1.
Quindicesimo e ultimo volume della Storia pubblicata, su licenza UTET, dal quotidiano la Repubblica, dedicato al mondo d'oggi e aggiornato a giugno del 2004, il libro offre una panoramica sintetica ma molto precisa delle luci e delle ombre che gravano sul nostro tempo.
Nonostante l'evidente intenzione del curatore (Massimo L. Salvadori) e dei vari autori di mantenere un atteggiamento di oggettiva neutralità nella valutazione degli eventi e delle prospettive future (che è l'utopia, peraltro necessaria, di ogni storico serio), il volume offre una serie indefinita di informazioni dense di significato, dalle quali si può ricavare un'analisi della situazione attuale forse più pregnante anche se meno equilibrata di quella fornita dal testo.
Quest'articolo, dunque, più che una recensione è una rilettura del volume, che ha un preciso orientamento ideologico: è, infatti, una rilettura marxista (ovviamente nell'ottica di un marxismo critico, non dogmatico).
Un punto fermo di questa rilettura riguarda il problema della ciclicità, che Marx ha considerato prevalentemente (se non esclusivamente) sotto il profilo economico, ma che oggi si può ritenere estensibile sia alla politica che alla cultura del sistema capitalistico e liberale occidentale.
Questo aspetto è rilevato da Massimo L. Salvadori nell'Introduzione: "E' un dato ricorrente che, al concludersi di uno scontro epocale tra grandi schieramenti di popoli che si richiamano a diversi modelli di civiltà, seguano prima la grande speranza di chi ha prevalso di dare inizio a una svolta definitiva nella storia del mondo fondata sulla pace universale (e naturalmente sul predominio dei valori e degli interessi dei vincitori o del vincitore) e poi il naufragio di questa stessa speranza di fronte al comparire di nuove ragioni di conflitto." (p. 15)
Tale dato si è riproposto in seguito al crollo del comunismo sovietico - un evento inconfutabilmente epocale -, che ha dato luogo al repentino schiudersi della prospettiva di un mondo unificato dall'accettazione universale della democrazia, dei diritti umani e del libero mercato. Si è trattato di un'"utopia liberal-capitalistica" (p. 16) che ha contrassegnato i ruggenti anni Novanta all'insegna della globalizzazione: di una globalizzazione però selvaggia che ha dato libero corso agli spiriti animali del capitalismo, alla volontà egemonica degli Stati Uniti, ormai unica superpotenza a livello mondiale, di imporre il loro modello socio-economico di sviluppo, e alla messa in crisi in Europa dello Stato del benessere e della socialdemocrazia.
La liberazione del vaso di Pandora del neoliberismo ha sortito però effetti del tutto paradossali. Il riferimento all'11 settembre del 2001 che, con gli attentati islamici in territorio americano, ha inaugurato praticamente la Terza Guerra Mondiale, è ormai un topos storico universalmente convalidato. Ma, nonostante la valenza epocale dell'evento, si è trattato pur sempre della rivelazione di una crisi già in atto.
Una crisi economica, anzitutto. I ruggenti anni Novanta, infatti, per quanto caratterizzati dall'accettazione da parte di molti paesi del globo della ricetta di sviluppo imposta dalle organizzazioni economiche internazionali (FMI, Banca Mondiale, WTO, ecc.), sono stati contrassegnati da due diversi fattori critici. Il primo è stato lo sconquasso pressoché totale di economie nazionali (le Tigri asiatiche, il Messico, l'Indonesia, la Russia, l'Argentina) e il crollo delle borse mondiali, dovute all'enorme bolla speculativa creatasi a partire da New York. Il secondo è da ricondurre al fatto che la spinta della globalizzazione, pur avendo contribuito ad accrescere piuttosto nettamente il PIL mondiale, ha dato luogo ad una distribuzione della ricchezza che ha penalizzato gran parte dei paesi poveri, ha privilegiato i paesi già ricchi e, all'interno di questi, ha aumentato nettamente i privilegi di una minoranza già abbiente a danno dei lavoratori e di una fascia consistente dei ceti medi.
Se si ritiene che questi fattori non siano l'espressione di uno sviluppo esuberante, e quindi necessariamente per alcuni aspetti irrazionale, quanto piuttosto di una logica intrinseca al sistema capitalistico allorché esso è affrancato da controlli statali e internazionali, la conclusione alla quale si giunge è che, a posteriori, l'analisi di Marx, almeno in riferimento a quella logica, rimane pienamente valida. Sia pure con ritrosia, ciò è riconosciuto anche da Giuliano Martignetti, autore del cap. XII. Egli scrive:
"Alla ricerca di cause più profonde delle incertezze dell'economia mondiale di inizio secolo si sono mosse talune teorie, che le hanno individuate nel riaffiorare di una debolezza strutturale del capitalismo, già segnalata e studiata dai classici e da Marx: la tendenza ricorrente al sottoconsumo, ossia a creare uno squilibrio tra produzione e offerta di beni e domanda di essi, concentrando quote crescenti del sovrappiù prodotto a vantaggio dei detentori del capitale e a scapito dei salari e di grandi masse di potenziali consumatori. Questa tendenza era stata tenuta sotto controllo per buona parte del secondo Novecento negli anni del cosiddetto capitalismo fordista, il cui tratto caratteristico fu la propensione a un'ampia ridistribuzione della ricchezza e quindi ad attivare un circolo virtuoso produzione-consumo. Tali anni, circostanza non fortuita, furono gli stessi della cosiddetta guerra fredda nel corso della quale l'occidente capitalista ebbe bisogno di realizzare il massimo di coesione sociale per fronteggiare la minaccia del mondo comunista. Venendo meno le ragioni che erano alla base del fordismo, si sarebbe riproposta la tendenza ad accrescere i profitti a spese dei salari e a contrarre i mercati di sbocco delle merci prodotte, il sottoconsumo insomma. Connessa con questa tendenza in un rapporto di causa-effetto e mirante ad accentuarne gli effetti negativi, si sarebbe sviluppata in questi anni una seconda tendenza, vale a dire quella di spostare frazioni crescenti di capitale dagli investimenti produttivi a investimenti puramente finanziari e speculativi. Una tendenza che ha assunto in anni recenti dimensioni enormi..." (pp. 343-344)
Se togliamo i condizionali in nome del fatto che non esiste un'ipotesi alternativa a quella illustrata che spieghi lo stato di cose esistente nel mondo oggi, si può tranquillamente affermare: primo, che la diagnosi di Marx sulla logica intrinseca al capitalismo di indurre una distribuzione iniqua della ricchezza è ampiamente confermata; secondo, che tale diagnosi, che ora appare in tutta la sua sostanziale veridicità, è stata solo prematura (per quanto sorprendentemente preveggente in rapporto alla globalizzazione del mercato), poiché essa, facendo incombere sul sistema capitalistico la minaccia di una rivoluzione, lo ha costretto a correggere i suoi meccanismi distributivi in maniera tale da scongiurare per più di un secolo l'impoverimento progressivo delle masse lavoratrici; terzo, che, venendo meno quella minaccia, il capitalismo ha ripreso la sua corsa "naturale" e niente affatto autoregolata verso la concentrazione dei capitali e, in particolare, verso il capitalismo finanziario, meramente speculativo, preconizzato da Marx.
2.
I dati che confortano questa analisi sono molteplici. Un dato di ordine generale è il primato dell'economia neoliberistica rispetto al potere politico, nazionale e internazionale. Scrive Massimo L. Salvadori: "La globalizzazione ha esaltato il potere dei maggiori centri finanziari e industriali internazionali, lo ha collocato ad un livello che ha reso via via più obsoleti il concetto e la realtà delle economia nazionali e ha dato luogo non solo ad un mercato globale, ma ad un sistema globale, in cui le economie dei singoli Paesi costituiscono delle articolazioni, dei sottosistemi. Questi centri assumono in prima persona, al di fuori di qualsiasi legittimazione politica e democratica e mettendo in crisi la tradizionale sovranità degli Stati, le decisioni fondamentali circa la dislocazione, l'uso e le finalità di immense risorse da cui dipende per tanta parte la vita dei popoli." (p. 21)
Le conseguenze di questo potere economico incontrollato è uno dei temi che ricorrono più frequentemente nel libro.
In termini generali, tali conseguenze sono riconducibili alla crescita delle disuguaglianze:
"Il fenomeno del permanere di amplissime fasce della popolazione in stato di povertà... a fronte di una crescente produzione di ricchezza e di capacità a produrne, ha come corrispettivo un aumento costante della disuguaglianza nelle condizioni di vita di popoli e ceti sociali. Si è calcolato che tra il 1960 e il 2000 la quota di reddito globale appartenente al 20% più ricco della popolazione mondiale è passato dal 70% all'86% del totale e quello del 20% più povero dal 2,3%, con un mutamento del rapporto tra le due grandezze da 30 a 1 a circa 86 a 1; e che anche le fasce di reddito intermedie hanno visto ridotta la propria quota complessiva dal 27,7% al 13%. In base ai dati resi noti nel 2002 al vertice mondiale sullo sviluppo sostenibile di Johannesburg, l'1% più ricco della popolazione mondiale dispone nel nuovo secolo di un reddito che è pari a quello del 57% più povero. " (p. 346)
La drammatica persistenza della povertà in un mondo ricco viene interpretata, dai fautori della globalizzazione, come espressione di mali endogeni alle società sottosviluppate (persistenza del latifondismo, corruzione e inefficienza dei vertici politici, ecc.) che gli aiuti provenienti dal mondo ricco non sono ancora riusciti a rimuovere. Il problema è che tali aiuti, tutt'altro che generosi, sono in gran parte ormai assorbiti dalla stessa macchina organizzativa che li eroga.
Del resto, che l'aumento straordinario della forbice tra paesi ricchi e paesi poveri e, all'interno dei paesi ricchi, tra una minoranza privilegiata e il resto dei cittadini rappresenti un dato strutturale e non congiunturale del sistema capitalistico è comprovato da due dati poco equivocabili, che riguardano le due potenze che, per un cinquantennio, si sono affrontate e sfidate sul terreno di diversi modelli di sviluppo.
Il crollo dell'Unione Sovietica ha dato luogo ad un repentino passaggio al capitalismo. Gli effetti immediati di tale passaggio sono però stati identici a quelli dell'avvio del capitalismo ottocentesco, denunciati da Marx:
"I Paesi dell'ex Unione Sovietica ñ dove, caduto il comunismo, era avvenuta la conversione dalla proprietà pubblica a quella privata ñ erano stai fortemente investiti dal processo di globalizzazione e quindi immessi nel circolo del mercato mondiale. Ma gli effetti furono la rapida appropriazione delle risorse industriali, petrolifere e minerarie da parte di ex-burocrati e dirigenti, l'arricchimento enorme di piccoli gruppi industriali e finanziari..., l'impoverimento ulteriore di grandi masse, ridotte in parte in una disperata miseria, una dilagante corruzione nella pubblica amministrazione e nei circoli dominanti dell'economia, nei quali il saccheggio delle risorse nazionali prese anche forme apertamente criminali." (p. 23)
Il decollo del capitalismo, secondo i suoi fautori, è necessariamente un fenomeno turbolento perché la dinamica che esso imprime a società stagnanti ne disgrega il tessuto, le tradizioni, l'equilibrio. E' solo pervenendo ad un certo livello di sviluppo della produzione e della ricchezza che le cose tendono a migliorare.
Il problema è che, all'estremo opposto dei paesi che intraprendono la corsa verso l'età dell'oro, vale a dire negli Stati Uniti, gli squilibri sociali si sono riproposti e si vanno riproponendo in una maniera impressionante, in virtù di un accumulo di ricchezza nelle mani di pochi che grida vendetta:
"[Anche nei paesi di consolidato capitalismo] i grandi ricchi, rastrellatori del profitto a livello mondiale, diventarono ancora più ricchi, mentre diminu" il reddito della massa dei lavoratori dipendenti. Si calcola che negli Stati Uniti, il rapporto tra il reddito medio dei maggiori manager e quello degli operai, che negli anni Sessanta era di circa 40 volte superiore, a fine Novecento fosse diventato di 1000 a 1. Ugualmente al peggio si svilupparono a livello mondiale le differenze di ricchezza tra l'élite dei plutocrati e la massa sterminata dei poveri nelle zone di sotto o di nessuno sviluppo, tra i Paesi avanzati e gli altri. Sempre a fine secolo risultava che non più di 500 ultraricchi avessero un reddito equivalente a quello di oltre il 40% della parte inferiore dell'intera umanità, collocata in Africa, in vaste zone dell'Asia, dell'America latina e nell'Europa orientale." (pp. 23-24)
Se si tiene conto di questi dati, riesce del tutto evidente a posteriori che i correttivi socio-economici intervenuti nei paesi capitalistici a partire dalla fine del XIX secolo, che infine si sono tradotti nel modello del Welfare State, non sono riconducibili ad un ammorbidimento umanitaristico della logica del sistema. Essi sono stati imposti dalla spinta dei partiti e dei movimenti socialisti in essi operanti, che è stata recepita a malincuore, dalla Rivoluzione di Ottobre fino al crollo dell'Unione Sovietica, per arginare il fantasma del comunismo.
In breve, il capitalismo ha bisogno di sentirsi minacciato per recepire, in una qualche misura, le istanze della società. Affrancato da tali minacce, come è avvenuto negli ultimi quindici anni, esso riprende la sua corsa sfrenata verso la concentrazione delle ricchezze, a costo di disgregare il tessuto sociale a livello mondiale e all'interno dei paesi, di fomentare la rabbia dei poveri e degli emarginati, e di mettere a rischio la stessa sopravvivenza del pianeta.
3.
Il libro fornisce una massa imponente di dati che comprovano questo. E' difficile che essi sfuggano ad un lettore attento. Inseriti però in un testo di oltre quattrocento pagine, c'è il rischio che essi possano essere minimizzati. E' dunque opportuno estrapolarli.
Della Russia postcomunista s'è fatto cenno, ma occorre aggiungere altro.
Il passaggio al capitalismo è avvenuto all'insegna di una rapina dei beni di proprietà dello Stato, che ha visto convergere criminalità interna e criminalità internazionale:
"Si stimava, nel 1994, che ogni settimana arrivassero in Russia, da tutto il mondo, in contanti, eludendo ovviamente ogni controllo, almeno 150 milioni di dollari di "denaro sporco" in cerca di investimenti redditizi e che, contemporaneamente, fuggissero mediamente dal Paese quasi due miliardi di dollari al mese, anche attraverso esportazioni illegali di materie prime pagate in dollari." (p. 161)
In conseguenza di questa rapina, "nel periodo tra il 1989 e il 1993, secondo stime di fonte russa, lo scarto tra redditi medi de decimo di popolazione più povero e di quello più ricco passò da 1 a 5 a 1 a 11. Nel 1992 il 28% della popolazione della federazione viveva al di sotto del minimo vitale "ufficiale" stabilito dal ministero del Lavoro e questa cifra raggiunse il 31,9 nel 1993. Si trattava di cifre probabilmente sottostimate, ma comunque già ampiamente significative del disastro sociale in cui la Russia sempre più si trovava." (p. 162)
A tale disastro, oltre l'avidità speculativa del capitale finanziario internazionale, hanno contribuito anche le Istituzioni finanziarie mondiali, preoccupate unicamente di sostenere il passaggio all'economia di mercato, vale a dire al liberismo selvaggio. A riguardo, nel libro viene citato Stiglitz: "L'FMI ha prestato soldi alla Russia che, a sua volta, ha potuto dare ai suoi oligarchi la possibilità di esportare dollari. Per fare una battuta, qualcuno di noi disse che per l'FMI sarebbe stato più semplice emettere direttamente degli ordini di bonifico sui conti delle banche cipriote e svizzere." (p. 176)
Dopo un decennio di economia di mercato, la Russia insomma si è barbarizzata e impoverita.
Putin, instaurando una sorta di egemonia sulla televisione pubblica e restaurando forme di censura sulla stampa, è riuscito a mettere un coperchio su di una terribile realtà. Schierandosi astutamente sul fronte della lotta al terrorismo islamico, è riuscito anche ad indurre la complicità degli Stati Uniti sul genocidio ceceno. Infine, per recuperare un prestigio perduto, ha cominciato ad utilizzare la leva delle risorse energetiche (petrolio, gas) per condizionare i paesi occidentali che ne hanno bisogno. Il problema è che, dallo sfruttamento di quelle risorse, il popolo non trae alcun vantaggio, mentre aumenta di continuo il numero dei nuovi ricchi.
Appena un poco meglio le cose sono andate nei paesi europei dell'Est, affrancati dal giogo sovietico. Ciò è dovuto al fatto che, essendo stati in una certa misura già "sfruttati" dall'Unione Sovietica in cambio della protezione militare, essi non disponevano di beni da depredare. Ciò nondimeno, anche in essi il passaggio all'economia di mercato è stato contrassegnato, nei primi anni Novanta, da un processo di immiserimento caratterizzato da tassi inflattivi rilevanti, decrescita produttiva, diminuzione dei salari, ecc. Non c'è da sorprendersi, pertanto, che in alcuni di essi le libere elezioni abbiano premiato esponenti dei vecchi regimi, ex- o postcomunisti. La fronda anticapitalistica è stata particolarmente virulenta nella Germania dell'Est. L'ingresso dei paesi dell'Europa orientale nella Comunità Europea ha rappresentato un tentativo di scongiurare la diffusione dell'anticapitalismo. In essi non c'è alcuna nostalgia del comunismo, ma una disillusione crescente delle promesse dell'economia di mercato.
Analoga disillusione si è prodotta nel contesto dell'America latina i cui Paesi, all'inizio degli anni Novanta, accettarono quasi tutti, dovendo fronteggiare il problema della povertà, la ricetta prescritta dagli Istituti finanziari internazionali: apertura al commercio internazionale, rigida disciplina fiscale e privatizzazione delle imprese di proprietà pubblica. Dopo un'iniziale ripresa economica, è sopravvenuto un processo di immiserimento progressivo e generalizzato (eccezion fatta per il Cile). Dopo un decennio di liberismo rigorosamente applicato, "in alcuni Paesi la povertà nel 2000 era superiore a quella del 1990... Dai 120 milioni di persone che vivevano al di sotto della soglia di povertà nel 1980 si passò nel 2001 a 214 milioni di persone, ossia il 43% della popolazione, con 92,8 milioni di indigenti, che rappresentavano il 18,6% della popolazione." (p. 241)
Anche in America latina, la fronda anticapitalistica si è attivata, determinando in più paesi il passaggio da governi di centro-destra a governi di centro-sinistra, alcuni dei quali, come quello di Ugo Chavez in Venezuela, hanno un orientamento radicale e si propongono di liberare il continente sudamericano dalla miseria e dallo sfruttamento.
Le conseguenze della ricetta liberista e della globalizzazione a livello di Terzo Mondo o, meglio, di rapporto tra Sud e Nord del mondo sono a tal punto note che non vale la pena parlarne. E' importante, però, citare almeno delle cifre ufficiali sulla persistenza del sottosviluppo e la distribuzione della ricchezza.
"Si è calcolato che tra il 1960 e il 2000 la quota del reddito globale appartenente al 20% più ricco della popolazione è passato dal 70% all'86% del totale e quello del 20% più povero dal 2,3% all'1%, con un mutamento del rapporto tra le due grandezze da 30 a 1 a ca 86 a 1; e che anche le fasce di reddito intermedie hanno visto ridotta la propria quota complessiva dal 27,7% al 13%. In base ai dati rsi noti nel 2002 al vertice mondiale sullo sviluppo sostenibile di Johannesburg, l'1% più ricco della popolazione mondiale dispone nel nuovo secolo di un reddito che è pari a quello del 57% più povero." (p. 347)
L'analisi di questo fenomeno divide naturalmente gli economisti e le forze politiche. I fautori del liberismo mettono sotto accusa l'uso improprio che i Paesi in via di sviluppo fanno degli aiuti che ricevono. Secondo loro, in tali Paesi ci sono ancora eccessi di accentramento del potere, burocratizzazione, corruzione perché le virtù del libero mercato possano realizzarsi. In realtà, "più grave e dannosa delle deficienze e delle inadempienze che si verificano nella gestione e nella erogazione degli aiuti allo sviluppo, viene giudicata la politica praticata dai Paesi industrializzati in alcuni settori chiave dell'interscambio commerciale, diretta a proteggere e favorire con misure protezionistiche, crediti e sussidi i propri produttori: con il risultato non solo di impedire l'accesso dei prodotti dei paesi poveri nei mercati dei Paesi ricchi, ma di invadere di merci sottocosto i mercati di questi ultimi e compromettere la sopravvivenza stessa delle produzioni locali. Se a tutto ciò si aggiunge il peso del debito che continua a gravare ormai da decenni sulle fragili economie dei Paesi in via di sviluppo, desta meno sorpresa il parere espresso da competenti come il Premio Nobel J. Stiglitz e il finanziere G. Soros, secondo cui sono i poveri che aiutano i ricchi. Cifre alla mano, nel 2001 tra "rimborso del debito, fuga di capitali, trasferimenti illeciti di profitti, fuga di cervelli, acquisto di beni materiali... sono stati forniti ai Paesi in via di sviluppo 29 miliardi in sovvenzioni, mentre 138 miliardi ripartivano per i Paesi creditori a titolo di rimborso per il debito"." (p. 351)
L'aridità delle cifre nulla toglie al loro significato univoco, tanto più se si considera, come accennato, che il trend clamoroso per cui i ricchi si arricchiscono e i poveri si immiseriscono si è espresso e si esprime anche all'interno dei Paesi nei quali il capitalismo è ormai insediato da quasi due secoli.
In un articolo di due anni fa, sottolineai che la progressiva perdita di potere d'acquisto da parte della classe medio-bassa borghese, evidente in tutto l'Occidente, e appena tamponata negli Stati Uniti da un indebitamento collettivo, vale a dire dal fatto che i cittadini americani mantengono il loro tenore di vita sulle spalle di altri, è veramente la campana a morto per un sistema sopravvissuto alla sciagurata esperienza sovietica, ma che difficilmente troverà in se stesso le risorse per arginare le sue contraddizioni intrinseche.
Marx, dunque, aveva ragione sulla natura intrinsecamente selvaggia del capitalismo. Il problema è, attualmente, discreditato il comunismo, per quale via uscire dall'impasse.