MicroMega 1/2012

Almanacco della scienza


DAVID ABULAFIA

1492: LA SCOPERTA DI UN'ALTRA UMANITÀ

Esseri umani a tutti gli effetti o bestie dalle fattezze umane? 'Cosa' erano quegli esseri così simili agli uomini, che andavano in giro nudi, con il corpo dipinto, che non conoscevano Cristo (né Maometto) di fronte ai quali si trovarono gli esploratori europei che misero piede per la prima volta nelle Americhe? Quel primo incontro costituì il 'peccato originale ' che ci portiamo appresso ancora adesso: l'incapacità di riconoscere laltro da noi come pienamente uomo.


Alle prime luci dell'alba del 12 ottobre 1492, Cristoforo Colombo e i suoi compagni sbarcarono dalle loro tre navi dopo un lungo viaggio attraverso l'Atlantico e videro per la prima volta gli indiani taino, che abitavano le terre in cui erano approdati. Avevano temuto di incontrare genti mostruose, ma constatarono subito che si trattava di esseri umani a tutti gli effetti poiché^ sia uomini sia donne, circolavano completamente nudi. Gli uomini erano «davvero ben fatti», i loro corpi «meravigliosi» e anche i volti erano molto piacevoli. Invece di indossare indumenti, mostravano volti e corpi dipinti, spesso completamente: privilegiavano il bianco, il rosso e il nero. Anche se si dipingevano di nero, il loro colore naturale era più chiaro: «Hanno il colore degli abitanti delle Canarie, né nero né bianco; nessuno di loro è scuro, ma piuttosto del colore degli abitanti delle Canarie, e non ci sarebbe da aspettarsi niente di diverso, dal momento che quest'isola si trova alla stessa latitudine dell'isola di El Hierro nelle Canarie». Una chiara espressione della credenza comune che il colore della pelle fosse determinato soltanto dalla latitudine e che più una persona viveva prossima all'Equatore e al Sole, più la sua pelle diventava marrone e poi nera. Quel giorno, prese avvio una serie di eventi che avrebbe completamente trasformato l'idea che europei e nativi americani avevano del loro posto nel mondo.

Che cos'è un essere umano?

Durante il Rinascimento, all'incirca tra la metà del XIV e l'inizio del XVI secolo, gli europei avevano riscoperto alcuni aspetti del passato classico che avevano stimolato idee nuove e radicali sul ruolo occupato dall'uomo nell'Universo, oltre che trasformato la letteratura e le arti. Nello stesso periodo avevano cominciato ad accumularsi conoscenze sulle caratteristiche fisiche del mondo e non tanto perché i primi esploratori fossero impegnati, in spirito rinascimentale, nella pura ricerca della conoscenza, quanto perché inseguivano obiettivi più tradizionali: cercare oro e spezie in Giappone, Cina e India e sconfiggere il nemico musulmano accerchiando l'islam. Questa ricerca culminò nell'apertura delle rotte marine attorno all'Africa verso le Indie Orientali da parte dei portoghesi e attraverso l'Atlantico verso le Indie Occidentali da parte degli spagnoli. Ciò comportò la scoperta non solo di nuove terre, ma anche delle popolazioni che le abitavano. E dunque l'epoca in cui gli europei incontrarono per la prima volta genti che vivevano al di là dell'Atlantico, da cui erano stati fino ad allora isolati e che, con loro grande sgomento, non avevano mai sentito il nome di Cristo (o quello di Mose o Maometto). Erano i rappresentanti di quelle che più tardi sarebbero state chiamate culture dell'età della pietra: popoli che non avevano nozioni sui metalli duri, non avevano città, spesso non portavano indumenti e qualche volta, è stato riferito, traevano un piacere perverso dal nutrirsi di carne umana. Alcune di queste popolazioni furono trovate nell'arcipelago delle Bahamas quando Colombo vi giunse per la prima volta; molte altre ne vennero scoperte nelle isole caraibiche più gl'alidi, a sud, e soprattutto a Hispaniola (oggi divisa tra Haiti e la Repubblica Dominicana). In ciascuno dei suoi quattro viaggi, Colombo cercò la via per Cina e India, nella convinzione che le terre che aveva scoperto si trovassero molto vicine all'Asia orientale. Il grande interrogativo per gli europei del Cinquecento era il seguente: quelle donne e quegli uomini «primitivi» dovevano considerarsi davvero esseri umani o piuttosto erano bestie con fattezze umane, create in modo conveniente per essere subordinate e costrette a lavorare per i loro conquistatori?

Per gli europei, la definizione di essere umano dipendeva dall'aspetto esteriore e in questo caso l'esperienza non corrispondeva alle storie di uomini con testa di cane che si leggevano nella letteratura medievale: descrizioni fantastiche di popoli dell'Asia e dell'Africa si potevano trovare per esempio nell'assai fantasioso libro di viaggi scritto da Sir John Mandeville sul finire del XIV secolo. Eppure i popoli appena scoperti apparivano completamente umani. Colombo non fu il solo a insistere sul fatto che fossero davvero «bellissimi». Forse, allora, erano i loro comportamenti a farli apparire meno umani: i resoconti parlano di una notevole libertà sessuale, di falsi indovini e di un certo gusto per la carne umana. La loro totale ignoranza del cristianesimo rappresentava un enigma, dal momento che secondo i Vangeli il Verbo di Cristo era stato inviato in ogni angolo del pianeta. Perché non aveva raggiunto quei popoli? Toccava dunque alla Spagna, sotto i monarchi cattolici Ferdinando e Isabella, la gloriosa missione di evangelizzarli? Tutto sommato suonava come un crudele ritardo nell'assicurare la salvezza di milioni di anime.

Il contatto ebbe enormi ripercussioni per le popolazioni che furono scoperte e per le loro terre, conquistate dalla Spagna. Costretti a lavorare nelle miniere d'oro, e persino ridotti in schiavitù, i nativi morirono per la maggior parte di fatica e a causa delle malattie provenienti dall'Europa, contro le quali non avevano difese. Sarebbe difficile sostenere che si sia trattato di un «genocidio» deliberato, poiché quelle morti di massa non erano state pianificate, e finirono anche con il creare difficoltà ai conquistatori, che avevano bisogno di manodopera per l'estrazione dell'oro, e più tardi di zucchero, dai nuovi possedimenti. Ciò che si nascondeva dietro questa terribile perdita di vite umane era, piuttosto, pura stupidità da parte dei conquistatori. La mancanza di lavoratori provocata da quei decessi di massa ebbe un'ulteriore tragica conseguenza: una nuova forza lavoro fu identificata negli schiavi africani, che iniziarono a essere importati in numero crescente dai porti commerciali portoghesi situati sulle coste occidentali dell'Africa, dando il via all'orribile tratta transatlantica degli schiavi.

La scoperta di nuove popolazioni fu una sorpresa per molte ragioni. Naturalmente gli europei conoscevano le storie di strane razze ai confini del mondo, ma queste si trovavano in Asia o in Africa, in aree contigue all'Europa, comprese le terre descritte da Marco Polo nei suoi resoconti di viaggi in Estremo Oriente. Il mistero sulle popolazioni d'Oltreatlantico si fece più fitto quanto più diventavano note le dimensioni delle Americhe. Colombo considerò i popoli incontrati come sudditi dell'imperatore della Cina o del Giappone. Ma potè anche constatare che si trattava di popoli isolati, semplici, che vivevano vite disadorne e fu forte la tentazione di considerarli discendenti dell'età dell'oro descritta dagli autori classici, un tempo in cui l'umanità viveva libera da ansie materialistiche legate al benessere e alla proprietà. Un cortigiano di Ferdinando e Isabella, l'italiano Pietro Martire Vermigli, pensò che gli europei avrebbero potuto imparare qualcosa da quelle società: «Non conoscono i pesi e le misure, e nemmeno quella fonte di eterne disgrazie che è il denaro». Né conoscevano i «giudici bugiardi» che si trovavano in Spagna.

Boccaccio, Petrarca e i nativi delle Canarie

La storia in realtà non cominciò con Colombo nel 1492, ma con la prime spedizioni europee nell'arcipelago delle Canarie. In queste isole, i visitatori che vi giunsero dal 1340 in poi trovarono quella che a tutti gli effetti era una popolazione dell'età della pietra, del tutto inconsapevole del mondo esterno, come pure del cristianesimo o dell'islam. Non è noto quando esattamente quelle popolazioni si insediarono alle Canarie, ma sappiamo che si trattava di pastori che vivevano nelle grotte ed erano strettamente correlati con i berberi dell'Africa settentrionale. Per gli europei, il primo incontro con queste genti fu decisamente importante, poiché la vista di persone nude che non conoscevano i metalli e i libri modellò l'atteggiamento degli esploratori che più tardi andarono ai Caraibi nei confronti dei nativi. Ciò è dimostrato dal fatto che, dopo la loro scoperta, le Indie Occidentali vennero talvolta chiamate «Nuove Canarie» e che la prima reazione di Colombo di fronte agli indiani taino fu di paragonarli agli abitanti delle Canarie. La perplessità degli europei di fronte agli abitanti delle Canarie era spesso unita all'ammirazione per i loro «valori cavallereschi», rivelati nella coraggiosa resistenza ai tentativi di conquista da parte di portoghesi, francesi e spagnoli; l'ultima isola conquistata, Tenerife, cadde sotto il dominio spagnolo soltanto nel 1496. La loro semplicità e la loro onestà li rese facili bersagli per le politiche di conversione al cristianesimo. Una straordinaria leggenda riferisce come, attorno al 1400, la Vergine Maria fece visita a Tenerife sotto forma di una statua miracolosa che gli isolani trovarono sulla spiaggia e istintivamente presero a venerare. Un cronista del XVI secolo, Espinosa, argomentò che la popolazione di Tenerife viveva sotto la protezione della Vergine già un secolo prima che fosse conquistata e convertita. Nella sua visione, aveva una naturale disposizione al culto di Dio.

La prima grande spedizione verso le Canarie ebbe luogo sotto gli auspici dei reali del Portogallo nel 1341 e fu descritta in una notevole lettera da Giovanni Boccaccio, il grande uomo di lettere fiorentino. Vi si sente la meraviglia dei marinai europei al momento dell'incontro con gli isolani. I locali non davano valore all'oro e non conoscevano il vino e il pane. Tuttavia mostravano rispetto per i loro capi ed erano gentili e di buone maniere più di molti europei, notò Boccaccio. La sua lettera fu il primo intervento di un dibattito infinito. Boccaccio mostrò quanto fosse impressionato dalla semplicità della vita di quelle popolazioni, che idealizzò. Al contrario, il suo eminente amico Francesco Petrarca descrisse gli abitanti delle Canarie come creature che non avevano conoscenza dei normali rapporti sociali, più animali che uomini. Le opinioni sui popoli «primitivi» si polarizzarono tra i punti di vista positivo e negativo incarnati rispettivamente da Boccaccio e Petrarca.

Contribuendo al secondo punto di vista, nel XV secolo il re del Portogallo sostenne che gli abitanti delle Canarie conducevano vite così primitive e così simili a quelle degli animali che le potenze cristiane (come la sua) avevano tutto il diritto di dominarli. Alla fine le Canarie furono assegnate per trattato alla Spagna, ma la questione se i re cristiani avessero il diritto di stabilire il proprio dominio su territori non cristiani che non avevano arrecato loro alcuna offesa fu dibattuta vigorosamente.

Alcuni ritenevano che questi popoli dovessero essere lasciati nella loro purezza incontaminata, specialmente se le loro vite erano regolate da una «legge naturale», che si presupponeva includesse l'esistenza di un solo Dio creatore, di un sistema etico di giustizia e di leggi contro l'incesto. Questa tensione tra il punto di vista di chi considerava la vita dei popoli primitivi, libera da costrizioni materiali, come pura e non corrotta, e quello di chi li considerava incapaci di regolare i propri affari, continuò per tutto il XVI secolo. Il più famoso difensore delle popolazioni indiane sudamericane fu Bartolomé de las Casas (1484-1566) che, dopo aver incontrato Colombo, sostenne i loro diritti alla presenza dei monarchi spagnoli Carlo V e Filippo II. Altri, come Colombo e Pietro Marlire Vermigli, avevano opinioni confuse, tanto positive quanto negative, il che del resto non sorprende considerata l'assoluta novità delle scoperte e la grande incertezza su che cosa fosse stato davvero scoperto.

Brutali cannibali o innocenti figli di Adamo?

I taino delle Bahamas e dei Caraibi furono scoperti da Colombo prima che la conquista delle Canarie fosse completata. Come gli abitanti delle Canarie, i taino non conoscevano i metalli (a eccezione di quelli preziosi, desiderati con tanta insistenza da Colombo); diversamente da loro, però, erano parte di una larga rete interconnessa di isole ben popolate, che mantenevano i contatti attraverso l'uso di canoe perfettamente intagliate. Gli osservatori notarono con approvazione l'esistenza di una struttura sociale e l'importanza rivestita dai legami familiari. Si ritenne che i taino credessero in un unico Dio creatore, ma senza avere una «religione», ragione per cui Colombo dedusse che non fossero cristiani e, fu contento di riferire, nemmeno musulmani o ebrei. Sembravano vivere in una società governata da un codice etico. Furono descritti come «docili» e «garbati», termini che implicavano che avessero bisogno di essere protetti da parte di conquistatori spagnoli bene armati. E in effetti dovevano fronteggiare nemici feroci.

Colombo riportò dai Caraibi notizie su un altro popolo, violento e bellicoso, che si nutriva di carne umana, noto come caribe o caribales, e che diede il suo nome tanto al Mar dei Caraibi quanto alla pratica del cannibalismo. Gli indiani taino che abitavano le Grandi Antille (Hispaniola, Porto Rico e le altre isole più grandi) in diverse occasioni implorarono gli spagnoli di difenderli dai brutali caribales e gli spagnoli poterono vedere le prove della particolare dieta di questi guerrieri quando trovarono resti rosicchiati di ossa umane nelle capanne comuni sulle isole minori delle Piccole Antille. L'importanza di questi resoconti fu enorme: la distinzione tra i mangiatori di uomini, o cannibali, e i pacifici e sottomessi taino delle Grandi Antille, divenne molto netta. Colombo adorava i giochi di parole che provassero come egli fosse arrivato ai confini dell'Estremo Oriente. Il termine cariba fu trasformato in caniba, «uomo-cane», dal latino canis; in effetti, Mandeville ne aveva descritte diverse razze che popolavano le terre nell'Oceano Indiano. Oppure Colombo leggeva il nome di quella popolazione come khaniba, ovvero come un indizio significativo che si trattasse di sudditi del Gran Khan cinese.

Al momento della sue prime scoperte, Colombo adottò una visione positiva degli indiani taino, poiché era determinato a mostrare che era giunto ai confini del Paradiso: terre fertili e piene d'oro abitate da popoli docili che vivevano in naturale semplicità. Il suo amico Amerigo Vespucci pubblicò il resoconto dei suoi quattro viaggi nel Nuovo Mondo intorno al 1500 (sebbene sia improbabile che ci sia andato più di due volte). Tradotte in molte lingue, le lettere di Vespucci divennero un bestseller, surclassando anche quelle di Colombo. Raccontavano storie preoccupanti di cannibali che popolavano l'America meridionale: uomini che appendevano le membra dei nemici massacrati al centro delle capanne, come prosciutti di Parma, e poi le divoravano come animali selvaggi. Mentre Vespucci perpetuava l'immagine estremamente negativa dei nativi americani, altri visitatori dell'America meridionale venivano commossi dalla loro innocenza e mitezza. Compiendo una rotta insolita nell'Atlantico, una flotta portoghese diretta in India scoprì nel 1500 la terra che sarebbe diventata il Brasile. Al re del Portogallo fu spedito un resoconto sulla popolazione locale di indiani tupinambà, in cui veniva descritto il loro stupore al cospetto dell'ammiraglio portoghese, l'apparente interesse per le cerimonie cristiane alle quali avevano partecipato, i loro fisici asciutti e l'innocente nudità: «Sire, l'innocenza di Adamo nel mostrare il suo corpo nudo senza vergogna non era più grande di quella di questi popoli. Sua Maestà giudicherà se popoli che vivono in tanta innocenza possano essere convertiti o meno, se a loro fossero insegnate le cose che riguardano la loro salvezza». Questo genere di racconto può essere letto in due modi: come la prova che quei popoli vivevano in un mondo paradisiaco, che replicava in qualche modo le condizioni dell'Eden; o come la prova che vivevano come animali brutali, senza alcun senso del pudore nell'atto di mostrare gli organi sessuali. In modo significativo, questo dibattito proseguiva quello precedente tra Boccaccio e Petrarca sugli abitanti delle Canarie. I portoghesi che scoprirono il Brasile credevano nella salvezza degli indigeni come cristiani, ma altri come Oviedo, influente storico della corte spagnola, furono più aggressivi. Secondo Oviedo, la loro nudità era un invito alla lussuria e le descrizioni di intere famiglie che vivevano nude in grandi capanne fianco a fianco con altre famiglie ugualmente nude generarono orrore e sospetti di pratiche incestuose. A questo proposito, non ci fu alcun tentativo di comprendere che i costumi delle popolazioni amerinde potessero essere fondati su una scala diversa di valori; ciò che i cristiani consideravano vergognoso non aveva alcun significato per i nativi che, viceversa, guardavano con sospetto i costumi e le usanze dei cristiani.

Una storia di inumanità

I conquistatori spagnoli trattarono gli indiani taino come sudditi legalmente liberi e proibirono per legge la loro riduzione in schiavitù: la regina Isabella divenne furiosa quando le furono mandate navi di schiavi taino. Indipendentemente dal loro stato, i taino erano comunque tenuti a corrispondere pesanti tributi in oro e per questo furono organizzati in squadre di lavoro assegnate ai coloni spagnoli di Hispaniola e delle altre isole. Il loro trattamento, sostenne las Casas, era peggiore di quello riservato agli schiavi: erano trattati come «escrementi lasciati in mezzo alla strada». Las Casas registrò orribili abusi: gli spagnoli aizzavano contro di loro i cani da caccia e le loro donne venivano rapite e stuprate, comprese le regine.

La corte di Spagna non era cieca davanti agli abusi, specialmente quando una nuova ondata di orrore ebbe inizio con la conquista di Cuba nel 1511-12. Le leggi di Burgos, promulgate nel gennaio del 1512, tentarono, senza successo, di garantire qualche protezione contro la rapida scomparsa dei taino, spinti fino all'estinzione dal lavoro nelle miniere d'oro. Anche le malattie pretesero un terribile tributo, poiché i nativi non avevano resistenze immunitarie contro i germi portati dagli europei. L'obbligo di lavorare nelle miniere d'oro portò a una rapida diminuzione della popolazione poiché gli uomini vivevano separati dalle donne per interi mesi, con un collasso del numero delle nascite. La Corona voleva garantire il diritto dei nuovi sudditi d'Oltreatlantieo a non subire la schiavitù (a patto che non si fossero ribellati), ma voleva allo stesso tempo assicurarsi i maggiori profitti possibili dalle Indie Occidentali, anche se ciò implicava lo sfruttamento brutale dei popoli nativi. Sebbene secondo la legge fossero liberi, a corte si sostenne che i taino fossero «schiavi naturali», sottomessi per disposizione e incapaci di esercitare un vero e proprio potere. Quindi, il posto adatto per loro era il lavoro forzato. Al contrario gli ignobili e violenti cannibali vivevano al di fuori della legge e potevano legittimamente essere ridotti in schiavitù e persino uccisi in una guerra giusta.

Gli spagnoli mostrarono scarso interesse a convertire le anime degli indiani. Taluni, come lo storico Oviedo, nutrivano persino qualche dubbio che essi possedessero un'anima paragonabile a quella dei buoni europei. Uno scrittore spagnolo li chiamò «animali parlanti». Anche il loro grande difensore las Casas osservò che gli indiani erano in fondo come bambini e per questo avevano bisogno di essere protetti, non sterminati, sostenendo in definitiva che il ruolo della Spagna dovesse essere quello di accompagnare questi milioni di anime nella congregazione dei fedeli. Nel suo libro Breve relazione sulla distruzione delle Indie ritrasse un capo taino che, in fuga da Hispaniola a Cuba, disse ai suoi seguaci: «Hanno un dio che venerano enormemente e vogliono che anche noi lo veneriamo, ecco perché combattono contro di noi e vogliono assoggettarci». Portava con sé una cesta piena d'oro e di gioielli e disse: «Potete vederlo qui, il Dio dei cristiani». Las Casas sostenne che quei taino che resistettero contro gli spagnoli stavano combattendo una guerra giusta, anche se questo comportava schierarsi con gli infedeli contro i cristiani: «Le guerre condotte dagli indiani contro i cristiani sono state giustificabili e tutte le guerre intraprese dai cristiani contro gli indiani sono state ingiuste, molto più diaboliche di ogni altra guerra condotta in qualunque altra parte del mondo». L'incontro degli europei con i popoli primitivi sollevò questioni fondamentali relative a come definire un essere umano, se in termini di aspetto, credenze, costumi, dieta e cosi via.

E c'erano questioni anche più profonde. Perché Dio aveva permesso a questi popoli di prosperare nell'ignoranza della sua parola? Taluni, specialmente il prolifico e dogmatico Oviedo, sostennero che i primi missionari cristiani, come san Tommaso Apostolo, erano effettivamente arrivati fino a quelle terre, ne avevano convertito gli abitanti, ma presto erano stati dimenticati, facendo degli amerindi una specie di popolo di rinnegati, troppo stupidi per i valori cristiani. Altri videro quegli anni attorno al 1500 come l'ultima fase di un processo di evangelizzazione cominciata con Gesù e che giungeva solo allora a conclusione, con gran finale per tutti: la sconfitta dei turchi, la riconquista di Gerusalemme, la seconda venuta di Cristo e la redenzione del genere umano. In tutto ciò, re Ferdinando II d'Aragona, persecutore di ebrei e musulmani, era considerato un «agente speciale» di Dio, insieme a Cristoforo Colombo, il cui nome significava «portatore di Cristo». Questi temi messianici divennero sempre più espliciti negli scritti di Colombo, ma furono anche individuati in atti come l'espulsione degli ebrei dalla Spagna e dal Portogallo e la conquista della città musulmana di Granada nel 1492. Inativi delle Canarie, dei Caraibi e del Sudamerica facevano parte in qualche modo degli schemi della Divina Provvidenza. Ma come? Questi dilemmi erano destinati ad avere un'enorme influenza sull'evoluzione del mondo moderno.

La questione se nuovi popoli potessero essere conquistati, resi schiavi o costretti a lavorare in qualche altra forma per i loro dominatori durò per tutto il periodo compreso tra il primo viaggio alle Canarie e la morte di re Ferdinando II d'Aragona nel 1516. Al momento della sua morte, le potenze iberiche in America non si erano ancora addentrate oltre la costa, né avevano incontrato le grandi civiltà dell'America centrale e meridionale. I primi confronti con popolazioni per lo più nude che non avevano città, metalli, scrittura, strutture politiche elaborate o templi monumentali stabilì il paradigma delle relazioni tra europei e popoli nativi. La conquista del Messico dal 1519 in avanti cominciò sotto un nuovo re, Carlo I, futuro imperatore di Germania e re di Spagna, e comportò la conquista di una civiltà imperiale dotata di un complesso sistema di città, molto più sofisticata nella sua tecnologia e nelle istituzioni politiche dei popoli nativi caraibici o delle Canarie. Ma l'atteggiamento fu lo stesso dei primi incontri avvenuti sulle isole dell'Atlantico, specialmente per quanto riguarda la riflessione sul diritto dei cristiani a imporre il dominio sulle popolazioni locali, in particolare quelle che praticavano sacrifici umani e il cannibalismo, come gli aztechi. I taino oggi non esistono più, come i nativi delle Canarie, mentre rimangono pochissimi caríbales. La conquista delle loro terre fu seguita da un totale collasso demografico che avvenne a una velocità sorprendente. E questo fu soltanto l'inizio di una serie di contatti che avrebbero svuotato della popolazione nativa vaste aree dell'America settentrionale e meridionale, dell'Australia e di altre terre, per effetto di malattie, stermini, disprezzo e demoralizzazione. Questo tema sta dunque proprio al cuore della storia dell'umanità, anche se in realtà è un tema di inumanità. L'inumanità con cui gli europei trattarono i popoli che incontrarono, quei popoli che frequentemente accusarono di non essere pienamente umani.

(traduzione di Federico Manicone e Valentina Murelli)


MARCO AIME

LA MICCIA DELL'IDENTITÀ

'Ho conosciuto un marocchino, però era una brava persona '. Quante volte abbiamo sentito frasi del genere? Dietro queste espressioni vi è lo stupore per la smentita di un pregiudizio, il riconoscimento di un individuo là dove c'era solo una categoria. Eppure nelle società occidentali si ricorre sempre di più a etichette onnicomprensive per tracciare una netta linea di demarcazione fra 'noi' e loro'.

Ecco come la retorica dell'identità può scivolare facilmente nel tribalismo e nel razzismo.

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Quelli che non sanno o non vogliono ricordare il passato, sono condannati a ripeterlo.

                                           G. Santayana, La vita della ragione

«Tutte le società producono stranieri: ma ognuna ne produce un tipo particolare, secondo modalità uniche e irripetibili». Sembra una parafrasi dell'incipit tolstojano di Anna Karenina, ma queste parole di Zygmunt Bauman mettono in evidenza il processo di produzione dello straniero come individuo, che oltrepassa quei confini che abbiamo creato e che talvolta mal sopportiamo.

Si definisce «straniero», continua Bauman, chi non si adatta alle mappe cognitive, morali o estetiche del mondo e con la sua semplice presenza rende opaco ciò che dovrebbe essere trasparente 1. Secondo lo scrittore e saggista martinicano Edouard Glissant è proprio l'idea di trasparenza a essere pericolosa: «Io rivendico il diritto all'opacità. La troppa definizione, la trasparenza portano all'apartheid: di qua i neri, di là i bianchi. "Non ci capiamo", si dice, e allora viviamo separati. No, dico io, non ci capiamo completamente, ma possiamo convivere. L'opacità non è un muro, lascia sempre filtrare qualcosa. Un amico mi ha detto recentemente che il diritto all'opacità dovrebbe essere inserito tra i diritti dell'uomo».

Straniero è colui che sconvolge i modelli di comportamento stabiliti, che compromette la serenità diffondendo l'ansia, che oscura e confonde linee di demarcazione che devono invece rimanere ben visibili.

Tuttavia la storia, le storie, costringono spesso gli esseri umani, singolarmente o collettivamente, a mutare il cammino intrapreso e magari desiderato, e ad attraversare i confini. All'inizio del secolo scorso l'emigrazione in Italia costituiva un problema; oggi, al contrario, è l'immigrazione a preoccupare. La memoria storica si fa sempre più corta proprio perché non segue un percorso coerente, ma vive sulla spinta degli interessi contingenti. Oggi ci fa paura ciò che eravamo noi stessi qualche decennio fa.

Il tema dell'immigrazione è stato al centro delle ultime campagne elettorali non solo in Italia, ma anche in Francia, Olanda, Ungheria. Un tema brandito emotivamente dalla destra e con andamento ondivago tra il razionale e l'emotivo dalla sinistra. Da entrambe le parti, seppure con intenti opposti e con caratteristiche altrettanto divergenti, si è finito per costruire la categoria «immigrati»: da un lato con il chiaro intento di demonizzarla, dall'altro inserendola in un processo di costruzione di valori fondato sulla solidarietà. Migliaia di vite, di storie, di scelte e di non scelte individuali si trovano così raggruppate in un'unica categoria che, come minimo comune denominatore, condivide il solo fatto di riunire gente nata in qualche luogo lontano da qui. La semplificazione si rende talvolta necessaria per applicare delle norme, però, così facendo, non solo si vincolano a leggi speciali individui con storie e progetti quanto mai diversi, ma si finisce per presentare questa moltitudine variegata come un tutt'uno, una muraglia umana, con il risultato di suscitare timori nella gente comune. Se si parla di «un milione di immigrati», noi immaginiamo un'armata immensa di persone che ci si para davanti minacciosa. Poi, nella realtà quotidiana, finisce che ognuno di noi incontri uno, due, tre stranieri, e che magari si trovi a parlare con loro, ad ascoltarne la voce: allora la massa, frantumata in singole persone, diventa accettabile, non fa più paura. Ciò che fa paura è la minaccia sbandierata dai politici che tende ad allontanare la realtà degli individui, sostituendola a quella delle categorie: «noi» contro «loro». Ecco allora innescarsi la miccia dell'identità.

La creazione dello straniero come categoria e non come individuo non è solo opera della destra. Anche la sinistra, nella sua volontà di integrazione, finisce per favorire questo processo proprio nel riportare il discorso sul piano noi/loro, riproponendo due categorie che di unitario hanno ben poco. Se è vero che non tutti gli stranieri sono uguali, altrettanto si può dire di noi.

Ricordo un anziano vicino di casa che un giorno, mostrandomi un portacenere appena acquistato da un ambulante, mi disse: «Ho conosciuto un marocchino,però era una brava persona». Ho sentito parecchie frasi come questa. Molti hanno conosciuto uno straniero che «però era una brava persona», così come in passato molti del Nord conoscevano un meridionale, anche lui «una brava persona». Sono parole che, da un lato, rivelano quasi stupore per la smentita di un pregiudizio che ci si portava dentro, cioè l'implicita convinzione che lo straniero dev'essere in qualche modo cattivo; dall'altro tuttavia segnalano la capacità di mutare giudizio sulla base di una conoscenza diretta.

Quella che prima non era «una brava persona» forse non era neppure una persona: era uno dei tanti, uno sconosciuto che faceva parte di una massa compatta che annulla la dimensione individuale e trasforma certi stranieri in quelli che Alessandro Dal Lago definisce non-persone. Bravo o meno, l'immigrato diventa persona quando lo si conosce, gli si parla, si entra in relazione con lui. Allora si scopre, magari con stupore, che ha molte cose in comune con noi; le differenze risultano attenuate da quell'occasione di comunicare che ci viene presentata. Quello straniero esce dall'anonimato, se ne conoscono il nome, i problemi, un po' di storia; prima era solamente uno sconosciuto tassello di quel mosaico informe e indifferenziato che ci viene presentato come gli «immigrati», gli «stranieri» o gli «extracomunitari». Tre espressioni che indicano altrettanti modelli di classificazione: la prima basata su una scelta (spesso forzata) della vita di un individuo, la seconda sulla non appartenenza alla nostra nazione e la terza sull'esclusione (magari solo temporanea) dei loro paesi d'origine dall'Unione Europea. Tutte e tre queste definizioni, utilizzate alternativamente nel linguaggio comune e mediático, tendono però a inglobare, appiattendole, storie di vita e strategie spesso molto diverse tra loro.

Se l'emigrazione può costituire un denominatore comune per le migliaia di individui che, oggi come un tempo, abbandonano il loro paese natale, nulla ci dice delle differenti cause che stanno alla base di queste esperienze. Per sfuggire a una guerra, a una carestia, a una dittatura, per cercare un futuro diverso, per migliorare la propria condizione, per cercare fortuna, per spirito di avventura: si emigra per questi e per molti altri motivi. Ma quando media e politici (anche quelli che ne vogliono difendere i diritti) parlano di «immigrati», tutto questo scompare dietro una facciata anonima, facilmente gravabile di stereotipi negativi. Lo straniero è uno che non appartiene alla nostra nazione, ma ciò non significa affatto che tutti gli stranieri siano uguali. Per dirla con Alessandro Dal Lago: «Ciò che infatti hanno in comune immigrati marocchini, algerini, senegalesi o rumeni, zingari, profughi albanesi, bosniaci o curdi è esclusivamente il fatto di non aver diritto a vivere nel nostro spazio nazionale (o sovranazionale) perché non italiani, non europei occidentali, non sviluppati, non ricchi».

Il distacco, il sospetto, la diffidenza nascono nei confronti della categoria, del mucchio astratto definito sulla base di un'uniforme e assoluta diversità culturale. Gli immigrati «non esistono più come soggetti sociali e giuridici specifici, bensì come oggetti di un razzismo indiscriminato», ma, forse, sarebbe diverso se gli individui uscissero a uno a uno da quella massa e diventassero storie. Come scrive Ulf Hannerz:

«Quando le persone concrete sono ritratte nell'incertezza delle decisioni, nella sopportazione di tragedie e perdite, nella cura del proprio aspetto fisico, nel patimento di umiliazioni o nella scoperta di momenti di felicità, un senso di familiarità e di comprensione può sostituire quello di distacco». Utilizzando, invece, categorie collettive e inglobanti, che omogenizzano identità e storie, ecco che si viene a creare l'identità unica deH'«immigrato» diverso per natura, incompatibile con i nostri costumi, assolutamente non integrabile. Se a livello individuale esiste la possibilità di definire il «nostro» straniero su un piano relazionale e personale, fondato sulla nostra percezione, sulla nostra capacità di giudicare le persone e su un piano di relativa parità, quando ci spostiamo in una dimensione collettiva io/lui (o lei) diventa noi/loro. Quest'operazione determina un irrigidimento che spesso porta all'annullamento di ogni forma di negoziazione. Tutti gli individui finiscono in quella che Bauman chiama «sottoclasse», un territorio segnato dall'assenza di identità: «La zona in cui finiscono le persone cui viene negato il diritto di assumere l'identità di propria scelta non è ancora la zona più bassa della gerarchia del potere; c'è uno spazio ancora più in basso. [...] Una zona dove finiscono (o, più correttamente, vengono spinti) tutti coloro cui viene negato il diritto di rivendicare un'identità distinta dalla classificazione attribuita e imposta».

Barbari e naturali

Già nell'antica Grecia si distinguevano quei popoli, la cui esistenza era considerata costituzionale, da quelli definiti naturali. I primi erano nati da una storia, dalla costruzione di regole comuni e dalla volontà dei loro membri di stare uniti, in altre parole erano i popoli civilizzati. Gli altri erano invece i barbari, che venivano situati al di fuori del processo storico e la cui esistenza era considerata come legata alla natura, cioè fondata sulla discendenza, sui costumi e sulla geografia. La loro cultura era determinata dalla natura, più che dalla loro volontà. C'era però, per gli individui, la possibilità di emanciparsi dalla condizione originaria: il barbaro che imparava il greco e che assimilava i costumi della polis diveniva cittadino. Tale visione si è perpetuata nei secoli, con l'attribuzione da parte di quelli che si consideravano civilizzati di una condizione di selvatichezza quasi animale agli indigeni di diverse parti del mondo. In epoca moderna tale visione venne ulteriormente accentuata, anzi si potrebbe dire che l'inizio della modernità coincida proprio con l'incontro con culture fino ad allora sconosciute, come quelle americane. La scoperta di Colombo spezzò la visione monocentrica del mondo e allo stesso tempo diede inizio alla «messa in discorso dell'altro». Fu in seguito a queste nuove narrazioni che i popoli «naturali» continuarono, nel nostro immaginario, a vivere la loro esistenza tribale e condizionata dalla tradizione, mentre l'Occidente dava vita allo Stato nazione e successivamente alla democrazia, che emancipava gli individui dalle pastoie della loro origine per proiettarli in un'esistenza, fatta di regole costruite, per garantire a tutti diritti comuni. Lo Stato, la nazione erano la conquista, il progresso, l'allontanamento dalla natura in favore di una sempre maggiore preponderanza della cultura e delle scelte degli uomini. Non a caso i popoli extraeuropei venivano spesso definiti con espressioni che rivelavano non ciò che erano, ma cosa non avevano: popoli senza storia, senza scrittura, senza Stato. A designarli era sempre una qualche mancanza.

Sarà lo sguardo indulgente e un po' paternalista di Rousseau a rivalutare la condizione naturale degli uomini. Il suo «buon selvaggio», più ipotizzato che reale, viveva in uno stato di assoluta simbiosi con la natura, non ancora intaccato dall'idea della proprietà privata e dell'interesse personale. Il progresso e la civiltà lo allontaneranno poi dalla sua condizione originaria per catapultarlo in un mondo di diseguaglianze. Ecco però intervenire lo Stato a porre rimedio a queste ingiustizie, sancendo e garantendo un patto collettivo. È il contratto tra individui, anche diversi, non la loro origine, a tenere insieme gli uomini.

La Rivoluzione francese diede vita a un cambiamento radicale nel modo di vedere il passato. Per la prima volta ci si rifiutò di riconoscere una matrice etnica al popolo francese, che non venne neppure più definito sulla base della lingua comune, ma sull'appartenenza a una cittadinanza. Da quel momento l'idea di nazione assunse il significato di una comunità basata sull'eguaglianza politica e sulla democrazia,0. L'unico vero requisito, semmai, era la volontà di difendere il bene comune contro gli interessi particolari e di accettare le libertà e le leggi della Repubblica. Nasceva la coscienza di poter scegliere il proprio destino e non di vederselo assegnato da un marchio originario.

Oggi però, proprio nel cuore dell'Occidente, si assiste al sorgere di processi che in qualche modo ricalcano metodi e strategie dei nazionalismi classici, ma in chiave antinazionalista, per rivendicare forme di etnicità subnazionali, sempre più localistiche e al limite del tribalismo.

Terra e sangue

La costruzione dell'altro come nemico si gioca quindi non sul terreno delle idee e della politica, ma sulla sua origine o sulla sua presunta cultura pensata però in modo deterministico, così come si pensa alla razza, vincolata al territorio d'origine e immutabile. Il primato va non al prodotto di un'elaborazione politico-culturale, ma all'autoctonia. Non a caso nelle retoriche di gran parte dei localismi emergenti uno dei termini più ricorrenti è «radici», il che fa supporre che gli esseri umani siano simili agli alberi, il cui legame con il suolo che li ha prodotti è pressoché inscindibile. Anche gli alberi, però, possono essere rimossi e trapiantati altrove: pensiamo a quanto sarebbero più poveri il nostro ambiente naturale e anche la nostra tavola, se dovessimo accontentarci solo delle piante autoctone. In ogni caso, gli umani hanno piedi e non radici. Come ha sottilmente affermato André Leroi-Gourhan, la storia dell'umanità inizia con i piedi e grazie a quei piedi i nostri antenati africani hanno colonizzato l'intero pianeta e anche in seguito hanno continuato incessantemente a camminare. Visti con l'occhio della storia, noi siamo una specie migrante, anche se pensiamo di essere stanziali. I movimenti di massa nella storia dell'Europa e dell'umanità intera sono stati la regola, non l'eccezione. Le popolazioni attuali del pianeta, con le loro numerose lingue, le loro tradizioni e le loro specificità culturali, altro non sono che il risultato di queste ondate migratorie. «L'idea delle frontiere chiuse», scrive Luigi Ferrajoli, «viene ritenuta, nel senso comune, come l'espressione, ovvia e scontata, di un legittimo diritto dei paesi di immigrazione, sorta di corollario della loro sovranità concepita come qualcosa di analogo alla proprietà: "questa è casa nostra" è l'idea corrente, "e non vogliamo, a tutela della nostra proprietà e della nostra identità, che vi entri nessun estraneo"» n. Questa idea xenofoba assai diffusa è in palese contraddizione con tutti i princìpi della nostra tradizione liberale: l'uguaglianza e i diritti umani, la dignità della persona e soprattutto, benché dimenticato e rimosso dalla nostra coscienza civile, il diritto di ciascun essere umano a emigrare.

L'articolo 13 della Dichiarazione universale dei diritti umani afferma che «ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese» e la Costituzione italiana, all'articolo 35 stabilisce che «la Repubblica riconosce la libertà di emigrazione». Se andiamo a ben vedere si tratta però di due dichiarazioni entrambe asimmetriche, formulate a uso degli occidentali, liberi di andare dove vogliono. Questo ius migrandi ci ha consentito di girare tranquillamente per il pianeta, ma nel momento in cui questa asimmetria si è capovolta, il diritto di emigrare è svanito dalla maggior parte dei paesi occidentali e in Italia si è addirittura trasformato in reato.

«L'autoctonia è un modo di fare territorio. Una formula che è facile addomesticare con un pizzico di ecologia». Così scrive Marcel Detienne, ripercorrendo i modi in cui, nell'antica Grecia, si costruiva il mito dell'autoctonia. Perché di mito si tratta o comunque di una verità a tempo determinato. A parte pochi rari casi, si può al massimo parlare di primato dell'arrivo in una terra: quasi nessuno è lì da sempre. La narrazione dell'autoctonia si fa sempre più forte, sempre più prepotentemente si a fi ernia un noi fatto da gente nata qui, figlia di gente nata qui, nipote, pronipote, discendente di altra gente, che di qui non si è mai mossa. Si afferma una continuità, che non solo prevede un filo ininterrotto di sangue che lega le generazioni nei secoli, nei millenni, ma nega ogni apporto esterno.

Essere rimasti lì, nella terra dove si è ora da sempre senza discontinuità, senza essersi mai mossi e senza che nemmeno nessuno sia arrivato da fuori a mescolarsi con noi: letto in questi termini il mito dell'autoctonia richiama quello della purezza e della razza.

«La popolazione dell'Italia attuale è nella maggioranza di origine ariana e la sua civiltà è ariana. Questa popolazione a civiltà ariana abita da diversi millenni la nostra penisola». Così recitava il quarto punto delle leggi razziali emanate dal governo fascista italiano nel 1938. Allora la terra di riferimento era la nazione italiana e quelli da escludere gli ebrei, ma declinata al presente, sostituendo Padania a Italia e padana ad ariana, la stessa frase risulterebbe condivisibile da molti elettori e simpatizzanti della Lega. «E una leggenda l'apporto di masse ingenti di uomini in tempi storici. Dopo l'invasione dei Longobardi non ci sono stati in Italia altri notevoli movimenti di popoli capaci di influenzare la fisionomia razziale della nazione», continuava il quinto punto, mentre il sesto concludeva: «esiste ormai una pura "razza italiana". Questo enunciato non è basato sulla confusione del concetto biologico di razza con il concetto storico-linguistico di popolo e di nazione, ma sulla purissima parentela di sangue che unisce gli Italiani di oggi alle generazioni che da millenni popolano l'Italia». Come si vede il passaggio dalla proclamazione dell'autoctonia al razzismo non è così complicato. Laddove l'eguaglianza vive sul piano etnico e non su quello sociale, l'egualitarismo diventa razzismo.

Il legame fra terra e sangue rimanda a una concezione tribale e fissista: si nasce e non si diventa. L'individuo appare come condannato dalla nascita a essere ciò che la sua terra genera, come un prodotto naturale, dop. Ecco allora che la metafora delle radici risulta quanto mai appropriata a questo tipo di discorso. Siamo nel mondo della natura, di cui non si può e non si deve modificare il corso. La costruzione dell'altro si basa su un noi naturale, qüando invece, «anche i "noi" sono costruiti: non sono dati in natura e nemmeno sono dati nella storia». Invece, secondo Bossi, « i popoli sono il frutto naturale della famiglia naturale. E tutto ciò che è naturale è anche morale». Ecco un altro sintomo di tribalismo. Naturalizzando l'essenza umana e la cultura, e vincolandola alla terra, il «noi» diventa inevitabilmente un «non-loro». «Trattiamo bene la terra su cui viviamo: essa non ci è stata donata dai nostri padri, ma ci è stata prestata dai nostri figli» recita un proverbio Masai. Al contrario, nella retorica dell'autoctonia si evoca una terra lasciata dagli antenati e si sottintende un diritto di possesso inalienabile e di libero utilizzo.

Comunità chiusa

«Gli oggetti si mondializzano, gli individui si tribalizzano» 12. Con questa frase secca e un po' sarcastica lo scrittore francese Régis Debray ha sintetizzato in modo esemplare un fenomeno che segna pesantemente questi ultimi decenni. E davvero così?

La messa in atto di politiche di liberalizzazione su scala mondiale, tipiche della globalizzazione, non si traduce affatto, come ci si potrebbe attendere, in un trionfo dell'individualismo, ma al contrario nella proliferazione di identità collettive. Il progressivo disimpegno dello Stato sociale costringe la cosiddetta società civile a farsi carico dei suoi problemi. Questo incoraggia il fiorire di tutta una serie di strutture (associazioni, ong), che hanno come missione la gestione del sociale al posto dello Stato e che spesso si appoggiano a forme comunitarie.

«Si assiste allora alla ritribalizzazione delle società contemporanee?», si chiede Jean-Loup Amselle. «La risposta è positiva se si considera che questo fenomeno è in relazione con la globalizzazione e la riduzione concomitante della sfera dell'intervento statale, e non con una qualsiasi essenza di società che ritornerebbero allo stato naturale. Così come le etnie africane sono il prodotto di una storia e quindi della modernità, nel senso che risultano dalla concrezione di categorie importate e di categorie locali, le tribù dei quartieri difficili sono anch'esse il prodotto della storia recente delle società occidentali e, in particolare, del disimpegno dello Stato» 13. Siamo in quella società liquida, incerta, descritta da Bauman, in cui i punti fermi tradizionali sono venuti via via a mancare. La postmodernità è un'epoca segnata dalla contingenza, dal sovraccarico di presente a scapito delle altre dimensioni. «L'incubo dei nostri contemporanei è quello di essere sradicati, senza documenti, senza patria, soli, alienati e alla deriva in un mondo di "altri" organizzati» 14. In questa sorta di mare immenso in cui ci troviamo a galleggiare, senza meta e senza un faro in vista, siamo continuamente in cerca di un approdo. Come al naufrago si lancia una corda per aggrapparsi prima di venire portato via dalle onde, ai naufraghi della modernità si getta il salvagente della dimensione etnica. «La dimensione identitaria dell'etnicità si appoggia sul fatto che i membri dello stesso gruppo sono considerati "umani" e degni di fiducia, diversamente dagli estranei. Il gruppo etnico offre un rifugio contro un mondo ostile e indifferente». «L'identità fiorisce sul cimitero delle comunità, ma lo fa grazie alla promessa di risurrezione». Nessun contadino ha mai fatto un museo per proclamare la propria identità: gli bastava esserlo, contadino. L'identità è un surrogato della comunità, che funziona nel nostro mondo individualista ed è «nel momento in cui la comunità crolla che viene inventata la nozione di identità». L'identità è qualcosa che va inventato, non scoperto. E il prodotto di un lavoro di costruzione, non una materia prima che si trova sotto il suolo di un determinato territorio, né un nutrimento per le piante di una certa regione.

E qui che entra in gioco l'etnicità e il «noi» regionale viene definito in termini etnoculturali, che si intrecciano a specifici interessi economici. Mentre il nazionalismo classico, quello sociale, si basava su una società che includeva al proprio interno delle differenze, accomunate da una cultura nazionale condivisa e da un sentimento unanimemente percepito, il nazionalismo etnico è esclusivo, non accetta differenze, perché si fonda esclusivamente sull'identità etnica. Un'identità, che così come viene concepita, indiscutibilmente legata all'autoctonia, non può essere negoziata, né modificata, pena la «contaminazione», termine che incute timore, e non a caso viene utilizzato nelle retoriche della purezza, perché evoca germi, morbi, malattie contagiose e mortali.

Tribalismo di ritorno

Quando la ricerca di comunità si fa ossessione rischia di diventare tribalismo. In che cosa consisterebbe questo tribalismo? Innanzitutto nell'idea di una società «pura», fondata su una presunta origine comune, peraltro definita con vaghezza, ma capace di fornire quell'autoctonia a cui vene attribuita un'importanza fondamentale.

Evitare mescolamenti, conservare la presunta purezza originaria.

La semplificazione, che riduce tutto a due elementi contrapposti, è una cifra della retorica xenofoba, che tradisce la mancanza di elaborazione della complessità, ma si rivela assolutamente vincente sul piano mediático. Inoltre, risponde perfettamente al bisogno di appagare a basso costo un senso di appartenenza, che non prevede diversità interne al gruppo del «noi», né a quello degli «altri». Inoltre, questa visione dicotomica e antagonista, che non lascia spazio a sfumature, favorisce un'adesione acritica al «noi», che comunque risulterebbe migliore della soluzione opposta, costruita ad arte sulla base di connotazioni negative e diametralmente opposte alle nostre. L'idea di società proposta da molti movimenti xenofobi europei è quella di una comunità chiusa, limitata e riservata agli autoctoni. Non una comunità «calda» fondata sulla mutua solidarietà, su legami interni forti, quanto piuttosto una fortezza nata per respingere il nemico e difendere i propri beni. Riprendendo la definizione di Huxley e Haddon a proposito della nazione in genere, si potrebbe dire che «è una società unita da un errore comune riguardo alle proprie origini e da una comune avversione nei confronti dei vicini».

JUAN LUIS ARSUAGA

COME I PRIMI UOMINI SCONFISSERO GLI 'ALTRI UMANI'

Grazie alle scoperte archeologiche e paleontologiche recenti abbiamo conosciuto una storia incredibile, non ancora superata dalla fantascienza. Incontri eccezionali tra diverse forme umane, che gli scrittori immaginano in lontani sistemi solari, avvennero davvero sul nostro pianeta. I Cro-Magnon (i nostri antenati) e i Neandertal convivevano in Europa. 28 mila anni fa questi ultimi si estinsero.

Sarebbe un errore considerarli umani 'arcaici', contrapposti a quelli 'moderni' che sono sopravvissuti.

I Neandertal furono al contrario degli umani molto evoluti: qual è allora la ragione della loro 'sconfitta '?

Il sogno di una notte di inverno

L'uomo-bisonte è in piedi circondato dai ragazzi che lo guardano con gli occhi spalancati. La fiamma del falò che illumina la scena esagera i profili di quella strana creatura dotata di testa, corna e corpo di bisonte e piedi umani. E l'incarnazione della figura di pietra che sovrasta la grande sala dove i ragazzi erano passati nel percorso che, dall'imboccatura della grotta in cui vive il gruppo, porta al luogo in cui si trovano ora, irraggiungibile dalla luce. E tanto meno in quella giornata di inverno, la più corta dell'anno.

Il bisonte di pietra è una scultura gigantesca policroma, che sfrutta i rilievi naturali di una grande colonna stalagmitica, lavorata e pulita in alcuni punti chiave e dipinta su gran parte della superficie. La colonna-bisonte solleva un corno ed è in posizione eretta, come Tessere ibrido che i ragazzi hanno di fronte. La fiamma traballante della lampada di midollo di cavallo, una volta ravvicinata al bisonte pietrificato, proietta sulla parete della grotta un'ombra gigantesca, un fantasma che sembra muoversi minacciosamente. I giovani non erano mai stati lì, ma in pochi istanti deducono di chi si tratta: da quando erano piccoli sanno che il Grande Bisonte è il totem della tribù.

In una nicchia della parete della grotta non lontana da dove si proietta l'ombra dell'animale leggendario si osservano diverse impronte di mani colorate di rosso. La combinazione non è casuale. Il bisonte è il padre e il protettore sacro del clan e le impronte sono quelle degli avi più vetusti, i Primi Uomini, che dovettero affrontare enormi peripezie. In quei tempi remoti gli uri (tori selvaggi) erano più grandi, i leoni più numerosi, più feroci e più affamati, gli orsi occupavano tutte le caverne in cui gli umani tentavano di rifugiarsi durante l'inverno, che era pili lungo, più freddo e più innevato. Tutto era più pericoloso e più terribile ai tempi dei Primi Uomini, che di sicuro non sarebbero sopravvissuti senza l'aiuto del dio-bisonte.

E, cosa più importante, quella parte del mondo era popolata dagli Altri. Si racconta che erano esseri incredibili, più forti dei mammut e dei rinoceronti lanosi, che erano numerosissimi e molto ben organizzati. I Primi Uomini non avevano mai visto esseri come gli Altri e avevano timore quando quelli parlavano loro. Non comprendevano lo strano idioma, molto più lento e meno flessibile del loro, ma dai gesti e dall'intonazione compresero perfettamente che cosa intendessero: «Questa terra appartiene al nostro popolo, tornatevene nel paese dove nasce il sole».

No, i Primi Uomini mai avrebbero vinto gli Altri senza l'aiuto della magia. Gli spiriti li avevano guidati alla terra dove tramonta il sole e, una volta lì, non li abbandonarono. Il luogo in cui sono seduti i ragazzi è una piccola camera dal tetto basso che forma un cubo quasi perfetto. L'entrata è chiusa da una pelle di bisonte. Sulle pareti della camera è stato dipinto un bisonte e sono state intagliate le figure di altri bisonti, animali e svariati altri segni. All'esterno della grotta nevica e fa freddo, ma grazie al fuoco quel luogo recondito è caldo e asciutto. L'uomo-bisonte prende il corno ed emette un muggito lungo e profondo.

Subito dopo comincia a parlare: «Molto, molto tempo fa, quando il mondo era giovane...».

Quando il mondo era giovane

Fino a quando si sarà parlato dei Neandertal attorno al fuoco degli accampamenti Cro-Magnon? Quanto tempo impiega la memoria collettiva a far sfumare i profili delle cose e trasformare i fatti concreti in vaghe leggende? Quando scomparvero i Neandertal dal mondo dei miti? La mia risposta è probabilmente pochi secoli dopo aver abbandonato il mondo reale. E se non fosse stato per gli studiosi di preistoria, il loro ricordo si sarebbe perduto per sempre.

Grazie ai siti archeologici abbiamo conosciuto una storia incredibile, non ancora superata dalla fantascienza. Questi incontri eccezionali, che gli scrittori immaginano in lontani sistemi solari, avvennero davvero nel nostro. Ed ebbero luogo in un tempo sufficientemente vicino da lasciarci numerose testimonianze.

Il passato convive con noi: la montagna, la grotta, la pittura che ritrae l'orso nelle caverne, l'utensile di pietra, le zanne dei mammut e il fossile umano appartengono tanto al passato quanto al presente e continueranno ad accompagnarci finché la Terra girerà intorno al Sole. Il mammut in azione, l'orso gigante e il Neandertal di carne e ossa appartengono, invece, solo al passato e noi studiosi della preistoria siamo gli unici, in qualche modo, a poter farli tornare in vita. Ma nel lungo periodo in cui i Cro-Magnon e i Neandertal condivisero le terre in Europa, questi ultimi occuparono un posto di preferenza nelle ansie e nei miti dei nostri avi. Sicuramente allora si raccontavano molte storie, perché l'esperienza di un contatto diretto, per quanto fugace, con i Neandertal non sarebbe stata troppo rara in determinate zone ed epoche. Sapendo, come sappiamo, che i Cro-Magnon che conobbero i Neandertal erano umani come noi, possiamo immaginarli mossi dalle stesse passioni, bramosie e paure che animano qualunque essere umano di oggi; perciò in questa storia appassionante è possibile adottare il punto di vista del Cro-Magnon. Mettersi nei panni del Neandertal è già più difficile, perché non erano completamente uguali a noi. Dato che pure i Neandertal avevano domato il fuoco, possiamo immaginare che si raccontassero la loro versione dei fatti nelle lunghe notti invernali, quando fuori dalla grotta ululavano il vento e il lupo.

Poiché i dati a disposizione di noi scienziati sono relativamente scarsi, nonostante le centinaia di scavi archeologici, la nostra ricostruzione è imprecisa e la nostra immagine del passato sfuocata, un po' come le narrazioni trasmesse di generazione in generazione al tepore del focolare. E indubbio che i Neandertal fossero «i locali» e i Cro-Magnon «i nuovi arrivati». Da dove provenivano? Di sicuro dall'Africa, ossia da dove sembra sia nata la nostra specie più o meno quando i Neandertal comparvero in Europa. Già 130 mila anni fa gli uni e gli altri erano praticamente identici (anche se non del tutto) ai protagonisti dell'incontro europeo. Per questo motivo preferisco non usare la denominazione «umani moderni» per riferirmi a questa specie. I Neandertal e i cosiddetti «umani moderni» apparvero per evoluzione indipendente nella stessa epoca, perciò i primi sono moderni quanto i secondi. E' un errore considerare i Neandertal come umani «arcaici», forme «primitive» e più antiche, o come i nostri progenitori estinti. L'espressione «umani moderni» potrebbe anche significare «umani attuali», ma mi oppongo a questa sfumatura per due ragioni: la prima è che i nostri avi del Paleolitico non sono attuali, ma fossili; la seconda è che i Neandertal si estinsero così poco tempo fa (in termini geologici) che è possibile considerarli attuali a tutti gli effetti. Per questo, quando non si usano i nomi scientifici in latino, preferisco recuperare il vecchio e altisonante Cro-Magnon (dal nome del sito archeologico francese) per definire i miei trisavoli di Altamira.

Dove sono passati i Cro-Magnon per arrivare in Europa? Un percorso possibile sarebbe direttamente dall'Africa. Dato che si ritiene che lo Stretto di Gibilterra non fosse chiuso, devono essere arrivati navigando. A quell'epoca il livello del mare era molto più basso di quello attuale e lo Stretto di Gibilterra era più «stretto», ma a ogni modo non c'era continuità tra le due sponde. Una navigazione di quel tipo non era un'impresa fuori dalla portata dei nostri avi di allora, visto che in quella stessa epoca, o persino prima, furono capaci di coprire distanze marittime ben maggiori per raggiungere l'Australia. E quello che impressiona ancora di più è che quando si imbarcarono sulle zattere alla volta delle coste australiane vedevano all'orizzonte solo il mare: non conoscevano il punto di arrivo di quel viaggio così lungo. Ma il fatto che sapessero navigare non ci dice con assoluta certezza che fu quello che fecero in questo caso. Non è nemmeno assodato che gli africani vedessero tanto vicini i monti di Cadice. Dalla costa di levante si vede bene Ibiza come dalla costa atlantica dell'Africa si vede Formentera, eppure l'uomo paleolitico non navigò mai verso quelle isole. In effetti, i reperti archeologici dell'Africa settentrionale sembrano indicare un mondo indipendente da quello europeo. L'altro percorso possibile per raggiungere l'Europa occidentale è attraverso il Vicino Oriente. 1 Cro-Magnon ci si erano stabiliti circa 100 mila anni fa, ma scomparvero e furono sostituiti dai Neandertal (ossia proprio il contrario di quello che sarebbe poi successo in Europa, ma questa è un'altra storia).

Fatto sta che 35 mila anni fa, arrotondando la cifra, i Cro-Magnon erano già in tutta l'Europa, e anche i Neandertal. Quasi alla stessa epoca si datano le statuette intagliate nell'avorio, nell'osso e nella pietra ritrovate in diversi siti archeologici dell'Europa centrale e nessuno ritiene che siano opera dei Neandertal. Tra le sculture di oltre 30 mila anni fa ce n'è una in avorio molto suggestiva, quella di un leone in posizione eretta rinvenuto in Germania nella grotta di Hohlenstein Stadel. Nello stesso periodo in cui un gruppo umano realizzava l'«uomo-leone» in Germania (ossia, «qualcuno» lo intagliò, ma «il gruppo» ne fruì), altri Cro-Magnon in Francia riempivano di pitture meravigliose una caverna chiamata Grotta Chauvet, in onore del suo scopritore. Le pitture rupestri della grotta ritraggono molti animali, ma i protagonisti sono quelli più feroci o più forti di tutti: mammut, rinoceronti lanosi, leoni e orsi. Alcuni ricercatori hanno l'impressione che si sia verificato un cambiamento decisivo nelle rappresentazioni animali dell'arte paleolitica. Oltre 30 mila anni fa, ossia quando il mondo era «giovane», i Primi Uomini raffiguravano animali terribili, quelli che più impressionavano per la forza o per il pericolo che rappresentavano. In seguito, nel bestiario paleolitico questi grandi predatori o enormi erbivori lasciarono il loro posto alla cacciagione più abituale: il cavallo, il bisonte, il cervo, la renna, la capra. È come se fossero passati da una fase di terrore a un'epoca di dominio sulla natura.

Le interpretazioni di questo genere sono molto speculative, ed è difficile sapere con certezza che cosa ci sia di vero in queste ampie generalizzazioni che cercano di spiegare tutta l'arte paleolitica, ma a noi servono per ricreare l'atmosfera psicologica in cui vissero i Primi Uomini (i primi europei della nostra specie). E nell'ambito di questo clima psicologico si può collocare anche la distribuzione geografica dell'arte paleolitica. Se su una cartina si segnano i siti dei reperti artistici si osserva che il territorio così delimitato coincide esattamente con l'area popolata dai Neandertal (Europa e parte dell'Asia). Nelle altre regioni in cui si erano diffusi i nostri progenitori non si trova nulla di confrontabile a Chauvet o Hohlenstein Stadel (sebbene in Australia esistano pitture probabilmente molto antiche ma non databili con esattezza). Per questo motivo alcuni autori credono che ciò che diede impulso alla creatività del Paleolitico europeo fu proprio la necessità di affermasi rispetto agli Altri.

L'arte, rupestre o portatile, e gli ornamenti personali, come collane e pendenti, sono caratteristici del grande ciclo culturale che gli archeologi definiscono Paleolitico superiore. Oltre a quegli oggetti simbolici, in questa epoca emerge un nuovo modo di lavorare la pietra, che consiste nel preparare nuclei prismatici per estrarne lamine allungate con cui fabbricare gli strumenti. Le lamine non si trovano soltanto nel Paleolitico superiore, ma senz'altro fu questa la loro epoca di splendore. Un'altra novità di questo periodo è la realizzazione di punte per le zagaglie in osso, corno e avorio, e anche la produzione di punzoni con gli stessi materiali organici per perforare la pelle e creare un vestiario più funzionale. Il primo complesso culturale del Paleolitico superiore si chiama Aurignaziano. Quei Cro-Magnon che oltre 30 mila anni fa dipingevano e realizzavano statuette erano «aurignaziani». In vari siti archeologici del Nord della Spagna si è scoperto che l'Aurignaziano si sviluppò lì 40 mila anni fa e se non fosse per la dovuta prudenza scientifica diremmo che i Cro-Magnon portarono con sé questa cultura. Ma poiché non abbiamo trovato fossili umani in quei primi livelli aurignaziani, non sappiamo chi realizzò in effetti quei manufatti. Il livello precedente all'Aurignaziano, 40 mila anni fa, è chiamato Paleolitico medio o Musteriano. Tutti i fossili europei associati al Musteriano sono neandertaliani, così come tutti i fossili europei associati all'Aurignaziano sono dei Cro-Magnon, ma questo non significa che questi ultimi non sapessero fabbricare utensili alla maniera musteriana; difatti, li produssero in Israele quando vi si stabilirono circa 100 mila anni fa.

Non è nemmeno impossibile che i Neandertal realizzassero utensili di tipo aurignaziano, o anche monili ornamentali. Quello che nessuno studioso osa dire a voce alta è che i Neandertal fossero gli autori della «grande arte»: le statuette, le pitture e i graffiti parietali. La cosa si complica ulteriormente con un complesso dell'inizio del Paleolitico superiore di cui non abbiamo ancora parlato: si tratta del Castelperroniano, che si trova in alcuni siti archeologici cantabrici e francesi. La relazione del Castelperroniano con il Musteriano e lAurignaziano non è chiara, è anzi molto dibattuta, ma sappiamo che appartiene all'epoca critica di coesistenza tra Neandertal e Cro-Magnon in quella regione europea tra poco meno di 40 mila e poco più di 30 mila anni fa (in Italia e nell'Europa centrale, inoltre, sono stati identificati complessi simili al Castelperroniano). Ci sono due siti francesi, Saint Césaire e la Grotte du Renne ad Arcysur-Cure, dove sono stati rinvenuti nei livelli castelperroniani alcuni resti umani di Neandertal.

Di seguito torneremo su questo tema complicato dei complessi culturali e dei loro artefici, ma ora passiamo a un'altra regione europea in cui la situazione è più chiara: il Sud della Penisola iberica.

L'ultimo Neandertal

La vita umana nel Mediterraneo iberico a sud dell'Ebro, in Andalusia, in Portogallo a sud del Duero, trascorreva con i sussulti inevitabili di un'esistenza aleatoria, sottoposta ai rischi degli incidenti di caccia, alla minaccia dei grandi predatori e ai cicli naturali di carestia.

Per decine di migliaia di anni la regione fu popolata dai Neandertal che producevano i loro utensili musteriani. Gli scavi nelle grotte in cui vivevano hanno consentito di recuperare moltissimi di questi attrezzi e qualche fossile umano. In questo lungo periodo non perforarono mai la radice di un canino di lince per realizzare un pendente, né infilarono una conchiglia in una collana. Gli oggetti ornamentali, perlomeno con materiali durevoli, erano a loro completamente estranei. Nemmeno costruirono mai un punzone o una zagaglia in osso. Poco dopo, 30 mila anni fa o quasi, dal Nord discesero i CroMagnon e i Neandertal scompaivero per sempre. La stessa cosa accadde, nella stessa epoca, in Italia, nei Balcani, in Crimea e nel Caucaso. Il contrasto nei siti archeologici non potrebbe essere maggiore: una lunga sequenza musteriana e, più in superficie, un livello di Paleolitico superiore con pendenti e zagaglie. Questo livello del Paleolitico superiore non corrisponde all'Aurignaziano antico datato nel Nord a 40 mila anni fa, ma a un momento molto successivo. Non ci sono livelli intermedi, di transizione, tra quelli musteriani e quelli del Paleolitico superiore. Tutto torna: ci fu una sostituzione completa dell'elemento autoctono da parte di genti arrivate da altrove che interruppero l'evoluzione locale.

Perciò sappiamo con sicurezza che nella Penisola iberica esistette realmente un ultimo Neandertal, o meglio, molti «ultimi Neandertal», ognuno nella rispettiva regione: Valenza, Andalusia, Portogallo. Certamente, l'arrivo dei Cro-Magnon frammentò le popolazioni dei Neandertal e le ridusse a sacche disconnesse relegate nelle regioni più sfavorevoli, come più di recente è successo ai boscimani, finché a uno a uno tutti i gruppi scomparvero.

In ciascuno di questi luoghi, qualcuno pensò: «Sono l'ultimo della mia razza. E' giunto il tempo di morire». Ma prima di lasciare i Neandertal godiamo ancora un poco della loro compagnia.

Noi e loro

Sebbene i Neandertal fossero umani molto evoluti, conservavano una struttura morfologica antica. In un certo senso, i

Neandertal costituiscono l'adattamento di un modello precedente che sviluppò certi cambiamenti senza trasformarsi in modo radicale. Come ovvio, tutte le specie appaiono come il risultato dei ritocchi apportati sulla base della specie antecedente, ed è per questo che noi continuiamo ad avere quattro estremità, due reni e due occhi come un anfibio qualunque. Lo stesso Darwin descriveva l'evoluzione come «discendenza con modificazione», ma confrontando i Neandertal e i CroMagnon con l'antenato comune di entrambi si può osservare che noi siamo cambiati di più.

Questo antenato comune (il più recente, intendo, perché esiste una lunga catena di progenitori comuni dalla comparsa della vita circa 3.500 milioni di anni fa) visse poco più di mezzo milione di anni fa: questa è, all'incirca, la data in cui si separarono i nostri avi e quelli dei Neandertal. Non abbiamo molte informazioni a proposito di questi antenati comuni, ma i pochi fossili rinvenuti nel sito archeologico della Gran Dolina nella Sierra de Atapuerca e qualche altro fossile come il cranio molto frammentario di Ceprano in Italia ci consentono di farci una vaga idea.

A partire da una scissione, l'evoluzione prosegue nei due rami risultanti su strade che si separano sempre di più. Questa divergenza si può rappresentare con vina «V»: i due estremi superiori dei rami sono molto differenti, ma scendendo verso il vertice i fossili risultano più simili. Questo è ciò che succede in questo caso. Noi siamo chiaramente diversi dai Neandertal, ma i nostri avi di 300 mila anni fa, per esempio, appena si distinguevano dai Neandertal. Con ciò intendo dire che forse nemmeno si distinguevano tra di loro, o che almeno non si trovavano del tutto estranei l'un l'altro. Trecentomila anni fa i progenitori dei Neandertal e i nostri potevano ancora appartenere alla stessa specie.

Dove vivevano gli antenati dei Neandertal? La risposta è in Europa. Il sito archeologico di Sima de los Huesos, sempre nella Sierra de Atapuerca, è quello con il maggior numero di fossili, una trentina di scheletri completi: non sono ancora Neandertal, per nulla, ma mostrano in abbozzo alcune caratteristiche proprie dei loro discendenti. I loro contemporanei africani, invece, sono molto simili, ma non presentano quelle caratteristiche neandertaliane incipienti che, d'altro canto, non si osserverebbero nell'individuo vivo con muscoli, pelle e peli. E curioso che i fossili africani non esibiscano, nemmeno in modo incipiente, i caratteri distintivi dei Cro-Magnon, mentre gli antenati dei Neandertal presentano già in forma embrionale i tratti tipici di quella specie. La spiegazione di questa strana differenza tra i pre-Neandertal e i pre-Cro-Magnon sta nel diverso percorso evolutivo dei due rami. Mentre in Europa l'evoluzione era più o meno graduale e i caratteri neandertaliani continuarono ad accumularsi e ad accentuarsi, la comparsa delle nostre caratteristiche fu un fenomeno molto più drastico e rivoluzionario, che ebbe luogo in meno tempo. Sappiamo che 300 mila anni fa nell'Estremo Oriente (a Giava e forse anche in Cina) si trovava una terza tipologia umana che già aveva una lunga storia alle proprie spalle: Homo erectus.

Prima delle scoperte di Sima de los Huesos e di altri siti archeologici era difficile stabilire chi tra Neandertal e Cro-Magnon fosse cambiato di pili rispetto dall'antenato comune. I Neandertal erano più robusti, per esempio, mentre noi abbiamo i fianchi e il tronco più stretti. Alcuni autori pensavano che gli antenati comuni fossero più magri e fossero stati i Neandertal a ingrossarsi mentre noi eravamo rimasti tali e quali. Questa supposizione si basava, tra le altre cose, sullo scheletro di un fossile ancora più antico scoperto in Kenia, il Ragazzo del Turkana, uno scheletro eccezionalmente ben conservato di poco più di un milione e mezzo di anni fa, nonostante quando morì il ragazzo avesse circa dieci o undici anni (di sicuro non è l'avo di nessuno di noi). Essendo morto a quell'età, aveva le ossa dei fianchi non ancora saldate, ciononostante i ricercatori che ci lavorarono azzardarono una ricostruzione concludendo che le sue anche fossero molto strette. A Sima de los Huesos abbiamo trovato l'anca completa di un individuo di sesso maschile, soprannominato «Elvis», che era molto più larga di qualsiasi anca at tuale (comprese quelle dei giocatori di basket: è l'altezza del cilindro corporeo che cambia tra le persone e le popolazioni, la larghezza varia in minor misura). Altre anche meno complete dello stesso sito ci indicano che questo Elvis era un uomo di medie dimensioni, e i reperti più frammentari provenienti dai siti africani contemporanei al Ragazzo del Turkana e posteriori suggeriscono che pure gli adulti africani avevano un tronco largo, così come l'avrebbe avuto il Ragazzo del Turkana se non fosse morto così giovane e avesse raggiunto l'età adulta. Queste anche larghe facilitavano di sicuro il parto, anche se, per essere precisi, bisognerebbe affermare l'inverso: furono le anche strette delle donne della nostra specie a rendere il parto più complicato. Tuttavia, la pelvi più piccola ha i suoi vantaggi, dato che rende la camminata più economica in termini di dispendio energetico. Sebbene sappia bene che questo non potrà consolare le donne per le loro sofferenze durante il parto, avere le anche strette rappresenta per loro un vantaggio: per compensazione il collo del femore si è accorciato e, per questo motivo, dopo la menopausa l'osteoporosi può procurare meno fratture, dato che le ossa lunghe sono maggiormente esposte.

Dei Neandertal erano stati rinvenuti pochi resti fossili delle anche, soltanto qualche osso pubico che risultava molto largo. Certi autori conclusero che per questo il canale del parto dovesse essere enorme e che quindi le gravidanze dei Neandertal dovessero durare oltre i nove mesi e che i neonati nascessero più maturi. Ma anche le ossa pubiche di Sima de los Huesos sono molto grandi, perciò i Neandertal ereditarono semplicemente la morfologia dell'anca dai loro antenati. Sotto questo aspetto i Neandertal non erano originali, e attualmente nessuno crede che le loro gravidanze durassero più delle nostre.

L'unica anca fossile, più o meno completa, di epoca posteriore a Elvis è quella di un Neandertal di sesso maschile scoperta in Israele nella grotta di Kebara. Gli studi condotti sull'anca evidenziavano che era molto robusta (meno di quella di Elvis), ma la sua forma era diversa: l'ampiezza massima della pelvi era Considerevole. Anche l'entrata della cavità pelvica, ossia ciò che costituisce le pareti ossee del canale del parto, era larga, ma sorprendentemente l'uscita inferiore era molto stretta. Qualche autore (come nel caso della gravidanza prolungata, ma per delicatezza non farò nomi, dato che tutti commettiamo errori) concluse che le donne neandertaliane non riuscivano a partorire e che fu quella la causa dell'estinzione della specie.

Dato che nessuno aveva smentito tale teoria peregrina decisi di andare in Israele per studiare questo curioso fenomeno con il collega Carlos Lorenzo. Nel laboratorio di paleoantropologia dell'Università Complutense di Madrid stavamo preparando un articolo su Elvis e non riuscivamo a comprendere come nei Neandertal si fosse ristretta l'uscita della cavità pelvica. Quella di Elvis era così ampia che avrebbe potuto «partorire» senza difficoltà. Quando osservammo il fossile di Kebara giungemmo a una conclusione: il restringimento era spiegabile dal fatto che lo scheletro aveva subito una deformazione post-mortem nel sito archeologico; nel fossile l'uscita si era ridotta per la pressione del sedimento. I Neandertal si erano abbassati rispetto agli antenati comuni ai nostri, anche in confronto ai loro stessi progenitori di Sima de los Huesos, che rappresentano l'unica raccolta di pre-Neandertal (e di «pre-qualsiasi-altra-cosa») in cui si possano studiare le proporzioni corporali. Le tibie e gli avambracci dei Neandertal si accorciarono, ma conservarono tutta la loro forza fisica. L'ulna e il radio sono spesso così curvi che l'avambraccio doveva essere come quello di Braccio di Ferro! Anche le falangi distali della mano sono particolarmente robuste sull'apice (che corrisponde circa all'unghia). Che gran manone! Questo non significa che non furono abili nel lavorare le pietre: le loro produzioni litiche sono molto raffinate. Non si sa perché i Neandertal diventarono più bassi, ma ci sono autori che collegano l'accorciamento di avambraccio e tibia con il clima in genere freddo dell'Europa. Questo concetto è relativo: ci sono colleghi che affermano che il clima mediterraneo è caldo. Mi piacerebbe vederli passare una notte all'aperto in pieno gennaio in un posto qualsiasi della Penisola iberica! Senza contare che il clima era molto freddo (atrocemente freddo per un primate) ovunque durante le glaciazioni.

La relazione tra la statura e il freddo si esprime in una regola biogeografica chiamata «regola di Alien», che dice che in una specie data le estremità si accorciano nelle popolazioni più vicine ai poli e si allungano in prossimità dell'Equatore. Questo accade anche nella nostra specie: si confronti un eschimese con un etiope o un sudanese. Tuttavia, non è una spiegazione del tutto convincente, se non altro perché i Neandertal e i Cro-Magnon africani non erano due popolazioni della stessa specie, ma due specie diverse. A ogni modo, i sostenitori dell'applicabilità della regola di Alien ai Neandertal dicono che avevano proporzioni «polari», mentre i Cro-Magnon che arrivarono in Europa per competere con i Neandertal avevano proporzioni «africane». Si è stabilito poi che i Neandertal soddisfano un'altra legge biogeografica, la regola di Bergmann, secondo la quale le popolazioni più vicine ai poli sono caratterizzate da corpi più sferici, voluminosi. Tuttavia, i Neandertal non avevano un corpo meno robusto dei loro antenati o dei nostri, come abbiamo visto, anzi non cambiarono proprio, ma forse fummo noi a diventare più longilinei per adattarci al clima africano. Tanto la regola di Alien quanto quella di Bergmann si basano sul fatto che all'aumentare del volume corporeo e al diminuire della lunghezza dell'estremità (comprese le orecchie), si riduce anche il rapporto tra la superficie della pelle e il volume corporeo e, di conseguenza, è minore la quantità di calore dispersa per irraggiamento attraverso la pelle per chilo di peso. Alla fine dei due percorsi evolutivi che portarono alla nascita dei Neandertal e dei Cro-Magnon si raggiunsero due somatotipi molto diversi, ma con un peso simile.

I Neandertal erano bassi e robusti, mentre i Cro-Magnon alti e slanciati. Un maschio Neandertal alto 170 cm (circa la media) poteva pesare 85-90 kg solo di muscolatura (adipe di riserva a parte), un maschio di oggi deve essere molto alto e molto forte per raggiungere quello stesso peso. In termini sportivi i Cro-Magnon avevano gambe lunghe con cui davano (diamo) grandi falcate ancora più economiche per via del restringimento della pelvi. Questa è una spiegazione non climatica per lo stesso fenomeno, ma compatibile con l'origine africana dei Cro-Magnon. Sebbene non sempre i cambiamenti evolutivi siano adattamenti, ossia non abbiano necessariamente una determinata utilità, in questo caso il restringimento del cilindro corporeo potrebbe offrire un vantaggio doppio: migliore termoregolazione e minore dispendio energetico. Tornando alla similitudine sportiva, i Cro-Magnon sarebbero stati buoni corridori, grazie alle gambe lunghe, e anche buoni lanciatori, data la lunghezza delle braccia.

I Neandertal erano molto forti e avevano il centro di gravità basso, perciò senza dubbio sarebbero stati perfetti per il judo. Inoltre in una squadra di rugby sarebbero stati buoni piloni e difficili da intercettare in movimento con il pallone in mano: sarebbe come fermare un cinghiale in corsa! Mi rimane un dettaglio per completare la descrizione dei Neandertal e dei Cro-Magnon. I Neandertal dovevano essere necessariamente bianchi, perché alle latitudini alte si ha bisogno di tutta la luce che possa raggiungere il derma per produrre vitamina D. Altrimenti compare il rachitismo e i fossili dei Neandertal, o quelli di Sima de los Huesos, non presentano carenza di calcio: tutt'altro, le loro pareti ossee sono molto più spesse di quelle delle nostre ossa del cranio o del corpo. Tuttavia, se erano arrivati dall'Africa da poco, i Cro-Magnon europei dovevano essere neri, dato che all'Equatore il pericolo è l'eccesso di irraggiamento solare, che può produrre tumori della pelle, e non la sua carenza. Ma presto la selezione naturale avrebbe schiarito la pelle dei Cro-Magnon eliminando gli individui con problemi di sviluppo (il rachitismo oltre a provocare debolezza deforma la pelvi, causando molte complicazioni alle donne durante il parto).

La lingua degli uccelli

Nel confronto tra gli Altri e Noi ho lasciato per ultima una questione particolare, la più complessa: come pensavano i Neandertal? Naturalmente noi paleontologi non abbiamo alcun modo per entrare in dialogo con i fossili e l'unica maniera possibile per sapere che cosa e come pensa qualcuno (se pensa qualcosa) è domandarglielo direttamente e analizzarne la risposta. Il linguaggio è l'unico modo conosciuto per penetrare nella mente di un altro e, difatti, molti studiosi di neuroscienze sostengono che senza il linguaggio non esisterebbe la «mente umana». In altre parole, gli animali non hanno una «mente umana» proprio perché «non hanno la parola». Non sapremo mai come pensa un cane perché non pensa come noi, ossia tramite concetti. In teoria sarebbe possibile immaginare una «mente umana» non parlante, che sarebbe quindi

I Neandertal erano molto forti e avevano il centro di gravità basso, perciò senza dubbio sarebbero stati perfetti per il judo. Inoltre in una squadra di rugby sarebbero stati buoni piloni e difficili da intercettare in movimento con il pallone in mano: sarebbe come fermare un cinghiale in corsa! Mi rimane un dettaglio per completare la descrizione dei Neandertal e dei Cro-Magnon. I Neandertal dovevano essere necessariamente bianchi, perché alle latitudini alte si ha bisogno di tutta la luce che possa raggiungere il derma per produrre vitamina D. Altrimenti compare il rachitismo e i fossili dei Neandertal, o quelli di Sima de los Huesos, non presentano carenza di calcio: tutt'altro, le loro pareti ossee sono molto più spesse di quelle delle nostre ossa del cranio o del corpo. Tuttavia, se erano arrivati dall'Africa da poco, i Cro-Magnon europei dovevano essere neri, dato che all'Equatore il pericolo è l'eccesso di irraggiamento solare, che può produrre tumori della pelle, e non la sua carenza. Ma presto la selezione naturale avrebbe schiarito la pelle dei Cro-Magnon eliminando gli individui con problemi di sviluppo (il rachitismo oltre a provocare debolezza deforma la pelvi, causando molte complicazioni alle donne durante il parto).

La lingua degli uccelli

Nel confronto tra gli Altri e Noi ho lasciato per ultima una questione particolare, la più complessa: come pensavano i Neandertal? Naturalmente noi paleontologi non abbiamo alcun modo per entrare in dialogo con i fossili e l'unica maniera possibile per sapere che cosa e come pensa qualcuno (se pensa qualcosa) è domandarglielo direttamente e analizzarne la risposta. Il linguaggio è l'unico modo conosciuto per penetrare nella mente di un altro e, difatti, molti studiosi di neuroscienze sostengono che senza il linguaggio non esisterebbe la «mente umana». In altre parole, gli animali non hanno una «mente umana» proprio perché «non hanno la parola». Non sapremo mai come pensa un cane perché non pensa come noi, ossia tramite concetti. In teoria sarebbe possibile immaginare una «mente umana» non parlante, che sarebbe quindi molto autistica, ma non è probabile che sia il caso dei nostri antenati. Sia chiaro che per linguaggio si intende la comunicazione tramite simboli. I simboli sono per loro natura arbitrari, che siano suoni, gesti o parole scritte. Il motivo per cui i cani non hanno creato latrati arbitrari (che naturalmente cambierebbero in ogni paese) per esprimere concetti è che non hanno idee per la testa.

Nell'ambito della Preistoria c'è chi sostiene che i Neandertal non fossero coscienti e che gli unici esseri coscienti che l'evoluzione abbia generato su questo pianeta siamo noi. La parola coscienza, come la parola mente (talvolta vengono associati nell'espressione «mente cosciente»), è molto difficile da definire. A me però sorprende la ricchezza di modi in cui ci si riferisce al «comportamento cosciente» nella lingua spagnola: la coscienza è quindi più un insieme di comportamenti che un'entità. Il comportamento cosciente è, come ovvio, volontario e perciò può essere oggetto di giudizio morale. Ora elencherò alcune di queste espressioni, ognuna delle quali rimanda all'idea di fare qualcosa in modo consapevole: «di proposito, apposta, volutamente, deliberatamente, intenzionalmente o con intenzione, espressamente, con premeditazione, coscientemente». I bambini prima di imparare a parlare e gli animali domestici non hanno comportamenti coscienti (o così ci sembra) e se li puniamo per aver fatto qualche marachella lo facciamo per disabituarli e non perché crediamo che urinare in cucina sia una cattiveria; per questo ci è difficile essere severi: «Poverini, non sanno che cosa fanno (il cane o il bambino)!».

Come avrebbero potuto i Neandertal, però, cacciare, organizzarsi, accendere il fuoco o lavorare utensili in modo incosciente? Be', rispondono quelli che non attribuiscono loro una «mente umana», tutti i mammiferi sociali, come i lupi, gli scimpanzé e i delfini possono avere biologie sociali molto complesse senza essere coscienti dei loro atti. Quegli animali non hanno psicologia ma etologia e il loro comportamento è istintivo o innato, ossia programmato dai geni ed ereditario: si nasce con un repertorio di modelli di condotta che si attivano progressivamente durante la vita, allo stesso modo in cui cambia il corpo. Anche gli insetti sociali come le api, le formiche e le termiti hanno un comportamento sociale molto elaborato senza ricorrere al pensiero.

E per quanto riguarda la cultura, anche gli scimpanzé e altri primati ce l'hanno, se per cultura si intende la trasmissione di abitudini tra generazioni per via diversa dai geni, ossia per apprendimento. Gli scimpanzé sono arrivati a usare strumenti per catturare gli insetti o persino per aprire le noci. Naturalmente lavorare la pietra con tanta abilità come lo facevano i Neandertal è molto più complicato di schiacciare le noci usando una pietra piatta come incudine e un'altra come martello, ma rompere una pietra colpendola con un'altra non è poi cosi diverso. Richiede solo un po' di abilità in più, ma non una quantità maggiore di materia grigia. Tramite questo procedimento circa due milioni di anni fa un ominide primitivo ottenne le prime lame di pietra che gli servirono per tagliare la pelle, la carne e i tendini degli animali morti, di sicuro le ultime pelletiche di una carogna abbandonata da carnivori più forti. Se questo comportamento che li portò a tagliare le pietre battendole assieme per produrre i primi utensili grossolani poté non essere cosciente, non sarebbe anche possibile che i raffinati strumenti dei Neandertal siano stati solo la massima espressione dello stesso tipo di comportamento incosciente? In poche parole: esistono salti qualitativi o soltanto passaggi tra lo scimpanzé che apre una noce di cocco con una pietra, l'ominide primitivo che frattura un osso con una pietra simile per estrarne il midollo e il Neandertal che produce strumenti in serie?

Spero di aver fatto bene l'avvocato del diavolo, perché quello che penso io non è questo: secondo me i Neandertal pianificavano coscientemente la caccia e la raccolta, comprendevano il funzionamento degli ecosistemi e ciò consentiva loro di prepararsi ai cambiamenti di stagione, lavoravano intenzionalmente la pietra e insegnavano a farlo ai loro figli e, senza dubbio, accendevano il fuoco ben sapendo che cosa stavano facendo. Molti dei loro atti erano, mi sembra, intenzionali (naturalmente alcuni erano automatici, ma nemmeno noi dobbiamo pensare per camminare, ingoiare o respirare). Ma a prescindere dai mezzi indiretti che fornisce l'archeologia per sondare il comportamento degli umani fossili, siano della nostra specie o di un'altra, che cosa può fare in questo campo la paleoantropologia? La risposta è che esistono due organi coinvolti nel linguaggio e di entrambi ci rimangono i fossili: il cervello e l'apparato fonatorio. Il cervello è un organo che in quanto tale non si conserva mai poiché va in putrefazione. Ma all'interno del cranio ne rimane l'impronta: questo spazio si chiama endocranio e riproduce, in negativo, la forma dei lobi cerebrali dei due emisferi, i vasi arteriosi e venosi delle meningi e anche le circonvoluzioni cerebrali. La cavità endocranica è in realtà un buco, un non-fossile, ma si può riempire di resina sintetica, et voilà!, riappare il cervello con il cervelletto (o meglio, il suo «calco»).

La prima cosa che possiamo fare con l'encefalo riprodotto è calcolarne il volume. Nel processo evolutivo che ci ha portato dal primo ominide di circa sei milioni di anni fa sino a oggi la dimensione del cervello è più che triplicata. Naturalmente, anche il nostro corpo si è ingrandito di molto, perché all'inizio non eravamo più grandi di uno scimpanzé. A ogni modo possiamo elaborare un quoziente che rapporti la dimensione del cervello con quella del corpo. Quando una specie cresce, alcune parti lo fanno più in fretta di altre e nei mammiferi il corpo si ingrandisce prima del cervello: un topo ha in proporzione un cervello più grande di un elefante. La materia gingia è molto «cara» in termini di dispendio energetico (nel senso di consumo metabolico per produrla e mantenerla) e la natura è molto avara. Per questo l'elefante ha esattamente il cervello che gli serve per risolvere i suoi problemi e mettere in movimento il suo enonne corpo, neanche un grammo in più. Ora che sappiamo che il cervello cresce più lentamente del corpo, possiamo eliminare matematicamente questo effetto ed elaborare un coefficiente di encefalizzazione valido per qualunque specie di mammifero, a prescindere dalla dimensione. In questo modo possiamo vedere come è cresciuto il cervello.

Nei primi ominidi (tutti africani) il coefficiente di encefalizzazione non era molto maggiore di quello dello scimpanzé attuale (o del delfino). Ci fu un piccolo cambiamento all'inizio dell'evoluzione del genere Homo e, di sicuro, i primi colonizzatori europei erano già abbastanza più intelligenti degli scimpanzé. O meglio, proprio grazie al fatto di essere molto encefalizzati furono capaci di colonizzare l'Europa e l'Asia temperata (l'Asia tropicale fu conquistata prima). Ma dove si osserva una chiara espansione del cervello è negli antenati dei Neandertal di 300 mila anni fa, come quelli di Sima de los Huesos, e nei loro contemporanei africani nostri progenitori. L'encefalizzazione crebbe poi nelle due linee raggiungendo valori molto simili, e molto alti, nei Neandertal e nei Cro-Magnon. La capacità cranica media è in realtà maggiore nei Neandertal (sì, avevano un cervello di dimensioni maggiori del nostro!), ma dato che pure il peso corporeo era maggiore la differenza si compensa.

Alcuni autori pensano che la crescita del cervello nei due rami della «V» indichi che ci fu un flusso di geni tra le popolazioni europee e quelle africane. Io non sono di questo parere, perché il parallelismo è solo apparente. Come ho detto prima, il modello neandertaliano non è altro che l'«attualizzazione» di un piano corporeo antico affinché realizzasse prestazioni superiori. Perciò il cranio continuava a essere basso e, per accogliere un cervello più grande, dovette allungarsi e allargarsi: esagerando molto, adottò la forma di un pallone da rugby. Diversamente, la crescita cerebrale nel nostro ramo della «V» avvenne anche in altezza e il cranio divenne sferico come un pallone da calcio: i Neandertal e i Cro-Magnon «giocavano a sport diversi». Per questo sappiamo che si tratta di due evoluzioni indipendenti.

Se la dimensione del cervello non ci differenzia dai Neandertal, forse a farlo è la forma. Visto da fuori, il cranio di chiunque di noi dovrebbe sorprenderci per l'altezza della fronte, se non fossimo così abituati a guardarci in faccia e se non ci mancassero i termini di confronto. Ma a differenza degli altri ominidi, compresi i Neandertal, la nostra fronte verticale è un'anomalia che ci conferisce un aspetto infantile. I piccoli dei mammiferi, in particolare quelli dei nostri «cugini» scimpanzé, sono caratterizzati da una fronte alta e da un volto rimpicciolito, mentre negli adulti la fronte si inclina all'in dietro, compaiono i rinforzi ossei sopra le orbite e il muso si proietta in avanti. Per questo l'embriologo Louis Bolk propose nel 1929 la teoria originale e sconcertante secondo la quale Homo sapiens non è altro che un feto ipersviluppato che ha raggiunto la maturità sessuale senza cambiare aspetto. La teoria oggi non è più accolta in quei termini cosi accentuati, ma non di meno rimane suggestiva l'idea che ci sia in noi qualcosa di infantile. Anche Konrad Lorenz, il famoso etologo e premio Nobel, trovava nel nostro comportamento adulto tratti infantili. L'uomo sarebbe un essere incompleto, che mantiene la sua curiosità molto oltre la fase infantile del gioco. E questa curiosità insaziabile che spinge noi scienziati a porci domande continuamente. A me, in particolare, non dispiacerebbe essere un bambino per tutta la vita. Dietro alla parete ossea della fronte si trova ¡1 lobo frontale, che è molto importante nelle funzioni mentali più avanzate tra quelle superiori. Le lesioni che danneggiano il lobo frontale non impediscono la funzionalità normale del corpo, ma coinvolgono qualcosa di molto impreciso che potremmo chiamare personalità. Il soggetto che subisce danni al lobo frontale o al quale se ne estrae chirurgicamente una parte perde iniziativa, motivazione e capacità di svolgere progetti. Per questo un tempo si sottoponevano a lobotomia frontale i criminali molto aggressivi e pericolosi o i pazienti con impulso irrefrenabile al suicidio. Dopo l'operazione a tutti spariva la voglia di fare.

La fronte così alta che abbiamo, in confronto a quella dei Neandertal, ci potrebbe far pensare che fosse più sviluppato anche il nostro lobo frontale, e questa sarebbe una bella spiegazione per le differenze che crediamo di avvertire tra il loro comportamento e il nostro. Per fortuna, la forma e il volume dei lobi cerebrali si possono studiare bene nei calchi endocranici. Se la capacità di sognare a occhi aperti fosse inferiore nei Neandertal a causa del loro lobo frontale meno sviluppato, potremmo comprendere perché non produssero mai arte. Tuttavia, il mistero dei Neandertal rimane ancora irrisolto e gli studi moderni che si sono condotti sul lobo frontale non mostrano alcuna differenza sostanziale, né di dimensione né di forma, tra loro e noi. Il contrasto sta più nel lato esterno che in quello interno della fronte. Se nel cervello non si trova nessuno spartiacque che separi i Neandertal dai Cro-Magnon, forse la differenza va cercata nel linguaggio. Dei suoni che pronunciavano gli uni e gli altri non rimane nulla, ma qualcosa nell'apparato fonatorio, ossia la «macchina» fisiologica che produce la parola, è recuperabile nei fossili. Quello che rimane è, in poche parole, il «tetto» dell'apparato fonatorio, che è formato dal palato e dalla base del cranio situata tra il palato e il «forame magno», o foro occipitale, il punto di collegamento del midollo spinale tra il cranio e la colonna vertebrale. Grazie al «tetto» dell'apparato fonatorio è possibile conoscere la lunghezza del cavo orale, della cavità nasale e della faringe.

L'altro elemento che si fossilizza è l'osso ioide, che è in relazione anatomica con la laringe. Questo osso non si articola con nessun altro, ma è letteralmente «attaccato» a legamenti e muscoli. La laringe è più bassa negli adulti della nostra specie che in quelli di qualsiasi altro mammifero: difatti nei nostri piccoli, quando sono lattanti, la faringe è alta come quella degli altri mammiferi, lattanti o adulti. Avere la laringe bassa non è affatto un vantaggio, se non per parlare: ci impedisce di respirare mentre beviamo e aumenta la possibilità che il cib.o ci vada di traverso. Ci sono poche basi complete del cranio nel registro fossile e quasi nessun ioide, perciò finora si è speculato molto sul tema, ma con poche «basi» (in ogni senso). A Sima de los Huesos abbiamo trovato un cranio con una base intatta e due ossa ioidi, così, assieme al collega Ignacio Martínez, mi sono messo ad approfondire la questione. Alcuni autori dicevano che i Neandertal non potevano parlare come noi perché il «tetto» dell'apparato fonatorio era molto lungo. La ragione per cui era così lungo era, secondo loro, che la laringe era collocata sotto, «attaccata» alla base del cranio da dietro il palato. In realtà il «tetto» dell'apparato fonatorio non è più lungo nei Neandertal che negli altri ominidi, a eccezione della nostra specie, in cui il volto si è ristretto (da davanti a dietro) e così, di conseguenza, si è ristretto anche il «tetto» dell'apparato fonatorio. Ma lo scheletro di Neandertal di Kebara, di cui si parlava prima, conserva l'osso ioide e, dato che il suo aspetto è moderno, seppur robusto, altri autori hanno affermato che la laringe fosse bassa e che, perciò, i Neandertal fossero sì in grado di parlare. E vero che lo ioide moderno è molto diverso da quello degli scimpanzé, e lo ioide di Kebara, come quelli di Atapuerca, è del tutto umano.

Per non annoiare il lettore con tecnicismi anticiperò le conclusioni a cui siamo giunti. I Neandertal, e la popolazione di Sima de los Huesos, avevano la laringe bassa e non è vero che fosse «attaccala» alla base del cranio. D'altro canto, il «tetto» prolungato dell'apparato fonatorio avrebbe impedito l'articolazione dei suoni con la stessa efficacia e rapidità che contraddistingue noi. Ma siamo noi ad avere una capacità incredibile di produrre fonemi molto udibili e a grande velocità. Non trovo miglior modo di descrivere le nostre abilità fonetiche di quello impiegato da Kurtén in La danza della tigre ': i Neandertal, che nel romanzo avevano sì il dono della parola, si sorprendono del modo di parlare dei Cro-Magnon e definiscono la loro parlata «la lingua degli uccelli», per loro irriproducibile.

Devo tuttavia ammettere che le nostre conclusioni sulle abilità fonatorie dei Neandertal, data la complessità del problema, non sono verità assolute, sebbene crediamo che le nostre opinioni siano più compatibili con le evidenze (seppur scarse e indirette) rispetto a quelle altrui. Ciò che è del tutto certo, a nostro giudizio, è che l'apparato fonatorio non poteva essere completamente uguale al nostro, né poteva funzionare allo stesso modo, perché la lunghezza del «tetto» dell'apparato fonatorio non può essere discussa. La posizione della laringe che noi attribuiamo ai Neandertal e alla gente di Sima de los Huesos) è già più discutibile: però secondo noi la laringe era già discesa e non ci viene altra spiegazione possibile per <|iiella collocazione se non il linguaggio. Questo sarebbe stato il vantaggio adattativo che avrebbe compensato i gravi inconvenienti.

Forse nel linguaggio c'è un modo per distinguere la mente dei Neandertal da quella dei Cro-Magnon. La nostra è l'unica specie che comunica per mezzo di simboli: anche se si discute circa la capacità degli scimpanzé di gestire simboli in Laboratorio, è assodato che non li usano mai in natura (il che è molto significativo). Per questo gli scimpanzé hanno tradizioni, come abbiamo visto, e se si vuole si può parlare di cultura degli scimpanzé (e di altre specie animali) in senso lato, ma attualmente solo noi umani abbiamo una cultura nel senso stretto di trasmissione di idee e credenze di generazione in generazione. Per questa funzione è necessario il linguaggio. Tramite i simboli è possibile trasmettere informazione pura, l'esempio migliore è il linguaggio matematico. Ma il linguaggio veicola anche emozioni, cosa che non fa il linguaggio matematico (almeno io appartengo alla categoria delle persone che non si emozionano alla vista di un integrale). Forse per trasmettere semplicemente dati non è necessaria avere tutta l'abilità che abbiamo noi umani attuali: credo che la nostra destrezza nell'uso della voce sia soprattutto finalizzata a riflettere gli stati d'animo, a sedurre, a evocare, ad alludere, a convincere, a incitare, ad appassionare, a minacciare, a compatire eccetera. Ogni giorno quanta informazione pura e quanta informazione emotiva ci scambiamo? Siamo maestri della parola, in misura maggiore o minore siamo tutti attori: molte volte è meno importante ciò che si dice rispetto a come lo si dice. Non è che ai Neandertal mancasse del tutto questa facoltà, ma è concepibile che non l'avessero così sviluppata, che non fossero «venditori» cosi bravi.

Se si dovesse definire in qualche modo la nostra mente, direi che è simbolico-emotiva. Questo significa che usiamo simboli, siano parole, canzoni o oggetti, e vi associamo emozioni. I simboli, in questo modo, incarnano e in pratica sostituiscono i nostri ideali.

E' possibile che i Neandertal non avessero lo stesso tipo di mente e che non usassero i simboli per esprimere emozioni nella stessa misura in cui noi li usiamo. È forse per questo che non svilupparono un'arte, anche se non possiamo escludere che impiegassero materiali che non sono arrivati a noi. come la loro stessa pelle. Ritengo che i Neandertal seppellissero i morti, ma dubito che formassero gruppi etnici. Immagino i loro gruppi fondati più sulla biologia e sulla parentela che sulle credenze condivise e sui miti comuni. Nel mondo animale la nostra capacità di trascendere la biologia quando ci uniamo in società è insolita e potrebbe rappresentare una peculiarità esclusiva dei Gro-Magnon. Che il collante tra individui appartenga alla sfera dell'irreale e dell'immaginario è, se si osserva bene, delirante. Ma che cosa sono i gruppi etnici senza i deliri, talora buoni e talvolta cattivi, scaturiti dal mondo magico di ciò che non si può sperimentare, di ciò che è completamente immateriale? È per questo che spesso a unirci sono più i miti che i geni.

La steppa-tundra del mammut lanoso

Quando si racconta la storia dell'estinzione dei Neandertal rimpiazzati da esseri umani come noi, gli uomini di Cro-Magnon, gli attori principali di questo dramma occupano tutto lo scenario e l'ambientazione viene trascurata. Ci chiediamo in che cosa differissero e quale fu l'elemento chiave di superiorità dei nostri antenati, quello che li fece infine avere la meglio sui Neandertal. La domanda non è banale, perché questa differenza, qualunque fosse, ci rende unici, diversi da qualsiasi altra specie esistita. E può portarci a pensare di essere anche migliori.

In biologia, però, non esiste una specie migliore di un'altra, così in astratto. L'esito della competizione tra due o più specie è dato, per definizione, dal risultato finale: sopravvivenza o estinzione. In altre parole, nella biosfera si può esistere solo in due modi: vivi o morti. Dal punto di vista dell'evoluzione, è meglio essere una formica vivente che un mammut fossile. Questo relativismo della biologia si riassume dicendo che una specie è «migliore» di un'altra, ossia prolifera invece di eclissarsi, «soltanto» in determinati ambienti. Un orso bianco è «migliore» di un leone nell'Artico, ma non nella savana. L'importanza dell'ecologia nella vita delle specie colloca l'ambientazione in primo piano nella vicenda dei Neandertal e dei Cro-Magnon e le conferisce il ruolo di protagonista. La domanda dovrebbe ora essere posta in questi termini: in quali circostanze ambientali se la sono cavata meglio i Cro-Magnon dei Neandertal? Magari in tutte, se davvero i Cro-Magnon erano molto adattabili, ma magari solo in alcune. I Cro-Magnon arrivarono nel Nord della Penisola iberica forse 40 mila anni fa, all'epoca delle primissime industrie aurignaziane (lì e in altre parti dell'Europa). Già si è detto che alcuni autori ritengono che queste industrie dell'inizio dell'Aurignaziano furono fondate dai Cro-Magnon (e non dai Neandertal), ma in ogni caso tutti concordano che i nostri antenati già vivevano in Europa 35 mila anni fa, anche perché esistono fossili umani simili a noi e manifestazioni artistiche (senza dubbio da loro realizzate) databili tra 35 mila e 30 mila anni fa. Gli ultimi Neandertal, tuttavia, non si estinguono nell'Europa mediterranea prima di circa 28 mila anni fa. Che cosa successe al clima e agli ecosistemi europei tra 40 mila e 28 mila anni fa?

Un modo per conoscere i paleo-ecosistemi è studiare la fauna che costituiva le comunità del passato. Durante le ultime glaciazioni per gran parte dell'Europa si diffuse una serie di specie che evidenzia un ambiente di steppa o di tundra: il mammut lanoso, il rinoceronte lanoso, la renna, la saiga, il bue muschiato, la volpe artica; potremmo includere in questa lista i ghiottoni (parenti di grandi dimensioni del tasso, della faina e della martora, che attualmente vivono nella taiga e nella tundra in Europa, Asia e America). Anche i cavalli, che pascolano in grandi mandrie nella prateria, furono allora molto abbondanti. E un po' sorprendente che in quell'epoca coabitassero specie che oggi vivono in regioni molto distanti, come le renne e i buoi muschiati, specie artiche, e la saiga e il cavallo, tipiche delle grandi steppe dell'Europa orientale e dell'Asia. A nessuno oggi verrebbe in mente di reintrodurre le saighe tatariche in Alaska o in Lapponia, né le renne o i buoi muschiati in Ucraina o in Mongolia. L'ambiente di gran parte dell'Europa durante le ultime due glaciazioni doveva essere caratterizzato quindi da una specie di «steppa molto fredda» che è stata chiamata «steppa-tundra del mammut lanoso». Quando il gelo dell'ultima glaciazione si ritirò, alcune tra le specie che coabitavano si spostarono verso nord, mentre altre verso est. Il mammut e il rinoceronte lanoso sparirono semplicemente poco a poco (assieme ad altre specie non artiche, come l'orso delle caverne e il megacero, un cervo gigante talvolta chiamato «alce irlandese»). Tutte le specie citate appartenenti alla «steppa-tundra del mammut lanoso» vissero, seppur non in gran numero, anche nella Penisola iberica. Da una parte la penisola è molto a sud, dall'altra la sua geografia è molto accidentata: qui i mammiferi gregari e migratori della steppa-tundra si trovavano al limitare della loro nicchia ecologica. Nonostante ciò, i mammut arrivarono fino a Granada, in Galizia e in Portogallo e i rinoceronti lanosi gironzolavano nella zona in cui oggi è situata Madrid.

Abbiamo però problemi nello stabilire l'epoca in cui queste specie da clima freddo vivessero nella penisola. Dalle rappresentazioni artistiche, o dai fossili nei siti archeologici, sappiamo che dopo la scomparsa dei Neandertal ci furono mammut, rinoceronti lanosi, ghiottoni e renne nella Cornice cantabrica e nella Meseta (intesa in senso lato come territori dell'entroterra della Penisola iberica). La costa cantabrica si estendeva allora per diversi chilometri in là rispetto all'attuale linea costiera ed è forse attraverso la pianura litorale, oggi sommersa, che le grandi mandrie di renne, mammut e cavalli si spostavano per raggiungere la Galizia. Altre specie più stanziali, come gli uri, i cervi, le capre e i camosci sarebbero rimaste più stabili nei territori meno elevati. Non è chiaro quale comportamento avrebbe avuto il bisonte di allora (quello che sembra dipinto ad Altamira, per esempio), se di steppa e migratorio come alcune popolazioni dell'attuale specie americana, o di bosco e stanziale come altre popolazioni di bisonte americano e come il bisonte europeo. In Catalogna penetrarono alcune specie da clima freddo, il mammut, la renna e il bue mischiato, che non arrivarono a oltrepassare l'Ebro. In Navarra sono state rinvenute ossa di saiga. Anche i Neandertal della Cantabria conobbero la renna e quelli della Catalogna persino il rinoceronte lanoso, ma per una serie di fossili, come i suddetti rinoceronti di Madrid, non conosciamo l'età. Recentemente sono stati però datati i mammut lanosi della torbiera di Padul, a Granada, e secondo quanto mi comunica la paleontologa Elvira Martin hanno 35 mila anni. In quell'epoca nella grotta di La Carihuela, a Granada, vivevano ancora i Neandertal. Sembra però che per molto più tempo nella penisola furono presenti anche specie da clima temperato, come il rinoceronte di steppa e quello di Merck, l'elefante con le zanne dritte, l'ippopotamo, il porcospino e il macaco. La regola sembra essere rispettata in tutto il Mediterraneo: potremmo quindi includere i Neandertal in questo gruppo di specie che sopravvissero a sud quando erano già scomparse nel resto dell'Europa.

I ghiacciai

Un'altra fonte di informazione sul clima e gli ecosistemi del passato è costituita dalle impronte lasciate dal ghiaccio. Sappiamo che nelle catene montuose iberiche più elevate ci furono ghiacciai, ma è difficile stabilirne la storia. Innanzitutto, ci è sconosciuta l'estensione dei ghiacci iberici nella penultima glaciazione, chiamata glaciazione Riss, in realtà un ciclo formato da due fasi fredde, o massimi glaciali, e una fase intermedia più temperata. Anche nell'ultima glaciazione, quella di Wiirm, ci furono due momenti particolarmente freddi e secchi (due massimi glaciali), l'ultimo dei quali raggiunse il suo apogeo 20-17 mila anni fa. Le tracce lasciate dai ghiacci nelle varie epoche si sovrappongono e le ultime cancellano quelle precedenti, perciò è più semplice ricostruire le ultime glaciazioni. Nei monti iberici ci sono molte impronte di ghiacciai in apparenza molto fresche, come se i ghiacci si fossero ritirati da poco tempo. Sono senza dubbio ghiacciai dell'ultima glaciazione, ma quando discesero fino all'altitudine più bassa sul livello del mare?

Un modo per datare il regresso dei ghiacciai è calcolare l'età delle lagune che si formano nelle valli e dei circhi glaciali, che nascono quando si ritira il ghiaccio e i depositi rocciosi trascinati dai ghiacciai (la morena) costituiscono una sorta di diga che impedisce il drenaggio dell'acqua. La materia organica che si accumula in queste conche consente la datazione tramite ¡l metodo del carbonio-14 (contiene inoltre granuli pollinici che ci informano sulla vegetazione locale). Grazie a questo procedimento è stato possibile scoprire che nei Pirenei e nella Cordigliera cantabrica esistevano lagune di origine glaciale già oltre 25 mila anni fa. Sembra che questi ghiacciai raggiunsero la quota inferiore 50 mila anni fa, rimanendo poi stabili finché, 30 mila anni fa, cominciò a ridursi sensibilmente la superficie montuosa coperta dai ghiacci.

L'intervallo di datazione 20-17 mila anni fa è stabilito come il periodo dell'ultimo grande massimo glaciale che ha coinvolto tutto l'emisfero settentrionale. Ciò significa che la temperatura marina raggiunse allora valori molto bassi e che il livello del mare scese a causa del grande accumulo di acqua sotto forma di ghiaccio che si produsse nel pianeta. Tuttavia, gli effetti non furono gli stessi ovunque. Abbiamo già visto che i ghiacciai del Nord della Penisola iberica si ritirarono invece di avanzare: qual è la spiegazione?

Affinché si sviluppino i ghiacciai è necessario che si soddisfino due condizioni: che nevichi durante l'inverno e che non faccia troppo caldo durante l'estate. Come adesso, le precipitazioni nella penisola erano maggiori a ovest rispetto a est e a nord rispetto a sud. Questo gradiente pluviometrico, assieme al gradiente termico, spiega perché la quota inferiore delle nevi perpetue salisse da ovest a est e da nord a sud. E per questo che nella porzione meridionale della penisola soltanto le montagne altissime della Sierra Nevada ospitarono i ghiacciai.

E possibile che 50 mila anni fa facesse meno freddo di 20 mila anni fa, ma nei mesi estivi il clima era sufficientemente rigido affinché il ghiaccio non si ritirasse; se inoltre le precipitazioni fossero state maggiori, i ghiacciai sarebbero stati ancora più estesi. Forse ciò che caratterizzò il massimo glaciale di 20-17 mila anni fa nella penisola fu un freddo terribile combinato a una grande siccità.

La fine degli ecosistemi mediterranei

Nella porzione mediterranea della Penisola iberica il fattore limitante per lo sviluppo del bosco è l'acqua. Durante il lungo periodo estivo, praticamente non cade una goccia. Le piante caducifoglie non riescono a resistere alla siccità estiva, a parte quelle che crescono sulle sponde dei corsi d'acqua permanenti. In alta montagna, invece, il fattore limitante è la temperatura. Ad alta quota per parte dell'anno il suolo si gela e gli alberi non riescono a far affondare le radici. I due fattori, freddo e siccità, durante le glaciazioni si alleavano per favorire la formazione della «steppa-tundra del mammut lanoso».

Nella Penisola iberica esistono due regioni in cui si trova un clima di tipo mediterraneo arido con pochi alberi (soltanto pini d'Aleppo e sabine). Si tratta del Sud-Est della penisola e della parte centrale della valle dell'Ebro, con la differenza che mentre a Cabo de Gata la media delle temperature minime nel mese più freddo si situa sui 7-9° C, nella comarca di Los Monegros scende fino a 1-2° C, ossia la possibile situazione climatica nella maggior parte della penisola durante Fui timo massimo glaciale.

Tutto sembra suggerire che fu soprattutto l'aridità a far finire gli ecosistemi mediterranei. La siccità potrebbe essere cominciata 30 mila anni fa, cioè esattamente quando scomparvero gli ultimi Neandertal. Negli studi paleobotanici, nel periodo cruciale di avvicendamento delle due specie umane si rileva nell'area mediterranea la sostituzione del polline fossile di quercia e leccio con quello di piante erbacee quali graminacee e artemisia.

I Neandertal però, come specie, avevano già affrontato in tutta l'Europa altre fasi fredde (come quella del precedente massimo glaciale), quindi perché scomparvero proprio in questa? Una risposta alla domanda può essere quella elaborata da alcuni colleghi portoghesi che considerano i Neandertal mediterranei come una varietà adattata agli ecosistemi meridionali. Di conseguenza con il declino delle querce, dei sughereti e delle specie animali tipiche dei climi caldi, come l'elefante con le zanne dritte, i rinoceronti della steppa e di Merck, l'ippopotamo, il macaco e il porcospino, anche loro scomparvero. Nonostante alcuni paleoantropologi abbiano creduto di riconoscere alcune caratteristiche che potrebbero aver distinto i Neandertal dell'area mediterranea da quelli dell'Europa centrale, è difficile confermare l'ipotesi perché queste differenze, se esistono, sono minime. Quando i boschi della penisola scomparvero la vita si fece ardua per tutti gli umani, Neandertal e Cro-Magnon. Inoltre, le popolazioni di Cro-Magnon si spinsero forse verso sud a causa del freddo intenso dell'Europa centrale (per non parlare di quella settentrionale). E possibile che fosse (esclusivamente) in questo tipo di ambiente che i Cro-Magnon fossero superiori. Magari è per questo che sostituirono i Neandertal prima nel mondo eurosiberiano e poi in quello mediterraneo, dove ci riuscirono solo quando l'ambiente si modificò in modo drastico. Un'altra questione è che i Cro-Magnon, rispetto ai competitori Neandertal, rispettavano il principio del «tanto peggio tanto meglio». A nessuno piace vivere in condizioni estreme ed è probabile che la densità di popolazione umana diminuì quando gli ecosistemi mediterranei cedettero il posto alle steppe di graminacee e artemisia. Tuttavia, la mente ipersimbolica dei Cro-Magnon consentì loro di stringere alleanze tra gruppi dispersi in un territorio immenso che condividevano un'identità basata su credenze e usi comuni (rituali e miti, in fondo) e che si esprimevano tramite oggetti simbolici.

Si incrociarono?

Le persone con cui parlo di evoluzione umana immancabilmente esprimono la propria opinione in merito all'estinzione del Neandertal. Su questo argomento adottano il punto di vista soggettivo del Cro-Magnon: «Conoscendo come conosciamo gli esseri umani attuali, figuriamoci se i Cro-Magnon non facevano sesso con le donne Neandertal, volenti o nolenti!». Se per la gente di campagna non è inverosimile la zoofilia, molti pensano, non sarebbe molto più umana e attraente una donna Neandertal di una pecora? (Non si parla quasi mai, però, dei desideri delle donne Cro-Magnon). Nella maggior parte dei casi viene anche fuori l'istinto sanguinario che noi stessi ci attribuiamo: «Conoscendo come conosciamo gli esseri umani attuali, figuriamoci se i Cro-Magnon non massacravano tutti i Neandertal che gli passavano davanti! Di sicuro avranno fatto una "pulizia etnica"». Però, a ben vedere, queste due supposizioni dichiarerebbero impossibile l'esistenza di meticci o di ibridi tra Neandertal e Cro-Magnon: se prima le violentavamo e poi le ammazzavamo, come facevamo (intendo i nostri antenati) ad avere discendenti con le donne Neandertal? Quello che è certo è che affinché tali meticci fossero possibili, bisognava formare coppie miste stabili che si occupassero dei figli comuni. In poche parole, ci voleva un po' di amore.

Non mi è difficile credere che nella solitudine della tundra si creassero queste coppie (un'idea che oggi risulta «politicamente corretta»), ma non avrebbero avuto discendenti, o al massimo, essendo Neandertal e Cro-Magnon due specie distinte, la prole non sarebbe stata fertile. L'argomento è in realtà una tautologia, visto che per definizione due organismi appartengono a due specie diverse se non possono produrre prole fertile. E quello che si chiama criterio genetico della specie. Ma come possiamo sapere se i Neandertal e i Cro-Magnon erano due specie o una sola?

Naturalmente, erano molto diversi tra loro. L'evoluzione divergente che avevano mantenuto per centinaia di migliaia di anni, con uno scambio genetico scarso o nullo, trasformò Neandertal e Cro-Magnon in umani ben distinti. Gli scheletri praticamente si somigliano meno di quelli della tigre e del leone, del giaguaro e del leopardo, dell'orso polare e dell'orso pardo, del lupo e del coyote, della martora e della faina, della lince boreale e della lince iberica, della zebra e del cavallo, del bisonte e del toro, dello scimpanzé comune e del bonobo (o scimpanzé pigmeo). Come minimo erano sottospecie o semispecie diverse. Di recente è stato possibile sequenziare alcuni piccoli frammenti di dna mitocondriale estratti da tre fossili di Neandertal e le differenze riscontrate rispetto al nostro dna confermano ciò che appare evidente dal confronto dello scheletro: Neandertal e Cro-Magnon si erano evolutivamente separati da tempo. Ma molte delle coppie di specie elencate sopra possono incrociarsi e generare prole fertile in laboratorio, benché abitualmente non lo facciano in natura. Talvolta non ne hanno l'occasione, perché vivono in regioni diverse, ma altre volte non lo fanno perché è un'opzione controproducente: ogni specie è adatta alla sua nicchia ecologica e gli individui intermedi perdono questo vantaggio. Oltre a essere meno adatti, gli ibridi sono spesso meno fertili (seppur non del tutto sterili). La maggior parte delle specie scientificamente riconosciute non soddisferebbe appieno il criterio genetico dell'isolamento totale, ma in quest'altro senso più ampio si. Ciò non vieta ehe ogni tanto si possa verificare un incrocio tra individui di due specie animali riconosciute «ufficialmente» dagli zoologi. È tramite questa concezione più vaga che io ritengo che Neandertal e Cro-Magnon fossero due specie distinte.

Inoltre, le ricerche genetiche sugli europei attuali non hanno evidenziato alcun gene «raro» che potesse far pensare a una provenienza dalle popolazioni stanziate nel continente prima dell'arrivo dei Cro-Magnon. Questo non rende impossibile durante la loro coesistenza una qualche incorporazione di geni dei Neandertal ma, anche qualora fosse successo, fu in scala cosi ridotta che nessuno di quei geni è arrivato sino a noi.

Se lo scambio genico fu molto ridotto sarà difficile incontrare fossili che illustrino il risultato di tali incroci. E già cosi raro trovare un resto di un individuo normale e tipico di una specie di ominide, figuriamoci i casi eccezionali! Non esistono molti fossili di Cro-Magnon di oltre 30 mila anni in Europa, ma quelli che sono stati trovati non sono in alcun modo intermedi con i Neandertal. I più antichi sono forse quelli di Mladec rinvenuti in Moravia, Repubblica ceca, che potrebbero avere 32 mila anni o forse più, ossia vissero diverse migliaia di anni prima che gli ultimi Neandertal si estinguessero nell'Europa del Sud. Ho avuto modo di studiare due crani conservati a Vienna (gli unici scampati alla seconda guerra mondiale) e non ho notato caratteristiche attribuibili ai Neandertal. E stato riscontrato, però, che l'osso occipitale mostra un ingrossamento o una proiezione posteriore che rimanda alla morfologia dei Neandertal (quello che viene chiamato «chignon» o protuberanza occipitale). A me sembra una cosa diversa, ma riconosco che su questo punto possono trovare appiglio i sostenitori della continuità tra Neandertal e Cro-Magnon.

In un sito archeologico portoghese, a Lagar Velho, è stato scoperto lo scheletro di un bambino di circa sei anni che si vuole far passare per membro di una popolazione discendente da Neandertal e Cro-Magnon: ossia il bambino non sarebbe di padre Neandertal e madre Cro-Magnon, o il contrario, ma la fusione dei due popoli avrebbe avuto luogo svariate migliaia di anni prima che nascesse. A me soprattutto la morfologia dello scheletro non sembra validare un'ipotesi così audace. Nella vera scienza le teorie straordinarie hanno bisogno di prove straordinarie e non mi sembra che sia questo ¡1 caso. In conclusione, i Neandertal e i Cro-Magnon vissero in mondi completamente separati? In un certo senso sì: sono sicuro che ¡ loro mondi si avvicinarono e si sovrapposero molte volte e in molti luoghi. Le prove di quelle relazioni, più culturali che biologiche, si trovano in archeologia. All'inizio avevo nominato il complesso castelperroniano, diffusosi tra Francia e Spagna (ci sono industrie litiche simili in Italia e nell'Europa centrale). Si tratta di una cultura del Paleolitico superiore con elementi di ornamento personale (ossia con oggetti simbolici), che in due siti è associata a fossili di Neandertal. E qui entrano in gioco tutte le ipotesi di relazione tra Neandertal e Cro-Magnon. E possibile che i Neandertal imitassero i CroMagnon, il che, ovviamente, non ha nulla di male né svilisce i Neandertal. Tutte le culture si diffondono per imitazione: noi occidentali, per esempio, non abbiamo inventato la polvere da sparo né la carta (e forse nemmeno gli spaghetti!). La questione è se i Neandertal comprendessero il significato degli oggetti simbolici che appresero a realizzare. Oppure li scambiavano soltanto? C'è persino chi dice che furono i Neandertal a dare inizio al Paleolitico superiore e che i Cro-Magnon li copiarono. Questa ipotesi è un po' audace; va inoltre aggiunto che quello che i Neandertal non inventarono e mai praticarono è l'arte figurativa (per quanto si sappia, perché nella scienza bisogna essere sempre prudenti).

Le parole di un uomo morto

La storia dei Neandertal e quella dei Cro-Magnon ha fatto scorrere fiumi di inchiostro, come era prevedibile visto che unisce tutti gli ingredienti necessari per tenere il lettore con il fiato sospeso. Quando non sono nemici umani, della stessa specie o «dell'altra», a minacciare il protagonista sono i mammut o gli orsi delle caverne. Per gli amanti del realismo magico, questa è l'epoca in cui gli uomini non facevano distinzione tra il mondo reale e quello degli spiriti. Tutto era avvolto dalle nebbie del Pleistocene e, in qualunque momento, ne poteva uscire qualsiasi cosa. Quella dello sciamano è la professione più antica del mondo.

Ci sono bei romanzi incentrati su Neandertal e Cro-Magnon che hanno ottenuto una gran fama. Gli autori moderni del genere cercano di documentarsi bene e chiedono consulenza a studiosi di preistoria di professione, come nel caso della celeberrima Jean Auel, quella di Ayla la figlia della terra. Io, però, credo che più dell'esattezza scientifica sia importante una buona trama: per il rigore storico esistono i libri di testo. William Golding, l 'autore di II signore delle mosche, scrisse un racconto poco conosciuto sui Neandertal: Uomini nudi. Abbiamo infine una versione spagnola dei fatti ben narrata nel libro Nublares di Antonio Pérez Henares. Di sicuro ci sono moltissime altri romanzi del «genere preistorico», ma in questo riconosco di non essere un esperto. In generale, noi storici (o studiosi di preistoria) di professione non leggiamo letteratura storica (o preistorica) perché di solito troviamo che la realtà superi la finzione. Non pretendo però che il passato appartenga in esclusiva a noi ricercatori e riconosco che chiunque ha il diritto di sognare.

Ammetto invece di avere qualche dubbio, come tanti altri, su Joseph-Henry Honoré Boéx, alias J.H. Rosny Aîné, che mi colpì molto da giovane con la sua opera La guerra del fuoco. Quel libro mi piacque così tanto che non oso più rileggerlo, per timore che possa deludermi. Preferisco conservare una vaga eco delle sue storie, come se nell'infanzia mi fossero state raccontate da un venerando anziano della mia famiglia. Da quello che ricordo, la storia non corrisponde molto all'idea che attualmente abbiamo della preistoria e del periodo in cui si incontrarono e coesistettero i Neandertal e i fondatori della «nostra tribù»; tuttavia è logico, perché negli anni in cui veniva scritto La guerra delfuoco avevamo un'idea molto negativa dei Neandertal. Li immaginavamo assai rozzi, se non brutali, e incapaci di stare in posizione completamente eretta. Quella fu la ricostruzione della postura dei Neandertal che fece all'inizio degli anni Dieci del XX secolo il paleontologo Marcellin Boule a partire dallo scheletro del «vecchio» di La Chapelle-aux-Saints. Ai Neandertal non fu riconosciuta la postura eretta, il portamento per eccellenza umano, fino alla fine degli anni Cinquanta. Dai poveri «paleantropi» che camminavano penosamente ricurvi non ci si poteva nemmeno aspettare un comportamento nobile.

In seguito Jean-Jacques Annaud portò al cinema il romanzo di Rosny Aîné: è un film pieno di umorismo e ammetto di essermi molto divertito a vederlo, ma gli uomini preistorici sono ancora rappresentati mentre camminano trascinando i piedi. In un certo senso il film di Annaud è più fedele al tempo in cui fu scritto il romanzo che a quanto si sa ora. La nostra immagine dei Neandertal da allora è molto cambiata e oggi ci sembrano degni di figurare tra i nostri antenati, sebbene forse non lo siano (almeno in termini biologici). Tra coloro che hanno avuto l'intuito sufficiente per amare i Neandertal e immaginarli intelligenti quanto noi, ma più sensibili e perciò più colti, c'era l'encomiabile Björn Kurtén. Come paleontologo fu un maestro, la sua capacità di tessere trame e di evocare il passato supera chiunque. Credo che la chiave della sua abilità narrativa fosse il senso dell'umorismo di cui faceva sfoggio nella divulgazione scientifica, come per esempio nel suo delizioso libro Hur manfryser in en mammut [Come congelare un mammut). E molto raro, purtroppo, trovare un accademico che abbia senso dell'umorismo. Da La danza della tigre di Kurtén si trae la conclusione che tutto sarebbe andato meglio se avessero vinto i Neandertal. La realtà, invece, è che la loro storia finì in tragedia. La nostra specie però aveva un potere che la rendeva imbattibile: la magia della parola. Non è prodigioso poter oggi ascoltare, con gli occhi, le parole di un uomo morto? E come dominava Kurtén, noterà subito il lettore, la magia delle parole! Nulla potrà consolarci per la perdita dei Neandertal, che furono un prodotto insostituibile di tanti millenni di evoluzione. Nessuno potrà riportarli in vita, perché le prime specie che «noi» estinguemmo furono «gli altri umani» (e da allora non abbiamo mai smesso).

Noi paleontologi, però, sentiamo che grazie alla nostra opera la loro memoria è stata recuperata e che le loro esperienze, talvolta belle e talvolta brutte, le loro risate e le loro paure, le loro vite e le loro morti non andranno più perdute nel tempo come lacrime nella pioggia.

(traduzione di Daniele Russo)


FABIO DI VINCENZO e GIORGIO MANZI

L'ORIGINE DARWINIANA DEL LINGUAGGIO

Il linguaggio come sistema di comunicazioni complesso ha avuto origini recenti ed è proprio della nostra specie. Ma le facoltà che ne sono alla base non appartengono in forma esclusiva a Homo sapiens; sono quelle 'proprietà semantico-sintattiche dotate di modalità ricorsive' che condividiamo con i nostri parenti scimmieschi e con i nostri antenati del Paleolitico. È al loro progressivo affinamento innescato da meccanismi di selezione naturale che dobbiamo la nostra straordinaria e unica capacità di parola.

Esiste un generale consenso sul fatto che come specie siamo comparsi in Africa, circa 200 mila anni fa: ce lo suggeriscono da tempo i resti fossili e i siti preistorici; ce lo ha confermato la genetica, aggiungendo numeri abbastanza precisi e vari dettagli. Non c'è nemmeno dubbio che abbiamo presto iniziato a diffonderci: prima in Africa, poi in Eurasia e infine su tutto il pianeta. Certo è che siamo ormai tanti, anzi troppi: sette miliardi di esemplari di una specie di mammifero di grande taglia e di notevole successo, che vive in branco e tende a condizionare profondamente l'ambiente intorno a sé. Ma come è comparsa la specie Homo sapiens? O anche (che poi è lo stesso), come ha potuto avere questa specie un impatto tale da soppiantare quasi subito tutte le varietà «arcaiche» del genere Homo che ancora esistevano fino a poche migliaia di anni fa: Neandertal inclusi, uomini dal cervello più grande (in media) del nostro? Ci sono parecchie cose che ormai sappiamo o pensiamo di sapere a riguardo (per esempio, vedi Bastir e colleghi, 2011), come pure molte sono le ipotesi di lavoro ancora da verificare e il dibattito fra gli specialisti è tutt'altro che sopito. Uno degli elementi che difficilmente possono mancare a un'attenta analisi delle origini e del successo della nostra specie è il linguaggio: il linguaggio come suoni articolati, il linguaggio come sistema di comunicazione, il linguaggio come insieme organizzato di simboli e di significati.

In queste pagine cercheremo di mostrare in brevecome la facoltà linguistica possa essersi originata ed evoluta a partire da forme pre-linguistiche di apprendimento sociale, in particolar modo imitativo, attraverso «normali» processi darwiniani, imperniati cioè sul meccanismo della selezione naturale: ...by means of natural selection recitava appunto la seconda parte del titolo dell' Orìgine delle specie, il libro di Charles Darwin del 1859. Intendiamo cioè mettere in una qualche luce le possibili modalità evolutive attraverso cui si è potuto attuare il passaggio dalla facoltà emulativa/imitativa 20 (comune a noi e ai nostri parenti . scimmieschi) a quella linguistica (tipica della nostra specie), nel corso dell'evoluzione umana o magari proprio nel momento in cui si è avuto quel «salto di qualità» che è rappresentato dalla comparsa e dalla successiva diffusione di Homo sapiens.

Emulazione e imitazione

Iniziamo da lontano. L'evoluzione dei primati (o Primates: gli attuali lemuri, tarsi, scimmie e scimmie antropomorfe) ha implicato una moltitudine di specie perlopiù estinte21 e qualcosa come 65 milioni di anni o più. In questo percorso ramificato, una tendenza piuttosto condivisa fra i primati è stata quella all'encefalizzazione, intesa come sviluppo, non solo dimensionale, delle strutture encefaliche, a cui si è affiancata una sempre maggiore complessità comportamentale e la formazione di comunità di individui altamente sociali. Non sappiamo bene quando, ma in un certo momento di questo percorso evolutivo che ha coinvolto cervello, comportamenti e socialità, una serie di funzioni neuronali sono state poste sotto il controllo di un unico circuito corticale. Si parla di funzioni che non sembrano in stretta relazione fra loro, ma che in realtà sappiamo riconducibili a uno stesso sistema senso-motorio da quando conosciamo i cosiddetti neuroni specchio 22. Si tratta infatti di funzioni connesse sia al riconoscimento del significato di azioni compiute da altri, sia all'elaborazione, incorporazione e replicazione di comportamenti finalizzati osservati. Il sistema in questione è formato da aree corticali chiamate «perisilviane»: proprio le stesse dei neuroni specchio, che troviamo distribuite attorno alla scissura laterale o «di Silvio»23, che separa le porzioni fronto-parietali da quelle temporali del cervello. Nel corso dell'evoluzione dei primati, queste aree perisilviane si sono progressivamente integrate a realizzare un network funzionale all'acquisizione di varie tipologie di conoscenza sia procedurale (saper fare o know-how) che proposizionale (sapere). Un po' di anatomia qui ci vuole (figura 1).

Il circuito neurale perisilviano controlla, in tutte le scimmie antropomorfe e nell'uomo, i processi percettivi e integrativi che permettono l'apprendimento sociale, sia emulativo che imitativo, e costituisce quella che Marco Iacoboni (2005) ha definito la Minimal Neural Architecture for imitation (MNA), ovvero l'architettura neuronale minima per l'espletamento dei comportamenti imitativi. La MNA comprende la regione temporale superiore, quella parietale inferiore e la frontale inferiore, tutte dell'emisfero sinistro. Sono le medesime aree cerebrali che nell'uomo consentono la facoltà linguistica. La più nota di queste (nel lobo frontale sinistro) prende il nome di un importante antropologo francese dell'Ottocento, Paul Broca, ed essenzialmente consente la produzione di frasi e parole, mentre un'altra, posta poco dietro nel lobo temporale, permette invece la comprensione dei significati e fu scoperta all'inizio del secolo scorso dal fisiologo tedesco Cari Wernicke. Queste, assieme ad aree associative parietali (intitolate a Norman Geshwind, neurofisiologo americano del secolo scorso), compongono un complesso sistema ramificato di interconnessioni neuronali. Su ciò si fonda l'omologia, che possiamo quindi definire «strutturale» o anatomica, tra le aree corticali imitative delle scimmie e quelle linguistiche di noi umani. Vediamo meglio cosa questo possa significare per le origini e la natura del linguaggio articolato.

La funzione imitativa in senso lato (che include sia l'emulazione che la vera imitazione) si attua a livello cerebrale nella MNA, secondo modalità semantiche e computazionali (sintattiche) ormai riconosciute e fondate rispettivamente: a) sulle proprietà empatiche dei neuroni specchio denominate di High Level Resonance (G. Rizzolatti e colleghi, 2002), che permettono di associare un significato univoco a ogni singolo atto motorio osservato; b) sulla comprensione dell'esatta sequenza in cui i singoli atti motori si dispongono ordinatamente a formare i comportamenti, in quella che R.W. Byrne e A.E. Russon (1998) hanno definito Program Level Imitation, che determina la comprensione dell'intera sequenza motoria osservata. E la combinazione di tali modalità semantiche (comprensione dei significati) e generative (comprensione della sintassi) che consente la replicazione fedele di comportamenti motori complessi. Pertanto, contrariamente all'opinione comune anche tra i linguisti, tali proprietà non appartengono al linguaggio in forma esclusiva, ma lo precedono evolutivamente. In altre parole, si può affermare che il linguaggio articolato dell'uomo mutua preesistenti modalità di elaborazione delle informazioni sensoriali. Si può dunque concludere che tra i processi emulativi/imitativi delle antropomorfe (uomo compreso) e quelli linguistici, esclusivi di Homo sapiens, esiste una vera e propria continuità filogenetica24 fondata su una stretta omologia sia strutturale che funzionale.

Il circuito perisilviano, quindi, costituisce un sistema neuronale deputato nei primati al riconoscimento e alla replicazione di atti manuali e oro-facciali, anche complessi. Esso non entra in gioco nell'esecuzione dei comportamenti motori, che è invece sotto il controllo di aree motorie specifiche, ma piuttosto permette la conoscenza e la pianificazione di come comportamenti motori appresi possano attuarsi in forme che siano utili e replicabili. Con una serie di esperimenti di risonanza magnetica funzionale, Giovanni Buccino e collaboratori (2004) hanno dimostrato l'attivazione delle aree fronto-parietali incluse nella MNA sia durante l'osservazione (da parte di soggetti non esperti) di comportamenti motori finalizzati, sia durante la fase di pianificazione volta alla replicazione del comportamento motorio appreso. Dunque, possiamo ormai dare per acquisita, anche in base a molte altre evidenze, la natura polifunzionale e motoria dell'area di Broca che, tramite neuroni specchio, è in grado di mediare comportamenti di natura non-linguistica connessi ad azioni finalizzate, rielaborandoli (assieme ad altre aree prefrontali adiacenti), in forme il più possibile coincidenti con il modello osservato.

Teorie

In base a queste e altre considerazioni, negli ultimi anni hanno acquisito sempre maggior credito le cosiddette teorie gestuali sull'origine del linguaggio (Rizzolatti e Arbib, 1998; Corballis, 2002). Queste, pur nelle differenze che si riscontrano, sostengono tutte che il linguaggio ha utilizzato nelle prime fasi della sua evoluzione un canale comunicativo non acustico, ma mimico-gestuale: fondato cioè sulle proprietà sensomotorie delle aree corticali del cervello. Il cambiamento di prospettiva introdotto da queste teorie non è banale. Infatti, le teorie che vedevano (e vedono) (Cheney e Seyfarth, 2007) una continuità tra il linguaggio umano e i sistemi di comunicazione dei primati, basati su vocalizzazioni e richiami (per esempio i complessi sistemi di allarme dei cercopiteci), sono messe in dubbio dal fatto che tali vocalizzazioni sono controllate a livello cerebrale da circuiti e aree completamente differenti da quelle del linguaggio, particolarmente dalle aree sottocorticali che sono legate, anche nell'uomo, all'espressione delle emozioni. Le vocalizzazioni dunque, a differenza del linguaggio, non sono sotto controllo volontario. La quasi impossibilità di spiegare in termini neurofisiologici ed evolutivi il passaggio da un sistema vocale involontario sottocorticale e diffuso a uno volontario corticale e fortemente lateralizzato ha alimentato per molto tempo, anche tra gli specialisti, la convinzione che il linguaggio non potesse essersi evoluto secondo modalità darwiniane ma avesse richiesto una forte discontinuità, cioè che fosse nato ex abrupto a seguito di una qualche fortunata mutazione; ciò ha condannato a uno sterile vicolo cieco la discussione intorno all'origine del linguaggio.

Le teorie gestuali risolvono brillantemente questo problema a livello neurofisiologico, individuando una comune base corticale e volontaria ai due sistemi (quello mimico-gestuale e quello vocale). Anch'esse però si trovano a fare i conti con il problema delle cosiddette fasi iniziali potenzialmente svantaggiose (il cosiddetto problema del 5 per cento 25), cioè devono fornire una valida spiegazione di come un sistema che opera secondo modalità e finalità complesse (è questo il caso del linguaggio) possa essersi evoluto senza venire eliminato dalla selezione naturale nei suoi stadi incipienti. Noi pensiamo che il linguaggio possa essersi evoluto in base a un meccanismo di exaptation (Gould e Vrba, 1982). Riteniamo cioè che sia emerso per una forma di cooptazione di strutture destinate in precedenza ad altro, ovvero al controllo dei processi semantici e computazionali che permettono l'apprendimento imitativo. E in questo passaggio che le teorie gestuali (almeno così come vengono attualmente formulate) mostrano le maggiori difficoltà esplicative.

Il linguaggio, indipendentemente dal fatto che usi un canale vocale (linguaggio articolato) o mimico-gestuale, ha bisogno della combinazione di capacità sia semantiche che computazionali (sintattiche). Oggi sappiamo che entrambe queste facoltà sono biologicamente fondate e che la sintassi risponde alle modalità di processamento e ordinamento dell'informazione da parte del cervello (Hagoort, 2005), per cui è possibile concepire (in forme che risultino comprensibili) solo un numero limitato di grammatiche tra tutte quelle idealmente possibili, in accordo con quanto già proposto da Lenneberg (1967) e in forma più ampia da Chomsky (1957) con il concetto di grammatica universale'. Le attuali teorie gestuali, mentre forniscono una spiegazione valida intorno ai contenuti semantici del linguaggio e di come questi si siano potuti evolvere, sembrano essere meno efficaci nel chiarire la contemporanea origine della sintassi. In pratica non forniscono una spiegazione completa dell'origine del linguaggio in tutti i suoi aspetti essenziali26. In particolar modo restano ambigue sul perché il linguaggio, rispetto a ogni altra forma di comunicazione animale, presenti come assoluta particolarità un sistema di ordinamento dei vari elementi, la sintassi, che opera secondo modalità generative ricorsive27. Queste permettono, mediante un numero limitato di regole grammaticali, l'«infinito uso di significati finiti» secondo la classica definizione di linguaggio data da Wilhelm von Humboldt (1836). Il problema dell'origine evolutiva della sintassi in un contesto mimico-gestuale può venire superato prestando attenzione alle modalità con cui si è svolta l'evoluzione umana e di come nel corso di tale processo siano cresciute di importanza una serie di funzioni non direttamente «comunicative», ma legate alla trasmissione mediante apprendimento imitativo (non-verbale e non-istruito) di informazioni e conoscenze essenziali alla sopravvivenza dei nostri antenati ominidi e all'accesso a particolari risorse trofiche in un contesto ecologico mutato.

Manufatti

Entrano qui in gioco i manufatti. Fra gli scimpanzé, che tra i primati viventi sono i nostri parenti più stretti dal punto di vista genetico, l'uso di oggetti naturali utilizzati come strumenti e la produzione di veri e propri manufatti vengono tramandati da una generazione all'altra (A. Whiten e C. Boesch, 2001), mediati da processi sia emulativi che imitativi (V. Horner e A. Whiten, 2005). Entrambe queste modalità di apprendimento sociale consentono il trasferimento non-verbale da individuo a individuo (trasferimento orizzontale) e da generazione a generazione (trasferimento verticale) dei know-how necessari per la corretta esecuzione di finalità complesse quali, appunto, l'uso e la preparazione di strumenti necessari per accedere a risorse altrimenti inaccessibili come fonti di cibo, ripari eccetera. E ormai accertato che, in natura, gli scimpanzé si scambiano spontaneamente informazioni fondamentali per la loro sopravvivenza attraverso l'osservazione dei comportamenti altrui e l'imitazione. E nota anche la presenza di vere e proprie tradizioni locali (A. Whiten e C. Boesch, 2001), come per esempio l'uso di pietre per rompere gusci di noce o la preparazione di bastoncini adattati per raccogliere gli insetti direttamente nel termitaio. Sono comportamenti condivisi e tramandati fra i membri di uno stesso gruppo sociale, ma sconosciuti ad altri gruppi che vivono in aree limitrofe. Ciò sta a indicare che questi comportamenti non fanno parte del «patrimonio genetico» della specie ma devono essere acquisiti o, per meglio dire, appresi attraverso il contatto con altri membri del gruppo sociale e in particolar modo con la madre. La trasmissione in forma invariata per centinaia di generazioni delle conoscenze necessarie a eseguire simili complessi comportamenti (Mercader e colleghi, 2007), indica la presenza di processi di replicazione molto precisi e fedeli, riconducibili alla vera imitazione. Il repertorio di comportamenti mediati da fenomeni di apprendimento emulativo/imitativo e di ragionamento analogico riscontrabili tra le scimmie antropomorfe in genere (oranghi, gorilla e scimpanzé) è molto ampio. Riguarda anche l'associazione (dopo apposita istruzione in contesti sperimentali) di significati attribuiti a segni e simboli utilizzati per comporre «frasi» elementari di senso apparentemente compiuto. Su simili esperienze esiste un'ampia letteratura anche di taglio divulgativo facilmente accessibile al lettore (per esempio, Manzi e Rizzo, 2011), per cui non ce ne occuperemo oltre. Sarà però bene ricordare che negli scimpanzé i comportamenti motori transitivi o «comunicativi» in senso ampio, rappresentati da gesti bracinomanuali e oro-facciali, attivano a livello cerebrale le stesse aree del lobo frontale inferiore sinistro corrispondenti all'area di Broca dell'uomo (Tagliatela e colleghi, 2008). L'omologia tra queste aree nei primati non-umani (non solo nelle antropomorfe, ma anche nei macachi) e la nostra area di Broca è stata riconosciuta anche grazie alla presenza in tutte queste specie di neuroni specchio lì localizzati (Petrides e colleghi, 2006), che come abbiamo già detto mediano (e permettono) tutti i processi di comprensione del significato di azioni transitive e quelli imitativi.

Uomini e ambienti

Il vantaggio selettivo associato alla possibilità di acquisire una vasta gamma di know-how per la replicazione di sequenze di azioni finalizzate, o catene di operazioni, è divenuto decisivo dal momento in cui con la comparsa del genere Homo, intorno a 2 milioni di anni fa si è avuto un passaggio cruciale della nostra evoluzione: l'aumento ponderale dei volumi cerebrali, permesso e sostenuto dall'accesso a risorse alimentari di alta qualità nutrizionale, combinato con l'adozione da parte dei nostri antenati di strategie da tempo note come «sciacallaggio». Stiamo parlando di quella fase dell'evoluzione umana in cui, in rapporto a una lunga fase di deterioramento climatico e di inaridimento ambientale iniziata intorno a 3 milioni di anni fa, i nostri antenati hanno iniziato ad assumere il ruolo di cosiddetti «spazzini della savana», sfruttando una serie di precondizioni (exaptations) acquisite in precedenza dai primati, in genere, e da quelli della nostra linea evolutiva, in particolare: la vista stereoscopica (in 3D), le mani con pollice opponibile, rese ancora più abili dall'acquisizione della locomozione bipede, un cervello relativamente grande, l'indole da animali sociali eccetera. Questo spostamento di nicchia trofica, con l'introduzione non più occasionale di grassi e proteine animali nella dieta, è stato reso possibile dallo sfruttamento delle carcasse di mammiferi lasciate mezze spolpate dai grandi predatori della savana, mediante l'uso estensivo di strumenti litici: i manufatti del primo Paleolitico. L'accesso sistematico a questa nuova risorsa nutritiva ha fornito non solo un apporto di energia da convogliare verso il metabolismo cerebrale, «risparmiando» su altri sistemi metabolici e garantendo così al cervello risorse supplementari, ma ha sopratutto fornito i nutrienti essenziali, rappresentati da lunghe catene di acidi grassi polinsaturi Omega-3 e Omega-6, necessari per sostenere la rapidissima espansione encefalica che ha caratterizzato l'evoluzione del genere Homo (Cunnane, 2005). Gli acidi grassi essenziali, infatti, non sono direttamente sintetizzabili dall'organismo ma devono essere assunti con la dieta e vengono poi trasferiti dalla madre nelle prime fasi di sviluppo embrionali e neonatali, con l'alimentazione fetale e con l'allattamento.

Nelle savane africane di 2 milioni di anni fa, l'accesso a questa formidabile risorsa trofica era unicamente possibile per un nostro antenato privo di zanne e artigli con l'uso di strumenti realizzati mediante know-how condivisi tra i membri del gruppo sociale. Così, la possibilità di sfruttare con successo le carcasse disponibili, in competizione con gli stessi predatori (leoni, leopardi) e con i nostri «rivali» saprofagi (iene, sciacalli, avvoltoi), ha portato questi uomini primordiali dell'inizio del Pleistocene a sviluppare da un lato comportamenti sociali più cooperativi, dall'altro nuove capacità cognitive connesse allo sviluppo ponderale del cervello. Questo, sostenuto dal consumo di grassi e proteine animali, in una spirale a rinforzo positivo, si è quasi raddoppiato già con la comparsa delle prime forme di Homo (rispetto alle dimensioni di quello dei loro antenati Australopithecus) e si è associato alle industrie litiche del primo Paleolitico (Olduvaiano). Nel complesso, l'accrescimento encefalico nel corso di buona parte dell'evoluzione del genere Homo ha riguardato lo sviluppo in senso antero-posteri ore dell'encefalo a partire dal polo occipitale (aree visive) e dei lobi parietali inferiori (aree associative) come mostrano gli studi di morfometria geometrica e warping tridimensionale condotti su calchi endocranici (Bruner e colleghi, 2003; Di Vincenzo e Manzi, 2007). Più localmente, in maniera cioè indipendente dall'accrescimento generale dell'encefalo, si registra lo sviluppo proprio delle aree perisilviane dell'emisfero sinistro già in forme tarde di Australopithecus, alla luce di quanto è stato messo in evidenza sul calco endocranico di uno dei fossili rinvenuti nel sito di Malapa in Sudafrica (Carlson e colleghi, 2011). Queste aree sono andate incontro a una significativa espansione, evidenziata dal grado di asimmetria emisferica (lateralizzazione) e dall'emergere di strutture cerebrali tipicamente umane, come il cosiddetto cappuccio di Broca sul lobo frontale sinistro e come il lobulo parietale inferiore in corrispondenza del giro sopramarginale e del giro angolare.

Phillip V. Tobias, uno dei padri della paleoantropologia della seconda metà del Novecento, nell'ormai lontano 1971 ha interpretato tali evidenze paleoneurologiche in base a un principio che potremmo definire «attualistico». In coerenza con le conoscenze allora disponibili, secondo Tobias, la presenza in Homo habilis di strutture perisilviane sviluppate (area di Broca, di Wernike e parietali inferiori) si sarebbe accompagnata a fluenti capacità linguistiche già presenti in questa remota specie umana. In base al modello della MNA di Iacoboni, tale visione deve essere completamente «ribaltata». Come abbiamo visto, infatti, le aree perisilviane sono riconosciute come costitutive di un network emulativo/imitativo sovrapponibile a quello linguistico, precedente alla divisione della nostra linea evolutiva dagli antenati delle antropomorfe attuali. Quindi è nei fenomeni emulativi/imitativi che va individuata la funzione associata a tali aree nelle primordiali forme del genere Homo, in relazione al vantaggio rappresentato dal possedere un sistema imitativo (non verbale) molto accurato per l'apprendimento di know-how necessari all'acceso al cibo. Si tratta peraltro di un cibo altamente nutritivo (come dicevamo sopra) che si inserisce in un feedback a rinforzo positivo con la produzione di manufatti e con l'encefalizzazione.

Ricorsività

Ogni manufatto umano, ogni strumento del Paleolitico testimonia un procedimento che ha portato alla sua corretta realizzazione, composto da cicli iterativi di lavorazione concatenati in una sequenza operativa continua (in ambito archeologico si usa il termine chaìne opératoire: catena di operazioni), lale schema generativo, basato sulla ricorsività di operazioni motorie, riflette le modalità semantico-sintattiche con cui le informazioni motorie vengono processate nei sistemi neurocognitivi perisilviani non già durante le fasi produttive, ma piuttosto durante quelle relative all'apprendimento di tali procedure motorie. Il linguaggio, evolvendo contestualmente a tali sistemi, ne avrebbe ereditato le caratteristiche fondamentali. Pertanto, noi suggeriamo che il linguaggio non si sarebbe affatto sviluppato in forme e con modalità autonome ed esclusive, contrariamente a quanto sostenuto da Hauser, Chomsky e Fitch (2002). La presenza di «ricorsività», cioè la possibilità di eseguire operazioni sul prodotto di altre operazioni, è stata considerata da questi autori come il tratto esclusivo della facoltà linguistica in senso stretto, non essendo essa condivisa né da altri sistemi cognitivi presenti nell'uomo (esclusa la facoltà di calcolo), né da altri sistemi di comunicazione in altre specie animali. E stato perciò ritenuto impossibile che la ricorsività potesse essersi evoluta da forme precedenti secondo modalità darwiniane. In realtà, la ricorsività è il presupposto procedurale di svariati comportamenti motori ed è presente in tecniche di scheggiatura del Paleolitico: il metodo Levallois, per esempio, prevede la predeterminazione dei prodotti finali (punte, grattatoi, raschiatoi eccetera) in base a un'estesa preparazione dei nuclei ottenuti scheggiando il ciottolo di materia prima. Ciò si può ipotizzare anche per le catene di operazioni necessarie per produrre i più elementari strumenti del Paleolitico inferiore [figura 2), come quelli associati ai primi rappresentanti del genere Homo.

D'altra parte, attività motorie pienamente ricorsive e non solamente iterative (come il processamento di oggetti e alimenti) sono state riconosciute anche fra gli scimpanzé e i gorilla (Byrne, 2003). La ricorsività pertanto non appare essere esclusiva del «dominio umano» (né dunque di quello linguistico), ma risulta essere ben radicata nei procedimenti motori condivisi da noi e da alcune fra le scimmie antropomorfe (e, verosimilmente, dai nostri antenati). La presenza di procedure ricorsive nella realizzazione dei manufatti si fa più evidente mano mano che ci si avvicina cronologicamente a industrie tipiche di forme umane più encefalizzate come i Neandertal (Paleolitico medio) o alle prime industrie su selce e osso associate alla nostra specie (Paleolitico superiore). Rispetto a quelle del Paleolitico inferiore, queste industrie si caratterizzano per una crescente diversificazione nelle tipologie di strumenti prodotti, ognuno utilizzabile per una funzione particolare. Questi diversi strumenti sono ottenuti mediante successive modifiche rispetto a un piano produttivo comune come «variazioni su un medesimo tema». In pratica nella fabbricazione di questi manufatti si evidenzia la presenza di due livelli produttivi distinti: uno «strutturale», fondato su procedure standardizzate volte a prevenire ogni errore capace di compromettere la funzionalità complessiva dello strumento, e uno più flessibile e creativo che utilizza i piccoli errori che occasionalmente si verificano durante le fasi lavorative per creare nuove tipologie di strumenti. Questo tipo di organizzazione su due livelli produttivi distinti è assente in un contesto di comunicazione iconico mimicogestuale (del tipo di quelli presenti tra le scimmie antropomorfe), mentre rappresenta un tratto fondamentale del linguaggio parlato (e scritto). Ogni lingua, infatti, presenta di base poche regole grammaticali (la cui violazione comporta una perdita immediata di significato), associata a una grande flessibilità e variabilità lessicale, che costituisce la vera ricchezza semantica della lingua e le permette di evolvere nel tempo e diversificarsi. Il linguaggio, pertanto, si realizza su due livelli distinti ma contemporanei: uno formale (sintattico), che permette la costruzione di frasi grammaticali, e uno contestuale (lessicale), che consente di adattare parole e significati a diverse situazioni e permette la creazione di nuove parole attraverso la conservazione di piccole variazioni ed «errori» entrati nell'uso.

E bene chiarire che con ciò non sosteniamo né che il linguaggio si sia evoluto a partire da processi produttivi della litica, che sono sotto il controllo di specifiche aree motorie diverse da quelle che formano la MNA (Stout e Chaminade, 2007), né che ci sia un'equivalenza cognitiva tra le due facoltà (Leroi-Gourhan, 1977). La relazione evolutiva da noi individuata si attua esclusivamente rispetto alle modalità di apprendimento e replicazione delle corrette procedure necessarie a compiere comportamenti complessi. Modalità che sono proprie del circuito delle aree perisilviane e delle facoltà tanto imitative che linguistiche da esse controllate. Diversamente da quanto proposto da Tomasello (1999) nell'ipotesi del «dentello di arresto»31, pensiamo che non sia l'accumulo di innovazioni culturali a sospingere lo sviluppo delle facoltà cognitive, ma che queste siano vincolate a un feedback autocatalitico e pienamente darwiniano, che abbia legato le facoltà cognitive allo sviluppo cerebrale, alle necessità energetiche e nutrizionali del suo metabolismo, alla possibilità di trasferimento transgenerazionale di know-how e conoscenze (in forme sempre più raffinate e istruite) e alle contingenti opportunità paleoambientali che hanno stimolato e favorito tutto questo processo.

È stato lo sviluppo e l'aumento di complessità delle aree perisilviane sostenuto da un continuo aumento delle capacità di sopravvivenza e di riproduzione a costituire la precondizione adattativa per strutture encefaliche che potevano essere e che, in un successivo momento, saranno cooptate per nuove funzioni basate sui medesimi meccanismi emulativi/imitativi. Riteniamo cioè che sia stato questo meccanismo basato come si vede sul concetto di exaptation e sulla selezione naturale che ha permesso l'emergere delle facoltà linguistiche.

​Parlare

Quando, a seguito dell'aumento di complessità neuronale, le aree perisilviane hanno potuto pienamente supplire a nuove funzionalità di carattere più eminentemente comunicativo e linguistico era ormai spianata la strada per cui si poteva attuare il passaggio a modalità articolari (vocali) del linguaggio. Anche in questo caso, un passaggio così cruciale è stato mediato dalla presenza di popolazioni di neuroni specchio che, come abbiamo visto, giocano un ruolo fondamentale nel riconoscimento del significato di azioni finalizzate grazie alle loro proprietà sensorie e motorie in parallelo. In questo caso, particolari neuroni specchio definiti eco, rinvenuti per il momento solo nell'uomo, si attivano non in risposta a una percezione visiva bensì acustica, secondo le modalità descritte da Rizzolatti e Craighero (2004). Questi neuroni specchio, come i loro omologhi visuo-motori, permettono l'associazione di uno stimolo in questo caso un suono con caratteristiche ben definite (non quindi un indistinto rumore) con il possibile significato che quel suono può rivestire per l'ascoltatore. Non solo, ma nel momento in cui giunge all'ascoltatore un suono verbale, questo viene automaticamente tradotto a livello della muscolatura glosso-faringea del tratto sopra-laringeo, nel piano articolatorio necessario per (ri)produrlo, confermando su base neuronale l'intuizione di Lieberman e collaboratori (1967) della strettissima relazione funzionale esistente tra l'articolazione motoria di bocca, labbra e lingua e la comprensione dei significati linguistici associati alle parole o ai singoli fonemi. Determinante nel passaggio a un canale acustico è il fatto che suoni prodotti da azioni manuali (attività «rumorose» come la costruzione di manufatti, più che mimico-gestuali tipicamente «mute») non solamente attivano le aree perisilviane dell'emisfero sinistro, ma producono una facilitazione nell'esecuzione dei comportamenti motori rendendoli più rapidi e precisi, come dimostrato da AzizZadeh e colleghi (2004) mediante tecniche di neuro-imaging. Si può allora pensare che l'associazione di suoni anche verbali ad attività motorie (sia pratiche che mimico-gestuali) possa essere divenuta preponderante fino al passaggio completo a modalità acustiche e articolari del linguaggio. In questo contesto, infine, in base ai risultati di alcune analisi eseguite su calchi endocranici con tecniche di morfometria in tre dimensioni (Bruner e colleghi, 2003; Bastir e colleghi, 2011; Di Vincenzo e Manzi, in preparazione), riteniamo che il passaggio verso una funzione linguistica pienamente sviluppata in senso vocale sia probabilmente avvenuto solamente con la comparsa della nostra specie, circa 200 mila anni fa in Africa, e non abbia interessato, o abbia interessato con modalità affatto differenti, altre varietà di Homo come per esempio i Neandertal. D'altra parte, seppure noi pensiamo che il linguaggio articolato tipico della nostra specie abbia avuto un'origine recente, probabilmente contestuale e limitata alla stessa comparsa di Homo sapiens, riteniamo anche che la sua affermazione vada inserita pienamente in un percorso evolutivo molto antico riguardante non solo l'intera storia del genere Homo, ma anche quelle delle scimmie antropomorfe così come quelle dei loro e nostri antenati e vada letta in base a un meccanismo darwiniano, in rapporto al progressivo affinamento e all'integrazione delle proprietà semantico-sintattiche dotate di modalità ricorsive che caratterizzano le regioni perisilviane dell'emisfero sinistro, a cui sono associate molteplici facoltà che appaiono sempre più evolutivamente connesse.


PHILIP LIEBERMAN e ROBERT MCCARTHY

COME PARLAVANO I NOSTRI ANTENATI?

Se grazie ai fossili possiamo ricostruire molto delle loro abitudini e dei loro comportamenti, non potremo mai 'sentirli \ Ma dalla ricostruzione dei tratti anatomici preposti all'articolazione delle parole possiamo dedurre se erano in grado di ' parlare ' come noi. Per scoprire che solo nei fossili più recenti ci sono le condizioni 'anatomiche' della parola.

Nel 1973 Theodosius Dobzhansky scrisse che «niente ha senso in biologia se non alla luce dell'evoluzione». Questo detto si applica altrettanto bene al linguaggio umano e al parlato, che hanno una storia evolutiva non ancora del tutto scoperta. Sfortunatamente non ci rimane niente dei nostri lontani antenati a parte alcune ossa fossilizzate e tracce archeologiche del loro comportamento. Tuttavia, si possono vedere i segni dell'evoluzione nei nostri corpi moderni, nel cervello e persino nei tratti vocali.

Evidenze provenienti da discipline apparentemente non correlate tra loro suggeriscono che l'anatomia specializzata e i meccanismi neuronali che conferiscono il linguaggio articolato completo e le connesse capacità cognitive hanno raggiunto il livello attuale in un qualche momento tra i 100 mila e i 50 mila anni fa. La comparsa di questi attributi in una fase piuttosto tardiva della nostra evoluzione parecchio tempo dopo la nascita della nostra specie (circa 200 mila anni rj ha implicazioni importanti per come pensiamo a noi stjsi, ai nostri antenati e ai nostri parenti più stretti (inclusi i eandertal, che si sono evoluti in modo separato a partir da un antenato comune con noi vissuto intorno a 500 mil anni fa). A dire la verità, la comparsa di corpi umani muerni ben prima della comparsa di ciò che consideriami il comportamento umano moderno cioè i nostri processi mentali superiori come il pensiero complesso, il linguaggio e il comportamento simbolico suggerisce che i nostri primi antenati moderni avessero qualcosa che permise loro di svilupparsi nella nostra forma più recente e completa. Quella pietra fondante potrebbe essere stata una cosa semplice come il linguaggio parlato: ovvero la trasmissione vocale di informazioni a una velocità molto alta.

Quando studiamo i nostri cervelli, vediamo che i meccanismi neuronali necessari a produrre un linguaggio completamente articolato sono intimamente connessi al regolamento della sintassi complessa e alla cognizione.

Piuttosto che essere situati in una parte specifica del cervello come si pensava tradizionalmente nel XIX secolo ora sappiamo che le basi neuronali del linguaggio e della lingua si trovano in «circuiti» che connettono diverse parti del cervello. Dentro i nostri cervelli gruppi indipendenti di neuroni in una parte del cervello si connettono con gruppi distinti di neuroni in altre parti, formando «circuiti» che regolano diversi aspetti del comportamento. Per esempio, popolazioni neuronali da diverse parti del cervello esterno, o corteccia, proiettano nel putamen una parte interna della subcorteccia del cervello e da lì indirettamente in altre parti della corteccia. Questi circuiti regolano, tramite il putamen, il controllo motorio dei nostri corpi, cambiando, per esempio, la direzione di un processo di pensiero, capendo il significato di una frase, e regolando le nostre emozioni e il nostro stato d'animo. Nella maggior parte degli animali questi circuiti regolano il controllo motorio del corpo, mentre negli umani moderni hanno anche un effetto sulle nostre capacità cognitive. Per esempio, tali circuiti ci permettono di cambiare la direzione dei nostri processi di pensiero in base a nuovi stimoli, come la comprensione di un significato veicolato tramite la sintassi del linguaggio.

Questo è un indizio importante per capire l'evoluzione del linguaggio umano perché indica che i nostri cervelli potrebbero essere stati plasmati da una capacità avanzata di controllo motorio del parlato, che si è sviluppata nei nostri antenati. In altre parole, i nostri antenati hanno provato vari modi incrementali per parlarsi e i loro cervelli hanno gradualmente sviluppato abilità linguistiche più complicate, permettendoci di formare e capire la sintassi complessa. Nel tempo, questi cambiamenti ci hanno reso «umani» potremmo forse aver anche iniziato a parlare tra noi e noi nel diventare più intelligenti!

Il parlare e la fisiologia del parlare

Il discorso è una particolare modalità di comunicazione, che consente il rapido trasferimento di informazioni necessario per un linguaggio complesso. Anche se ci sono stati tanti tentativi di sviluppare sistemi che permettono agli esseri umani di comunicare tramite suoni per esempio il codice morse, toni e note musicali questi sistemi richiedono che gli ascoltatori prestino totale attenzione per poter interpretare la sequenza di suoni e i loro significati. Ciò comporta un lentissimo trasferimento delle informazioni.

Il discorso è diverso. Quando una persona ascolta un discorso decodifica oppure de-crittografa segnali acustici misti tramite un processo percettivo complesso che si basa sulla «conoscenza» inconsapevole della fisiologia della produzione del discorso. Nella sua forma più semplice, il discorso è una vocalizzazione prodotta durante l'espulsione di aria dai polmoni mentre si respira. Nei rettili o nei mammiferi, la laringe converte l'energia turbolenta dell'aria che proviene dai polmoni in frequenze più alte e udibili tramite un processo che si chiama fonazione.

Negli esseri umani e in altri mammiferi, la laringe è una struttura complessa composta da cartilagine, muscolo e altri tessuti morbidi. Le corde vocali della laringe che si trovano nella cartilagine tiroidea che forma la prominenza laringea conosciuta come il «pomo d'Adamo» funge da valvola che si apre e si chiude rapidamente durante la fonazione, rilasciando soffi d'aria a una frequenza determinata dalla velocità del flusso d'aria dai polmoni oppure dal grado di tensione nei muscoli laringei. La velocità a cui questi soffi di aria sono rilasciati si chiama frequenza fondamentale della fonazione (FO) ed è strettamente connessa alla tonalità percepita della voce di una persona.

Negli esseri umani, le vocalizzazioni sono modificate nel passaggio d'aria sopra le corde vocali cioè nel tratto vocale sopralaringeo, o SVT dal posizionamento della lingua e delle labbra, e dalla laringe. Questo cambia la forma dell'SVT, permettendogli di filtrare le punte locali di energia mentre lo attraversano. Come risultato, l'SVT agisce su un segnale acustico nello stesso modo in cui un organo di una particolare dimensione e forma determina la frequenza di energia acustica in una nota musicale. In sostanza il tratto vocale sopralaringeo determina la qualità fonetica dei suoni di un discorso, fungendo da filtro per l'energia acustica prodotta dalla laringe. Tuttavia, mentre tutte le note prodotte da un organo cadono a multipli matematici della frequenza più bassa, l'SVT è estremamente malleabile e cambia continuamente forma. Perciò gli esseri umani possono produrre una vasta gamma di schemi di frequenze che costituiscono la base del linguaggio articolato umano.

Negli anni Sessanta, nei laboratori Haskins di Yale, i ricercatori tentarono di costruire una macchina che leggeva i libri ad alta voce per i non vedenti. All'inizio, sembrava un problema banale, simile a battere i tasti su una tastiera che corrispondono a ogni suono. Tuttavia, i ricercatori ben presto scoprirono che i fonemi le unità funzionali del linguaggio non possono essere isolati e messi in fila come un alfabeto per produrre frasi di senso compiuto. Il risultato di questi esperimenti fu l'equivalente verbale di una lettera di riscatto, con lettere di diversa taglia quasi non comprensibili nella stessa frase.

Per essere compresi, i segnali acustici che delineavano i fonemi dovevano essere legati strettamente fra loro: questo processo richiede un movimento muscolare coordinato della lingua, delle labbra, del palato morbido (che apre il passaggio di aria al naso) e della laringe. Gesti così complessi non possono essere isolati perché non sono entità discrete, bensì mescolate durante il discorso. Per esempio, le parole «tea» e «too» contengono lo stesso fonema t] ma sono prodotte posizionando le labbra in modo diverso all'inizio della parola. Di conseguenza il segnale acustico è diverso perché la qualità di [t] varia in base alla posizione delle labbra necessaria all'inizio della sillaba per enunciare la vocale che segue. In altre parole, lo schema sonoro risultante è codificato, cosicché i segnali acustici che veicolano la consonante iniziale e la vocale sono trasmessi nello stesso lasso di tempo.

Il tratto vocale unico degli esseri umani moderni

Neil1 Origine delle specie Charles Darwin notò che il tratto vocale umano era diverso da quello degli altri primati attuali, al punto di accrescere le possibilità di soffocamento. I nostri tratti vocali sono divisi in due sezioni: una porzione «orizzontale» (SVTH) nella cavità orale, che contiene la bocca e l'orofaringe; una porzione «verticale» nella gola chiamata faringe, che si trova dietro la lingua e sopra la laringe. Questa porzione verticale del tratto vocale va dal palato fino giù alle corde vocali. In adulti normali queste due porzioni del tratto vocale formano un angolo retto e sono approssimativamente uguali in lunghezza: la proporzione è uno a uno. I movimenti della lingua, all'interno e al centro di questo spazio, sono in grado di provocare cambiamenti fino a dieci volte nel diametro del tratto vocale. Queste manovre della lingua producono i cambiamenti bruschi necessari per produrre le frequenze costitutive delle vocali che si trovano più spesso nelle lingue del mondo: le vocali «quantali» [i], [u] e [a], presenti per esempio nelle parole inglesi «see», «do» e «ma». Al contrario, i tratti vocali di altri primati attuali sono fisiologicamente incapaci di produrre queste vocali. Oltre ad avere lingue relativamente piccole, hanno un tratto vocale che è sproporzionatamente lungo nella dimensione orizzontale rispetto a quella verticale. Quindi nel tratto vocale sopralaringeo adulto umano la porzione orizzontale, associata alla cavità orale, e la porzione verticale, associata alla faringe, hanno all'incirca lunghezze uguali. La discontinuità naturale formata dall'intersezione delle due porzioni orizzontale e verticale negli esseri umani moderni permette ai parlanti di produrre cambiamenti bruschi nella sezione trasversale del tratto vocale nel suo centro, il che permette l'emissione di un'ampia gamma di suoni. Negli scimpanzé invece l'osso ioide e la laringe sono posizionati in alto nella gola, vicino o all'altezza della base della mandibola, la lingua è lunga e in gran parte ristretta alla cavità orale, il che determina un tratto vocale con una forma sproporzionata. Negli esseri umani moderni, l'osso ioide e la laringe sono posizionati decisamente al di sotto della parte inferiore della mandibola, la lingua è larga e solo parzialmente situata nella cavità orale, il che determina un tratto vocale equamente proporzionato.

La configurazione particolare del tratto vocale degli esseri umani moderni si sviluppa lentamente durante le nostre vite. Da neonati iniziamo la vita con un tratto vocale simile a quello della maggior parte di primati non-umani e di altri mammiferi. Da bambini le nostre lingue si trovano quasi del tutto nella cavità orale, cosa che permette alla nostra laringe di incastrarsi nel naso e formare un passaggio di aria chiuso che ci permette di respirare e di poppare contemporaneamente. Il risultato è che i neonati umani, come la maggior parte dei mammiferi, riescono a ingerire sia aria sia liquidi allo stesso tempo.

Tuttavia, a differenza della maggior parte degli altri mammiferi, durante i primi due anni di vita il palato delle nostre bocche si flette in modo coordinato rispetto alla base del cranio, che limita lo spazio del tratto vocale e dell'esofago. Oltre a restringere la lunghezza della bocca (e perciò la porzione orizzontale del tratto vocale), la conseguenza più ovvia di questo aspetto della nostra anatomia è che le nostre facce sembrano «piatte» e «ripiegate» se paragonate a quelle delle grandi scimmie (o a quelle dei nostri lontani antenati, le australopitecine).

Per tutta l'infanzia le nostre lingue scendono gradualmente nella faringe, sotto il livello della mandibola inferiore. Mentre la lingua scende porta con sé la laringe, un processo che si completa tra i 6 e 8 anni, età in cui otteniamo un tratto vocale completamente umano. Solo a questo punto riusciamo a pronunciare le vocali quantali [i], [u] e [a], le cui frequenze le rendono difficili da confondere all'ascolto e che, paradossalmente, hanno schemi di frequenze cosi stabili da resistere anche a piccoli errori di articolazione. La vocale [i], in particolare, è un indice acustico ideale per capire la lunghezza del tratto vocale dell'oratore, un fattore necessario per derivare i fonemi codificati nel flusso di un discorso. Senza queste vocali quantali, il discorso sarebbe comunque possibile, ma meno efficace.

I vantaggi di avere un tratto vocale con una proporzione uno a uno sono comunque bilanciati da un costo biologico serio: il rischio di morte provocato da una laringe ostruita. Non vi sono dubbi che miriadi di incidenti di soffocamento mortali sono avvenuti nella storia umana. Ancora oggi all'incirca 500 mila americani hanno problemi nel deglutire (disfagia) e, nonostante l'invenzione della manovra di Heimlich, la morte dovuta a soffocamento è la quarta più comune causa di morte accidentale negli Stati Uniti (www.nsc.org/library/report_injury_usa.htm).

Dato questo costo biologico così alto per il possesso di un tratto vocale uno a uno, è probabile che qualche forma di linguaggio articolato già esistesse prima che i nostri tratti vocali umani distintamente moderni si evolvessero. Perché l'evoluzione potesse favorire lo sviluppo di una configurazione del tratto vocale che fra i suoi effetti collaterali incrementa la possibilità di soffocamento accidentale, è probabile che il tratto vocale in evoluzione già funzionasse in un modo tale da procurare vantaggi nella sopravvivenza: vantaggi che si presume consistessero in maggiori capacità di articolare il discorso. Anche la ricerca genetica fornisce indizi a proposito dell'evoluzione delle capacità linguistiche umane. Studiando i membri di una famiglia allargata che condivide vari problemi di articolazione e di linguaggio (oltre a disabilità cognitive e linguistiche) alcuni ricercatori in Inghilterra hanno identificato il gene FOXP2. Questo gene regolatore alcune volte denominato «il gene del linguaggio» dalla stampa governa lo sviluppo embrionale di strutture neuronali che regolano il controllo motorio, aspetti della cognizione, emozioni, e pure lo sviluppo del tessuto dei polmoni. Gli individui che non hanno la variante normale umana di questo gene non riescono a posizionare la lingua in modo da produrre un discorso chiaro. Questo potrebbe suggerire che il linguaggio articolato moderno umano è apparso solo dopo che questo gene si è evoluto nella sua variante modeüla normale. E interessante scoprire però che comparazioni con^k versioni di questo gene trovate nei topi e negli scimpanzé iimicano un forte grado di somiglianza con la versione umana. Solo tre mutazioni separano i topi dagli umani, mentre solo due ci separano dagli scimpanzé. Basandosi su tecniche di genetica molecolare, la forma umana di questo gene sembra essere apparsa in un qualche momento degli ultimi 200 mila anni. Questo periodo corrisponde alla comparsa di esseri umani anatomicamente moderni, il che ci suggerisce che questa variante genetica possa avere conferito quel maggiore controllo motorio del parlato che ha poi portato all'evoluzione dell'anatomia speciale che rende possibile il linguaggio articolato umano moderno.

Ricostruire i tratti vocali dai fossili

Dunque, quando sono apparsi i tratti vocali completamente umani e che cosa ci dicono dei nostri antenati? Per rispondere a queste domande dobbiamo prima capire come il tratto vocale è posizionato nella testa e nel collo, e poi vedere se possiamo identificare quando è «arrivato» in quel punto nel registro»fossile.

Come discusso sopra, per produrre la gamma intera dei suoni del discorso umano i tratti vocali devono avere porzioni orizzontali e verticali all'incirca della stessa lunghezza. Ma non basta. Dobbiamo anche ricordare che le parti della nostra anatomia che si usano nel discorso la lingua, la laringe e l'osso ioide a cui sono attaccate compiono una funzione più fondamentale, cioè ci permettono di mangiare. Mentre deglutiamo, l'osso ioide si muove in su e in avanti all'incirca di 13 mm per aprire l'esofago, il passaggio allo stomaco. Così facendo muove la laringe in modo tale che il cibo non possa caderci dentro. Una laringe collocata nel collo può fare quest#bianovre. Nei primati, umani inclusi, l'osso ioide e la laringe siMevono trovare nel collo, sotto la mandibola ma sopra lo sterncle le clavicole. A parità di tutto il resto, un osso ioide troppo ano riconfigurerebbe le bande muscolari che connettono lo ioide con la parte inferiore del cranio e interferirebbe con la loro capacità di alzare lo ioide. Questa configurazione avrebbe gravi conseguenze sulla deglutizione. Allo stesso modo, uno ioide e una laringe troppo bassi nella gola porterebbero lo sterno e le clavicole a impedire il movimento in su e in avanti della lingua e dello ioide, mentre le bande muscolari che connettono lo ioide e la laringe allo sterno smetterebbero di abbassare e stabilizzare lo ioide. Anche questa configurazione avrebbe serie conseguenze sulla deglutizione. Con questa informazione dovrebbe essere possibile ricostruire la posizione probabile dei tratti vocali dei nostri antenati ominidi e dei parenti stretti come i Neandertal. Per fare ciò abbiamo esaminato la parte inferiore di crani fossili per determinare la lunghezza della porzione orizzontale dei loro tratti vocali. Allo stesso modo, abbiamo usato vertebre cervicali fossilizzate per ricostruire le lunghezze dei colli, il che fornisce indizi importanti per capire la lunghezza della porzione verticale del tratto vocale.

I fossili specifici misurati includevano: 1) un esemplare di Homo erectus vecchio di 1,6 milioni di anni, che si pensa essere antenato sia dei Neandertal sia degli esseri umani moderni; 2) tre Esemplari di Neandertal che risalgono a date comprese fra 70 e 40 mila anni fa, associati a strumenti di pietra del Paleolitico medio; 3) un antico esemplare di essere umano moderno che risale a 100 mila anni fa, trovato in Israele, anch'esso associato a strumenti di pietra del Paleolitico medio; e 4) otto individui umani moderni più recenti, risalenti a date comprese fra i 40 e i 10 mila anni fa, associati a strumenti più complessi del Paleolitico superiore. Come campione di controllo, abbiamo anche fissato le misure rilevanti di un'ampia selezione di scimpi^é moderni e di esseri umani contemporanei appartenenti »sette popoli diversi.

Abbiamcm:osì scoperto che i colli dei Neandertal erano troppo corti e»e facce troppo lunghe per generare un tratto vocale di proporzioni bilanciate. Anche se non siamo riusciti a ricostruire la forma del tratto vocale nel fossile di Homo erectus perché non avevamo le vertebre cervicali, è chiaro che la faccia (e il sottostante tratto vocale orizzontale) sarebbe stata troppo lunga perché un tratto vocale uno a uno potesse essere contenuto nel suo collo e nella sua testa. Allo stesso modo, per far stare un tratto vocale uno a uno nell'anatomia ricostruita del Neandertal, la laringe avrebbe dovuto essere posizionata nel suo torace, dietro lo sterno e le clavicole, troppo in basso per permettere una deglutizione efficace. Questi ominidi, invece, avevano probabilmente tratti vocali con una dimensione orizzontale più lunga di quella verticale, il che suggerisce che non sarebbero stati in grado di produrre la gamma intera di suoni emessi attualmente dagli esseri umani. 1 primi ominidi come Homo erectus e i Neandertal perciò avranno probabilmente avuto dei tratti vocali a metà tra la forma di quelli degli scimpanzé e di quelli umani. Sorprendentemente, nemmeno la nostra ricostruzione dell'esemplare vecchio di 100 mila anni proveniente da Israele, anatomicamente moderno nella maggior parte dei sensi, avrebbe potuto avere un tratto vocale con una proporzione uno a uno, anche se per una ragione diversa. Benché non avesse una faccia particolarmente lunga, il suo collo estremamente corto avrebbe pure posizionato la laringe troppo in basso nel petto, se il tratto vocale fosse stato di proporzioni uguali in orizzontale e in verticale. Come per i suoi parenti Neandertal, questo essere umano primitivo probabilmente aveva un tratto vocale con una dimensione orizzontale più lunga di quella verticale, il che significa che non sarebbe riuscito a riprodurre la gamma completa del linguaggio articolato umano attuale. La porzione orizzontale, come in Neandertal, doveva essere dal 30 al 60 per cento più lunga di quella verticale. Solo nella ricostruzione dei campioni fossili più recenti cioè di esseri umani moderni con meno di 50 mila anni siamo riusciti a identificare un'anatomia che avrebbe potuto ospitare un tratto vocale completamente moderno di proporzioni bilanciate. È interessante scoprire che le date di questi campioni coincidono con la produzione di strumenti litici del Paleolitico superiore, un periodo che è spesso associato a una fioritura delle abilità cognitive umane moderne. Se supponiamo che queste prove fossili, oltre a quelle genetiche, indichino la presenza di un tratto vocale uno a uno, in grado di produrre la gamma completa di suoni del parlato moderno, sembra logico pensare che questi esseri umani del Paleolitico superiore avessero anche cervelli in grado di elaborare i gesti complessi necessari per produrre il discorso. Se proseguiamo con questo ragionamento (al di là delle poche prove che abbiamo) è probabile che un cervello cosi simile al nostro

avrebbe avuto non solo la capacità di produrre lingue con sintassi complesse, ma anche flessibilità cognitiva. Quindi crediamo che la presenza di tratti vocali umani moderni, in un momento tra i 100 mila e i 50 mila anni fa, sia il segno della comparsa di persone con cui avremmo potuto parlare.32

(traduzione di Mattia Garofalo)