La lettura del libro di Jervis è quasi dolorosa per chi lo ha conosciuto negli anni '70 e ne ha apprezzato, oltre la cultura vasta e profonda, l'attiva partecipazione al tentativo di fondare una nuova scienza del disagio psichico. Il Manuale di psichiatria critica (Feltrinelli Milano 1975), pur con tutti i suoi limiti, ha rappresentato per oltre un decennio un punto di riferimento culturale per tutti gli operatori impegnati nella lotta contro la psichiatria manicomiale. La parabola culturale di Jervis, dagli anni '80 in poi, è stata contrassegnata da una progressiva presa di distanza dal movimento antistituzionale, dall'adesione alla psicoanalisi e da un'accentuazione del suo impegno didattico a livello universitario. Per gli studenti di psicologia Jervis ha scritto due libri chiari e densi (Fondamenti di psicologia dinamica, Feltrinelli, Milano 1989 e Psicologia dinamica, il Mulino, Bologna 2001). Scritto con un intento divulgativo e informativo, il libro sulla depressione è un'amara sorpresa. In esso Jervis aderisce senza alcuna valenza critica al modello neopsichiatrico e ripropone un solco tra piccola e grande psichiatria che assegna la prima (in pratica le nevrosi) al trattamento psicoteraputico, e la seconda al trattamento psicofarmacologico.
Per avallare questo solco egli, sorprendentemente, sfodera tutto l'armamentario ideologico della neopsichiatria: la natura biologica del disturbo depressivo, l'esistenza di una predisposizione genetica, la scarsa coscienza di malattia dei depressi, la necessità di una diagnosi corretta e di un trattamento psicofarmacologico, la sostanziale inutilità (se non addirittura la pericolosità) di una psicoterapia ad orientamento dinamico. L'adesione al paradigma organicistico, che identifica nel disturbo depressivo l'espressione di una patologia dei circuiti cerebrali e dei neurotrasmettitori, è a tal punto convinta che Jervis denuncia in maniera sprezzante la persistenza in Italia di un orientamento culturale critico nei confronti di una gestione meramente psicofarmacologica della depressione. Egli scrive:
"Esiste un fattore culturale particolare, che da un quarto di secolo contribuisce in Italia ad allontanare i depressi da terapie efficaci. Esso è dato dalle ideologie ostili alla biologia moderna, alla medicina e al metodo sperimentale. A partire dalla metà degli anni '70 si diffusero varie correnti di idee che, in concorso tra loro, trovarono un fertile terreno nella tradizionale mancanza di cultura scientifica tra gli italiani e nel lascito della filosofia idealistica. intorno al 1975 un qualsiasi psichiatra, fosse pure schierato a sinistra, veniva pubblicamente deriso quando aveva l'imprudenza di scrivere che la depressione era legata a fattori genetici e che anche l'elettroshock poteva servire a qualcoisa. E' vero che le implicazioni politiche, di tipo spontaneista, che in quegli anni erano proprie di un vasto schieramento di opposizione giovanile persero rapidamente terreno con l'esaurirsi di quel decennio: in compenso, però, tornarono subito a farsi sentire con più forza, e talora in forme nuove, i tradizionali richiami spiritualistici circa i misteri della mente umana. L'idea che ogni disagio psichico dovesse avere esclusive cause ambientali e psicologico-esistenziali si legò, malgrado gli avvertimenti degli studiosi più seri, al diffondersi di orientamenti eccessivamente psicologisti e a una veloce quanto superficiale polarizzazione delle idee della psicoanalisi... in un simile clima gli psicofarmaci antidepressivi, che ormai da molto tenmpo rappresentavano il caposaldo del trattamento della depressione, cominciarono a essere criticati sempre più frequentemente. Questa impostazione ideologica permeò la media cultura degli anni '80 e di una parte degli anni '90... Il prezzo sociale e umano (anche in termini di vite spezzate dal suicidio) di questa forma di incultura clinico-scientifica è stato alto. Solo da pochi anni la situazione è andata lentamente migliorando." (pp. 88-89)
Si tratta di un vero e proprio epitaffio per il pensiero psichiatrico critico che, riconoscendo in massima parte le sue matrici nella cultura marxista, di fatto non è mai stato idealistico. Esso si è sempre posto il problema del ruolo dei fattori neurobiologici nel disagio psichico, ma in un'ottica, ancora oggi validamente rappresentata da biologi della statura di Steve Rose, che rifiuta decisamente il rozzo deteminismo organicistico. Purtroppo la neopsichiatria ha elevato questo determinismo a dogma. Il libro di Jervis, com'è proprio di tutti le opere dei pentiti e dei neofiti, ne è una prova inquietante. Esso infatti si articola su di un basso continuo che muove dal presupposto che "il cervello umano è imperfetto" in quanto "è predisposto ad avvertire in modo particolarmente acuto le situazioni di smarrimento e di perdita", vale a dire ha "una grande sensibilità verso il rischio di trovarsi senza legami, senza protezione, senza persone che ci facciano da scudo" . Tale "sensibilità al pericolo di abbandono (ossia di perdita) è alla radice della disposizione alla depressione." (p.15).
E' difficile non essere d'accordo con questo presupposto, per quanto appaia bizzarro definire un'imperfezione della mente umana una sensibilità che attesta il bisogno sociale e il suo peso specifico nell'esperienza psicologica umana. Sulla base di questo presupposto, sarebbe possibile (ed è quanto personalmente ho tentato di fare) iscrivere tutti i fenomeni psicopatologici nell'ambito di un conflitto inerente il legame sociale, reale e interiorizzato. Nel libro di Jervis, invece, questa premessa rimane sterile, e viene ad essere soppiantata dal riferimento al tono dell'umore, la cui instabilità, variabile da persona a persona, sarebbe palesemente di ordine costituzionale ed ereditaria. Posto che in alcuni soggetti, il tono dell'umore è costituzionalmente molto labile, basta poco a produrre uno scompenso: "la depressione è propriamente un disturbo dello stato dell'umore, o meglio del tono dell'umore." (p.16). Il nodo del discorso è ovviamente l'incidenza dell'ereditarietà e degli eventi di vita. Riguardo a questo Jervis scrive:"solo in certi casi la predisposizione ereditaria si rivela così massiccia da apparire determinante. In altri casi invece questa predisposizione, pur essendo presente, è meno forte, meno penetrante, così che se una persona manifesta uno scompenso depressivo è probabilmente perché sono entrati in gioco anche, e magari soprattutto, altri fattori nel corso della sua vita." (p. 23) Questa frase sembrerebbe riaprire uno spiraglio sulla possibilità di valutare l'incidenza degli eventi di vita. Non è così. Gli eventi in questione sono solo fattori scatenanti di una patologia cerebrale latente:"Una delle ipotesi più verosimili è che taluni eventi sfavorevoli di vita possano contribuire a determinare, in soggetti geneticamente predisposti, scompensi funzionali cerebrtali. Questi scompensi sono, in ultima analisi, di tipo biochimico." (p. 31).
La prova addotta a sostegno di questa ipotesi è sorprendente per un autore come Jervis che fa lo psicoanalista e, in passato, si è interessato di metodologia scientifica:"Una depressione in senso proprio, come evento non normale, è riconoscibile anzitutto perché ha qualcosa di eccessivo e incongruo: non è in una relazione comprensibile, ovvero non è in rapporto proprozionato, rispetto agli eventi di vita, anche quando questi ultimi sono stati molto duri e negativi. Nella depressione vera c'è, insomma, qualcosa in più: per esempio l'intensità; oppure la durata... La vera depressione o compare in circostanze di vita che non la giustificano, o è troppo marcata rispetto agli eventi, o si prolunga troppo, rispetto a ciò che le persone concordemente ritengono sia abituale e sensato." (pp. 31-32)
Il criterio della comprensibilità, come noto, è uno dei problemi più ardui e dibattuti della psicopatologia. Ancorarlo però agli eventi di vita, mettendo tra parentesi la storia interiore del soggetto, le memorie inconsce, la struttura profonda della personalità e il modo in cui questa incide nel determinare l'interpretazione del presente, riconduce alla reificazione della normalità come metro di misura dell'esperienza umana. Per non vincolare il discorso ad una critica ideologica, che l'autore di sicuro rifiuterebbe, faccio un solo esempio. In molti depressi, coem anche in molte altre persone affette da disagio mentale, la sofferenza evoca a livello inconscio dei contenuti che non appaiono quasi mai a livello cosciente, in particolare l'invidia nei confronti di chi almeno apparentemente sta bene. Si tratta di un vissuto che affonda le sue radici nel senso di giustizia e in una tradizione culturale che identifica il bene con un premio e il male con una punizione. Le autoaccuse che talora si rivolgono i depressi sono un tentativo di fare quadrare i conti, di avallare come giusta la loro condizione di sofferenza. In altri casi però l'invidia promuove automaticamente fantasie di malaugurio rivolte agli altri, che rimettono le cose a posto. Un indizio di questa dinamica, che scorre in profondità, è il sollievo che i soggetti depressi avvertono quando a qualcuno accade di stare male, avere un incidente, una disavventura, ecc. Quanto concorre questa dinamica, che inesorabilomente determina dei gravi sensi di colpa, a perpetuare la depressione e a convincere il soggetto di meritarsela?
Adottando il criterio della comprensibilità oggettiva, Jervis appare del tutto indifferente nei confronti della soggettività. Per suffragare l'ipotesi di fondo della depressione come malattia sostanzialmente medica, egli giunge a minimizzare dei dati che, da soli, richiederebbero una cautela. Il primo dato riguarda la diffusione epidemiologica della depressione. Egli scrive:"In un momento qualsiasi, circa una persona su venti è colpita da depresione, cioè il 5% della popolazione. Inoltre il 17% circa della popolazione (una persona su sei) ha sofferto o soffrirà di depressione in un periodo o l'altro della sua vita." (p. 67) Il dato è inoppugnabile, ma apre il problema di capire perchè una predisposizione genetica meramente disfunzionale, e che comporta ancora oggi un elevato tasso di suicidi, non sia andata incontro nel corso dei secoli ad una selezione naturale. La risposta consueta è che, presumibilmente, l'ereditarietà in questione coinvolge un numero rilevante di geni recessivi. E' ipotizzabile che tali geni siano solo disfunzionali? Sembra di no. A p. 71 Jervis si lascia sfuggire un'affermazione che, da sola, basterebbe ad indurre un ripensamento del problema:"Da un terzo alla metà dei grandi scrittori e poeti e degli artisti di genio soffre di un disturbo bipolare". Si aggiungano a questo dato un numero rilevante anche di scienziati, per esempio fisici e matematici, e il dubbio che la predisposizione in questione abbia un significato che trascende la psichiatria prende inesorabilmente corpo.
L'altro dato riguarda la diffusione epidemiologica della depressione. Jervis scrive:"La frequenza della depressione, nei paesi occidentali, è attualmente (ma non si sa da quanti anni) in lieve aumento: peraltro le cifre in merito restano imprecise. Inoltre, pare certo che aumentinmo soprattutto i casi di depressione giovanile. potrebbe trattarsi qui di fattori di natura psicologica e sociale, ma non lo sappiamo: le spiegazioni possibili sono più d'una... La verità è che attualmente qualsiasi ipotesi sulla'umento dei casi di depressione non può basarsi su nulla di solido e rimane puramente congetturale." (p. 68) Qui siamo addirittura alla mistificazione proposta come obiettività scientifica. I dati dell'OMS sull'aumento dei disagi psichici nei paesi occidentali, e in particolare dei disturbi di ansia e dei disturbi depressivi, sono, dal 1996 in poi, inconfutabili. Perchè non prenderne atto? semplicemente perché, prendendone atto, l'ipotesi della predisposizione genetica, se non viene smantellata, deve essere ristrutturata. Si tratterebbe infatti di una predisposizione generica, che, al limite, solo in un numero molto ridotto di casi (1-2%), potrebbe avere un significato causale, mentre negli altri si attiverebbe solo in rapporto a situazioni ambientali, socio-culturali e familiari, sfavorevoli. Accettando questo, però, il riferimento univoco al disturbo depressivo come malattia viene meno.
Il radicalismo neopsichiatrico di Jervis risulta vieppiù inquietante quando egli affronta il problema della terapia. I punti fermi del suo discorso sono due. Il primo riguarda l'assoluta necessità di un trattamento farmacologico, che conseguirebbe effetti positivi nell'80% dei pazienti:"Con le cure oggi disponibili anche i depressi molto gravi possono vedere scomparire i propri sintomi e condurre una vita normale." (p.79) E' difficile essere d'accordo con questo trionfalismo, che smbra fondato su di una lettura ad hoc della realtà clinica. Posto infatti che la depressione, tranne rari casi, è una condizione episodica che dura in media da quattro mesi a due anni e poi regredisce spontaneamente, conteggiare nel numero dei successi terapeutici tutte le remissioni dovute a trattamenti farmacologici protratti nel tempo sembra un po' arbitrario. Piuttosto occorrerebbe soffermarsi sul numero di depressioni insensibili agli psicofarmaci (circa il 20%) e chiedersi se promettere la guarigione, come fanno i neopsichiatri, non possa contribuire ad aumentare la disperazione di questi pazienti e farlòi giungere alla conclusione, che già fa parte del vissuto di base della depressione, secondo la quale il loro male è incurabile. Impietosamente, Jervis sottolinea la responsabilità di alcuni psicoterapeuti che, non prescrivendo farmaci, votano i pazienti al suicidio. E' sicuro che un'analoga responsabilità non ce l'abbiano gli psichiatri che prescrivono farmaci promettendo la guarigione?
L'estremo rimedio, a detta di Jervis, c'è, ed è l'elettroshock. Egli scrive:"Soprattutto a partire dalla fine degli anni '70, studi accurati dimostrarono che l'elettroshock è un presidio non solo utile, ma anche ineliminabile... Sappiamo oggi che vi sono casi ben precisi in cui non vi sono altri trattamenti adeguati, e dove il suo uso può dare miglioramenti non solo risolutivi ma anche molto rapidi... L'Es è attualmente usato soprattutto quando la cura farmacologica della depressione maggiore non si rilevi efficace. Tuttavia vi si ricorre anche in certi casi dove, invece, gli psicofarmaci non vengono utilizzati per primi. L'Es infatti il trattamento di prima scelta nei casi di depressione molto grave con rischi immediati di suicidio,,,nelle depressioni in gravidanza... nonché in molti casi di depressione delgi anziani. Inoltre è efficace nelle fasi maniacali, ed è indispensabile quando gli episodi maniacali e quelli depressivi si succedono con frequenza." (p.106) Non si può dire nulla di fronte ad asserzioni del genere tranne che gli studi accurati citati sono stati condotti negli Stati Uniti da fautori dell'elettroshock. La neopsichiatria nel suo complesso riconosce gli Stati Uniti come ambiente nel quale l'attacco antoipsichiatrico non ha mai fatto breccia, e ha innescato invece una reazioe a difesa della psichiatria tradizionale di matrice europea. Nulla di sorprendente se si considera che la cultura statunitense ha avuto sempre una rilevante difficoltà nel porre in gioco se stessa in rapporto al disagio psichico.
In questa ottica, che ruolo rimane alla psicoterapia? Il pensiero di Jervis è inequivocabile:"Le tematiche psicologiche relazionali, e le tecniche psicoterapiche hanno - per vari motivi - una importanza molto grande nel trattamento moderno della depressione: ma va anche detto con chiarezza che queste problematiche riguardano in primo luogo la necessità di ottenere un'attiva e intelligente partecipazione del depresso (e dei suoi familiari) al trattamento con i farmaci. Il problema del rapporto psicologico di fiducia, e di dialogo, fra il curante e la persona depressa, riguarda non solo l'accettazione iniziale della cura farmacologica, ma anche la sua continuità nel tempo." (p. 84) Questo obiettivo primario, e singolare, non à facile da raggiungere poiché i depressi tendono a rifiutare di riconoscere la natura morbosa dei loro disturbi, e tendono a razionalizzarli o a giustificarli in rapporto a eventi di vita, a comportamentio sbagliati o a emozioni e fantasie colpevoli. Compito della psicoterapia è smantellare queste razionalizzazioni affinché il paziente possa riconoscere la realtà: essere egli senza colpa un malato di mente:"uno dei capisaldi di una psicoterapia ben condotta consiste proprio nell'aiutare il depresso a capire che egli non è in alcun modo responsabile (né psicologicamente, né moralmente) di questa sua condizione di paralizzante sofferenza La psicoterapia della depressione fa leva non già sulla responsabilizzazione del paziente, bensì al contrario su una sua consapevole, intelligente deresponsabilizzazione. Quando il depresso accede all'idea che la sua condizione è una situazione oggettiva di malattia, non meno che il diabete o un'anemia, e quando capisce che questa condizione morbosa è dovuta ad una serie di fattori di cui egli non è stato in alcun modo responsabile, tutta la sua prospettiva cambia di segno, e si apre ad una maggiore serenità." (p. 116) E' assolutamete vero che, in tutti i casi di depressione, bisogna fare i conti con un carico, conscio o inconscio, di imputazioni colpevoli che non riconoscono che un fondamento soggettivo. Che per affrancare il paziente da questo carico, l'unica via sia quella di indurlo a riconoscere che il suo cervello non funziona è almeno eccessivo.
In conseguenza di questi assunti, la terapia da privilegiare non è di tipo psicodinamico bensì cognitivo. Al di là del promuovere nel paziente una compliance nei confronti del trattamento farmacologico, "una psicoterapia ben condotta deve permettere un'elaborazione delle idee più tipiche della depressione, malgrado esse siano in partenza non equilibrate, o, se si vuole, morbose, e persino, talora, di tipo delirante."
Occorrerebbe fare altre considerazioni sui casi clinici, abbondantemente riportati con l'unico intento di confermare la griglia nosografica. Essi sono stilati secondo una modalità "ottocentesca" che mette tra parentesi tutti i dati inerenti la vita interiore e l'ambiente culturale per privilegiare l'avvento del disturbo, il suo decorso, gli esiti, spesso del tutto positivi, del trattamento farmacologico, e viceversa gli esiti catastrofici di un mancato intervento terapeutico. La stima personale che nutro per Jervis mi impedisce di essere tagliente sulla modalità adottata per riferire i casi. Per quanto pregiudiziale, tuttavia, tale modalità, come avveniva anche nei testi della psichiatria ottocentesca, fa affiorare molti dubbi non già sul carattere drammatico della depressione bensì sul significato dei disturbi. A p. 36, tra i casi di depressione maggiore, viene riportato quello di un adolescente suicida. Primogenito, Fabrizio è nato geneticamente sotto una cattiva stella. Il padre ingegnere è un depresso cronico, però molto attaccato al lavoro e privo di altri interessi. La madre architetto è affetta da una forma non grave di psicosi bipolare. Un fratello della madre ha avuto seri disturbi depressivi. Oltre a disporre di un buon reddito e di un buon livello culturale, la famiglia è anche affettuosa. Fabrizio è un bambino quieto e ragionevole, di intelligenza superiore alla media, molto riflessivo, un po' introverso come il padre. Ha un ottimo rendimento scolastico ma qualche tendenza al perfezionismo. A 15 anni improvvisamente il rendimento scolastico, senza alcun apparente motivo, diventa mediocre. Fabrizio smagrisce, lamenta stanchezza e mal di testa. Un giorno rifiuta decisamente di andare a scuola. Per l'insistenza dei genitori ci va il giorno dopo, ma non parla con nessuno e interrogato risulta impreparato. La mattina seguente si uccide lanciandosi dalla finestra. Un raptus dovuto all'esplosione repentina di una depressione maligna di origine ereditaria.
Chi ha conosciuto degli adolescenti vissuti in un clima familiare perfezionistico, che si impegnano, solitamente essendo iperdotati, a soddisfare le esigenze consce e inconsce dei familiari e degli insegnanti, nei quali ad un certo punto si attiva un meccanismo opposizionistico di ribellione al regime interiore di eccessiva responsabilità, e sa in quale misura questo meccanismo, misconosciuto, anima l'angoscia di non essere più all'altezza del ruolo conseguito e la vergogna terribile di crollare, di risultare inetto e di essere esposto a giudizi negativi, può capire perché l'unico scampo alla catastrofe, funzionale a lasciare comunque una buona immagine di sé, possa configurarsi come il suicidio. Eroismo patetico e inutile, in conseguenza del quale il soggetto sopprime la parte di sé che, ribellandosi alla schiavitù del regime perfezionistico, rischia di compromettere la sua identità sociale alienata. Un tragico equivoco soggettivo che confonde la parte sana con quella malata. La neopsichiatria, incapace di comprendere i fatti umani, iscrive questi eventi univocamente sotto la voce malattia mentale.