una storia vincolata, dove non proprio tutto può succedere in qualsiasi momento, ma dove i vincoli sono ben lontani dall'avere la forza per rendere la dinamica predeterminata. Nel film Sliding Doors (1998), se la protagonista riesce a prendere di corsa il metrò potrà tornare a casa in tempo per scoprire che il fidanzato la tradisce. Se invece la porta scorrevole del metrò si chiude davanti a lei un attimo prima, non lo scoprirà e la sua vita prenderà realmente un'altra direzione. Entrambe le narrazioni hanno una loro stringente consequenzialità, a posteriori sarà possibile dare loro un "senso", ma si ramificano a partire da una minuscola, insignificante biforcazione, il cui esito dipende a sua volta da imponderabili dettagli, come una matita che sta ritta per un po' e poi cade da una parte rompendo, a suo modo, una simmetria dell'Universo.

Non tutti gli eventi, però, hanno quel potere causale. Se il fidanzato fosse un banale fedifrago poco di buono, il secondo scenario perderebbe la sua importanza perché lei lo lascerebbe presto comunque, al primo tradimento successivo, che abbia preso o non abbia preso il metrò quella volta. E se lo stesso incontro amoroso successivo avviene in tutti e due gli scenari, "è proprio destino". L'evoluzione allora è un processo contingente non perché ogni storia sia equiprobabile, ma perché mescola insieme sia potenti ingredienti di casualità sia meccanismi antagonisti che riducono, senza annullarlo mai del tutto, il grado di improbabilità di un certo esito locale. Detto in altri termini, ogni storia evolutiva è irreversibile e potenzialmente unica, proiettata nell'esplorazione di uno spazio di possibilità così ampio da non poter essere prevedibile su larga scala. Così succede che tartarughe e coccodrilli, sopravvissuti a loro volta a immani catastrofi, si siedano sulle sponde del fiume della storia naturale e vedano passare i cadaveri di tutti i dinosauri (tranne quelli che spiccheranno il volo). E così succede che piccoli roditori notturni, sulle cui sorti magnifiche e progressive in pochi avrebbero scommesso, costruiscano un impero evoluzionistico dove non tramonta mai il sole.

Vediamo allora per primi gli ingredienti di casualità. Gli alfieri evoluzionistici del "caso", nelle accezioni che abbiamo visto prima, sono principalmente tre. In primo luogo, le mutazioni e le ricombinazioni genetiche "casuali" immettono incessantemente variazioni nelle popolazioni biologiche e, nell'incontro contingente con le condizioni ambientali, riforniscono di carburante i motori della selezione naturale. In secondo luogo, molti tratti si consolidano in una specie attraverso derive genetiche, un fenomeno cruciale di cambiamento evolutivo che avviene quando piccole popolazioni si separano dal gruppo di origine (andando per esempio a "fondare" una colonia in un altro territorio oppure rimanendo in pochi, come in un "collo di bottiglia", a seguito di un severo peggioramento delle condizioni ambientali) e si portano così dietro, nella loro “deriva", un campionamento casuale della variazione genetica della popolazione madre. Nel primo capitolo abbiamo visto quanto siano stati importanti questi fattori casuali di deriva (effetti del fondatore in serie, colli di bottiglia, improvvisi crolli demografici, inserzioni casuali di sequenze genetiche neutrali e mobili) nel condizionare l'evoluzione degli ominini e nel plasmare gli schemi della variazione genetica umana attuale. 

Per ragioni strettamente statistiche, nel manipolo che va alla deriva la variabilità interna sarà inferiore a quella di partenza (se da un mazzo pescate a caso poche carte, è probabile che non vi ritroviate tutti e quattro i semi) e sarà sbilanciata (per puro caso, un seme potrebbe ritrovarsi in percentuali prevalenti). Così, quando a partire dai pochi pionieri iniziali si riformerà una popolazione più vasta, una certa variante genetica (persino se nociva) potrebbe comparire con una frequenza inusitata, o addirittura fissarsi in tutta la popolazione esautorando le altre, per motivi esclusivamente statistici. I dati più recenti dicono per esempio che ampie regioni dei genomi dei primati sono attribuibili agli effetti genuinamente casuali della deriva genetica.

In terzo luogo, esiste un'intera gerarchia di fenomeni ecologici su larga scala che interferiscono con il gioco "normale" della trasmissione genealogica del materiale ereditario (Eldredge, 1999). Impatti di asteroidi, eruzioni vulcaniche, derive dei continenti, terremoti, cambiamenti climatici, glaciazioni globali e alterazioni massicce delle correnti oceaniche sono i più drammatici e scenografici, ma non meno importanti sono le innumerevoli crisi regionali che hanno prodotto instabilità ecologica e turnover di specie, frammentato gli habitat, separato e riunito areali di distribuzione delle specie, spostato le fasce di vegetazione, innalzato e abbassato i livelli dei mari. Le pedine dell'evoluzione si sono sempre mosse su uno scacchiere anch'esso in movimento, i cui scossoni imprevedibili non dipendevano dal vantaggio o svantaggio di un contendente sull'altro nella partita in corso. Mentre mutazioni, selezioni naturali e sessuali, competizioni e cooperazioni, derive e migrazioni macinavano i loro microcambiamenti evolutivi sul campo - decretando, se non vincitori e vinti, almeno i campioni di resistenza, come i coccodrilli - le regole del gioco ecologico su larga scala in più occasioni sono state stravolte improvvisamente e dopo il sobbalzo la partita è ripresa con equilibri di forza alterati. Come dopo una folata di vento su un castello di carte, o come dopo un incendio naturale nel sottobosco secco, i pochi sopravvissuti non sempre possono vantare di essere i predestinati.

MODULAZIONI DI IMPROBABILITÀ

Mutazioni, derive, catastrofi: sembra proprio una lotteria. Eppure non lo è del tutto, perché una filigrana di legalità permane e si manifesta distintamente attraverso gli schemi ricorrenti o "pattern" dell'evoluzione, come li ha definiti Niles Eldredge (1995). Le specie più generaliste, diffuse e flessibili hanno un vantaggio oggettivo nei confronti degli accidenti ambientali (noi ne sappiamo qualcosa). Tartarughe, coccodrilli, limuli, celacanti e altre zattere della notte dei tempi sopraggiunte fino a noi, i loro meriti adattativi li hanno eccome. Alcune specie sono più "prolifiche" di altre. Le successioni di specie seguono regole conosciute. Le reazioni alle crisi ecologiche sono spesso simili, così come le dinamiche di colonizzazione di nuove nicchie. Lo stesso schema ramificato di sperimentazioni e decimazioni gode di una sua ripetitività nella storia naturale. Le leggi della fisica e della chimica, e i vincoli biologici che ne discendono, sovraintendono universalmente al processo. Il kit degli attrezzi genetici per la modulazione dello sviluppo è lo stesso in tutti gli animali, almeno.

Ma soprattutto, sono gli stessi meccanismi selettivi ad arginare la strapotenza del caso: se due esseri viventi sono immersi in nicchie ecologiche che pongono loro pressioni selettive simili (per lo sviluppo, per esempio, di sistemi di visione, di locomozione, di predazione o di contrasto alla predazione), tenderanno a raggiungere adattamenti analoghi, come se "convergessero" sulla stessa soluzione. Ci saranno comunque sottili differenze, perché il loro materiale di partenza e i vincoli interni saranno diversi: il sonar dei pipistrelli e il sonar dei guaciari sudamericani (affascinanti uccelli notturni simili a rapaci che vivono nelle grotte della foresta pluviale) sono analoghi sul piano funzionale, in specie non strettamente imparentate, ma presentano dettagli strutturali diversi. Tuttavia, gli effetti della convergenza adattativa sono spesso impressionanti e hanno portato alla nascita dello stesso organo (si pensi agli occhi, evolutisi almeno sei volte indipendentemente) in rami dell'albero della vita molto distanti fra loro.          

Qui il caso arretra un po', perché pipistrelli e guaciari hanno sviluppato i loro sonar non per un accidente fortuito, ma perché entrambi, mammiferi gli uni uccelli gli altri, hanno trovato vantaggioso orientarsi in questo modo al buio delle loro grotte. Le convergenze adattative sono talvolta così affidabili che, conoscendo le pressioni selettive di un ambiente, le si può persino prevedere, fatti salvi ovviamente tutti gli accidenti storici che possono interferire nel processo e alterarne l'esito. La contingenza non sminuisce quindi l'importanza delle convergenze adattative e la "quasi necessità" funzionale di alcuni complessi adattativi molto efficaci, come invece ha sostenuto con vigore agonistico il paleontologo Simon Conway Morris nel 1998. La contingenza è semmai incompatibile con le idee di necessità e di ottimalità, perché presuppone che esistano sempre strategie adattative multiple e che l'adattamento sia un fenomeno incompiuto e locale, sottoposto ai dettagli della storia e ai vincoli strutturali degli organismi.

Le convergenze adattative sono quindi un pattern che riduce il grado di improbabilità di alcune soluzioni funzionali locali. Non tutto è possibile nell'evoluzione e alcuni sentieri sono più calcati di altri. Torniamo così al nostro impasto peculiare di ingredienti casualistici e ingredienti di regolarità. Il modo migliore per rappresentarlo consiste in una modulazione del grado di improbabilità caso per caso. Anche le tegole, in fondo, non sono tutte uguali: se in un villaggio il vento soffia sempre forte e i tetti sono fatti male, la probabilità di riceverne una in testa aumenta. Girare per strada il sabato notte è legittimo e dovrebbe essere sicuro, se però in circolazione ci sono orde di neopatentati il cui tasso alcolico eguaglia la cilindrata del bolide che stanno guidando, si innalzano le possibilità di incrociare al semaforo una catena causale che culmina in uno schianto.

Noi tutti applichiamo questa modulazione di improbabilità ogni volta che calcoliamo i rischi di un comportamento, e decidiamo per esempio che girare di notte in un certo quartiere è imprudente. Ma non abbiamo alcun antidoto contro l'imprevisto specifico. Conosciamo regole e vincoli in gioco, ma non conosciamo il finale puntuale della storia, per via del potere causale del singolo evento. Quando tiriamo la molla del flipper e la pallina schizza in alto, non sappiamo esattamente quale traiettoria prenderà nella discesa e quali urti subirà: se non interferiamo con il sistema, la pallina seguirà ogni volta un percorso differente e si infilerà nella buca da angoli diversi; se però facessimo molti tentativi, potremmo scoprire che esiste un tempo medio di completamento della discesa e che alcune traiettorie sono più frequenti di altre a causa dei vincoli del sistema.

L'imprevedibilità applicata al passato, tuttavia, soffre di uno svantaggio cognitivo sleale: tutti i contro-passati alternativi che sarebbero stati possibili ma non si sono realizzati (come sarebbe andata diversamente quella volta se...) non essendo documentati perdono qualsiasi rilievo ai nostri occhi, cadono nel dimenticatoio delle strade senza uscita, e l'unico percorso storico verificatosi finisce per assumere contorni di necessità e di inevitabilità che non meriterebbe realmente. Riprendendo un ottimo esempio raccontato da Nassim Nicholas Taleb in Il cigno nero. Come l'improbabile governa la nostra vita, se uno zelante funzionario poi dimenticato avesse imposto alle compagnie aeree americane di blindare le cabine di pilotaggio con porte antiproiettile e antisfondamento, non ci sarebbe stato l'11 settembre 2001. Ma proprio perché non ci sarebbe stato l'11 settembre nessuno si ricorderebbe di quell'eroe solitario, il quale probabilmente sarebbe stato licenziato e tacciato dalle lobby del mercato di essere un burocrate rompiscatole (Taleb, 2007a).

Ora capiamo perché il dialogo fra Darwin e Asa Gray sul potere delle leggi e sul potere dei dettagli, riflessosi poeticamente nell'incontro fra Nora Barlow e Laura FitzRoy molto tempo dopo, è così importante. Quando il naturalista inglese scrisse al suo amico botanico, il 22 maggio 1860, ammise, forse per schermirsi come al solito, di essere confuso: "Non che questo concetto mi soddisfi del tutto. Sento nel più intimò dime che l'intera materia è troppo profonda per l'intelletto umano. Un cane potrebbe allo stesso modo speculare sulla mente di Newton". Forse aveva ragione, tanto che le forze del caso e le forze della necessità non hanno mai smesso di fronteggiarsi anche fra gli evoluzionisti. Dall'impossibilità che le une sopravanzino una volta per tutte le altre è nato tuttavia nella scienza un ibrido che non è una via di mezzo, né un'attenuazione reciproca fra i due principi. E' qualcosa di diverso, che si sottrae alla dicotomia e che chiamiamo contingenza. Certo, il grado di influenza che un dettaglio storico può avere su un percorso evolutivo dipende dalla scala alla quale lo osserviamo: ciò che a una grana fine ci appare contingente può invece appartenere a un pattern più ampio di regolarità; o viceversa, ciò che in una storia locale dipende da una regolarità stringente potrebbe inserirsi poi in un quadro ecologico generale fortemente contingente. Detto ciò, l'ultima parola spetta comunque alla storia, e al nostro modo di raccontarla. Come scrisse Sir Arthur Conan Doyle in Il segno dei quattro (1890), "escluso l'impossibile, tutto ciò che resta, per quanto improbabile, è pur sempre la verità".

DUE "NONOSTANTE" MOLTO IMPEGNATIVI

Contingenza allora non è sinonimo né di "puro caso", anche se i due concetti sono piuttosto vicini e li si può talvolta confondere, né tantomeno di impossibilità di spiegare e di comprendere il processo storico. La contingenza non contraddice il fatto che la selezione naturale sia il motore di fondo dell'evoluzione. Non contravviene ad alcuna legge fisica e non esclude alcuno dei molteplici meccanismi di base dell'evoluzione. È dunque errato associare la contingenza evolutiva all'idea che il successo o l'insuccesso nella lotta per la sopravvivenza siano dovuti al puro caso insensato, da intendersi quale opposto dell'adattamento funzionale, come sostenne nel 1995 il filosofo Daniel Dennett in un'acre e mal posta polemica con Gould. Se un evento accidentale può dare avvio a nuovi taxa e cambiare il volto della storia naturale e se i prodotti dell'evoluzione dipendono sensibilmente dalla variazione di una o più condizioni iniziali a un certo tempo, allora significa che il processo è intrinsecamente imprevedibile e irripetibile, benché ciò non escluda che l'intero processo sia retrospettivamente intelligibile. La contingenza è dunque meno implicata con il "puro caso" di quanto non sembri, ed è semmai più imparentata con il significato di fondo di ciò che noi chiamiamo, semplicemente, "storia".

L'intelligibilità di un processo storico si ottiene attraverso la comparazione e la concordanza di dati eterogenei, attraverso inferenze verso la spiegazione migliore (Okasha, 2002) e attraverso l'individuazione, quando va bene, di schemi ricorrenti e pattern sottesi. La contingenza è la scienza del dettaglio e come tale possiede sia un'accezione epistemologica, che dipende dalle nostre capacità di osservazione (cioè l'imprevedibilità della traiettoria evolutiva), sia un'accezione ontologica, che dipende dalla natura del processo evolutivo (cioè un insieme di interrelazioni causali eterogenee nelle quali il singolo evento può essere dirimente per il risultato finale). Certo, entrambe le accezioni sono esposte all'obiezione classica del dio onnisciente: è soltanto perché non conosciamo tutte le singole cause delle mutazioni che le definiamo casuali; è soltanto perché non conosciamo in modo infinitamente preciso tutte le catene causali che i loro intrecci ci sembrano fortuiti; è soltanto perché non conosciamo esattamente i dettagli di ogni discendenza di cause ed effetti che il singolo evento deragliatore ci sembra aleatorio. Ma il test del dio onnisciente gode dello stesso grado di inutilità convenzionale del test del film della vita.

Noi non siamo onniscienti e non abbiamo la macchina del tempo: nonostante ciò, siamo interessati a capire perché la storia naturale è andata in un certo modo. La teoria dell'evoluzione ci soccorre e ci offre risposte esaurienti, per quanto incomplete come è normale che sia nella scienza. Da queste si evince che la selezione non è un ingegnere ideale impegnato in un lavoro di "ricerca e sviluppo" di soluzioni ottimali, bensì, per restare nell'ambito delle metafore antropomorfiche, un artigiano ingegnoso che fa quello che può con il materiale a disposizione (Jacob, 1978) e trova di volta in volta compromessi accettabili ed economici con gli altri fattori di cambiamento, finché uno smottamento esterno non cambia di nuovo le regole del gioco. L'evoluzione non segue dunque ascese sconfinate per raggiungere picchi di massima efficienza, ma si addentra nei mille rivoli e meandri del fiume della contingenza.

Se nonostante tutto ciò, ed è un "nonostante" alquanto impegnativo, intendiamo sostenere che nella storia naturale si nasconde una necessità, o una direzione - o una "freccia del tempo" sotto le mentite spoglie di "tendenze" - allora dobbiamo trovare elementi che mostrino come l'esito attuale fosse in qualche modo privilegiato fra gli altri, fosse più probabile, in quanto sospinto da una logica interna dell'evoluzione. Se poi ancora - ed è un "nonostante" questa volta temerario - intendiamo sostenere che nella storia naturale si nasconde non solo una necessità ma anche una finalità, dobbiamo trovare elementi che mostrino come il suo esito attuale fosse non soltanto l'unico possibile, ma addirittura il fine ultimo del processo stesso. Dobbiamo cioè dimostrare che il presente realizzato ha causato il processo stesso, attirandolo a sé fin dall'inizio. In entrambi i casi, cruda necessità o finalità intenzionale, l'onere della prova spetta a chi le ipotizza. Ed è qui che ogni "teleologia evoluzionistica" si scontra con la dura realtà delle evidenze in nostro possesso. Evidenze che testimoniano, oltre ogni ragionevole dubbio, del carattere radicalmente contingente della storia naturale che ha portato fino a noi e della vertiginosa sequenza di biforcazioni, di catastrofi, di estinzioni, di perturbazioni e di deviazioni che hanno plasmato il corso dell'evoluzione.

LA PRIMA LEGGE DELLA BIOLOGIA?

Eppure, l'idea di scalfire la contingenza individuando leggi di natura invarianti sotto le quali sussumere il disordine centrifugo della storia sembra esercitare un'attrazione irresistibile anche sulle menti dei biologi. La pubblicazione di Biology's First Law, del paleobiologo Daniel McShea e del filosofo della scienza Robert Brandon, nel 2010 ha riaperto in filosofia della biologia il dibattito su evoluzione e progresso. Secondo gli autori, la crescita della complessità nei sistemi biologici a ogni livello sarebbe una tendenza universale, un principio unificante di fondo, sempre prevalente in assenza di altri vincoli o influenze. La tesi riprende un vecchio cavallo di battaglia di Richard Dawkins, secondo il quale dando troppa importanza alla contingenza si finisce per non considerare abbastanza la crescita della complessità di adattamento degli organismi nel corso del tempo, una vera e propria freccia del tempo puntata verso la "complessità adattativa crescente". La vita oggi ha raggiunto livelli di complessità incomparabili rispetto a quelli di decine di milioni di anni fa e può dunque essere definita a tutti gli effetti come un progresso cumulativo. Nonostante la contingenza storica.

L'affermazione di per sé è intuitiva e convincente. Difficile negare che nell'evoluzione siano continuamente emerse forme più "complesse", dalle noie primordiali di stromatoliti e alghe azzurre allo scatto di un ghepardo in caccia. Inoltre, l'evoluzione stessa evolve: dagli inizi a oggi si sono innescati a più riprese nuovi meccanismi di cambiamento (dal differenziamento cellulare alla simbiogenesi, alla riproduzione sessuale), che hanno prodotto grandi transizioni (Maynard Smith, Szathmàry, 1998). Ciò significa che i vincoli di complessità evolvono insieme alla vita, producendo a loro volta nuove possibilità evolutive. Tuttavia, definire proprietà elusive come la "complessità" rischia di non essere affatto facile.

Per McShea e Brandon basta misurare il numero e il grado di differenziazione delle parti che compongono un qualsiasi sistema biologico, sia esso una specie o un individuo: la diversità delle parti del livello inferiore misura la complessità del livello superiore adiacente. Dawkins propose di utilizzare invece la definizione algoritmica di complessità del matematico Greg J. Chaitin: con essa intendiamo la lunghezza della descrizione formale di una struttura organica. La definizione è elegante, ma che dire delle relazioni, specializzazioni e funzioni delle parti, cioè della loro organizzazione? E poi con quale grado di dettaglio della descrizione possiamo comparare fra loro organismi diversissimi come un batterio e un mammifero? La proprietà generale di "adattatività", la sintonizzazione crescente fra specie e ambienti, è troppo astratta. Se ci limitiamo poi a misurare l'adeguamento progressivo degli organismi alle loro nicchie ecologiche, dimentichiamo che fra i due soggetti vi è un rapporto di reciproca influenza attiva: gli organismi contribuiscono a "costruire le nicchie" da cui pure dipendono.

Altri studiosi preferiscono infatti criteri di complessità più realistici ma meno quantificabili, come il grado di relativa autonomia dall'ambiente, la vita sociale, il repertorio di opzioni comportamentali, la plasticità fenotipica. Altri ancora guardano a proprietà come la longevità, la lunghezza dei genomi, la densità di informazione in essi contenuta. Nessuno di questi criteri però è del tutto soddisfacente e immune da arbitrarietà. Quanto all'"intelligenza", sì, ma poi finiamo sempre per usare la nostra come metro di paragone. Se come pare la complessità è una caratteristica delle nostre descrizioni del mondo piuttosto che del mondo in quanto tale, l'antropocentrismo è sempre in agguato.

Il punto controverso è che questa presunta progressività dell'evoluzione sarebbe il risultato della comparsa di "progetti" organici sempre più perfetti per opera della signora delle migliorie, la selezione naturale, e delle sue "corse agli armamenti". Le evidenze di questa escalation competitiva fra lignaggi genetici non sono però così convincenti. Come abbiamo visto già nel Cambriano, l'equazione secondo cui più antico equivarrebbe a meno complesso e meno diversificato è piena di eccezioni, proprio perché i fattori evolutivi influenti hanno agito in modo da produrre organismi complessi in tempi precoci, o viceversa hanno conservato per centinaia di milioni di anni soluzioni di sopravvivenza semplici e robuste. La grande maggioranza della biomassa terrestre è data da organismi unicellulari, resistenti alle condizioni più estreme, adattatisi a ogni anfratto ecosistemico. Su altri pianeti oggi cerchiamo qualcosa di simile a questi archeobatteri, non alieni complessi.

I cicli di autoregolazione della biosfera dipendono da protagonisti silenziosi inchiodati allo stadio minimo di "progresso": la loro estinzione metterebbe a repentaglio la sopravvivenza dell'intera schiera di organismi complessi. Viceversa, se noi scomparissimo, loro non se ne accorgerebbero neppure. Non solo, la diffusione di processi simbiotici nell'economia della natura mostra che spesso a trarre vantaggio è chi si associa e perde funzioni, non chi ne acquisisce di nuove. Homo sapiens stesso, ultimo ramoscello di un cespuglio un tempo lussureggiante, è la riprova che, come abbiamo visto, non vi è stata alcuna freccia del tempo puntata verso la diversità crescente. Basta allargare un po' lo sguardo e quel ramoscello animale finisce alla periferia di un albero che contiene decine di specie di primati, migliaia di mammiferi, per non dire di un mezzo milione di coleotteri.

L'argomentazione di McShea e Brandon è che, se lasciata a se stessa, cioè senza considerare fattori cruciali come selezione e vincoli strutturali, l'evoluzione accumula mutazioni neutrali e varianti casuali: produce insomma spontaneamente diversità e dunque complessità. L'esercizio appare piuttosto astratto, visto che quei fattori cruciali esistono e sono al cuore del processo evolutivo. Le "tendenze", inoltre, potrebbero essere l'illusione cognitiva di una delle tante storie possibili che si è realizzata: astrazione per astrazione, nessuno può escludere che se riavvolgessimo il film della vita un'estinzione di massa o altri eventi contingenti potrebbero recludere per miliardi di anni i viventi nelle condizioni di rude "semplicità" in cui si svolgono, per esempio, le immani competizioni fra batteri e virus batterici negli abissi. Inoltre, essendo il vincolo di complessità minima un muro invalicabile (più semplici di tanto non si può diventare), è chiaro che più il tempo passa più l'evoluzione sperimenterà occasionalmente nuove soluzioni, più si allargherà lo spettro della variazione e più si realizzeranno a lungo andare strutture più complesse: una "coda" statistica di apparente complessità crescente che non richiede alcuna legge direzionale.

IL POSSIBILE ADIACENTE

Ingaggiare il passato per giustificare il presente è una delle nostre tentazioni preferite per addomesticare lo spettro del caso. Così, appena escono ipotesi come quella pur rigorosa di McShea e Brandon si accende nei commentatori un'attenzione insolita. Anche tralasciando i trucchi retorici di chi evoca "complessità irriducibili", ben presto si assiste in molti osservatori a un doppiamente infondato salto logico: dal dato di fatto della crescita della complessità (ammesso che si decida cosa sia) si arriva all'ipotesi circa l'esistenza di una "tendenza" necessaria nell'evoluzione; poi, da questa presunta "direzione" intrinseca ci si sporge pericolosamente verso finalità e piani preordinati. Ma dalla supposta crescita di qualcosa di non ben definito a un "progetto intelligente" il passo è enorme.

Qualche volta lo scivolone filosofico tradisce anche gli scienziati. Il paleontologo Conway Morris, uno degli "eroi" della saga di Burgess narrata da Gould, inizialmente era stato attratto dall'idea di immaginare controfuturi alternativi, simulando per esempio il destino della biosfera se a Burgess Shale anziché il phylum degli anellidi (oggi dominante in mare con i policheti, ma anche nelle terre umide con i lombrichi) fosse prevalso quella dei priapulidi, vermi scavatori dotati di proboscide, oggi relegati in nicchie inospitali e minoritarie ma al tempo di Burgess il gruppo più numeroso e specializzato, rintanati ovunque nel terreno come la Ottoia prolifica che ingoiava intere le sue prede. Negli anni Novanta Conway Morris ribaltò completamente ciò che aveva scritto fino al 1989 e iniziò i suoi tentativi, raccontati in The Crucible of Creation del 1998, di ricondurre la filogenesi dei primi animali, in chiave gradualista e progressionista, a forme precedenti e seguenti, in alcuni casi anche con successo. Negando il senso di fondo di tutto ciò che aveva scritto precedentemente su Burgess e rivedendo molte delle sue attribuzioni tassonomiche, Conway Morris rilesse l'intera storia dello scavo come una costruzione di piani anatomici ottimali, dando un peso preponderante all'idea di "convergenza" funzionale: esisterebbero cioè complessi adattativi ottimali, come i sistemi di visione, che non possono essere sorti per motivi contingenti, ma per un'evoluzione parallela spinta da stringenti ragioni adattative uguali per ogni creatura vivente. Gli ambienti pongono i problemi e gli organismi ritrovano sempre le stesse soluzioni. Una brusca inversione di marcia: la contingenza soppiantata da un grande ingegnere.

Illustri paleontologi come Michael J. Benton e Peter Ward invitano però alla cautela. Il peso delle convergenze adattative potrebbe essere esagerato dal fatto che non conosciamo una base genetica "omologa": ci sembrano convergenze a partire da rami distinti, ma in realtà sono il frutto di una discendenza comune ancora sedimentata nelle strutture e nei genomi, in particolare nei vincoli genetici dello sviluppo. Le ali di pipistrelli, uccelli e pterodattili sono sì convergenti, ma tutte derivano dalla struttura ancestrale degli arti superiori dei vertebrati terrestri. Le convergenze poi potrebbero essere sovrastimate a causa del fatto che non quantifichiamo tutti i casi in cui, pur a parità di condizioni, esse non si verificano affatto. Rischiamo cioè di sottovalutare tutte le volte in cui avrebbero potuto svilupparsi e non è successo.

I denti a sciabola si sono formati parallelamente in grandi rettili, in mammiferi marsupiali e in mammiferi placentati, ma quante volte non si sono formati in condizioni analoghe? Le convergenze fra marsupiali e placentati sono così belle ed esemplari da figurare meritoriamente in ogni manuale, ma quante volte hanno prevalso invece l'unicità e la differenza? Perché non ci sono erbivori di grossa taglia che saltano come canguri al di fuori dell'Australia? Riemerge così quello che potrebbe essere un altro falso prospettico generato nella nostra mente (anche di scienziati) dall'illusione consolatoria del progresso. Vogliamo fortemente credere in quelle convergenze, perché restituiscono un senso di necessità alla storia che ha portato fin qui. Una necessità inscritta nell'idea secondo cui l'ambiente pone i problemi e gli organismi li risolvono in modo simile, ovunque e quantunque.

In un libro molto discusso del 2003, Life's Solution, Conway Morris decise di rivendicare polemicamente la sua "eterodossia" con tutto lo zelo della recente conversione e schiacciò l'acceleratore fino a leggere nelle convergenze adattative in parallelo gli indizi addirittura di una "teologia evoluzionistica": l'evoluzione torna spesso sui suoi passi, naviga sempre verso le stesse soluzioni e ha poche opzioni di scelta; le analogie funzionali sono ubiquitarie, dunque esisterebbe "una struttura più profonda nella vita". Datele il giusto tempo e l'evoluzione presto o tardi manifesterà le sue "proprietà inerenti": i sistemi percettivi e l'intelligenza emergerebbero più o meno identici anche se fossimo su un altro pianeta. Ripetete il film della vita e ritroverete comunque, alla fine, noi, gli "inevitabili umani". Secondo il paleontologo di Cambridge - ansioso di trovare "un terreno comune fra scienze e religioni" - nell'evoluzione vi sarebbe allora un disegno globale, uno scopo, "scritto nelle leggi stesse dell'Universo", come ha prontamente chiosato l'astrofisico Paul Davies in cerca di alleati per il suo malfermo "principio antropico".

La complessità e la bellezza della vita di per sé "non presuppongono né provano l'esistenza di Dio, ma tutto è congruente" con essa (p. 330). L'afflato metafisico di tali affermazioni è rispettabile, ma il rifiuto cognitivo della contingenza fattuale comporta il prezzo, decisamente troppo alto, di abbandonare del tutto ogni evidenza scientifica (anzi, di negarla) e di affidare le proprie argomentazioni a postulati di principio che attingono più ai sistemi di credenze che ai dati di sostanza. Come in chi legge nel dna un significato totemico, o il linguaggio di Dio. La tentazione del finalismo pervade dunque anche le menti degli scienziati. Come amava ripetere J.B.S. Haldane, vulcanico biologo inglese che incontreremo nel nostro epilogo, la teleologia è come un'amante per un biologo: non può vivere senza di lei, ma non desidera essere visto in pubblico insieme a lei.

Affermare che l'evoluzione della coscienza è stato un processo inevitabile e fondare questa assunzione sul concetto di convergenza adattativa è però in palese contraddizione con il fatto che la coscienza umana in quanto tale, in tre miliardi e mezzo di anni di storia della vita, si è evoluta una volta soltanto! In un lasso di tempo enorme, che corrisponde a quasi la metà della durata potenziale della Terra stessa, l'esperimento della coscienza umana rimane, in assenza di evidenze contrarie, unico. E tutto ciò è a maggior ragione in contraddizione con il fatto che c'è mancato un pelo, in più occasioni, perché non si evolvesse per niente. Usare come esempio di convergenza una singolarità così rara, fra le tante, non ha senso. Da questi sbandamenti interpretativi si nota come la contingenza senza progetto della storia naturale e l'unicità di ogni storia di specie siano i veri ingredienti non ancora metabolizzati della rivoluzione darwiniana. Creano reazioni allergiche nelle nostre menti e scatenano anticorpi cognitivi atavici. Associamo subito unicità e contingenza al "puro caso", ne abbiamo ribrezzo, e le opponiamo al "disegno", ma così facendo saltiamo a piè pari intere stratificazioni di inferenze logiche.

Quando a scrivere la storia sono i vincitori - quali noi indubbiamente siamo, fino a prova contraria - è meglio essere prudenti. Se qualche scampolo di "avanzamento" o di tendenza c'è stato nell'evoluzione, le evidenze dicono che fu quasi sempre transitorio e circoscritto. E poi ricordiamo che se anche vi fosse stata una freccia del tempo puntata sulla complessità crescente, la "necessità" delle sue leggi sarebbe qualcosa di molto diverso da una "finalità" inscritta nell'evoluzione, e questa finalità a sua volta sarebbe qualcosa di molto diverso da un "disegno intelligente". Anche un teorico della complessità biologica come Stuart Kauffman, nei risultati a cui giunge in Esplorazioni evolutive del 2000, ha colto il pericolo di questi scivolamenti e si è portato piuttosto lontano da quelle leggi atemporali della "complessità autorganizzata", tanto necessitanti e astratte da rendere l'evoluzione naturale, come in A casa nell'universo (1995), un fenomeno di mera realizzazione di un'inevitabile espansione.

Esistevano sì, secondo il "primo" Kauffman, percorsi storici contingenti, ma a lungo andare essi venivano riassorbiti da un ordine statistico ripetitivo, da leggi di autorganizzazione così predittive da permettere di affermare che noi esseri coscienti eravamo "previsti" nella grande logica dell'evoluzione: eravamo "a casa nell'universo". La svolta rispetto a questa concezione porta anche in Kauffman il nome di storia e poggia come in Gould sulla nozione di exaptation. Proponendo una suggestiva generalizzazione del principio, Kauffman nota che se strutture già formate, con o senza una funzioni, diventano effetti collaterali, adottando una nuova funzione che si tradurrà potenzialmente in altri effetti, e così via, allora significa che funzioni ed effetti si propagano esponenzialmente: la funzione di una parte di un organismo è un sottoinsieme delle sue conseguenze causali. Tali conseguenze causali a cascata dipendono da ciascun contesto in cui la parte viene a trovarsi. Pertanto, ciascun "accidente congelato" (una struttura attuale funzionante) rappresenta un punto di potenziale propagazione di effetti, alcuni dei quali diventeranno a loro volta "accidenti congelati".

Se è così, non è possibile definire anticipatamente tutte le possibili conseguenze causali di tratti di organismi che potrebbero, in una circostanza contingente come in un'altra, trasformarsi in exaptation ed essere quindi selezionati. Le conseguenze causali "exattative", dipendenti dal contesto, di tutte le componenti di tutti i possibili organismi costituiscono un insieme non dominabile da alcun modello predittivo. Dunque, l'emergenza di una struttura exattata rappresenta un'esplorazione nello spazio delle funzioni possibili che non è estrapolabile dalla configurazione precedente. La difficoltà è intrinseca, non dovuta a difetto di conoscenza: se anche conoscessimo perfettamente la configurazione precedente, lo spazio delle possibili configurazioni derivabili non sarebbe dominabile. La biosfera si propaga in modo exattativo, esplorando quello che Kauffman definisce il "possibile adiacente", cioè l'insieme degli stati potenziali di una biosfera che distano un solo passo da ciò che di volta in volta è reale: uno spazio immenso nel quale naufraghiamo continuando a esplorare nuove possibilità, liberi finalmente dall'ansia di avere un padre-universo che aveva già previsto tutto.

UN PASSATO APERTO, UN FUTURO INDOMABILE

La contingenza è dunque una filosofia della storia che poggia direttamente sulle evidenze evoluzionistiche più aggiornate a nostra disposizione. Per negarla dobbiamo o rinunciare al riferimento alla scienza come vincolo fattuale per le nostre riflessioni filosofiche o rinunciare al naturalismo e affermare che le nostre filosofie stanno in una dimensione totalmente "altra" che prescinde da ogni aggancio con la realtà e con la natura. La contingenza però si basa sul passato, e in particolare sul suo tempo profondo, mentre per molti l'evoluzione è interessante se sa dirci qualcosa anche sul futuro del pianeta e della nostra specie in esso. Se non proprio sul futuro remoto, almeno sul nostro "possibile adiacente". Per alcuni parlare del futuro significa tuffarsi in una fantascienza un po' ansiogena, per altri, la maggioranza, è un'attrazione fatale. Tutti gli evoluzionisti sanno che al termine di una conferenza non mancherà mai una domanda sul futuro della specie umana: bene grazie, questo è successo nei nostri primi 200mila anni, ma quale futuro ci attende?

Di per sé l'ambizione è ragionevole: fa parte dell'intelligenza adattativa tentare di predire le mosse degli altri, calcolare gli effetti delle nostre azioni, scandagliare insomma le dinamiche di ciò che ancora non è. L'esercizio tuttavia è ardimentoso, perché si può slittare dalla congettura argomentata all'azzardo visionario. La predizione rischiosa di uno scienziato, basata su dati e inferenze, non ha nulla a che vedere con una profezia. Elaborare modelli che individuino tendenze in atto, proiettandole poi con accortezza sul futuro, è diverso dal fissare date precise per epocali eventi che ci attenderebbero, quasi fossero come il ritorno di una cometa.

Per esempio, è proprio vero che la nostra vetusta evoluzione biologica si sta esaurendo e verrà presto sostituita da una tumultuosa rivoluzione tecnologica permanente? Il geniale inventore e innovatore americano Ray Kurzweil non ha dubbi al riguardo ed è convinto che fra 25 anni una "singolarità" farà voltare pagina all'umanità, quando Homo sapiens saprà alfine "trascendere" la propria biologia e riprodurre la sua intelligenza in un supercomputer (2005). Rovesciando il vecchio incubo antievoluzionista di Samuel Butler sulla cospirazione delle macchine che decidono di fare a meno degli umani, il film prevede che le intelligenze non biologiche eguaglieranno e supereranno quelle umane, le quali tuttavia le ingloberanno sotto forma di nanorobot e di chip innestati nei cervelli, fino alla completa fusione progettuale di naturale e artificiale. Una grande rete computazionale unirà cervelli, corpi e ambiente, al punto che problemi globali come inquinamento e povertà, nonché l'invecchiamento, saranno risolti per via informatica e potremo mescolare i nostri sensi e piaceri in mondi virtuali promiscui.

L'ipotesi, in sostanza, è che l'avanzamento delle tecnologie procederà ancora in modo accelerato e non lineare, esponendo l'umanità a sfide cognitive ed emotive del tutto inedite. Nella Silicon Valley è nata persino una "Singularity University", con la collaborazione della nasa e di Google, per formare i leader del progresso e gli esperti di convivenza con le macchine. Nel 2025 secondo Kurzweil avremo un modello dell'intero cervello umano connessione per connessione, ciascuno potrà avere una copia di back-up del proprio su un substrato computazionale e comunicare direttamente con altri cervelli. Se poi questo sarà sempre un bene, pensando a cosa deve contenere il cervello di alcuni illustri esponenti della nostra specie, lo lasciamo decidere ai posteri.

Affinché tutto ciò si realizzi occorre sperare che alcuni dettagli marginali - come le concentrazioni di potere, i conflitti geopolitici, le disuguaglianze sociali, la finitezza delle risorse ambientali (e di quelle razionali) - non esercitino troppo la loro influenza. Eppure, è proprio questa insofferenza verso i limiti che ci ha portato ogni volta al di là della collina. Difficile farne a meno. Gli esercizi di previsione dettagliata del futuro, con date emblematiche che ci attenderebbero, sembrano però avere paradossalmente qualcosa in comune con le concezioni finalistiche della storia passata: l'ansia recondita nei confronti della radicale contingenza degli accadimenti storici e naturali. Trovare una logica al passato, una necessità, per poi imporla a ciò che sarà. Ma se il presente non è una buona chiave di lettura per il passato, forse non lo è neppure per il futuro.

Se ciò che è già stato poteva andare diversamente, se in innumerevoli occasioni un singolo evento ha deviato la locomotiva della storia, se spesso abbiamo raggiunto un certo risultato mentre stavamo cercando tutt'altro, se ogni frutto della storia si riverbera in effetti collaterali, se cioè il passato è stato sempre aperto a molti controfattuali possibili, a maggior ragione il futuro è indomabile e imprevedibile. Proprio la non linearità delle relazioni fra evoluzione biologica ed evoluzione culturale esalta la pervasività della contingenza e ne fa una protagonista di ciò che ci attende, come diremo in chiusura. I prossimi "possibili adiacenti" sono al di fuori della nostra portata, nel bene e nel male. E' umano quindi che per reazione si voglia mettere le briglie al futuro, perché ci fa sentire piccoli e provvisori, tanto quanto il tempo remoto di una storia naturale che ci ha portato fin qui come surfisti in bilico sulla cresta di un'onda. Se dietro di noi e davanti a noi si distendono queste due enormità temporali senza destino, significa che la nostra permanenza di specie è sottile quanto l'iridescente pellicola di una bolla di sapone in balia del vento. Molti mondi avrebbero potuto essere e non sono stati.

[…]

5  I sovrani dell’improbabile

Il cammino della storia dunque non è quello di una palla da biliardo, che una volta partita segue una certa traiettoria, ma somiglia al cammino di una nuvola, a quello di chi va bighellonando per le strade, e qui è sviato da un'ombra, là da un gruppo di persone o da uno strano taglio di facciate, e giunge infine in un luogo che non conosceva e dove non desiderava andare. L'andamento della storia è un continuo sbandamento. Il presente è sempre un'ultima casa al margine, che in qualche modo non fa più completamente parte delle case della città.

                                        Robert Musil, L'uomo senza qualità, 1930, pp. 349-350

Le controversie scaturite dalla scoperta della radicale contingenza della storia evolutiva si svolgono spesso in una modalità stranamente asimmetrica: i sostenitori di pensieri dogmatici nascondono le loro debolezze argomentative dietro il paravento di petizioni di principio e di false categorie dialettiche, muovendo in anticipo le loro pedine all'attacco degli avversari, mentre chi preferisce attenersi a una valutazione rigorosa di quanto attestano le conoscenze scientifiche gioca lo scambio sulla difensiva pur avendo in mano le migliori carte da spendere. Eppure basterebbe applicare la logica. Perché mai dovrebbe avere più "senso" una storia dove tutto sta scritto fin dall'inizio, dove non possiamo partecipare come reali soggetti autonomi ma solo essere spettatori adoranti, dove il contrario di un evento realizzatosi era impensabile e contraddittorio? E non dovrebbe invece avere più "senso" una storia che si snoda mentre succede, una storia dove nessuno sa mai dove andrà a infilarsi una vicenda apparentemente insignificante, una storia contingente e libera che cresce insieme ai suoi stessi protagonisti? Ha più "senso" una storia prevedibile, schiacciata sotto le travi pericolanti della necessità, o una storia all'insegna della possibilità, una storia, come scrive Robert Musil, capace grazie ai suoi sbandamenti di portarci in luoghi che non conoscevamo e finanche in territori stupefacenti dove non desideravamo andare?

AI LIMITI ESTREMI DELLA BIOLOGIA

Senz'altro la minaccia di insensatezza scaturisce non soltanto dal riparo psicologico della necessità, ma anche dall'eterno problema del male in natura, cioè dei mezzi intermedi di morte, di sofferenza, di spreco, di imperfezione e di crudeltà attraverso i quali l'evoluzione ci ha condotto fin qui. I perversi, nichilistici icneumonidi di Darwin - del Darwin Giacobbe "che ha lottato con Dio e ce l'ha fatta", del Darwin Giobbe che voleva capire la realtà del male e contrapporre a Dio le sue ragioni (Luzzatto, 2008) - annunciano un messaggio all'apparenza senza scampo: tutti gli esseri viventi hanno un'esistenza imperfetta e limitata, e ciò vale anche per le specie, compresa la nostra, per i pianeti abitati, per i sistemi solari, per le galassie. Fra cinque miliardi di anni il Sole si espanderà come una gigante rossa, inghiottendo la teoria di pianeti che gli ruotano attorno. Allora la nostra galassia avrà cominciato a collidere con quella di Andromeda, in una danza cosmica di stelle e di urti gravitazionali, di ceneri fredde e di nebulose, che durerà milioni di anni e alla quale forse nessun umano assisterà.

Già ora abitiamo su un magnifico sasso vagante alla periferia della Via Lattea, schiacciati fra il gelido vuoto dello spazio esterno sopra di noi e colossali mantelli di magma incandescente sotto di noi, lì a metà, in bilico sopra zattere continentali in movimento e sotto una sottile striscia di atmosfera. In questa pellicola di gas instabili il 99% delle specie esistite nella storia naturale si sono già estinte e fanno parte dei cataloghi museali di un passato che non tornerà mai più. E ci stupiamo pure se in queste condizioni non sappiamo prevedere una calamità. La valutazione definitiva di quanto saremo "progrediti" spetterà a chi verrà dopo di noi: quando, appunto, non ci saremo più e dunque il nostro "illimitato progresso" sarà già stato smentito dai fatti. Senza contare che nell'evoluzione vige una beffarda asimmetria: noi abbiamo bisogno della natura e dei servizi ecosistemici per sopravvivere, anche se spesso ce lo dimentichiamo, mentre per la natura l'esistenza di un bipede che guarda la televisione è francamente superflua.

Certo, noi siamo una specie giovane, comparsa in Africa orientale intorno a 200mila anni fa, e il nostro successo adattativo lascia ben sperare per una possibile sopravvivenza di almeno qualche risicato millennio ancora. Eppure, siamo anche la prima specie in grado di porre fine in un istante, per via tecnologica, al proprio transito terreno. Basterebbe far esplodere una minima percentuale dell'arsenale nucleare in dotazione oppure perdere il controllo di un'arma biologica di distruzione di massa. E c'è da scommettere che se lo faremo, l'umanità successiva ricorderà con sgomento che lo abbiamo fatto per futili motivi.

Noi però, così terribili e sublimi talvolta, e per il resto soltanto banalmente autocompiaciuti, noi compulsivi clienti di centri commerciali siamo sempre pronti a calare un'altra carta di fronte agli scenari angosciosi del tempo profondo: quella della nostra unicità; suvvia, della nostra eccezionalità. I rischi acuiranno l'ingegno e in un modo o nell'altro ce la caveremo, si dice. Anche se i criteri per dare sostanza discreta alla specificità umana - quelli per cui "gli scimpanzé no, metre noi sì" - si sono sempre più assottigliati negli ultimi decenni di ricerche comparative, qualche prerogativa esclusiva non rinunciamo ad assegnarcela. Per esempio, noi siamo quell'animale parlante che sopperisce alla perduta tirannia degli istinti attraverso l'istituzione di norme morali e sociali che garantiscano la sopravvivenza.

In questo passaggio ai limiti estremi della biologia si cristallizza un'apparente contraddizione che, se correttamente dipanata, nasconde in realtà una pluralità feconda di idee che anche le scienze sperimentali, per altre vie, stanno approfondendo in questi anni. Il paradosso è presto detto: da una parte argomentiamo, correttamente, che la natura per l'essere umano non può fungere da criterio normativo e che l'unico imperativo naturale a cui soggiace la condizione umana è quello di darsi una norma che funzioni indipendentemente dal suo contenuto, o se vogliamo di imporre a se stessi, come scriveva Jacques Monod, "un'etica della conoscenza" in mezzo alla solitudine indifferente dell'Universo (1970); d'altra parte affermiamo, altrettanto correttamente, che la lucidità dell'umano disincanto è una conquista faticosa e recente dell'evoluzione e che la scelta consapevole e matura di un'etica argomentata - di contro a un'etica dogmatica fondata sulla dura pietra di autorità terrene o divine - è un'opzione "contro natura". L'uguaglianza di ogni essere umano e il dialogo razionale fra pari sono ben difficilmente concepibili come "valori naturali", e sembrano a tutti gli effetti costituire "l'eccezione" della storia di Homo sapiens. Dunque la natura, alla quale poco prima abbiamo attribuito l'esclusiva competenza di garantirci per necessità una norma purchessia, diventa subito dopo un criterio, per quanto negativo, di differenziazione fra etiche moderne dell'autonomia ed etiche dell'autorità, vestigia di un passato "arcaico".

Se i termini del conflitto fra istinti primitivi e capacità di emancipazione sono questi, ciò significa che la specie umana gode di una prerogativa paradossale: quella di essere interamente figlia di un processo evolutivo naturale, ma di avere imparato a "contestarlo" con i suoi stessi mezzi. Senza riuscirci, peraltro, perché i retaggi evolutivi non si arrendono facilmente. La natura ci impone di avere una norma purchessia e noi (quando ci va bene) decidiamo razionalmente - cioè grazie a uno dei migliori ritrovati che l'evoluzione ci ha lasciato - di adottare valori innaturali, non spontanei, impegnativi, persino controintuitivi (Flores d'Arcais, 2008). Abbiamo concepito l'uguaglianza universale degli esseri umani e scritto la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo. E il medesimo paradosso che ci fa essere i protagonisti di una folgorante evoluzione culturale e tecnologica (il primate glabro che in Europa 3Omila anni fa armeggiava con i bastoni oggi guida un'astronave) senza con ciò aver smesso di essere un cugino stretto degli scimpanzé, dai quali ci separa una manciata di cambiamenti accumulatisi in sei milioni di anni nelle regolazioni geniche (Bradley, 2008).

E dunque tempo di uscire dal fraintendimento secondo cui una naturalizzazione, senza sconti, dell'identità umana significherebbe una "riduzione" della sua multidimensionalità e uno svilimento della sua ricchezza. Lo spazio di un "naturalismo liberale" è sufficientemente ampio per contenere una pluralità di forme di comprensione del fenomeno umano, che siano rigorosamente compatibili con i dati sperimentali ma non interamente riducibili a essi (McDowell in De Caro, Macarthur, 2004). Si garantisce così l'autonomia di saperi umanistici che - argomentando ragioni, valori e significati - dialoghino con i risultati scientifici, nel contesto di un naturalismo evoluzionistico compiuto, che rifiuta cioè il ricorso a entità soprannaturali o a dualismi ontologici. Al contrario, è proprio la fuga in essenze totalizzanti - mondane o ultramondane che siano, ma pur sempre incuranti delle conoscenze scientifiche - a trasformare l'identità umana in un fantasma esangue, in un pupazzo senza storia, preda di autoproclamate necessità.

IL GIARDINO DI HUILEY

Il quadro allora si avviluppa. È vero, in natura esistono solo fatti, non norme. Lì non c'è il dover-essere, il bene e il male. Lì c'è l'essere, la nuda realtà contraddittoria di una natura dove convivono crudeltà e altruismo, cooperazione e competizione, violenza e attaccamento. Eppure, non possiamo negare che il dover-essere cambi nel tempo e che la sua evoluzione sia stata spesso influenzata dall'essere, cioè da ciò che abbiamo imparato a capire del funzionamento del mondo naturale. I fatti condizionano le norme, e viceversa. Le scoperte scientifiche, qualche volta, dettano persino l'agenda della riflessione etica. Prima dell'anestesia, dei vaccini e delle diagnosi genetiche precoci nemmeno esistevano, né erano immaginabili, scrupoli morali che oggi consideriamo irrinunciabili. Viceversa, la scienza stessa non è certo un algoritmo sterilizzato, come ancora talvolta è dipinta, bensì un intreccio di fatti, teorie e giudizi di valore che evolve insieme ai dati che raccoglie e alle questioni filosofiche che solleva.

Liberiamo allora il campo da un ingombro filosofico inutile: usare le categorie di naturale e di innaturale è un passo falso che innesca errori epistemologici a catena, perché ormai i nostri comportamenti e i nostri mezzi sono un impasto inestricabile di biologia e di cultura, di fisiologia ereditata e di artificio. Non saremmo umani se non avessimo fin dall'inizio perturbato la natura, anche solo per conoscerla meglio. L'uso nostalgico della categoria di "naturale" e di "biologico" spazia ormai dall'alimentazione alla teologia senza soluzioni di continuità. E' ironico vedere come oggi siano proprio alcuni ecclesiastici appassionati di bioetica i più zelanti sostenitori dell'ipotesi deterministica secondo cui il DNA sarebbe la nostra impronta indelebile di implacabile programmazione biologica fin dalla prima cellula fecondata, una personificazione dello zigote e un'idealizzazione della doppia elica messe in discussione da decenni grazie alla comprensione empirica degli intricati processi e sistemi di sviluppo.

Tuttavia, quel paradosso sembra voler illuminare qualcosa che ancora non conosciamo circa le relazioni che sono intercorse fra l'evoluzione biologica e l'evoluzione culturale in Homo sapiens, specie contraddittoria per antonomasia, preda e predatrice, egoista e altruista, aggressiva e cooperativa: "la natura umana è altrettanto idonea all'antropofagia quanto alla critica della ragion pura" (Musil, 1930, p. 349). La neutralità del mondo naturale ci impedisce di inferire da esso norme di comportamento, eppure qualche decina di migliaia di anni fa quello stesso mondo naturale - grazie a una delle sue più formidabili innovazioni evolutive - è stato capace di generare una specie con un sistema mente-cervello in grado di inventare la cultura, l'arte, la scienza e il giudizio morale. Siamo diventati culturali per via naturale, senza "salti ontologici" o altri miracoli, ma ormai siamo anche sempre più naturali per via culturale: come stanno insieme queste due dimensioni?

Insomma, non possiamo più spingerci fino a ipotizzare che biologia ed evoluzione non condizionino neppure e non abbiano più alcunché da dire sulla norma morale umana. In fondo il giudizio morale (e la sua applicazione) è il frutto della specializzazione o della cooptazione funzionale di alcune aree della corteccia prefrontale, a sua volta il prodotto di alcune centinaia di migliaia di anni di evoluzione ominina. E' a suo modo un'invenzione evolutiva, associata a emozioni e motivazioni, e dunque a finalità e intenzioni, e localizzata in quelle aree dei lobi frontali dove oggi sappiamo risiedere le capacità di previsione, di coordinamento e soprattutto di soluzione di problemi che non sono banalmente meccanici e quantitativi (cioè da calcolare), ma ambigui, sfumati e contingenti, come lo sono i problemi più interessanti della vita relazionale.

Al contempo, in virtù di quel groviglio natural-culturale che siamo, dobbiamo rinunciare all'idea che il substrato biologico determini quella norma, la decisione sociale di adottarla e il giudizio morale che la sostiene. Non vi è una predeterminazione biologica diretta dei contenuti specifici delle norme morali, bensì la produzione indipendente di sistemi morali a partire sia dalle esigenze adattative che hanno contraddistinto la storia della specie umana sia spartire dalle straordinarie capacità del sistema mente-cervello di generare nuova informazione attraverso la cultura. In questo caso i risultati sperimentali più aggiornati ci consegnano un messaggio abbastanza chiaro: gli istinti, se così vogliamo ancora chiamarli, sono meno cogenti, ma lasciano pur sempre il segno.

La nostra mente sembra dotata di condizionamenti adattativi profondi e di un sofisticato equipaggiamento innato di attitudini peculiari, che tuttavia non sono più in grado di indirizzare univocamente i nostri comportamenti. Le condizioni biologiche e neurofisiologiche che consentono lo sviluppo delle capacità di formulare sistemi morali non pregiudicano la libertà e la responsabilità umane nei confronti dei giudizi morali stessi, ma ciò non esclude che esse possano costituire un vincolo ancora rilevante per la loro formazione. Potrebbero per esempio rendere più attraenti, più spontanee, più "facili" certe opzioni anziché altre. Oppure potrebbero spiegare perché siamo così affezionati a soluzioni palesemente irrazionali. La nostra evoluzione biologica e i nostri giudizi morali non sono allora due mondi impermeabili l'uno all'altro: il secondo, per quanto autonomo oggi nelle sue dinamiche culturali, non ha reciso tutti i cordoni con il primo.

Stabilito che non sono incommensurabili, si tratta di capire se i due mondi interagiscano in modo antagonistico o diversamente. Il fatto che il cancro sia un fenomeno purtroppo naturale non ci impedisce di combatterlo con tutte le nostre forze, anzi ci sprona a conoscerlo per quello che è, a non rimuoverlo dietro il paravento di credenze superstiziose e a non giustificarlo come una prova di chissà quale sopportazione edificante. Potremmo ipotizzare che il nostro essere "signori della norma" e il nostro dovere di ribellione contro il male e contro il dolore inflitti dalla natura non siano né un derivato fedele della biologia né, al contrario, una definitiva dichiarazione di indipendenza dalla brutalità naturale, come pensava persino il darwiniano oltre ogni sospetto Thomas H. Huxley, immaginando il suo giardino vittoriano dell'etica umana ben recintato e protetto dalle fiere e dai selvaggi. Forse il nostro è un tentativo di emancipazione incompleto, per quanto meritorio, che mai riuscirà del tutto, un tentativo in cui i vincoli e le predisposizioni naturali si fanno ancora sentire, benché non più insuperabili, e ciò nonostante noi possiamo decidere di darci come imperativo morale quello di negare la ferocia naturale e di essere, in fatto di morale e di politica, "appassionatamente antidarwiniani", come scrive un altro darwiniano oltre ogni sospetto quale Richard Dawkins (2003, p. 9).

Così facendo però, cioè accentuando di nuovo oltre misura le caratteristiche di "discontinuità" della morale umana, rischiamo di ricadere nell'errore di attribuire alla natura valori propri (in questo caso negativi, da estirpare), anziché la neutralità e l'ambiguità radicale che la contraddistinguono nei fatti. Spesso estendiamo infatti l'autonomia della morale fino a concepirla alla stregua di una "trascendenza", come se esistesse un Rubicone insuperabile e ben definito fra il mondo degli esseri morali (noi) e il resto. Più interessante è la tesi continuista recentemente sostenuta da Francisco J. Ayala, che propone una distinzione strettamente evoluzionistica fra, da una parte, la moralità, cioè la capacità umana di avere un senso morale (con tutte le precondizioni naturali che lo permettono), e dall'altra l'espressione di specifiche norme morali (e il giudizio su di esse): la prima a suo avviso è un exaptation dell'intelligenza sociale; la seconda invece il frutto dell'evoluzione culturale a partire dal substrato fornito dalla seconda (Ayala, 2010). Dunque le norme morali sarebbero declinazioni culturali, variabili di società in società, di una capacità biologica di specie, la quale a sua volta è stata "cooptata" da altri adattamenti promossi dalla selezione naturale.

COME TE NON C'È NESSUNO

Darwin stesso, in L'origine dell'uomo, distingue nettamente fra comportamento e giudizio morale sul comportamento. Ma se scoprissimo che frammenti di "ragionamento" morale - inclusi l'imitazione, il senso di reputazione sociale, l'inganno deliberato, la previsione delle intenzioni altrui, la memoria con gratitudine, l'empatia, la reciprocità e l'altruismo incondizionati - esistono anche in altre specie? Non convince tanto la risposta secondo cui gli altri animali avrebbero queste prerogative in nuce, mentre noi le avremmo allo stadio avanzato, poiché non esiste alcun motivo valido per dimostrare che la vita sociale di uno scimpanzé, con i suoi sei milioni di anni di evoluzione distinta dalla nostra, sia rimasta "ferma" dove noi invece saremmo "progrediti", come se l'evoluzione avesse, di nuovo, una scala universale e valoriale di inferiorità-superiorità.

Che esista o meno un organo della morale - chissà se perfettamente forgiato per tale funzione dalla selezione naturale come pensano alcuni, o non invece riadattato artigianalmente da strutture preesistenti evolutesi per tutt'altre ragioni -, ci ritroviamo in un campo di studi che nei decenni passati è stato ingessato in un deludente immobilismo fra culturalisti a oltranza e panselezionisti integrali innamorati delle "storie proprio così" di adattamenti ottimali. Il punto è che la comparsa dei sistemi morali si inscrive nella peculiarità (che è cosa assai diversa da una trascendenza) dell'evoluzione culturale umana (Richerson, Boyd, 2005). Le più recenti acquisizioni della ricerca, soprattutto in ambito genetico e neurobiologico, mostrano come la dicotomia fra empirismo e innatismo si stia gradualmente indebolendo: nella specie umana sono proprio i geni a garantire quella flessibilità di sviluppo che favorisce l'apprendimento e la ricchezza unica della vita esperienziale del singolo.

Noi avremmo dunque una dotazione innata relativa non soltanto al patrimonio genetico ereditato dalla storia di specie, ma anche alla variabilità e alla plasticità che sappiamo esprimere durante l'intero corso della vita individuale. La mente verrebbe così a essere un peculiare prodotto dell'evoluzione, perché eredita una lunga storia di adattamenti dei moduli psicologici ma anche un'eccezionale flessibilità nel produrre in ciascuno di noi i mondi soggettivi, imprevedibili, fallaci (ma per questo anche autenticamente liberi) della cultura, della morale, dell'arte, della politica. Come per il genoma umano, la natura subottimale della mente umana stessa sembra essere il frutto di rimaneggiamenti, di inerzie evolutive, di compromessi fra soluzioni adattative locali e vincoli storici, in buona sostanza di espedienti imperfetti e fortunosi che nonostante tutto hanno funzionato (Marcus, 2008).

Potremmo persino spingerci a pensare che la conquista (filogenetica e ontogenetica) dell'autonomia culturale e morale di ogni essere umano - la "venerabile" libertà kantiana di governare se stessi e di sviluppare la propria identità personale - sia proprio il fulcro di ciò che ci restituiscono le più aggiornate conoscenze scientifiche sulla storia naturale e culturale della mente umana. A dispetto dei determinismi e dei finalismi teologico-naturalistici di moda oggi - che schiacciano l'identità autobiografica reale degli individui sotto il tallone di un'astratta identità biologica "sacralizzata" - forse è proprio la nostra peculiare (ma non speciale) biologia a riaprire i giochi della libertà umana.

Torniamo così al paradosso precedente: espelliamo la natura da una parte, e questa rientra da un'altra. Fissiamo un criterio di unicità, decidiamo che siamo gli unici ad avere le condizioni fisiologiche per rispettarlo e poi, ogni volta, scopriamo che in forme diverse anche qualche nostro parente non umano ne è dotato. Forse allora non è la specificità in sé di sapiens a essere confutata, ma i nostri modi antropocentrici di argomentarla. Potremmo scegliere un'altra strada: è la nostra particolare e contingente storia evolutiva, e niente altro, a renderci non "speciali" ma "unici", proprio come sono uniche a modo loro le altre specie (Ferretti, 2007). L'evoluzione, dopo tutto, è anche innovazione, emergenza contingente dell'inedito. Ne discende una sorta di egualitarismo evoluzionistico della contingenza storica, che non scalfisce la specificità di Homo sapiens ("come noi non c'è nessuno") ma solo la presunta eccezionalità di questa specificità (come i bonobo e gli oranghi, pure, non c'è nessuno).

I TENACI AVVERSARI COGNITIVI DELLA CONTINGENZA

I precursori naturali presenti nelle nostre menti, e in quelle dei cugini più stretti, hanno qualcosa di importante da rivelarci anche sulla contingenza storica, sul nostro modo di concepirla, o di rimuoverla, e su come potremmo invece imparare a farne tesoro. Sappiamo quanto Pascal avesse ragione nel sottolineare l'eterogeneità di precetti morali in contraddizione fra loro presenti non soltanto in religioni diverse, ma spesso anche all'interno della stessa. La diffidenza, se non l'ostilità, verso il diversamente credente o il non credente sembra essere una tentazione costante dell'atteggiamento religioso: nonostante gli appelli all'ecumenismo, continuiamo ad ascoltare i moniti minacciosi di capi confessionali che attribuiscono all'assenza di Dio (del loro particolare Dio) l'impossibilità della cultura, della morale, persino della convivenza civile e della dignità umana. Come abbiamo visto, il finto vittimismo è un sintomo cruciale di questa postura ideologica totalizzante.

Se, come gli studi sull'evoluzione delle credenze evidenziano, nella specie umana il comportamento morale si sviluppa prima e indipendentemente dall'acquisizione di credenze religiose, è alquanto dubbio che queste ultime possano essere un fondamento "necessario" della morale. Non è nemmeno così scontato che la credenza religiosa favorisca automaticamente atteggiamenti prosociali e cooperativi all'interno di un gruppo. Ciò nonostante, sembra proprio che la mente di Homo sapiens sia "nata per credere" in entità intenzionali sovrannaturali e in recondite finalità nascoste dietro i fenomeni naturali (Girot- to, Pievani, Vallortigara, 2008). Dati convergenti provenienti dalla psicologia del pensiero, dall'etologia cognitiva e dalle neuroscienze suggeriscono l'esistenza di una programmazione biologica delle nostre menti per distinguere naturalmente le entità inerti (come gli oggetti fisici) da quelle di natura psicologica (come gli agenti animati) e per l'attribuzione o, in molti casi, l'eccessiva attribuzione di scopi e di intenzioni agli oggetti animati e inanimati. Ciò spiegherebbe l'inclinazione naturale a trovare psicologicamente soddisfacenti le spiegazioni delle nostre origini di tipo animistico o quelle basate sul "disegno", intelligente o divino che dir si voglia.

Non è azzardato ipotizzare che queste nostre specializzazioni adattative possano essere alla base delle perplessità ingiustificate che molti nutrono nei confronti della teoria dell'evoluzione e più in generale delle spiegazioni scientifiche. Lo stesso Charles Darwin era rimasto colpito dall'efficacia comunicativa delle descrizioni finalistiche della natura che aveva letto in gioventù. Quando capì di avere scoperto un meccanismo, la selezione naturale, che rendeva superfluo il ricorso a qualsiasi "progetto" intenzionale per spiegare la nascita e l'evoluzione delle specie - compresa quella umana - fu subito consapevole che in questo modo stava contraddicendo non soltanto le credenze religiose dell'epoca, ma anche modi molto comuni (e resistenti) di pensare.

Gli esseri umani amano le spiegazioni basate sulle intenzioni, come se avessero un sensore sempre acceso per captare la presenza di propri simili o per prevedere le mosse di nemici esterni. Il disegno intelligente attrae perché fa leva sulla docilità con cui siamo portati a fare inferenze riguardanti gli effetti dell'azione nascosta di un agente animato e appunto intelligente. Questi sistemi cognitivi si sono evoluti successivamente per assolvere funzioni nuove, legate al nostro bisogno di spiegare attraverso storie e agenti invisibili i fenomeni incomprensibili o molto dolorosi che ci sovrastano, come la morte di un familiare o di un compagno, o come il pasto immondo degli icneumonidi di Darwin.

Per affrontare tali fenomeni abbiamo ingaggiato le competenze cognitive che avevamo a disposizione, le abbiamo sfruttate e potenziate, divenendo autentiche "macchine di credenze" (Wolpert, 2006). La soddisfazione di bisogni psicologici, sociali e di comprensione del mondo è stata così forte da tramutarsi oggi in quel senso comune che la scienza talvolta si trova a dover scalfire, magari vanamente. Le ragioni del successo popolare del disegno intelligente non sarebbero quindi legate soltanto alle patologie del credere, alle facili "illusioni" che Dawkins pensa di smontare per via probabilistica, ma anche a una propensione profonda al credere in "progettisti del mondo" (Legrenzi, 2008) che^jn po' tutti possediamo fin da bambini. Attraverso le nostre inferenze intuitive circa l'esistenza di un progetto sottostante, cerchiamo di dare un senso alla realtà ripercorrendo a ritroso catene causali e finalità nascoste, indietro fino alla causa prima e al sommo progettista, respingendo come psicologicamente inammissibile il "puro caso".

Il pubblico americano non ha alcuna esitazione a fidarsi dell'analisi del DNA per dimostrare la colpevolezza o l'innocenza di un imputato. Non crea grossi scrupoli di coscienza nemmeno che la prova del DNA possa indurre una corte a infliggere la pena capitale. L'autorevolezza della prova genetica - per attribuire la paternità, per identificare una malattia, per scagionare o condannare un sospetto - è pressoché assoluta, un dato considerato oggettivo. Ebbene, la metà o più di quelle stesse persone dubita invece della realtà e delle prove dell'evoluzione biologica. Scoprire che condividiamo più del 98% del nostro DNA con gli scimpanzé e il 97 % con gli oranghi non ha neanche lontanamente il grado di oggettività percepita, e di persuasività, di un test del DNA fatto prelevando la saliva di un imputato (Carroll, 2006). Eppure la molecola è la stessa. In un caso le crediamo, nell'altro no. Qualcosa di profondo deve poter spiegare un comportamento così irrazionale.

Secondo Daniel Dennett la questione è presto risolta: gli americani non credono nell'evoluzione, nonostante la massa incontrovertibile di conferme sperimentali a suo favore, perché credono a qualcun altro (Dennett, 2006). Si fidano più dei loro predicatori che degli scienziati. In fondo ciascuno di noi, nel mondo della comunicazione globale, è libero di scegliersi gli esperti a cui credere. La responsabilità è semmai di quei ministri di culto e propagandisti che raccontano menzogne, spacciano per autorità qualche cialtrone in cerca di visibilità, falsificano la realtà e screditano una teoria consolidata per timore degli effetti che potrebbe avere sui loro adepti. Si tratta quindi di una battaglia culturale che strumentalizza in modo fraudolento la credulità popolare. Difficile non essere d'accordo, ripensando a ciò che sono capaci di dire alcuni predicatori televisivi americani e nostrani, ma stiamo davvero mirando al bersaglio giusto?

La rocciosa postura antievoluzionista non è più una prerogativa "locale" del fondamentalismo evangelico americano, "tipicamente americana come la torta di mele e l'immagine dello zio Sam", come ancora commentava troppo ottimisticamente Stephen J. Gould alla fine del secolo scorso sottovalutando il pericolo (Gould, 1999, p. 120). Da quanto abbiamo visto nel capitolo precedente, molti argomenti "neocreazionisti" sono oggi abbracciati da teologi e da illustri esponenti delle gerarchie ecclesiastiche cattoliche. Fenomeni analoghi si stanno diffondendo nell'Est europeo, tanto in paesi cattolici come la Polonia quanto in paesi ortodossi quali la Serbia e la Russia. La battaglia contro il darwinismo non è più solo cristiana, poiché, pur con le dovute differenze, emergono in questi anni anche varie espressioni di aggressivo antievoluzionismo in ambienti islamici radicali, soprattutto in Turchia. Si tratta dunque di un movimento interconfessionale che le frange integraliste di diverse religioni, dagli Stati Uniti all'Australia, sposano per convenienza e per costruirsi rapidamente una platea di ferventi sostenitori. E' facile da credere, e utile da far credere, nonostante le schiaccianti evidenze dell'evoluzione come fatto (Coyne, 2009). Viceversa, comprendere che il processo evolutivo è frutto di cospicue immissioni di casualità, delle pressioni selettive di ambienti in continua trasformazione, di eventi contingenti che hanno deviato il corso della storia verso esiti imprevedibili richiede un investimento cognitivo molto più costoso.

Che fare, allora, se la forza intuitiva del criterio di somiglianza ci induce a sviluppare analogie fra gli artefatti umani e la complessità delle strutture naturali? Se l'euristica della finalità intrinseca ci porta a escludere quasi automaticamente che una serie di coincidenze sia il frutto della contingenza e a ricorrere invece a un'intelligenza progettuale nascosta? Astrologia, superstizione e pseudoscienze giocano su questi vincoli della mente e approfittano della sua ostinata tendenza a vedere correlazioni illusorie dove non vi è alcuna prova che esistano. Si tratta di principi di senso comune, psicologicamente consolanti, che possono essere facilmente sfruttati da una sedicente autorità morali religiosa. Proprio come una paura irrazionale può diventare un potente motore di consenso, al di là di qualsiasi evidenza fattuale. Per non andare "contro natura", dovremmo per ciò stesso soccombere sotto i nostri retaggi di animali conformisti e gregari?

COME ZINGARI, AI MARGINI DELL'UNIVERSO

Ritorna allora il nostro paradosso. Quando indaghiamo i fondamenti naturali di una caratteristica umana corriamo sempre il rischio di confondere una spiegazione con una giustificazione. Capire che un comportamento è il frutto dell'evoluzione della nostra specie non significa che sia, per questo, giusto di per sé, né che sia scolpito una volta per tutte nella pietra. I fatti smentiscono queste asserzioni: i limiti di ragionamento e di giudizio non sono per nulla insuperabili, solo perché naturali. In particolare, un'educazione scientifica precoce e coinvolgente - possibilmente immersa in un contesto culturale favorevole - marca differenze sostanziali di comprensione delle nozioni scientifiche, anche fra studenti di paesi culturalmente simili. Se credere è un'attività centrale per il funzionamento della nostra mente, possiamo per ciò stesso farne un uso distorto in molte occasioni di dibattito pubblico, per esempio negando la validità di una teoria scientifica sulla base di argomentazioni fallaci anche se intuitivamente persuasive.

Abbiamo visto da più angolature come l'evoluzione non possa essere assimilata al progresso, semmai a un più neutrale cambiamento, in mezzo a circostanze a loro volta mutevoli: come scrive Edoardo Boncinelli, "in biologia tutto è contingenza - questa cosa è così ma poteva anche essere diversamente - e tutto è storia - questo è così perché è arrivato nel tempo a essere così" (2009, p. 227). Se le ricerche di psicologia ed etologia cognitiva prima citate saranno corroborate, significa che la prospettiva della nostra radicale contingenza storica e della doppia finitudine, individuale e di specie, sfida alcuni adattamenti cognitivi primari della specie umana. È doppiamente difficile da pensare: non solo siamo finiti, non solo siamo sospesi fra due abissi del tempo dove noi non esistiamo, ma le cose potevano andare diversamente. Non vi era alcuna necessità che arrivassimo fin qui e che fossimo proprio noi a innalzare il vessillo dell'intelligenza cosciente, anziché un velociraptor o un verme priapulide.

Il sistema interprete del nostro emisfero sinistro impone un senso e un ordine al flusso delle informazioni, cerca gli invarianti e le coerenze, costruisce buone "narrazioni" piene di senso a cui credere, mettendo ordine anche dove non c'è (Girotto, Pievani, Vallortigara, 2008). Se quelle narrazioni piene di finalità si sgretolano per via scientifica, di fronte alla non necessità della nostra presenza probabilmente sentiamo di dover fare qualcosa. Preferiamo allora ricostruire un senso fittizio che restituisca razionalità alla storia che conosciamo ed esorcizzi l'apparente insensatezza del dato empirico facendoci sentire parte di un disegno, malgrado tutto. Forse allora il problema delle tante "filosofie del nonostante" va ripensato in questo modo: ci sono "sensi" della storia, quelli finalistici, che sono facili da pensare e ci piacciono da pensare, al punto da sovrapporli alla realtà; ci sono "sensi" della storia, come la contingenza, che per quanto evidenti sono difficili da pensare, e non ci piacciono da pensare.

Eppure, si tratta di difficoltà cognitive e di precursori naturali che varrebbe davvero la pena sfidare, mettendo contro di essi altre competenze naturali umane. Essere consapevoli di come si sono evolute le nostre preferenze cognitive per alcuni "sensi" a discapito di altri potrebbe offrire quanto meno un'occasione per maneggiarli in modo più razionale o per disubbidire a essi quando necessario. Possiamo insomma svelare le anomalie presenti nelle grandi narrazioni che l'emisfero sinistro - anche degli scienziati, come abbiamo visto - ha imposto all'evoluzione. Possiamo da qui spingerci a immaginare quanto sarebbe più emancipante un'alternativa ben fondata: quella di chi accetta la contingenza della nostra presenza, cogliendone il fascino e il messaggio morale. E un'altra possibilità per interpretare quella finitudine, per onorare il participio di specie che ci siamo autoattribuiti, per dare un "senso" sì a questa storia ma senza subordinarlo a deleghe verso entità esterne.

In tal senso, le grandi Amande dell'esistenza umana non sono appannaggio esclusivo della teologia e possono oggi avere una risposta in accordo con le scoperte evoluzionistiche: "veniamo da" un'affascinante e contingente storia naturale che avrebbe potuto condurre a un esito molto diverso; andiamo "verso dove" le nostre possibilità biologiche e culturali sapranno condurci. È profondamente scorretto che l'idea dell'indifferenza dell'Universo verso le nostre sorti - come presupposto di libertà e al contempo di responsabilità verso se stessi e verso la natura - venga automaticamente tacciata di essere una minaccia per la dignità umana o di rappresentare finanche un messaggio di disperazione e di solitudine senza fine che non soddisferebbe nemmeno la ragione.

A proposito di dignità umana, Steven Weinberg, premio Nobel nel 1979 per la scoperta della teoria unificata delle interazioni deboli ed elettromagnetiche, insofferente verso ogni tentativo di insinuare questioni teologiche nella scienza, scrisse: "Quanto più l'Universo ci appare comprensibile, tanto più ci appare senza scopo. Ma se non c'è conforto nei risultati della nostra ricerca, c'è almeno qualche consolazione nella ricerca stessa. Gli uomini e le donne non si accontentano di consolarsi con miti di dei e di giganti o di restringere il loro pensiero alle faccende della vita quotidiana; costruiscono anche telescopi e satelliti e acceleratori, e siedono alla scrivania per ore interminabili nel tentativo di decifrare il senso dei dati raccolti. Lo sforzo di capire l'Universo è tra le pochissime cose che innalzano la vita umana al di sopra del livello di una farsa, conferendole un po' della dignità della tragedia" (1977, p. 170).

La consolazione è nella ricerca stessa. Nella ricerca scientifica e nella ricerca tecnologica, quella che vituperiamo in certe nostre filosofie e usiamo nelle vicissitudini quotidiane. Come anche in un dipinto, o in una sinfonia, di per se stesse, in quanto superbe abilità umane dotate, ciascuna, di una propria specificità. Il superamento degli animismi, secondo un altro premio Nobel, Jacques Monod, corrisponde a un drammatico, ma vigoroso, risveglio: "L'uomo deve infine destarsi dal suo sogno millenario per scoprire la sua completa solitudine, la sua assoluta stranezza. Egli ora sa che, come uno zingaro, si trova ai margini dell'Universo in cui deve vivere. Un Universo sordo alla sua musica, indifferente alle sue speranze, alle sue sofferenze, ai suoi crimini" (1970, p. 165). Un Universo che non ci stava aspettando, e dunque ci lascia margini di libertà sul futuro e ci suggerisce di onorare al meglio il frammento di tempo che ci è dato.

UNA FILOSOFIA ANTITOTALITARIA

Lo sforzo di capire un Universo indifferente, e un'evoluzione contingente, non ha dunque alcunché di trionfalistico, ma è ciò che secondo Weinberg conferisce alla vita umana almeno la dignità della tragedia. I vantaggi che trarremmo da un'adeguata considerazione della filosofia della contingenza sono innumerevoli, e talvolta sorprendenti. Il messaggio radicale dell'unicità storica, tanto per cominciare, comporta una certa diffidenza nei confronti di "scienze" sistematiche dello sviluppo storico e di filosofie totalizzanti della storia, naturale e umana. Il posto dell'uomo nella natura offertoci dalla contingenza ci permette di coltivare le "ragionevoli e provvisorie speranze" di cui ha scritto magistralmente Paolo Rossi nel 2008. Nell'incertezza e nell'ambivalenza della nostra condizione scopriamo infatti che non vi era alcuna inesorabile necessità storica inscritta nel peculiare corso di eventi che si è realizzato: il presente non è una chiave di lettura retrospettiva necessitante del passato, al quale viene tolta la valenza di giustificazione del presente. Possiamo fare a meno di grandi racconti edificanti, la cui struttura mostra in ultima analisi "uno schema di tipo teologico", e sostituirli con una molteplicità di storie. Presumere di possedere la "logica profonda della storia" - sia essa una verità terrena o una rivelazione ultramondana - è stata la premessa di ogni pensiero totalitario (Rossi, 2008). La contingenza funge da efficace antidoto contro i semi di qualsiasi ambizione totalizzante.

Con il suo sospetto verso le predizioni futurologiche e le presunzioni di sminare il senso della storia, essa suggerisce di rifuggire dalla dicotomia fra la disillusione cinica e distruttiva, da una parte (i tanti profeti di sventura, le previsioni onniscienti di "destini", la fine della storia), e dall'altra le speranze eccessive, le escatologie laiche e salvifiche, i tanti paradisi in Terra crollati sotto il loro stesso peso, la fiducia smisurata nella storia e nel potere performativo di chi è convinto di poter andare oltre gli attuali limiti biologici. Il controllo della storia rischia di rivelarsi tanto illusorio quanto la nostra ambizione di dominare i processi naturali su vasta scala e di addomesticarli per garantire uno sviluppo economico indefinito. Chi conosce la contingenza dovrebbe coltivare previsioni a breve termine, ipotesi ragionevoli per orientarsi nell'incertezza, cautele nei confronti delle possibili reazioni di sistemi complessi il cui funzionamento non conosciamo abbastanza, senza con ciò escludere l'elaborazione di principi etici e di valori che fungano da guida e da orizzonte di azione. La definalizzazione ridà linfa vitale alla storia: "Dopo i tentativi mancati di chiudere la storia, essa imperterrita procede. Il futuro rimane quel che è sempre stato: uno spazio aperto di possibilità. Ma non è più da conquistare, non bisogna portare a compimento alcunché. L'uomo contemporaneo è chiamato a dominare il caso" (Natoli, 1999, p. 229).

Questa "etica del finito" e questa sobrietà di fondo nei confronti di ogni escatologia implicano che per noi "divenienti umani" - più che "esseri umani" una volta per tutte - è possibile essere "autentici" rinunciando al proprio bisogno di certezza, di fondazione, di sicurezza, qualora riposto inopportunamente nella storia naturale o in surrogati moderni dello schema teologico del progresso (Natoli, 2010). Se la storia non è una palla di biliardo e approda in luoghi dove non avremmo pensato di trovarla, può esistere un'autenticità percorribile e non consolatoria, ancorché inquieta e impaziente, basata sull'umiltà evoluzionistica. L'uomo autentico è l'uomo che vive accettando la verità, anche se è scomoda e disorientante - la verità fattuale della radicale contingenza della nostra presenza qui e dell'assenza di una redenzione per la storia - e la converte in occasione, in riscossa, in trasformazione. Contrariamente, dunque, a quanto scrive Vito Mancuso in La vita autentica, l'uomo autentico è l'uomo che in questa condizione di consapevolezza vive per la giustizia, per l'uguaglianza nei diritti (non perché siamo tutti uguali ma perché siamo tutti diversi), per il bene e la solidarietà, e proprio nel fare unilateralmente questa scelta rinuncia all'idea che l'essere naturale presupponga in quanto tale l'etica (Mancuso, 2009).

E' infatti un non senso giustificare sul piano naturalistico perché scegliamo il bene e la giustizia anziché il male e la sopraffazione, giacché lì risiede proprio la specificità umana, la novità evolutiva (naturale e culturale) della comparsa della specie umana, capace di riflettere sulla propria storia, sui propri limiti, sui propri vincoli non invincibili. Dunque non è vero che senza una finalità insita nella natura non può esistere l'etica, semmai il contrario: è proprio perché non esiste una finalità in natura che l'etica assume il suo valore e la sua indipendenza, come "novità" evolutiva umana. La scelta etica quindi non mostra affatto che nell'essere vi sarebbe una "direzione". L'etica non dimostra la "logica del mondo" finalizzata alla relazione armoniosa, tendente al superamento oltremondano della realtà, perché questa è un'inferenza del tutto infondata dal dover-essere all'essere, e viceversa. Un'inferenza che svilisce la peculiarità del parto naturalistico umano: un frammento di natura che avvia una prorompente evoluzione culturale e tecnologica, al punto da divenire in grado di modificare per via tecnologica la sua stessa identità biologica (Boncinelli, 2006).

L'umanesimo evoluzionistico porta allora a rifiutare in primo luogo la fallacia naturalistica in negativo, cioè la natura intesa come pietra di paragone negativa, come principio normativo in chiaroscuro che porta alla ferocia, alla competizione, all'affermazione di sé, alla vita che prorompe da sé, alla lotta per la sopravvivenza al di là del bene e del male. Da qui la solita caricatura negativa del darwinismo come "sopravvivenza del più forte" o aspnza di relazione, quando in realtà la teoria darwiniana, conoscendola, è proprio l'inverso: una spiegazione ecologica e relazionale, che nel caso dell'evoluzione umana pone al centro i comportamenti prosociali. Ma la filosofia della contingenza suggerisce anche che, per scongiurare questo spauracchio negativo, non sia utile nemmeno ricorrere a una speculare e complementare fallacia naturalistica in positivo: la natura intesa tendenziosamente come relazione ordinante e armoniosa, da cui proverrebbero "valori" naturali, una tendenza verso un non meglio definito "spirito", nient'altro che l'ordine naturale tradotto in ordine sociale come nella grande narrazione consolatoria della teologia naturale di William Paley.

E infatti una ben misera prospettiva quella di dover oscillare fra un'immagine edificante e irrealistica della natura buona, cooperativa e "auto-organizzata", da una parte, e una sua caricatura malthusiana che sembra appena uscita dalla scuola di Chicago, dall'altra. Basti pensare a come ondeggiano nell'immaginario scientifico e popolare le raffigurazioni dei nostri cugini primati, scimmie assassine in certi periodi e scimmie empatiche in altri (Barsanti, 2009). Sarebbe forse più prudente decidere di smettere di caricare sulla natura, quella prossima e quella lontana, personificazioni umane. Si pensi a quanto è ingenua (e altrettanto consolatoria e assolutoria) l'illusione di poggiare sul darwinismo le presunte basi "biologiche" del libero mercato inteso come arena concorrenziale degli interessi e delle motivazioni individuali, all'interno della quale, senza lacci e vincoli inutili, autonomamente si produrrebbero ricchezza e crescita media per tutti, al prezzo soltanto di una fisiologica disuguaglianza. Pensare che il liberismo estremo sia più consono alla natura umana e alla psicologia individuale significa confondere una metafora con una spiegazione.

La contingenza ci libera anche da questa dicotomia, perché mira alla singolarità innovativa, e improbabile, della specie umana e dei suoi comportamenti. Come esempio particolarmente istruttivo, ripensiamo a come John Rawls descriveva la transizione dal senso intuitivo di giustizia - radicato senz'altro nella storia naturale di un primate prosociale e nel suo innato senso dell'equità nella distribuzione dei beni sociali primari - ai due principi prioritari di libertà e giustizia sociale, da radicare senza compromessi nella struttura fondamentale della società e nelle sue istituzioni, e insieme frutto della mossa contrattualistica e dell'esperimento mentale razionale della "posizione o accordo originario" e del "velo di ignoranza". E' un patto (alquanto "innaturale" per certi aspetti) fra persone libere e razionali, immaginate ipoteticamente in una posizione iniziale di uguaglianza, senza pregiudizi circa le loro diversità e le contingenze materiali e psicologiche, dove si decidono e si fondano le libertà fondamentali e inalienabili, l'uguaglianza reale e democratica, il principio di differenza e di redistribuzione in un quadro di fraternità democratica (Rawls, 2001).

Di fronte all'eterno spettacolo "naturale" dell'ineguaglianza e del conflitto, l'ineguaglianza è giustificata solo se porta vantaggio ai meno avvantaggiati. E una transizione natural-culturale che conduce a un'evoluzione del tutto peculiare: il dovere natural-culturale dell'equità e della lealtà in un sistema sociale cooperativo basato sulla trasparenza e sulla reciprocità; il dovere di considerare gli altri come persone libere ed eguali, e di fare la propria parte in uno schema di cooperazione equo (Albasini, 2007). In altre parole, la specie umana elabora un grande esperimento mentale di fratellanza democratica per fondare principi ragionevoli di giustizia e imporsi il dovere di considerare gli altri sempre come individui liberi ed eguali.

Come ogni altra grande conquista della nostra intelligenza simbolica, questo risultato (cioè raggiungere insieme un principio razionale di giustizia sociale, costantemente riveduto e affinato, ma imparziale) è in parte fondato sui nostri precursori naturali prosociali, comportamentali e cognitivi, e in parte li contesta e li supera. E' un processo di continuità e di innovazione al contempo. Ma non solo, essa è in grado di cambiare la nicchia "ecologica", sociale e naturale, che ci circonda e che a sua volta ci condizionerà. Le diversità individuali sono di per sé un fatto naturale e arbitrario, ma le società umane possono decidere di trattare queste diseguaglianze in modo differente (giusto o ingiusto) rispetto a come le tratta la natura. Detto in altri termini, si stipula isieme un patto originario che prevede il dovere umano, tipicamente umano, di lottare per una società migliore - che non significa necessariamente fuga "utopica", ma che i sistemi sociali e di sviluppo non sono da considerarsi immutabili, bensì in evoluzione essi stessi e modellabili dalle nostre scelte razionali - in cui i meno avvantaggiati dalle contingenze della nascita, sostiene Rawls, possano contare sul primato della loro dignità, sulla loro autonomia kantiana di individui liberi, su pari opportunità, diritti di cittadinanza e rispetto di sé come bene primario.

Non si tratta quindi nemmeno in questo caso di due "magisteri non sovrapponibili" (questa volta, il naturale e il politico- morale), perché i comportamenti normativi nascono comunque nella continuità di un ininterrotto processo naturale umano, che lascia in noi vincoli cognitivi e precursori naturali, idee che sono più facili o meno facili da pensare. Le due dimensioni sono sovrapposte e in interazione costante, ma la seconda gode di una sua autonomia esplicativa e non possiamo esaurirne la comprensione a partire dai dati naturali preesistenti. Vi è dunque una transizione continuativa (e nessun salto ontologico misterioso) fra un complesso di precursori naturali sostanzialmente ambigui (senso di giustizia e attitudini prosociali e cooperative, ma anche potenti attitudini aggressive ed egoistiche), intesi come dotazione adattativa ed exattativa dell'evoluzione umana, e l'elaborazione di principi normativi razionali e universali, frutto in Rawls di un "equilibrio riflessivo" fra una pluralità di ponderate posizioni argomentative, differenti e potenzialmente conflittuali.

Questi criteri ci permetteranno poi di giudicare empiricamente il grado di equità dei sistemi politici reali esistenti. Anche se questi principi (o altri) non dovessero trovare mai una realizzazione adeguata, avere un giudizio su che cosa sia una società giusta e su che cosa garantisca a ogni essere umano il rispetto di sé come bene primario è un altro fragile e inimitabile frutto della nostra contingenza evolutiva, che ci fa apprezzare pienamente e senza deleghe il punto in cui siamo arrivati e ci fa essere alquanto severi, come Rawls, nel valutare il nostro eventuale fallimento: "Se una società dei popoli ragionevolmente giusta i cui membri subordinano il potere di cui dispongono al raggiungimento di scopi ragionevoli non si dimostrasse possibile, e gli esseri umani si rivelassero per lo più amorali, se non incurabilmente cinici ed egoisti, saremmo costretti a chiederci, con Kant, che valore abbia per gli esseri umani vivere su questa Terra" (1999, p. 171). Se invece riusciremo a meritarci questo piccolo posto cosmico, saremo come la saggia ginestra di Leopardi che spunta, nonostante tutto, nel deserto dell'amoralità e spande sulle ceneri laviche un profumo delizioso che per noi sarà quello della giustizia e di una finitudine solidale.

LA CONTINGENZA È IRONICA

Le "invenzioni" dell'uguaglianza e della giustizia sociale come equità ci permettono ora di leggere l'ambiguità darwiniana anche in senso inverso e complementare: abbiamo ben salde origini animali, "segno indelebile della nostra origine da una forma inferiore", scrive Darwin nella chiusa di L'origine dell'uomo, ma anche le "potenti facoltà" di "un intelletto quasi divino che è penetrato nel movimento e nella struttura del sistema solare", un intelletto certamente unico con il quale, un secolo e mezzo dopo quelle parole, lanciamo sonde interplanetarie e concepiamo (realizzarle è un altro conto) le più alte norme morali di convivenza sociale e di rispetto degli altri grazie a "nobili qualità" come "la simpatia che sentiamo per gli esseri più degradati" e "la benevolenza che estendiamo non solo agli altri uomini, ma anche alle più umili fra le creature viventi". E' la stessa "potenza dell'intelletto" che per Spinoza fonda la libertà empirica umana ed è causa adeguata delle nostre azioni (di cui siamo dunque responsabili). Su quei due versanti di L'origine dell'uomo - umili origini e potenza dell'intelletto - ancora ci arrampichiamo faticosamente e ci dibattiamo, talvolta privilegiando il primo talaltra il secondo, senza ancora raggiungere qualcosa che assomigli a una cima.

Vi è un che di ironico in questa condizione. Siamo un mammifero di grossa taglia, inesorabilmente conformista anche se talvolta inaffidabile, che guida un'astronave, scrive la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, ascolta musica classica e ammazza con il machete i suoi simili. Che va a comprare il pane con il suv e affolla i centri commerciali nei giorni dei saldi per arraffare a prezzo scontato ciò di cui non ha alcun bisogno. Un'ambiguità radicale, non delegabile a un fantomatico colpevole o inquisitore esterno, un'ambiguità frutto di una particolare storia naturale, in cui le nostre tendenze aggressive e violente ci hanno permesso di sopravvivere tanto quanto quelle cooperative e prosociali di contenimento e di controllo. L'uomo autentico allora non rappresenta tanto una "rivolta" della natura contro se stessa, né un'uscita da essa, quanto il fatto che l'evoluzione è anche generazione e innovazione. Un'imprevedibile generazione del nuovo che può anche far sì che la natura sia capace di mettere al mondo i propri "dissidenti".

È ironico che la natura biologica, con la sua vetusta storia di 3,75 miliardi di anni, non mostri alcuna predisposizione a soddisfare i nostri desideri. Se la leggiamo mettendoci sul naso le lenti dei nostri precostituiti sistemi morali, contiene in pari grado gli elementi della caduta e della redenzione. E' ironico che non abbia mai voluto rispondere alle nostre ricerche di un misterioso significato ultimo al suo interno. Il confine tra ciò che si nasconde da sempre e ciò che non esiste potrebbe infatti essere sottile. Forse continueremo per millenni ancora a ripetere la domanda, la Grande Domanda, ed è giusto così. L'ironia suprema sarebbe però se - come immaginava lo scrittore Douglas Adams in Guida galattica per gli autostoppisti - dopo un'estenuante attesa di sette milioni e mezzo di anni l'Universo decidesse davvero di dare un responso "alla grande domanda sulla Vita, l'Universo e Tutto quanto". Nel Giorno della Risposta, un computer programmato all'uopo 75mila generazioni prima, e battezzato Pensiero Profondo, annunciò finalmente di essere pronto a svelare a tutti quale fosse il senso ultimo della risposta alla Grande Domanda su Tutto, "anche se penso che non vi piacerà" precisò. Dopo qualche esitazione Pensiero Profondo, "con infinita calma e solennità", scandì la risposta: "Quarantadue".

E tutto quello che hai da dirci dopo sette milioni e mezzo di anni di lavoro?, si lamentarono gli astanti. Sì, rispose il computer, "ho controllato con grande minuziosità e questa è la risposta veramente definitiva. Credo che, se devo essere franco, il problema stia nel fatto che voi non avete mai realmente saputo quale fosse la domanda". Per capire quale sia la domanda la cui risposta è "42" servirà un computer di nuova generazione, tanto immenso da sembrare un pianeta, tanto complesso da includere tutta la vita organica, verrà chiamato "Terra" e avrà bisogno di un sacco di tempo ancora. La domanda, dunque, è la storia della vita stessa, attimo dopo attimo. E non ci piacerà davvero scoprire di essere la domanda per una risposta qualsiasi, per esempio "42". (A dire il vero, per come vanno le cose oggi, è probabile che nemmeno nel Giorno della Risposta, in quel frangente di sublime insensatezza, ci sentiremmo paghi e da noi, in qualche trasmissione in prima serata sulla TV pubblica, un bipede gesticolante comincerebbe immediatamente a domandarsi quale misterioso significato numerologico sia in serbo in quel "42".)

Dinanzi a questa condizione ironica, il senso della caducità delle vicende umane dovrebbe suggerire, per la vita e la convivenza tra gli esseri umani, non virtù eroiche irraggiungibili ma pazienza e indulgenza, senso dell'incertezza, prudenza e accettazione dei propri limiti. Tuttavia, la rinuncia ai "grandi racconti" resta un compito controintuitivo perché va contro le preferenze cognitive ed emotive profonde di una mente che cerca "iconografìe della speranza" per distogliere lo sguardo dall'evidenza della nostra perifericità nelle storie dell'evoluzione. Per evitare questo dovremmo mostrare sempre che la contingenza esalta quel "senso della possibilità" di cui scrive Musil all'inizio di L'uomo senza qualità e offre un'ottima opportunità di emancipazione. Se il possibile è la norma della convivenza umana significa che è nelle nostre "potenti facoltà" (senza sopravvalutarle) far evolvere e migliorare le società per dare dignità a questa presenza improbabile. Come scrive Nassim Nicholas Taleb in Il cigno nero, la specie umana "è affetta da una sottovalutazione cronica della possibilità che il futuro si allontani dal percorso inizialmente previsto" (Taleb, 2007a, pp. 151-156): siamo ciechi dinanzi al caso e alle grandi deviazioni del corso degli eventi prodotte da circostanze di scarsa prevedibilità e al contempo di enorme impatto, che psicologicamente cerchiamo sempre di addomesticare a posteriori dando loro un "senso" estrapolato dalla storia pregressa.

Perciò la contingenza è dissacrante e rivelatrice come i plot narrativi che frequentemente la usano (si pensi al film Lola corre del 1998) e come lo sono gran parte dei cambiamenti occorsi nelle nostre vite, anche se non vogliamo ammetterlo. E' lo sberleffo del giullare che mette in scena contropresenti alternativi, è l'idea che altri mondi saranno possibili, perché già lo sono stati in passato. È spiazzamento, monito costante contro il dominatore del momento. Affidando a ciascun personaggio della storia una potenziale influenza, è a suo modo democratica. All'opposto di chi pensa che l'imprevedibilità tolga "senso" a quanto accaduto, la contingenza restituisce in realtà il massimo valore alla storia che si è realizzata e al "cigno nero" che improvvisamente fa la sua comparsa, entra in relazione con una trama di altre circostanze impreviste e diventa una grande deviazione. Se in miriadi di occasioni siamo stati vicinissimi all'essere cancellati come possibilità futura, dato che il corso degli eventi avrebbe potuto imboccare un'altra strada, non meno ragionevole e comprensibile a posteriori della nostra, significa che esistono biblioteche intere di storie irrealizzate che non contemplano la presenza di Shakespeare, di Leonardo da Vinci, di Giotto, di Mozart, dei vaccini e degli antibiotici, di Mandela, di Leonard Cohen, e dell'11 settembre. Intere biblioteche di altri mondi privi del tessuto sterminato di atti di meschinità e di gentilezza, di gesti di viltà e di bontà, che ci fanno essere umani.

SE NON SIAMO SPECIALI, NON SIAMO NEMMENO SOLI!

Ma la contingenza può aiutarci anche sotto un'altra veste fondamentale, con la quale ritorniamo a mo' di congedo alle scoperte di cui abbiamo discusso fin dal primo capitolo. Non siamo mai stati soli. Non lo siamo stati nel buio dei milioni di anni della vita primordiale. Non lo siamo stati fino a poco tempo fa nelle penombre ominidi. "Potremmo esser tutti legati in un'unica rete", scriveva Darwin nei taccuini. L'inquietudine di essere assimilati al resto del "vile" mondo animale porta con sé la scoperta che possiamo superare la sensazione di solitudine siderale che la nostra presunta eccezionalità ci procurava. Se non siamo speciali, allora non siamo nemmeno soli. Facciamo parte di una moltitudine di storie. Pari fra i pari nella nostra contingenza. Senza scranni evoluzionistici da difendere. In compagnia di creature viventi altrettanto uniche, alle quali ci lega una catena (senza anelli!) di appartenenza ecologica e di comprensione reciproca. Solidali con una folla di nostri parenti naturali altrettanto privi di un destino ultimo, ma con i quali se non altro spartiamo il pane e il companatico della sopravvivenza sopra un sasso vagante nel cosmo. Siamo in un esilio talvolta angoscioso, ma affollato di compagni di viaggio. Respiriamo la stessa atmosfera, boccheggiando (o anche veleggiando in cerca di correnti ascensionali) in un sottile straterello di gas instabili che, per una benigna congiura di forze combinate, non se ne volano via.

Riguadagnando un genuino rapporto con la natura intesa come storia comune, e concependo la presenza umana come un'imprevedibile innovazione biologico-culturale senza precedenti, non abbiamo più bisogno, per difendere la nostra specificità, di rimandi a soggettività autoreferenziali (Franceschelli, 2005, 2007). Non abbiamo più l'urgenza discorrere a eccezionalità assolute, di farci divinità noi stessi in sostituzione di quella che, là fuori, non dà segno di sé. Dalla contingenza della nostra storia possiamo dunque trarre alcuni validi suggerimenti etici. Non principi, non dogmi, suggerimenti. O se preferiamo, piccole testimonianze raccolte in eredità da ciò che è già passato e che ci ha lasciato in modo discreto un insegnamento. Nei dialoghi pluralisti e multiculturali del futuro sarebbe bello se anche questo punto di vista filosofico, in mezzo ai vasi di ferro dei pensieri istituzionalizzati, fosse nuovamente considerato se non altro plausibile, e non già subito rimosso per le ragioni che conosciamo. E' il punto di vista della continuità e della contingenza di una natura che non si para innanzi a nostra disposizione, ma è già da sempre in noi.

Siamo liberi e responsabili, in questo frammento di tempo che è dato in dono di vivere. Nella contingenza dei nostri cammini individuali, condividiamo un'appartenenza naturale e planetaria. Dentro questa cornice di condivisione possiamo cogliere le opportunità della nostra unicità evolutiva, in quanto titolari della norma morale che decidiamo liberamente di darci e capaci di immaginare ciò che ancora non esiste, capaci cioè di scommettere sulla solidarietà e sulla giustizia, nei confronti dei nostri simili e del resto del vivente, come scelte virtuose, e dall'esito incerto come ogni scommessa. Per onorare l'appartenenza di specie, ci accorgiamo che cogliere la ricchezza della contingenza non significa per nulla affogare la storia naturale nell'intimidazione del "puro e cieco caso", ma al contrario significa apprezzare la fisionomia particolare di un processo il quale rispetta al suo interno vincoli, regole, schemi ripetuti, e tuttavia resta intrinsecamente imprevedibile, privo di una necessità a priori, soggetto al potere causale del singolo evento.

In questo maestoso corpo a corpo fra i dettagli e le leggi, tornando al dialogo fra Darwin e Asa Gray da cui abbiamo preso avvio, si nasconde una preziosissima testimonianza morale, un antidoto educativo e ironico contro ogni forma di fondamentalismo, di totalitarismo e di trionfalismo. Inoltre, contingenza non significa affatto che la provvisoria permanenza di un essere pensante - il quale tradisce troppo spesso il suo participio di specie - debba venir banalmente goduta nell'immanenza dell'effimero: essa al contrario immerge il frammento di esistenza singolare nel tempo profondo della continuità evolutiva e ci pone davanti ai doveri e alle responsabilità che abbiamo sia verso le generazioni passate, dalle quali ereditiamo un mondo che non ci appartiene, sia verso le generazioni future, dalle quali prendiamo in prestito un mondo che egualmente non ci appartiene. E' una forma di scetticismo razionale e attivo, per nulla rassegnato e per nulla disperato.

La contingenza richiede quindi un'etica non soltanto della prossimità spaziotemporale e della solidarietà fra chi condivide un tratto di strada, in un mondo che sappiamo non essere infinito, ma richiede anche, e forse principalmente, un'etica della lungimiranza. L'evoluzione ha il vantaggio di pensare per scale temporali differenti. Sposta incessantemente lo zoom della macchina da presa. Non si lascia irretire dal presente, che è solo una sottilissima fetta di una storia che nemmeno si riesce ad abbracciare con l'immaginazione. Lo schiacciamento sul qui e ora di cui soffriamo, tipico di un'epoca di cambiamenti culturali e tecnologici troppo rapidi per essere metabolizzati, ha comportato una prematura archiviazione delle filosofie della storia. Se non altro, di quelle filosofie della storia secolari che non avevano dato ottima prova di sé nel secolo precedente. Hanno così ritrovato il loro spazio popolare e psicologico le grandi escatologie rassicuranti, che sono filosofie della storia senza la storia, dato che la storia diventa un complesso di mezzi per il raggiungimento di un fine già scritto. Ma "la fine della storia" è stata solo un'altra rivincita della storia. Ecco, per quando dovremo riattrezzarci a pensare la nostra finitudine, la contingenza offre una filosofia della storia che non addomestica la storia, che non la strumentalizza per giustificare il presente e per assoggettare il futuro al proprio "ordine", che non la "contestualizza" (come usano fare taluni ecclesiastici quando parlano delle bestemmie dei loro sodali), ma al contrario la pone al centro della visione. È una filosofia della storia che propone di ritornare a pensare in grande. E soprattutto, di non lasciare ad altri il monopolio del pensare in grande.

La contingenza storica libera quindi non solo il passato dai suoi gioghi finalistici, ma libera anche il futuro, che rientra a pieno titolo nella sfera di ciò che è soggetto al potere causale dei singoli eventi, cioè le azioni che noi decidiamo di introdurre nel flusso della storia. Torniamo allora all'origine dei sistemi di credenze, ai loro precursori naturali e in particolare alla declinazione di questa propensione alla fiducia verso ciò che non è provato che si riscontra in chi confida in un futuro migliore, o quanto meno diverso. Un tale impulso nobilissimo ha mosso intellettuali e leader politici, e ha portato a conquiste di civiltà straordinarie. È anche questa a suo modo una credenza, anzi per Kant sta alla radice stessa delle credenze, in quanto bisogno rurale soggettivo di desiderare un compimento di giustizia, se non in questo in un altro tempo. È uno slancio verso l'ignoto, una ribellione contro l'esistente, una risolutezza talvolta cieca, cocciuta e fideistica che muove l'azione e le dà stabilità. La capacità di pensare la contingenza e la finitudine induce all'azione, non alla rassegnazione. Se non ora quando? Sapere che il futuro non nasconde una filigrana di necessità, e che siamo come un lampo in una lunga notte, è alimento essenziale per questa fiducia. Molte tirannie, schiavitù e discriminazioni sono cadute perché qualcuno, magari dal chiuso di una cella per decenni, magari confidando in una contingenza favorevole, non ha mai smesso di credere che quelle infamie non facessero parte di alcun "ordine naturale delle cose".

EPILOGO

UNA SMODATA PREDILEZIONE PER I COLEOTTERI

Poiché è difficile distinguere i profeti veri dai falsi, è bene avere in sospetto tutti i profeti; è meglio rinunciare alle verità rivelate, anche se ci esaltano per la loro semplicità e il loro splendore, anche se le troviamo comode perché si acquistano gratis. È meglio accontentarsi di altre verità più modeste e meno entusiasmanti, quelle che si conquistano faticosamente, a poco a poco e senza scorciatoie, con lo studio, la discussione e il ragionamento, e che possono essere verificate e dimostrate.

                                 Primo Levi, Appendice a Se questo è un uomo, 1976, p. 251

A proposito delle modeste verità, conquistate a fatica, di cui scrive in questo passaggio Primo Levi, si narra che uno dei più anticonformisti biologi del Novecento, un "bastian contrario iconoclasta" (Gould, 2000, p. 368), nonché fra i padri fondatori della genetica di popolazione, della genetica umana e del darwinismo moderno, John Burdon Sanderson Haldane (1892-1964), ebbe modo in almeno un'occasione di dire la sua sulla teologia naturale. La citazione è contenuta in una nota sulla prima pagina di un saggio che ha fatto epoca, uscito in occasione del primo centenario della pubblicazione di L'origine delle specie, dal titolo "Omaggio a Santa Rosalia, ovvero perché ci sono così tanti tipi di animali" (1959), del maggiore ecologo evoluzionista di tutti i tempi, George Evelyn Hutchinson. Il peculiare omaggio alla santa palermitana come "patrona degli studi evolutivi" è dovuto a un dettaglio contingente che portò il grande naturalista e intellettuale angloamericano a trovare proprio sotto il santuario dedicato a Santa Rosalia sul Monte Pellegrino un piccolo stagno contenente due specie rarissime di emitteri acquatici del genere Corixa. Il nome di Santa Rosalia fu così legato indelebilmente (e più volte citato in letteratura scientifica) agli studi pionieristici sulle interazioni evolutive delle specie, sulla biodiversità negli ecosistemi e sull'organizzazione delle comunità ecologiche (Massa, 2010, pp. 105-122).

Nella nota Hutchinson attesta che esisterebbe "una storia, forse apocrifa, secondo cui l'autorevole biologo inglese J.B.S. Haldane si trovò un giorno in compagnia di un gruppo di teologi. Essendogli stato chiesto che cosa si potrebbe dedurre in conclusione circa la natura del Creatore a partire dallo studio della Sua creazione, si racconta che Haldane abbia risposto: 'Una smodata predilezione per i coleotteri'". Benché la battuta abbia fatto il giro del mondo, sul contesto in cui si sarebbe svolta la conversazione sono fiorite leggende eroiche e controversie, anche considerando la personalità straboccante e irriverente di Haldane, due volte ferito sul fronte della Prima guerra mondiale, brillante relatore, carattere scostante, autore di visionarie predizioni scientifiche forse un po' troppo entusiastiche, ardito sperimentatore (in primis su se stesso), imprudente sostenitore della guerra chimica nel 1925 (Gould, 2000), membro del Partito comunista britannico ed editorialista del Daily Worker, in tarda età emigrato in India, all'Indian Statistical Institute di Calcutta, anche per protesta contro il colonialismo inglese.

Una frase ben riuscita e su un tema così allettante (come si immagina il Creatore uno scienziato di gran vaglia e tanto enigmatico) è facilmente soggetta a essere erroneamente attribuita a un personaggio più famoso del suo vero autore, a essere riscritta per renderla più ficcante, e a essere inserita in circostanze assai più drammatiche e canoniche di quelle realmente verificatesi. Robert May nel 1989 su Nature interpretò la frase come una risposta di Haldane al classicista Benjamin Jowett durante un pranzo alla tavola alta del Balliol College di Oxford. Ma Jowett era morto nel 1893 e forse la domanda fu da lui rivolta a Thomas H. Huxley o al padre, illustre fisiologo scozzese, di Haldane stesso. Redarguito dai lettori di Nature per l'anacronismo, May rispose deliziosamente: "I vincoli mondani di tempo e di spazio non si applicano alle storie che riguardano Oxford" (citato in Gould, 1995, p. 380). Gli amici sostennero che Haldane aveva una smodata predilezione per quella frase sui coleotteri e che la ripetè in più occasioni conviviali, anche in assenza di austeri teologi invitati. Però non la mise mai per iscritto ed essa compare soltanto, in versione edulcorata, nella trascrizione di un suo discorso tenuto alla British Interplanetary Society nel 1951, circa le forme di vita su altri pianeti.

Qui Haldane, autore della prima teoria matematica della selezione naturale e artificiale (Haldane, 1932), fece notare che considerando l'esistenti di 400mila specie di coleotteri allora nominate, a fronte dei quattromila e poco più mammiferi e di un solo rappresentante rimasto del genere Homo, il problema teologico di spiegare i 400mila tentativi di fare un coleottero perfetto era alquanto preoccupante. A parte l'ironia, c'è qualcosa di saggio nel presupporre che un "significato ultimo" possa risiedere proprio nell'ineguagliata diversità di forme raggiunta da un gruppo di esseri viventi che quasi mai colpiscono la nostra attenzione, e nel fatto che, nonostante tutta la sua arcana bizzarria, la natura biologica dopo Darwin diventa potenzialmente comprensibile nella sua trama di relazioni.

Chiunque osservi onestamente l'albero della vita sa che noi siamo alla periferia dell'impero della biodiversità e che ci siamo fatti largo fin qui in virtù di una congerie di circostanze favorevoli, nonostante la smodata predilezione dell'evoluzione verso coleotteri, icneumonidi e altri insetti (il cui numero di specie attualmente stimato è esorbitante e avrebbe assai compiaciuto Haldane). Al "cospetto" della Terra e della sua diversità lussureggiante (in gran parte microscopica), chi oserebbe ancora dire - scriveva nei taccuini giovanili un appassionato collezionista di coleotteri fin da ragazzo, di nome Darwin - che l'intelletto è l'unico scopo di questo mondo? Ebbene, lo spodestamento dal baricentro della biodiversità reca con sé non soltanto un'inevitabile inquietudine ma anche una conquista nobilitante: il senso di appartenenza a una grande storia naturale comune, che non è fatta a nostra immagine e somiglianza. Ciò di cui si è una piccola parte non può essere né un mezzo per sé, né un fine al di là di sé. Quel che possiamo fare è giocare bene la nostra specificità culturale ed etica, nei gradi di libertà che riusciamo a conquistare. L'orizzonte resta sempre una linea naturale, anche se ogni volta si sposta più in là. Così leggiamo nella conclusione di L'origine delle specie: "Quando considero tutti gli esseri non come creazioni speciali, ma come discendenti in linea diretta di pochi esseri che vissero molto tempo prima della deposizione dei primi strati del sistema cambriano, mi sembra che essi siano nobilitati" (p. 553).

Sì, aveva proprio ragione Laura FitzRoy, quest'uomo ha oltrepassato il segno. Quel segno che Spinoza nell'Ethica, intento a smontare il pregiudizio primario della teleologia, aveva descritto così bene: "Trovando gli umani in sé e fuori di sé non pochi mezzi, che giovano parecchio per conseguire il proprio utile, come per esempio gli occhi per vedere, i denti per masticare, erbe e animali per cibarsi, sole per illuminare, mare per allevar pesci, eccetera, è avvenuto che considerino tutte le cose naturali come mezzi per il loro utile; e poiché sanno che quei mezzi sono stati da loro trovati ma non preparati, ne hanno tratto motivo per credere che esista qualcun altro che ha preparato quei mezzi per loro uso. Infatti, dopo aver considerato le cose come mezzi, non poterono credere che esse si fossero fatte da sé; ma dai mezzi che essi stessi sogliono prepararsi, doverono concludere che ci fosse qualche o alcuni reggitori della natura, forniti di libertà umana, che si fossero curati di tutto per loro, e avessero fatto tutto per loro uso" (1677, Parte Prima, Appendice, p. 36).

Il segno è stato oltrepassato dall'umiltà evoluzionistica che fece sospettare, ancora a Haldane, in Possible Worlds del 1927, che "l'Universo sia non soltanto più eccentrico di quanto supponiamo, ma più eccentrico di quanto possiamo supporre". Ne deriva che ogni possibilità di vita realizzata valeva la pena di essere esplorata, proprio per la sua unicità. Se non c'è inferiore e superiore in natura, né gerarchie fra i rami del corallo della vita, l'insieme di fragili opportunità che noi siamo non potrà che ritrovare una maggiore solidarietà. In conclusione, dunque, che cosa ha a che fare questa saggezza naturalistica con la nostra vita? Rovesciando quanto scrive Vito Mancuso nel libro prima citato (2009), possiamo dire che l'uomo "autentico" è sì certo l'uomo che vive per la giustizia, il bene e la verità, ma proprio perché sa che la logica del mondo non è necessariamente indirizzata alla giustizia, al bene, alla verità. Responsabilmente, sa che la natura non offre lezioni morali e che non dobbiamo proiettare i nostri pregiudizi e le nostre personificazioni su di essa. E tuttavia, se mai esistesse, quella "logica del mondo", che non aveva presagito tutto questo, ha alfine partorito la specie umana e il suo corredo di potenzialità. Come scriveva Stephen J. Gould nel 1998: "Come posizione morale preferisco la teoria della 'doccia fredda', secondo la quale la natura può essere davvero 'crudele' e 'indifferente', in quanto non esiste a nostro beneficio, non sapeva che saremmo venuti e non le importa assolutamente nulla di noi (metaforicamente parlando). Considero tale posizione liberatoria, non deprimente, perché ci dà la capacità di sviluppare un discorso nei nostri termini, liberi dall'illusione di poter leggere passivamente la verità morale nella attualità della natura" (1998, p. 285).

È il fascino di un'evoluzione che non ci aveva previsto, di un'evoluzione non necessaria ma possibile. Nella meraviglia rdi questo esistere non pianificato si aprono le opportunità di decidere del proprio futuro. Ed è una possibilità realmente e compiutamente etica proprio perché non la deleghiamo al senso ultimo di un presunto ordine naturale necessitante. Dipende da noi. Siamo liberi e responsabili di fronte a questa possibilità, non certo pretendendo di cambiare velleitariamente la natura umana dall'oggi al domani, ma sperando ragionevolmente di condizionare la sua ulteriore evoluzione, naturale e culturale, a favore di migliori condizioni di esistenza, di dignità per ogni essere umano e di convivenza con l'insieme degli ecosistemi che ci permettono di sopravvivere.

C'è poi un impegno etico, nei confronti dell'Universo, che dobbiamo onorare. Dobbiamo sollevare l'Universo dalle nostre pretese, smettendola di rifugiarci in tautologie rassicuranti: se le costanti fìsiche fondamentali dell'Universo fossero state leggermente diverse, la vita non sarebbe possibile. E infatti, la vita basata sul carbonio è stata possibile, questa volta, essendosi adattata alle leggi naturali, e siamo qui, ben felici, a raccontare il fenomeno. Forse la vita impregna persino l'Universo oltre ogni nostra immaginazione e rivendicazione di originalità. Con leggi diverse forse sarebbe stata diversa o non sarebbe possibile: una contingenza anch'essa. Siamo l'unico campione statistico finora noto di vita planetaria macroscopica, aspettiamo di conoscerne altri prima di tirare conclusioni affrettate circa la nostra eccezionalità.

La predisposizione dell'Universo alla comparsa di esseri viventi è una coincidenza favorevole: potremmo prenderne atto e rallegrarcene senza scorgere in essa significati che nessuna indagine scientifica può avallare, come suggerisce saggiamente l'astrofisico padre George Coyne (in Chiaberge, 2008, p. 112). Quanto al piatto forte della teleologia cosmica che di solito viene subito dopo - secondo il quale, in virtù del fatto che la vita umana non esisterebbe con leggi naturali minimamente diverse, allora tali leggi devono essere necessariamente proprio così perché progettate da una mente superiore che prevedeva la nostra presenza di esseri coscienti - sia lecito dire rispettosamente che è davvero l'espressione, finanche commovente, di un antropocentrismo talmente cosmico, e illogico, che non resta che attendere che il supercomputer Pensiero Profondo, dotato di un bonario senso dello humour, dai recessi della radiazione cosmica risponda: "Quarantadue".

La contingenza non impedisce affatto di vivere per qualcosa di più grande di sé, ma suggerisce di farlo in un modo diverso da quello adottato seguendo troppo entusiasticamente le nostre aspirazioni cosmiche e le nostre fallaci ricostruzioni del passato. Per la specie umana qualcosa di più grande dell'io individuale darwiniano esiste eccome: è il futuro, una dimensione etica di non prossimità, che non ha alcun bisogno del giogo escatologico, nessuna necessità di ipotecare ciò che sarà sulla base di false credenze circa la storia naturale che ha condotto fin qui. Nel futuro possiamo riporre le "speranze congetturali" descritte da Paolo Rossi (2008), cioè speranze affidate a sensate e limitate supposizioni, ancorate a fallibili congetture, e pur tuttavia speranze umane, tipicamente umane (perché non basate su fantomatiche logiche del mondo), speranze di specie, speranze su generazioni a venire, speranze che danno un senso solidale, tutto nostro, a ciò che di per sé un senso non ce l'ha. L'impossibilità di dirigere la storia e di rimuovere la contingenza non annulla quindi il dominio delle finalità, ma lo attribuisce propriamente alle intenzioni umane, alla nostra capacità di darci fini perseguibili e limitati.

Nei confronti della credulità umana possiamo infatti avere un atteggiamento scientifico e capire perché siamo "nati per credere". La spiegazione non avrà alcunché a che vedere con una giustificazione, ma nemmeno con una miracolosa terapia. Sappiamo infatti che il bisogno di credere - persino in un Universo "fatto per noi" - è più forte di qualsiasi scettica disamina della credulità, o di qualsiasi calcolo di probabilità su teiere volanti, né il bisogno di credere ci dice alcunché sulla reale esistenza o meno di ciò in cui crediamo. Non potremo certo risolvere facilmente un problema se quel problema, per molti, è una soluzione, o una ferita aperta. Potremmo però giocare diversamente la nostra propensione a credere, rivolgere ad altri scopi il precursore naturale che ci rende più facile scommettere su un pensiero anziché su un altro, soprattutto se il credere riguarda ciò che ci è dato sperare e la possibilità di una giustizia, nonostante tutto, nei tempi umani che verranno. In un mondo che poteva fare a meno di noi, ma che ci ha pur dato l'opportunità di comprendere e di abitare il nostro passaggio, si spalanca l'altra metà della notte del tempo, con tutte le sue storie indeterminate che attendono di essere illuminate.

Il film della vita passata, quello dove Pikaia spericolatamente ce la fa e la vita sopravvive a sequenze di svolte generative e di catastrofi al termine delle quali sboccia un ramoscello ominino imprevisto, è ai titoli di coda. Gli scienziati sono convinti che se salissimo in sala di proiezione e facessimo scorrere di nuovo la pellicola, non vedremmo lo stesso finale. Ma non abbiamo modo di verificarlo. Il film della vita futura, invece, è ancora tutto da girare ed è pieno di congetture da controllare, di variabili da saggiare, di possibilità controfattuali da esplorare. Crediamo allora nel futuro, se proprio dobbiamo credere a qualcosa. Perché adesso sappiamo che nessuna necessità ce lo può rubare.