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Arthur Schopenhauer
Il mondo come volontà
e rappresentazione
Tomo I
Indice generale
PROEMIO ALLA PRIMA EDIZIONE
LIBRO PRIMO
IL MONDO COME RAPPRESENTAZIONE
PRIMA CONSIDERAZIONE
Rappresentazione sottomessa al principio della ragione: l'oggetto
dell'esperienza e della scienza.
LIBRO SECONDO
IL MONDO COME VOLONTÀ
PRIMA CONSIDERAZIONE
L'obiettivazione del volere.
PROEMIO ALLA PRIMA EDIZIONE
Mi sono qui proposto d'indicare come sia da leggere questo libro,
perché si riesca possibilmente a capirlo. Quel che per suo
mezzo dev'esser comunicato, è un unico pensiero. Eppure,
malgrado ogni sforzo, non ho potuto trovare per comunicarlo nessuna
via più breve che questo libro intero. Io considero quel
pensiero come ciò, che per sì gran tempo s'è
cercato sotto il nome di Filosofia, e la cui scoperta sembra quindi
ai dotti in istoria altrettanto impossibile quanto quella della
pietra filosofale, sebbene loro già dicesse Plinio: Quam
multa fieri non posse, priusquam sint facta, judicantur? (Hist,
nat., 7, 1).
Secondo l'aspetto da cui si considera quell'unico pensiero ch'io ho
a comunicare, esso si mostra come ciò che s'è chiamato
Metafisica, o Etica, o Estetica: e invero dovrebbe essere tutto
codesto insieme, se fosse quel ch'io, come ho già affermato,
ritengo che sia.
Un sistema di pensieri deve sempre avere un organismo
architettonico, ossia tale, che sempre una parte sostenga l'altra,
ma non questa anche sostenga quella: la pietra fondamentale sostiene
tutte le parti, senza venir da esse sostenuta; il vertice è
sorretto, senza sorreggere. Invece un pensiero unico deve, per
quanto comprensivo esso sia, conservare la più perfetta
unità. Si lasci pure, per il fine della propria
comunicabilità, scomporre in parti: ma tuttavia deve la
concatenazione di queste parti essere organica, ossia tale, che ogni
parte altrettanto regga il tutto, quando viene retta dal tutto;
nessuna è la prima e nessuna è l'ultima; l'intero
pensiero guadagna in chiarezza mediante ogni sua parte, ed anche la
più piccola particella non può venir compresa appieno,
se già prima non è stato compreso l'insieme. Ma un
libro deve intanto avere un primo ed un ultimo rigo, e per questo
rimarrà sempre molto dissimile da un organismo, per quanto si
mantenga somigliante a questo il suo contenuto: di conseguenza
staranno qui in contrasto forma e contenuto.
Risulta da sé che, in tali circostanze, non v'ha altro
consiglio, per vedere a fondo nel pensiero qui esposto, se non
leggere il libro due volte, e a dir vero la prima volta con molta
pazienza; la quale si può attingere soltanto dalla spontanea
fiducia che il principio presupponga la fine, quasi altrettanto come
la fine il principio; e così ogni parte che sta innanzi
presupponga quella che segue, quasi altrettanto come questa quella.
Io dico «quasi»: perché non è così
in tutto e per tutto; e quanto era possibile di fare, per mettere
innanzi ciò che meno richiede d'esser chiarito dal seguito,
come del resto quanto poteva contribuire alla più facile
comprensibilità e chiarezza possibile, è stato fatto
onestamente e coscienziosamente. Anzi, questo sarebbe fino a un
certo punto riuscito, se il lettore, ciò che è molto
naturale, invece di fermarsi solo a quel che è detto di volta
in volta, non pensasse anche alle deduzioni possibili: dalla qual
cosa, oltre ai molti contrasti effettivamente esistenti con
l'opinione dell'epoca e presumibilmente del lettore medesimo, tanti
altri ancora possono sorgere anticipati ed arbitrari, che per
conseguenza deve presentarsi come vivace disapprovazione ciò
che ancora è semplice malinteso. Ma tanto meno si riconosce
il malinteso, quando la limpidezza faticosamente raggiunta
dell'esposizione e la chiarezza dell'espressione non lasciano forse
mai in dubbio sul senso immediato d'ogni luogo del testo; sebbene
non possano simultaneamente esprimere i suoi rapporti con tutto il
complesso dell'opera. Perciò adunque richiede la prima
lettura, come ho avvertito, una pazienza attinta alla fiducia, che
nella seconda o molto o tutto sarà visto in ben altra luce.
Inoltre il meditato sforzo di raggiungere una più piena e
perfino più agevole comprensibilità in un argomento
molto difficile dev'esser di scusa se qua e là si trova una
ripetizione. Già la struttura del complesso, organica e non
disposta a mo' di catena, ha reso necessario il toccar talora due
volte lo stesso argomento. Appunto questa struttura, e la
strettissima coerenza di tutte le parti, non ha consentito la
divisione, d'altro canto per me così apprezzabile, in
capitoli e paragrafi; e invece m'ha obbligato a contentarmi di
quattro partizioni capitali, come a dire quattro aspetti dell'unico
pensiero. In ciascuno di questi quattro libri bisogna specialmente
guardarsi dal perdere di vista, disopra dai punti particolari de'
quali per necessità si tratta, il pensiero essenziale cui
quelli appartengono, e il procedere dell'esposizione nel suo
complesso. Con ciò è formulata la prima richiesta,
indispensabile come l'altra che seguirà, che io rivolgo al
lettore malevolo (malevolo verso il filosofo, appunto perché
il lettore è filosofo anch'esso).
La seconda è questa, che prima del libro si legga l'opera che
gli serve d'introduzione, sebbene non stia qui unita, essendo
comparsa cinque anni prima, col titolo: «Sulla quadruplice
radice del principio della ragione sufficiente: trattazione
filosofica». Senza la conoscenza di questa introduzione e
propedeutica, la vera comprensione del presente scritto è del
tutto impossibile; e il contenuto di quella è qui ognora
presupposto, come se facesse parte dell'opera. D'altronde, se quella
non avesse preceduto già di parecchi anni l'opera presente,
non le starebbe ora innanzi come un proemio, bensì sarebbe
incorporata nel primo libro; il quale ora, mancandogli ciò
ch'è detto in quella trattazione, dimostra una certa
incompiutezza per le lacune che di continuo deve riempire
riferendosi ad essa. Era tuttavia così grande la mia
ripugnanza a copiare me stesso, o a presentare un'altra volta
faticosamente con altre parole ciò che già una prima
volta avevo detto a sufficienza, che ho preferito questa via,
quantunque avessi ora potuto dare al contenuto di quella memoria
un'esposizione alquanto migliore, soprattutto sgombrandola di
parecchi concetti derivati dalla mia troppa suggezione d'allora alla
filosofia di Kant: categorie, senso interno ed esterno, e simili.
Nondimeno codesti concetti si trovano colà, soltanto
perché fino allora non m'ero profondamente addentrato in
essi, e vi stanno quindi come elementi accessori, senz'alcun vincolo
con l'essenziale; sì che la rettificazione di cotali luoghi
in quella memoria si farà benissimo da sé nel pensiero
del lettore, con la conoscenza dello scritto presente. Ma solo
quando per mezzo di quella memoria si è conosciuto appieno
ciò che sia e significhi il principio di ragione, dove si
estenda e dove no il suo vigore, e come esso non preceda tutte le
cose, per modo che il mondo venga ad esistere solo in conseguenza e
conformità sua, essendone quasi il corollario; bensì
non sia altro che la forma in cui l'oggetto sotto condizione del
soggetto, di qualunque specie quello sia, viene ovunque conosciuto,
in quanto il soggetto è un individuo conoscente: solo allora
sarà possibile penetrare a fondo nel metodo di filosofare qui
per la prima volta tentato, affatto diverso da tutti i precedenti.
Ma la medesima riluttanza a copiare me stesso parola per parola, o
anche a dire una seconda volta proprio lo stesso con altre peggiori
parole, dopo che avevo già la prima volta usato le migliori,
ha prodotto ancora un'altra lacuna nel primo libro di quest'opera;
avendo io tralasciato quanto si trova nel primo capitolo della mia
memoria Sopra la vista e i colori, e che altrimenti avrebbe qui
trovato posto integralmente. Quindi anche la conoscenza di questo
piccolo scritto anteriore viene qui presupposta.
Finalmente la terza richiesta da fare al lettore potrebbe anche
esser sottintesa: perché non è altra se non quella di
conoscere la più importante apparizione che sia avvenuta da
due secoli nella filosofia: intendo gli scritti principali di Kant.
L'azione, che essi esercitano sullo spirito al quale effettivamente
parlino, io la trovo invero paragonabile, come forse è
già stato detto, all'operazione della cateratta sui ciechi: e
se vogliamo continuare il paragone, il mio intento si può
designare dicendo, che a coloro ai quali quell'operazione è
riuscita ho voluto porre in mano gli occhiali che adoprano gli
operati di cateratta, per l'uso dei quali è adunque prima
condizione quell'atto operativo. Ma per quanto io prenda le mosse da
ciò che il gran Kant ha fatto, tuttavia appunto lo studio
serio delle sue opere mi ha fatto scoprire in quelle notevoli
errori, ch'io dovevo staccare dal resto e mostrare come
condannabili, per poter presupporre e adoprare puro e purgato da
essi quanto nella dottrina kantiana è di véro e di
eccellente. Tuttavia, per non interrompere e confondere la mia
propria esposizione con la frequente polemica contro Kant, ho
concentrato questa in una speciale appendice. Ora, secondo ho detto,
come la mia opera presuppone la conoscenza della filosofia kantiana,
così presuppone dunque pur la conoscenza di quella appendice:
perciò sotto questo riguardo sarebbe consigliabile di leggere
prima l'appendice, tanto più che il suo contenuto ha precisi
rapporti proprio col primo libro dell'opera presente. D'altra parte
non si potè evitare, per la natura della cosa, che anche
l'appendice qua e là si riferisse all'opera stessa: da
ciò nient'altro consegue se non che anch'essa, come il corpo
dell'opera, deve esser letta due volte.
La filosofia di Kant è dunque la sola, di cui assolutamente
si suppone una conoscenza a fondo per ciò che qui
verrà esposto. Ma se per di più il lettore s'è
ancora intrattenuto alla scuola del divino Platone, tanto meglio ne
riuscirà preparato e disposto ad udirmi. Se poi anche
è diventato partecipe del benefizio dei Veda, l'accesso ai
quali, apertoci mediante le Upanisciade, è a' miei occhi il
maggior privilegio che questo ancor giovine secolo può
vantare sul precedente, in quanto io ritengo che l'influsso della
letteratura sanscrita non sarà meno profondo che il
rinascimento della cultura greca nel secolo xv, se adunque, io dico,
il lettore ha già ricevuto e accolto con animo ben disposto
anche la consacrazione dell'antichissima saggezza indiana, allora
è nel miglior modo preparato a udire ciò che io ho da
esporgli. La materia non sembrerà allora a lui, come a
qualche altro, straniera o addirittura ostica; perché io, se
non suonasse troppo superbo, vorrei affermare che ciascuna delle
singole sentenze staccate, le quali costituiscono le Upanisciade, si
lascia dedurre, come conclusione, dal pensiero ch'io devo
comunicare; sebbene questo pensiero viceversa non si possa in alcun
modo trovare colà.
Ma già sono i più de' lettori scattati con impazienza,
prorompendo nel rimprovero a stento trattenuto per tanto tempo, come
mai io possa osar di presentare al pubblico un libro con esigenze e
condizioni, delle quali le due prime sono presuntuose e affatto
immodeste: e questo in una epoca sì ricca di singolari
pensieri, che in Germania soltanto per mezzo della stampa ve n'ha i
quali diventano annualmente dominio comune in tremila opere dense di
contenuto, originali, assolutamente indispensabili, e inoltre in
periodici innumerevoli, o addirittura nei giornali quotidiani; in
un'epoca, nella quale soprattutto non v'ha punto difetto di filosofi
pienamente originali e profondi: sì che nella sola Germania
vivono tanti di essi a un tempo, quanti prima potevan produrre varii
secoli l'un dopo l'altro. Come mai dunque, interroga l'irato
lettore, si può venirne a capo, se bisogna darsi tanto da
fare per un libro solo?
Poiché non ho la minima obiezione da fare contro tali
rimproveri, da questi lettori non m'attendo qualche gratitudine, se
non per averli avvertiti in tempo, affinché essi non perdano
un'ora con un libro la cui lettura non potrebbe dar frutto senza la
soddisfazione delle esigenze formulate, e perciò è da
tralasciare affatto; massime essendovi d'altronde anche da
scommetter grosso, che il libro non piacerebbe loro; che piuttosto
esso sarà sempre soltanto paucorum hominum, e perciò
paziente e modesto deve attendere i pochi, la cui maniera di pensare
non comune lo trovi leggibile. Perché, anche astraendo
dall'ampiezza d'idee e dallo sforzo che domanda al lettore, quale
uomo colto del nostro tempo, in cui il sapere è arrivato
vicino a quel mirabile punto dove paradosso ed errore sono tutt'uno,
potrebbe sopportar di trovare quasi ad ogni pagina pensieri, che
francamente contrastano con ciò che egli stesso, una volta
per sempre, ha stabilito per vero e indubitato? E poi, come taluno
si troverà spiacevolmente deluso, non imbattendosi qui in
nessun discorso di ciò che egli proprio qui pensa di dover
cercare, perché il suo modo di speculare s'incontra con
quello di un grande filosofo vivente1, il quale ha scritto libri
davvero commoventi, ed ha soltanto la piccola debolezza di veder
pensieri fondamentali, innati nello spirito umano, in tutto quanto
egli ha imparato e accettato prima del suo quindicesimo anno! Chi
potrebbe sopportare tutto ciò? Quindi il mio solo consiglio
è di metter via il libro, ancora una volta. Ma temo io stesso
di non uscirne così. Il lettore, una volta arrivato al
proemio che lo respinge, ha pur comprato il libro a denaro sonante,
e domanda che cosa ne lo risarcirà. Mio ultimo riparo
è ora il rammentargli che egli può utilizzare un libro
in vari modi, senza bisogno di leggerlo. Può, come tanti
altri, riempire un vuoto della sua biblioteca, dov'esso, ben
rilegato, farà certo buona mostra di sé, O anche
deporlo sulla toilette o sul tavolino da the della sua dotta amica.
O infine egli può ancora, ciò che di certo è il
meglio di tutto ed io particolarmente consiglio, farne una
recensione.
E così, dopo che mi son permesso lo scherzo, al quale non
c'è pagina per quanto seria che non debba far posto in questa
vita, la quale sempre e ovunque mostra una duplice faccia, offro con
intima gravità il libro, con la fiducia che presto o tardi
raggiungerà coloro, ai quali solo può esser rivolto; e
d'altronde tranquillamente rassegnato a vedergli toccare in piena
misura il destino, che sempre toccò alla verità, in
ogni dominio del sapere, e tanto più in quello che più
importa: alla quale verità è destinato solo un breve
trionfo, fra i due lunghi spazi di tempo in cui ella è
condannata come paradossale o spregiata come banale. E il primo
destino colpisce insieme colui che l'ha trovata. Ma la vita è
breve, e la verità opera lontano e lungamente vive: diciamo
la verità.
(Scritto in Dresda nell'agosto 1818).
LIBRO PRIMO
IL MONDO COME RAPPRESENTAZIONE
PRIMA CONSIDERAZIONE
Rappresentazione sottomessa al principio della ragione: l'oggetto
dell'esperienza e della scienza.
Sors de l'enfance, ami, réveille-toi!
Jean-Jacques Rousseau
§ 1.
«Il mondo è mia rappresentazione»: – questa
è una verità che vale in rapporto a ciascun essere
vivente e conoscente, sebbene l'uomo soltanto sia capace
d'accoglierla nella riflessa, astratta coscienza: e s'egli veramente
fa questo, con ciò è penetrata in lui la meditazione
filosofica. Per lui diventa allora chiaro e ben certo, ch'egli non
conosce né il sole né la terra, ma appena un occhio,
il quale vede un sole, una mano, la quale sente una terra; che il
mondo da cui è circondato non esiste se non come
rappresentazione, vale a dire sempre e dappertutto in rapporto ad un
altro, a colui che rappresenta, il quale è lui stesso. Se mai
una verità può venire enunciata a priori è
appunto questa: essendo l'espressione di quella forma d'ogni
possibile e immaginabile esperienza, la quale è più
universale che tutte le altre forme, più che tempo, spazio e
causalità; poi che tutte queste presuppongono appunto quella,
E se ciascuna di tali forme, che noi abbiamo tutte riconosciute come
altrettante determinazioni particolari del principio della ragione,
ha valore solo per una speciale classe di rappresentazioni, la
divisione in oggetto e soggetto è invece forma comune di
tutte quelle classi: è la forma unica in cui qualsivoglia
rappresentazione, di qualsiasi specie, astratta o intuitiva, pura o
empirica, è possibile ed immaginabile. Nessuna verità
è adunque più certa, più indipendente da ogni
altra, nessuna ha minor bisogno d’esser provata, di questa: che
tutto ciò che esiste per la conoscenza, – adunque questo
mondo intero, – è solamente oggetto in rapporto al soggetto,
intuizione di chi intuisce; in una parola, rappresentazione.
Naturalmente questo vale, come per il presente, così per
qualsiasi passato e qualsiasi futuro, per ciò che è
lontanissimo come per ciò che è vicino:
imperocché vale finanche per il tempo e lo spazio, dentro i
quali tutto viene distinto. Tutto quanto è compreso e
può esser compreso nel mondo, deve inevitabilmente aver per
condizione il soggetto, ed esiste solo per il soggetto. Il mondo
è rappresentazione.
Questa verità è tutt'altro che nuova. Ella era
già nella concezione degli scettici, donde mosse Cartesio. Ma
Berkeley fu il primo ad esprimerla risolutamente, e si
acquistò così un merito immortale verso la filosofia,
quantunque il resto delle sue dottrine non possa reggere. Il primo
errore di Kant fu la negligenza di questo principio, come
verrà esposto nell'appendice. Quanto remotamente invece tal
fondamentale verità fosse riconosciuta dai saggi indiani,
apparendo come base della filosofia Vedanta attribuita a Vyasa, ci
attesta W. Jones, nell'ultima sua memoria On the philosophy of the
Asiatics; «Asiatic Researches», vol. IV, p. 164:
«the fundamental tenet of the Vedanta school consisted not in
denying the existence of matter, that is of solidity,
impenetrability, and extended figure (to deny which would be
lunacy), but in correcting the popular notion of it, and in
contending that it has no essence independent of mental perception;
that existence and perceptibility are convertible terms»2.
Queste parole esprimono sufficientemente la coesistenza della
realtà empirica con l'idealità trascendentale,
Dunque solo dal punto di vista indicato, solo in quanto è
rappresentazione, noi consideriamo il mondo in questo primo libro.
Che nondimeno questa considerazione, malgrado la sua verità,
sia unilaterale, e quindi ottenuta mediante un'astrazione
arbitraria, è fatto palese a ciascuno dall'intima riluttanza
ch’ei prova a concepire il mondo soltanto come sua pura
rappresentazione; al quale concetto d'altra parte non può mai
e poi mai sottrarsi. Ma l'unilateralità di questa
considerazione verrà integrata nel libro seguente con
un'altra verità, la quale non è di certo così
immediata come quella da cui qui muoviamo; bensì tale che vi
si può esser condotti solo da più profonda indagine,
più difficile astrazione, separazione del diverso e riunione
dell'identico – una verità che deve apparire molto grave e
per ognuno, se non proprio paurosa, almeno meritevole di
riflessione: ossia questa, che egli appunto può dire e deve
dire: «il mondo è la mia volontà».
Ma per ora, in questo primo libro, è necessario considerare,
senz'allontanarsene, quell'aspetto del mondo da cui prendiamo le
mosse – l'aspetto della conoscibilità – e perciò,
lasciando ogni riluttanza, esaminare tutti gli oggetti esistenti,
compreso perfino il nostro corpo (come sarà spiegato meglio
ben presto), esclusivamente quali rappresentazioni; e quali pure
rappresentazioni definire. In tal modo si viene a fare astrazione,
unicamente e sempre, dalla volontà, secondo più tardi
sarà per apparire evidente, spero, a tutti; come da quella
che da sola costituisce l'altro aspetto del mondo: perché
come il mondo è da un lato, in tutto e per tutto,
rappresentazione, così dall'altro, in tutto e per tutto,
volontà. Una realtà invece che non sia né
questa né quella, ma sia bensì un oggetto in sé
(com'è purtroppo divenuta la cosa in sé di Kant
degenerando nelle sue mani) è una chimera di sogno, e la sua
assunzione un fuoco fatuo della filosofia.
§ 2.
Quello che tutto conosce, e da nessuno è conosciuto, è
il soggetto. Esso è dunque che porta in sé il mondo;
è l'universale, ognora presupposta condizione d'ogni fenomeno
di ogni oggetto: perché ciò che esiste, non esiste se
non per il soggetto. Questo soggetto ciascuno trova in sé
stesso; ma tuttavia solo in quanto conosce, non in quanto è
egli medesimo oggetto di conoscenza. Oggetto è già
invece il suo corpo: ed anch’esso perciò, secondo questo modo
di vedere, chiamiamo rappresentazione. Invero il corpo è
oggetto fra oggetti, e sottoposto alle leggi degli oggetti, sebbene
sia oggetto immediato3. Esso sta, come tutti gli oggetti
dell'intuizione, nelle forme d'ogni conoscimento, nel tempo e nello
spazio, per mezzo dei quali si ha pluralità. Ma il soggetto,
il conoscente, non mai conosciuto, non sta anch'esso in quelle
forme, dalle quali appunto viene invece sempre già
presupposto: non gli tocca perciò né pluralità
né il contrapposto di quella, unità. Giammai lo
conosciamo, ma esso è che conosce, dovunque sia conoscenza.
Il mondo come rappresentazione, adunque – e noi non lo consideriamo
qui se non sotto questo aspetto – ha due metà essenziali,
necessarie e inseparabili. L'una è l'oggetto, di cui sono
forma spazio e tempo, mediante i quali si ha la pluralità. Ma
l'altra metà, il soggetto, non sta nello spazio e nel tempo:
perché essa è intera e indivisa in ogni essere
rappresentante; perciò anche un solo di questi esseri, con
l'oggetto, integra il mondo come rappresentazione, sì appieno
quanto i milioni d'esseri esistenti. Ma, se anche solo quell'unico
svanisse, cesserebbe d'esistere pure il mondo come rappresentazione.
Queste metà sono perciò inseparabili, anche per il
pensiero; perché ciascuna di esse consegue solo mediante e
per l'altra significazione ed esistenza, ciascuna esiste con l’altra
e con lei dilegua. Esse si limitano a vicenda direttamente: dove
l'oggetto comincia, finisce il soggetto. La comunanza di questi
limiti si mostra appunto in ciò, che le forme essenziali e
perciò universali d'ogni oggetto, le quali sono tempo, spazio
e causalità, possono, muovendo dal soggetto, venir trovate e
pienamente conosciute anche senza la conoscenza stessa dell'oggetto;
il che val quanto dire, nel linguaggio di Kant, che esse stanno a
priori nella nostra coscienza. L’aver ciò scoperto è
un capitale merito di Kant, un immenso merito. Io affermo ora in
più, che il principio di ragione è l'espressione
comune per tutte queste forme dell'oggetto, delle quali siamo consci
a priori; e che perciò tutto quanto noi sappiamo puramente a
priori, non è nulla se non appunto il contenuto di quel
principio e ciò che da esso deriva; in esso adunque
propriamente viene formulata tutta quanta la nostra conoscenza certa
a priori. Nel mio scritto intorno al principio di ragione ho
ampiamente mostrato che qualsivoglia oggetto possibile è a
quello sottomesso; vale a dire, sta in una relazione necessaria con
altri oggetti, da un verso come determinato, dall'altro come
determinante: ciò va tanto lungi, che l'intera esistenza di
tutti gli oggetti, in quanto oggetti, rappresentazioni e null'altro,
in tutto e per tutto fa capo a quel loro necessario, scambievole
rapporto; e solo in esso ella consiste, dunque è affatto
relativa. Ma su ciò si dirà presto di più. Io
ho inoltre mostrato che a seconda delle classi nelle quali gli
oggetti si ripartiscono avendo riguardo alla loro
possibilità, si presenta in vario modo quel necessario
rapporto che il principio di ragione genericamente esprime; dal che
si conferma la giusta ripartizione delle classi medesime. Qui sempre
suppongo già conosciuto e presente al lettore quanto ho detto
in quella trattazione; perché, se non fosse già stato
detto colà, qui dovrebbe per necessità avere il suo
posto.
§ 3.
La differenza capitale fra tutte le nostre rappresentazioni è
quella dell'intuitivo e dell'astratto. Astratta e una classe sola di
rappresentazioni, che sono i concetti: e questi sulla terra sono
patrimonio speciale dell'uomo. Tale capacità, che lui
distingue da tutti gli animali, fu dai più remoti tempi
chiamata ragione4. Esamineremo a parte in seguito codeste
rappresentazioni astratte, ma dapprima si discorrerà
esclusivamente della rappresentazione intuitiva. Questa adunque
comprende l'intero mondo visibile, o il complesso dell'esperienza,
oltre le condizioni di possibilità della medesima. È,
come ho detto, un'assai importante scoperta di Kant, che appunto
queste condizioni, queste forme dell'esperienza (ossia ciò
che v'ha di più generale nella sua percezione, ciò che
in egual modo è proprio di tutti i suoi fenomeni – intendo il
tempo e lo spazio) possono per se stesse, disgiunte dal loro
contenuto, venir non pure pensate in abstracto, ma anche
immediatamente intuite; e che tale intuizione non sia per avventura
un fantasma ricavato dall'esperieza5 mediante il suo ripetersi,
bensì dall'esperienza sia tanto indipendente, da doversi
questa viceversa pensare piuttosto come dipendente da quella: per
ciò che le proprietà dello spazio e del tempo, quali
li riconosce a priori l'intuizione, valgono come leggi per ogni
possibile esperienza; leggi, a cui questa deve ovunque conformarsi.
Per questo motivo nella mia memoria sul principio di ragione ho
considerato tempo e spazio, in quanto vengono intuiti puri e privi
di contenuto, come una classe particolare di rappresentazioni,
esistente di per sé. Ora, per quanto importante sia pure
codesta natura, scoperta da Kant, di quelle forme universali
dell'intuizione, che cioè le si possano intuire in sé
e indipendenti dall'esperienza, e conoscere dalla loro piena
legittimità (sul che si fonda la matematica con la sua
infallibilità), non è tuttavia meno osservabile
quest’altra loro proprietà, che il principio di ragione (il
quale determina l'esperienza come legge della causalità e
motivazione, e il pensiero come legge del fondamento dei giudizi) si
presenti qui sotto un aspetto tutto speciale, a cui ho dato il nome
di ragione dell'essere; e che è, nel tempo, il succedersi dei
suoi momenti, e nello spazio la posizione delle sue parti
vicendevolmente determinantisi all'infinito.
Quegli a cui dalla mia dissertazione introduttiva sia risultata
chiara la piena identità di contenuto del principio di
ragione, malgrado tutta la varietà delle sue modificazioni,
sarà pur convinto di quanto importi, a penetrar nella sua
più intima essenza, la nozione della più semplice tra
le sue forme, come tali: e per tale abbiamo riconosciuto il tempo.
Come nel tempo ciascun attimo esiste solo in quanto ha cancellato
l'attimo precedente – suo padre – per venire anch'esso con la
medesima rapidità alla sua volta cancellato; come passato e
avvenire (facendo astrazione dalle conseguenze del loro contenuto)
sono illusori a modo di sogni, e il presente non è che un
limite tra quelli, privo di estensione e durata: proprio così
riconosceremo la stessa nullità anche in tutte le altre forme
del principio di ragione. E comprenderemo che come il tempo,
così anche lo spazio, e come questo, così tutto
ciò che è insieme nello spazio e nel tempo, tutto,
insomma, ciò che proviene da cause o motivi, ha un'esistenza
solo relativa, esiste solo mediante e per un'altra cosa che ha la
stessa natura, ossia esiste anch'essa soltanto a quel modo. La
sostanza di questa opinione è antica: Eraclito lamentava con
essa l'eterno fluire delle cose; Platone ne disdegnò
l'oggetto come un perenne divenire, che non è mai essere;
Spinoza chiamò le cose puri accidenti della unica sostanza,
che sola esiste e permane; Kant contrappose ciò che
conosciamo in tal modo, come pura apparenza, alla cosa in sé;
e infine l'antichissima sapienza indiana dice: «È Maya,
il velo ingannatore, che avvolge gli occhi dei mortali e fa loro
vedere un mondo del quale non può dirsi né che esista,
né che non esista; perché ella rassomiglia al sogno,
rassomiglia al riflesso del sole sulla sabbia, che il pellegrino da
lontano scambia per acqua; o anche rassomiglia alla corda gettata a
terra, che egli prende per un serpente» (Questi paragoni si
trovano ripetuti in luoghi innumerevoli dei Veda e dei Purana). Ma
ciò che tutti costoro pensavano, e di cui parlano, non
è altro se non quel che anche noi ora, appunto, consideriamo:
il mondo come rappresentazione, sottomesso al principio della
ragione.
§ 4.
Chi ha conosciuto quella forma del principio di ragione che
apparisce nel tempo puro in quanto è tale, e su cui poggia
ogni numerazione e calcolo, ha con ciò appunto conosciuto
anche l'intera essenza del tempo. Esso non è se non proprio
della forma del principio di ragione, e non ha alcun'altra
proprietà. Successione è la forma del principio di
ragione nel tempo, successione è tutta l'essenza del tempo.
Chi poi ha conosciuto il principio di ragione quale esso domina
nell'intuizione pura dello spazio, ha con ciò stesso dato
fondo all'intera essenza dello spazio; perché questo in tutto
e per tutto niente altro è se non la possibilità delle
vicendevoli determinazioni delle sue parti, la quale si chiama
posizione. Lo studio ampio di questa, e la fissazione in concetti
astratti, per più comodo uso, dei risultati che ne seguono,
è il contenuto di tutta la geometria. Ora appunto
così, chi ha conosciuto il modo del principio di ragione che
regge il contenuto di quelle forme (il tempo e lo spazio) e la loro
percettibilità, cioè la materia, e ha quindi
conosciuto la legge della causalità; quegli ha pur conosciuto
proprio con ciò l'intera essenza della materia come tale:
perché questa è in tutto e per tutto nient'altro che
causalità: ciò che ognuno immediatamente vede, appena
vi rifletta. Poiché il suo essere è la sua
attività: nessun altro suo essere si può anche
solamente pensare. Solo come agente riempie essa lo spazio, riempie
il tempo: la sua azione sull'oggetto immediato (che pur esso
è materia) determina l’intuizione, senza la quale non esiste
materia: il risultato dell’azione di ogni oggetto materiale sopra un
altro è solo conosciuto in quanto quest'ultimo agisce alla
sua volta diversamente che innanzi sull'oggetto immediato; e in
ciò solo consiste. Causa ed effetto è dunque tutta la
essenza della materia: il suo essere è la sua
attività. (Su ciò più minutamente nella
dissertazione intorno al principio di ragione, § 21, p. 77).
Giustissimamente perciò in tedesco il concetto di tutto
ciò che è materiale vien chiamato6 Wirklichkeit, da
wirken, agire, la qual parola è molto più precisa che
non realtà. Ciò su cui la materia agisce, è
ancora e sempre materia: tutta la sua sostanza consiste adunque
nella regolare modificazione che una parte di essa produce
nell'altra, e perciò del tutto relativa, relazione vigente
solo dentro i suoi confini; adunque proprio come il tempo, proprio
come lo spazio.
Ma tempo e spazio, ognuno per sé, sono anche senza la materia
intuitivamente rappresentabili; invece non la materia senza quelli.
Già la forma, che da lei è inseparabile, presuppone lo
spazio; e la sua attività, in cui sta tutto il suo essere,
concerne sempre un cambiamento – e perciò una determinazione
– del tempo. Ma tempo e spazio non vengono isolatamente, ciascuno
per sé, presupposti dalla materia; bensì l'unione
d'entrambi costituisce l'essenza di questa; appunto perché
tale essenza, com'è dimostrato, consiste
nell'attività, nella causalità. Tutti gli
immaginabili, innumerevoli fenomeni e stati potrebbero invero nello
spazio infinito, senza darsi impaccio, l'un presso l'altro
coesistere, o anche nel tempo infinito, senza disturbarsi, l'un
l'altro seguire; perciò dunque una necessaria relazione fra
loro ed una regola che li determinasse in conformità di
questa relazione non sarebbe in niun modo indispensabile, e nemmeno
applicabile: non si avrebbe dunque allora, malgrado ogni
giustapposizione nello spazio e ogni mutamento nel tempo, ancora
nessuna causalità, fin che ciascuna di quelle due forme
avesse la sua esistenza e il suo corso di per sé, senza
connessione con l'altra. E poiché la causalità
costituisce propriamente l'essenza della materia, non si avrebbe
nemmeno materia. Ora invece la legge di causalità trae la sua
significazione e necessità solo da ciò, che l'essenza
del cambiamento non sta nel puro mutar degli stati in sé,
bensì piuttosto nel fatto che nello stesso punto dello spazio
è ora uno stato e successivamente un altro, e in uno stesso
momento determinato è qui questo stato, là un altro:
solo questa reciproca limitazione del tempo e dello spazio da
significato e insieme necessità ad una regola, secondo la
quale deve svolgersi il cambiamento. Ciò che viene
determinato mediante la legge di causalità non è
adunque la successione degli stati nel tempo puro, ma codesta
successione riguardo a uno spazio determinato, e non la presenza
degli stati in un luogo determinato, ma in questo luogo in un tempo
determinato. La modificazione, ossia il cambiamento sopravveniente
secondo la legge causale, concerne perciò ogni volta una
determinata parte dello spazio e una determinata parte del tempo,
simultaneamente e insieme, Quindi la causalità congiunge lo
spazio col tempo. Ma noi abbiamo trovato che nell'attività, e
perciò nella causalità, consiste l'intera essenza
della materia: di conseguenza devono anche in questa spazio e tempo
esser congiunti, ossia essa deve avere simultaneamente in sé
le proprietà del tempo e dello spazio, per quanto queste si
contrastino; e ciò che in ciascuno di quelli è da solo
impossibile, deve essa in sé riunire, ossia l'inconsistente
fuga del tempo con la rigida, immutabile persistenza dello spazio:
la divisibilità infinita essa l'ha da entrambi. In tal modo
noi troviamo primamente per suo mezzo prodotta la
simultaneità, che non poteva essere né nel tempo puro,
il quale non conosce alcuna giustapposizione, né nel puro
spazio, il quale non conosce alcun innanzi, dopo, e ora. Ma è
appunto la simultaneità di molti stati che costituisce
l'essenza della realtà [Wirklichkeit]: perché dalla
simultaneità in primissimo luogo è resa possibile la
durata, essendo questa conoscibile solo al variar di ciò che
è insieme presente e durevole: com'anche solo mediante il
durevole nella variazione prende questa il carattere della
modificazione, ossia del mutamento di qualità e forma nel
perdere della sostanza, cioè della materia7. Nello spazio
puro il mondo sarebbe rigido ed immobile: nessuna successione,
nessuna modificazione, nessuna attività: ma appunto con
l'attività è anche tolta via la rappresentazione della
materia. D’altra parte, nel tempo puro tutto sarebbe fuggitivo:
nessun persistere, nessun coesistere, e perciò nulla di
simultaneo, quindi nessuna durata: ossia anche in questo caso niente
materia. Solo dall'unione di tempo e spazio risulta la materia, vale
a dire la possibilità della esistenza simultanea e quindi
della durata; mediante questa poi, la possibilità del
permanere della sostanza nel mutar degli stati8. Avendo la sua
essenza nell'unione di tempo e spazio, la materia reca sempre
l'impronta d'entrambi. Ella attesta la sua origine dallo spazio, in
parte con la forma, che da lei è inseparabile, ma soprattutto
(perché il cambiamento appartiene solo al tempo, ed in
questo, considerato in sé e per sé, non è nulla
di stabile) col suo permanere (sostanza); la cui certezza a priori
va perciò derivata in tutto e per tutto da quella dello
spazio9: invece la sua origine dal tempo manifesta ella con la
qualità (accidente) senza la quale mai non appare, e che non
è altro se non causalità (azione sopr'altra materia,
ossia cambiamento, che è un concetto di tempo). Ma la
legittima possibilità di questa azione si riferisce sempre
simultaneamente a spazio e tempo, e appunto da ciò soltanto
acquista un senso. Quale stato debba aversi in un dato tempo e luogo
è la sola determinazione su cui s'estende la giurisdizione
della causalità. Su questa provenienza delle determinazioni
fondamentali della materia dalle forme a priori della nostra
conoscenza, poggia il riconoscimento a priori che noi facciamo in
lei di talune proprietà, come quella di riempir lo spazio,
ossia impenetrabilità, ossia attività; inoltre
estensione, infinita divisibilità, permanenza, ossia
indistruttibilità, e infine mobilità: la
gravità invece, malgrado ammetta eccezioni, sarà da
attribuire alla conoscenza a posteriori, sebbene Kant nei Principi
metafisici della scienza della natura, p. 71 (ed. Rosenkranz, p.
372) la ponga come conoscibile a priori.
Ma come l’oggetto esiste solo per il soggetto, quale sua
rappresentazione, così ogni speciale classe di
rappresentazione esiste nel soggetto soltanto per un'altrettanta
speciale determinazione, che si chiama facoltà conoscitiva.
Il correlato subiettivo di tempo e spazio in sé, come forme
vuote, fu da Kant chiamato sensibilità pura, e questa
espressione, poiché qui Kant aperse la via, può esser
mantenuta; sebbene non convenga perfettamente, per ciò che
sensibilità presuppone già materia. Il correlato
subiettivo della materia o causalità, le quali sono tutt'uno,
è l'intelletto, che non altro è fuori di questo. Sua
esclusiva funzione, sua unica forza è conoscere la
causalità – ed è una forza grande, che molto
abbraccia, di svariata applicazione, ma di non disconoscibile
identità in tutte le sue manifestazioni. Viceversa ogni
causalità, perciò ogni materia, e quindi l'intera
realtà esiste soltanto per l'intelletto, mediante
l'intelletto, nell'intelletto. La prima, più semplice, sempre
presente manifestazione dell'intelletto è l'intuizione del
mondo reale: questa non è altro se non conoscenza della causa
dall'effetto: perciò ogni intuizione è intellettuale.
Non vi si potrebbe tuttavia pervenire mai, se un effetto qualsiasi
non fosse conosciuto immediatamente, servendo con ciò da
punto di partenza. E questo è l'effetto sui corpi animali. In
tale senso sono questi gli oggetti immediati del soggetto:
l'intuizione di tutti gli altri oggetti si ha per loro mezzo. Le
modificazioni che ogni corpo animato subisce sono immediatamente
conosciute, ossia provate; e in quanto codesto effetto viene tosto
riferito alla sua causa, nasce l'intuizione di quest'ultima come di
un oggetto. Questo riferimento non è una conclusione di
concetti astratti, non accade per mezzo di riflessione né con
arbitrio, ma immediatamente, necessariamente e sicuramente. Esso
è il modo di conoscere del puro intelletto, senza il quale
non si verrebbe mai all’intuizione; ma s'avrebbe una coscienza
ottusa, vegetativa, delle modificazioni dell'oggetto immediato, che
si succederebbero prive in tutto di senso, se non avessero forse un
senso di dolore o di piacere per la volontà. Ma come, con
l'apparir del sole, il mondo visibile si scopre, così
l'intelletto con la sua unica, semplice funzione trasforma d'un
tratto in intuizione la confusa e bruta sensazione. Ciò che
sente l'occhio, l'orecchio, la mano, non è l'intuizione, ma
sono appena i dati dell'intuizione. Solo allor che l'intelletto
risale dall'effetto alla causa, apparisce il mondo, esteso nello
spazio come intuizione, mutevole nella forma, eterno in quanto
materia: perché l'intelletto congiunge spazio e tempo nella
rappresentazione di materia, ossia di attività. Questo mondo
come rappresentazione esiste solo mediante l'intelletto, e solo per
l'intelletto. Nel primo capitolo della mia dissertazione
«sulla vista ed i colori», ho già spiegato come
sui dati, che i sensi forniscono, l'intelletto foggi l'intuizione;
come dal confronto delle impressioni che i vari sensi ricevono dal
medesimo oggetto il bambino apprenda l'intuizione; come soltanto
ciò fornisca la spiegazione di tanti fenomeni dei sensi: la
visione unica con due occhi; la doppia visione nello strabismo, o
nella ineguale distanza di oggetti posti l'uno dietro l'altro, che
l'occhio veda simultaneamente; e tutte le illusioni prodotte da
un'improvvisa modificazione negli organi sensorii. Molto più
estesamente e più a fondo ho tuttavia studiato questo
importante argomento nella seconda edizione dello scritto sul
principio di ragione (§ 21). Tutto ciò che là
vien detto avrebbe qui di necessità il suo luogo, dovrebbe
quindi in verità esser qui ripetuto: ma poi che io ho quasi
altrettanta ripugnanza a copiare me stesso che gli altri, né
sono in grado di esporre le mie idee meglio di quanto abbia fatto
colà, vi rinunzio; e invece di ripeterle qui, le do per
già conosciute.
L'apprendimento della visione da parte dei bambini e dei ciechi nati
che siano stati operati, la visione unica di ciò che vien
percepito doppio con due occhi, il doppio vedere o la doppia
sensibilità tattile nello spostamento degli organi sensorii
dalla loro posizione ordinaria, il veder l’oggetto diritto mentre
l’immagine sta capovolta nell’occhio, l’attribuzione del colore –
che è solo una funzione interna, una divisione polare
dell'attività dell'occhio – agli oggetti esterni e infine
anche lo stereoscopio – tutte queste sono salde e indiscutibili
prove del fatto che ogni intuizione non è puramente
sensibile, bensì intellettuale, ossia pura conoscenza
intellettiva della causa dall'effetto, e quindi presuppone la legge
di causalità. Dal conoscimento di quella dipende ogni
intuizione, e perciò ogni esperienza, nella sua prima e
intera possibilità; e non viceversa il conoscimento della
legge causale dall'esperienza, secondo voleva lo scetticismo di
Hume, che per la prima volta viene confutato con questa
dimostrazione. Poiché l'indipendenza della cognizione della
causalità da ogni esperienza, ossia la sua apriorità,
non può venir dimostrata se non col dipendere di tutta
l'esperienza da lei e questo alla sua volta può solamente
accadere quando si provi nel modo qui indicato, e ampiamente svolto
nei luoghi più sopra citati, che la nozione di
causalità è già universalmente implicita
nell'intuizione, nel cui dominio sta tutta l'esperienza; sì
che quella nozione sussiste pienamente a priori in rapporto
all'esperienza, e viene da questa presupposta, non la presuppone.
Ciò non si può invece dimostrare nel modo tentato da
Kant e da me criticato nella dissertazione sul principio della
ragione (§ 23).
§ 5.
Ma bisogna guardarsi dal grande equivoco di pensare che,
poiché l'intuizione richiede la nozione della
causalità, ne sorga di conseguenza fra oggetto e soggetto il
rapporto di causa ed effetto; mentre questo rapporto ha sempre luogo
invece fra oggetto immediato e mediato, quindi sempre soltanto fra
oggetti. Appunto su quella falsa premessa poggia l'insana contesa
intorno alla realtà del mondo esterno, nella quale stanno di
fronte dogmatismo e scetticismo, e quello interviene ora come
realismo, ora come idealismo. Il realismo pone l'oggetto come causa,
e il suo effetto pone nel soggetto. L'idealismo di Fichte fa invece
l’oggetto del soggetto. Ma non potendo esservi alcun rapporto fra
soggetto ed oggetto secondo il principio di ragione – ciò che
non sarà mai ribadito abbastanza – non poté venir
provata né l'una né l'altra di quelle affermazioni, e
contro entrambe fece vittoriosi assalti lo scetticismo. Invero come
la legge di causalità già precede, essendone
condizione, l'intuizione e l'esperienza, e quindi non può
venir ricavata da queste (secondo Hume pensava); così oggetto
e soggetto, già quali prime condizioni, precedono ogni
conoscenza e quindi in genere il principio di ragione, perché
questo non è se non la forma di tutti gli oggetti, il modo
costante del loro apparire. Ma l'oggetto già presuppone
sempre il soggetto: fra i due non può adunque sussistere
alcun rapporto di causa ed effetto. Il mio scritto sul principio di
ragione mira appunto a questo, a esporre il contenuto di quel
principio come la forma essenziale di ogni oggetto, ossia come il
modo universale di ogni esistenza oggettiva, come qualcosa che
appartiene in proprio all'oggetto in quanto è tale; ma in
quanto è tale, l'oggetto presuppone ognora il soggetto come
suo necessario correlato: questo rimane perciò sempre fuori
del dominio in cui ha valore il principio di ragione. La contesa
sulla realtà del mondo esterno si fonda appunto su quella
falsa estensione di valore data al principio di ragione fino a
comprendere anche il soggetto; e muovendo da questo equivoco non
potè mai chiarirsi. Da un lato il dogmatismo realistico,
considerando la rappresentazione come effetto dell'oggetto, vuole
separare queste due cose – rappresentazione ed oggetto – che sono
invece una cosa sola, ed ammettere una causa affatto differente
dalla rappresentazione, un oggetto in sé indipendente dal
soggetto: qualcosa del tutto inconcepibile perché appunto
come oggetto presuppone sempre il soggetto e sempre rimane
perciò una semplice rappresentazione di questo. Al dogmatismo
realistico lo scetticismo oppone, con la stessa falsa premessa, che
nella rappresentazione si ha sempre unicamente l’effetto, mai la
causa, perciò non si conosce mai l'essenza, ma soltanto
l'azione degli oggetti. L'azione poi potrebbe forse non avere alcuna
analogia con l’essenza; anzi in genere sarebbe questa analogia
un’opinione del tutto falsa, poiché la legge di
causalità non è ricavata che dalla esperienza, la cui
realtà alla sua volta dovrebbe poi poggiare su quella legge.
Ora a questo proposito conviene ad entrambe le dottrine
l’ammonimento, in primo luogo, che oggetto e rappresentazione sono
tutt'uno; poi, che l'essenza degli oggetti intuibili è
appunto la loro azione; che proprio nell’azione consiste la
realtà dell'oggetto, e la pretesa di un esistenza
dell'oggetto fuori della rappresentazione del soggetto, e anche di
un'essenza della cosa reale diversa dalla sua azione non ha senso di
sorta, anzi è una contraddizione; che per conseguenza il
conoscimento del modo d'agire d'un oggetto intuito lo esaurisce, in
quanto è oggetto, ossia rappresentazione, perché
all'infuori di ciò nulla rimane in esso per la conoscenza.
Sotto questo rispetto adunque il mondo intuito nello spazio e nel
tempo, il mondo che si manifesta come pura causalità,
è pienamente reale, ed è in tutto come esso si
dà: e si dà intero e senza riserve come
rappresentazione, disposta secondo la legge di causalità.
Questa è la sua realtà empirica. Ma d'altro lato ogni
causalità è soltanto nell'intelletto e per
l'intelletto; quindi tutto quel mondo reale, ossia attivo, è
come tale condizionato ognora dall'intelletto, e non è nulla
senza di questo. E non solo per tale motivo, ma perché
generalmente non si può, a meno di cadere in contraddizione,
pensare un oggetto senza soggetto, al dogmatico che spiega la
realtà del mondo esterno con la sua indipendenza dal soggetto
noi dobbiamo negare francamente codesta realtà. L'intero
mondo degli oggetti è e rimane rappresentazione, e appunto
perciò in tutto ed eternamente relativo al soggetto: ossia ha
una idealità trascendentale. Tuttavia il mondo non è
per questo né menzogna né illusione: si dà per
quello che è, come rappresentazione, e precisamente come una
serie di rappresentazioni, il cui vincolo comune è il
principio di ragione. Come tale esso è comprensibile, fin nel
suo senso più intimo, da un intelletto sano, e gli parla una
lingua che questi comprende pienamente. Soltanto ad uno spirito
contorto dal sofisticare può venir l'idea di contendere sulla
realtà del mondo; il che sempre accade per una inesatta
applicazione del principio di ragione, il quale collega, è
vero, tutte le rappresentazioni di qualsiasi specie fra loro, ma non
mai collega quelle col soggetto, o con qualcosa che non sia
né soggetto né oggetto, ma solo ragione dell'oggetto:
uno sproposito, perché soltanto oggetti possono essere cause,
e cause sempre di altri oggetti. Se andiamo a investigare più
attentamente l'origine di questo problema della realtà del
mondo esterno, troviamo che oltre quel falso riferimento del
principio di ragione a ciò che sta fuori del suo dominio, si
aggiunge ancora una speciale confusione delle sue forme: ossia la
forma ch'esso assume esclusivamente riguardo ai concetti o
rappresentazioni astratte, viene trasportata alle rappresentazioni
intuitive, agli oggetti reali, e si pretende una ragione di
conoscenza da oggetti che non possono avere se non una ragione di
divenire. Imperocché sulle rappresentazioni astratte, sui
concetti collegati in giudizi, domina il principio di ragione
siffattamente, che ciascuno di quelli ha il suo valore, la sua
portata, la sua intera esistenza – chiamata qui verità –
esclusivamente mediante la relazione del giudizio con qualcosa che
ne sta fuori, ossia il suo principio di conoscenza; al quale bisogna
dunque sempre far capo. Sugli oggetti reali invece, sulle
rappresentazioni intuitive, il principio di ragione non domina come
principio di ragione della conoscenza, ma del divenire, come legge
di causalità: ciascuno di quegli oggetti gli ha già
pagato il suo debito pel fatto che è divenuto, ossia è
stato prodotto come effetto da una causa: la pretesa d'un principio
di conoscenza non ha dunque qui nessun valore e nessun senso,
bensì appartiene a tutt'altra classe di oggetti.
Perciò il mondo dell'intuizione non suscita, finché si
rimane nei suoi confini, né scrupolo né dubbio in chi
l'osserva: qui non v'ha né errore né verità;
che sono confinati nel dominio dell'astratto, della riflessione. Qui
invece sta il mondo aperto ai sensi ed all'intelletto, dandosi con
ingenua verità per ciò che è, per una
rappresentazione intuitiva che legittimamente si svolge sul filo
della causalità.
Il problema della realtà del mondo esterno, come l'abbiamo
considerato finora, era sempre generato da uno smarrimento della
ragione che andava fino a misconoscere se stessa, e sotto questo
rispetto il problema era da risolvere con la semplice dilucidazione
del suo contenuto. Dopo investigata tutta l'essenza del principio di
ragione, la relazione fra oggetto e soggetto e la vera natura
dell'intuizione sensitiva, esso doveva cadere da sé, appunto
perché non gli rimaneva più alcun significato. Ma il
problema ha ancora un'altra origine, affatto diversa da quella,
tutta speculativa, indicata finora: un'origine propriamente
empirica, sebbene essa anche in questa forma sia ancor sempre messa
in campo con intendimenti speculativi. Ed esso ha in questo senso un
significato molto più intelligibile che in quel primo,
venendo a formularsi così: noi abbiamo sogni; non è
forse tutta la vita un sogno? – o più precisamente: non
c'è un criterio sicuro per distinguere sogno e realtà,
fantasmi ed oggetti reali? – L'addurre la minor vivacità e
chiarezza del sogno in confronto dell'intuizione reale non merita
alcuna considerazione, perché nessuno finora ha avuto
presenti contemporaneamente l'uno e l'altro per confrontarli, ma
soltanto il ricordo del sogno si poteva confrontare con la
realtà presente. Kant scioglie il problema così:
«II rapporto delle rappresentazioni fra di loro secondo la
legge di causalità distingue la vita dal sogno». Ma
anche nel sogno ciascun particolare dipende egualmente in tutte le
sue forme dal principio di ragione, e questo rapporto si spezza
soltanto fra la vita e il sogno e fra i singoli sogni. La risposta
di Kant potrebbe quindi suonare soltanto così: il lungo sogno
(la vita) ha connessione costante in sé secondo il principio
di ragione, ma non l'ha coi sogni brevi; sebbene ciascuno di questi
abbia in sé la stessa connessione; fra questi e quello
è adunque rotto il ponte, e in base a ciò vengono
distinti. Tuttavia l'intraprendere una investigazione secondo questo
criterio, per sapere se qualcosa sia sognato o veramente accaduto,
sarebbe assai difficile e spesso impossibile; perché non
siamo in alcun modo in grado di seguire anello per anello la
concatenazione causale fra quella circostanza passata e il momento
presente, e tuttavia non possiamo per questo affermare che sia un
sogno. Quindi nella vita reale, per distinguere sogno da
realtà, non ci si serve ordinariamente di quel modo
d'investigazione. Il solo criterio sicuro per distinguere il sogno
dalla realtà è in verità quello affatto
empirico del risveglio, col quale infatti la concatenazione causale
fra le circostanze sognate e quelle della vita cosciente viene
espressamente e sensibilmente rotta. Un ottimo esempio di ciò
è fornito dall'osservazione che fa Hobbes nel Leviathan, cap.
2, che cioè allora noi teniamo facilmente i sogni per
realtà, anche dopo il risveglio, quando senza farlo di
proposito abbiamo dormito vestiti; ma soprattutto quando si aggiunge
che un'impresa o un proposito assorbe tutti i nostri pensieri e ci
occupa nel sogno come nella veglia: perché in questi casi il
risvegliarsi viene avvertito quasi tanto poco quanto
l'addormentarsi, il sogno confluisce nella realtà e si
confonde con questa. Allora non rimane in verità altro che
l'applicazione del criterio kantiano: ma se poi, come spesso accade,
in nessun modo può venire scoperto il nesso causale col
presente, oppure la sua mancanza, in tal caso deve per sempre
rimaner dubbio se un fatto sia sognato o accaduto. Qui in
verità ci salta agli occhi la stretta parentela fra vita e
sogno: e non ci vergogneremo di confessarla, dopo che è stata
riconosciuta e dichiarata da molti grandi spiriti. I Veda ed i
Purana per l'intera conoscenza del mondo reale, che essi chiamano il
velo di Maya, non conoscono miglior paragone né altro usano
più di frequente, che quello del sogno. Platone dice spesso
che gli uomini non vivono che in sogno, e il solo filosofo
s'affatica a svegliarsi. Pindaro dice (ii, η, 135): σχιας οναρ
ανθρωπος [umbrae somnium homo] e Sofocle:
Ὅρω γαρ ἡμας ουδεν οντας αλλο, πλην
Ειδωλ’, ὁσοιπερ ζωμεν, η χουφην
σχιαν.
Ajax 125,
[Nos enim, quicumque vivimus, nihil aliud esse comperio, quam
simulacra et levem umbram.]
Accanto ai quali sta più degnamente di tutti Shakespeare:
We are such stuff
As dreams are made on, and our little life
Is rounded with a sleep.
Temp., a. 3, sc. 110.
Finalmente era Calderon così profondamente preso da questo
pensiero, che cercò di esprimerlo in un dramma in certo modo
metafisico, La vita è sogno.
Dopo tutti questi passi di poeti sia ora anche a me concesso di
esprimermi con un paragone. La vita e i sogni sono pagine di uno
stesso libro. La lettura continuata si chiama vita reale. Ma quando
l'ora abituale della lettura (il giorno) viene a finire e giunge il
tempo del riposo, allora noi spesso seguitiamo ancora fiaccamente,
senza ordine e connessione, a sfogliare or qua or là una
pagina: spesso è una pagina già letta, spesso un'altra
ancora sconosciuta, ma sempre dello stesso libro. È vero che
una pagina letta così isolatamente è senza connessione
con la lettura ordinata: tuttavia non sta molto indietro a questa,
se si pensa che anche il complesso della lettura ordinata comincia e
finisce egualmente all'improvviso, e si deve quindi considerare come
un'unica pagina più lunga.
Sebbene adunque i singoli sogni siano distinti dalla vita reale per
questo, che non entrano nella connessione della esperienza,
connessione che si prosegue costante nella vita, e il risveglio
riveli questa differenza; tuttavia appunto quella connessione
dell'esperienza appartiene già come sua forma alla vita
reale, ed anche il sogno ha da palesare egualmente una connessione,
che è a sua volta in se stesso. Ora, se per giudicare si
prende un punto di vista fuori d'entrambi, non si trova nella loro
essenza alcuna distinzione precisa, e si è costretti a
concedere ai poeti, che la vita sia un lungo sogno.
Volgendoci ora da questa origine empirica, di per sé stante,
del problema circa la realtà del mondo esteriore, per tornare
alla sua origine speculativa, abbiamo bensì trovato che
questa si fonda primamente sulla falsa applicazione del principio di
ragione (ossia nel vederlo anche fra soggetto e oggetto) e poi
ancora sulla confusione delle sue forme, ossia sul fatto che il
principio di ragione della conoscenza veniva trasportato nel dominio
dove vige il principio di ragione del divenire: ma tuttavia
difficilmente quel problema avrebbe potuto occupar così a
lungo i filosofi, se fosse del tutto senza vero contenuto, e non si
celasse nel suo intimo, come vera origine di esso, un qualche
pensiero e senso giusto – del quale si dovesse poi ammettere che,
penetrando nella riflessione e cercando la propria espressione,
fosse degenerato in quelle assurde, incomprensibili forme e
quistioni. Così è veramente, secondo io penso: e come
pura espressione di quell'intimo senso finora inafferrabile del
problema, io pongo la domanda: Che cosa è questo mondo
dell'intuizione, oltre ad essere la mia rappresentazione? Il mondo
di cui io sono conscio in un solo modo, cioè come
rappresentazione, non sarebbe, analogamente al mio proprio corpo, di
cui sono conscio in duplice modo, da un lato rappresentazione,
dall'altro volontà? La chiara spiegazione e la risposta
affermativa a questa domanda formerà il contenuto del secondo
libro; e le conclusioni che ne derivano occuperanno il resto
dell'opera.
§ 6.
Frattanto consideriamo per ora in questo primo libro il tutto come
semplice rappresentazione, come oggetto per il soggetto: e come ogni
altro oggetto reale, guardiamo anche il nostro corpo, dal quale in
ciascuno muove l'intuizione del mondo, sotto il solo rispetto della
conoscibilità; per il quale è anch'esso una semplice
rappresentazione. È vero che la coscienza comune, la quale
già si rivoltava contro il dichiarar pure rappresentazioni
gli altri oggetti, ancor più si ribella quando il proprio
corpo dev'essere nient'altro che una rappresentazione; il che
proviene dal fatto che ad ognuno la cosa in sé è
conosciuta immediatamente in quanto si manifesta come il suo proprio
corpo, e solo mediatamente, in quanto viene oggettivata negli altri
oggetti dell'intuizione. Ma l'andamento della nostra ricerca rende
necessaria questa astrazione, questa maniera di considerazione
unilaterale, questa violenta separazione di ciò che
sostanzialmente è insieme connesso: perciò quella
riluttanza dev'essere provvisoriamente soffocata e tranquillata
dall'attesa che le considerazioni seguenti compiano
l'unilateralità della presente, per venire alla piena
cognizione dell'essenza del mondo.
Il corpo è adunque qui per noi oggetto immediato, ossia
quella rappresentazione, che serve di punto di partenza al
conoscimento da parte del soggetto, per ciò che essa, con le
sue modificazioni immediatamente percepite, precede l'applicazione
del principio di causalità e fornisce a questo i primi dati.
Tutta l'essenza della materia consiste, come s'è dimostrato,
nella sua attività. Ma causa ed effetto esistono solamente
per l'intelletto, come quello che non è altro se non il loro
correlato soggettivo. L'intelletto tuttavia non potrebbe mai
pervenire all'applicazione, se non vi fosse qualcos'altro da cui
esso muove. Questa cosa è la sensazione semplice, la
coscienza immediata delle modificazioni del corpo, per la quale il
corpo è oggetto immediato. La possibilità della
conoscenza del mondo dell'intuizione noi la troviamo dunque in due
condizioni. La prima è, se l'esprimiamo oggettivamente,
l'attitudine dei corpi ad agire l'uno sull'altro, producendo
reciproche modificazioni; senza la qual generale proprietà di
tutti i corpi anche mediante la sensibilità dei corpi animali
non sarebbe punto possibile alcuna intuizione. Ma se vogliamo
esprimer soggettivamente questa stessa prima condizione, diciamo:
l'intelletto anzitutto rende possibile l'intuizione: perché
soltanto da esso procede e per esso soltanto vige la legge di
causalità, la possibilità di causa ed effetto; e
soltanto per esso e mediante esso esiste quindi il mondo
dell'intuizione. La seconda condizione è invece la
sensibilità dei corpi animali, ossia la proprietà che
certi corpi hanno, di essere oggetti immediati del soggetto. Ora le
semplici modificazioni che subiscono gli organi dei sensi mediante
l'azione esterna specificamente adatta ad essi, sono invero
già da chiamare rappresentazioni, fin quando codeste azioni
non producono né dolore né piacere, ossia non hanno
alcun significato per la volontà, e tuttavia vengono
percepite; quindi esistono solo per la conoscenza. In questo senso
dunque io dico che il corpo è conosciuto immediatamente,
è oggetto immediato. Nondimeno il concetto di oggetto non va
qui preso in senso proprio: poiché mediante questa immediata
conoscenza del corpo, la quale precede l'applicazione
dell'intelletto ed è pura sensazione, non il corpo esiste
precisamente come oggetto, bensì soltanto i corpi che
agiscono su di esso; essendo che ogni conoscenza di un vero e
proprio oggetto, ossia di una rappresentazione percettibile nello
spazio, può esistere unicamente mediante e per l'intelletto –
quindi non prima, bensì appena dopo l'applicazione di questo.
Quindi il corpo come vero e proprio oggetto, ossia come
rappresentazione intuibile nello spazio, vien conosciuto solo
mediatamente, al modo di tutti gli altri oggetti, per mezzo
dell'applicazione della legge di causalità all'azione di una
delle sue parti sulle altre, quando, per esempio, l'occhio vede il
corpo, o la mano lo tocca. Conseguentemente la forma del nostro
corpo non ci è nota per mezzo della semplice
sensibilità generale; bensì solo per mezzo della
conoscenza, solo nella rappresentazione; ossia solo nel cervello il
nostro corpo viene rappresentato come un che di esteso, di
articolato, di organico. Un cieco nato non riceve questa
rappresentazione che a poco a poco, per mezzo dei dati che il tatto
gli fornisce; un cieco senza mani non conoscerebbe mai la propria
forma, o al più la ricaverebbe e costruirebbe gradualmente
dall'azione di altri corpi su di lui. Con questa restrizione bisogna
adunque intendere, quando chiamiamo il corpo oggetto immediato.
Per altro, in conseguenza di ciò che si è detto, tutti
i corpi animati sono oggetti immediati, ossia punto di partenza per
l'intuizione del mondo, da parte del soggetto che tutto conosce e
appunto perciò non è mai conosciuto. Il conoscere, col
muoversi secondo motivi determinati dalla conoscenza, è
quindi il carattere proprio dell'animalità, come il movimento
per effetto di stimoli è il carattere della pianta: i corpi
inorganici invece non hanno altri movimenti che quelli prodotti da
vere e proprie cause nel senso più stretto. Ho spiegato
più ampiamente tutto ciò nello scritto sul principio
di ragione, 2a ed. (§ 20), nell'Etica, prima dissert. (§
3), e in Sulla vista e i colori (§ 1); ai quali luoghi rinvio
il lettore.
Da ciò che ho detto risulta che tutti gli animali hanno
intelletto, anche i più imperfetti: perché tutti
conoscono oggetti, e questa conoscenza determina come motivo i loro
movimenti. L'intelletto è in tutti gli animali e in tutti gli
uomini il medesimo, ha sempre la stessa semplice forma: conoscenza
della causalità, passaggio dall'effetto alla causa e dalla
causa all'effetto, e nient'altro. Ma i gradi della sua acutezza e
l'estensione della sua sfera conoscitiva sono estremamente diversi,
variati e in più modi sviluppati: dal grado più basso,
che conosce soltanto il rapporto causale fra l'oggetto immediato e
il mediato, bastando così appena, col passaggio dall'azione
che il corpo subisce alla causa di essa, a intuire questa come
oggetto nello spazio; fino ai gradi più alti della conoscenza
del nesso causale dei semplici oggetti mediati fra loro – conoscenza
che va fino a intendere le più complicate concatenazioni di
cause ed effetti nella natura. Perché quest'ultima
capacità appartiene ancor sempre all'intelletto, non alla
ragione; i cui concetti astratti servono ad accogliere, fissare e
collegare ciò che è stato inteso immediatamente, ma
non mai a produrre l'intendimento medesimo. Ogni forza e ogni legge
della natura, ogni caso in cui quelle si manifestano, deve essere
immediatamente conosciuto dall'intelletto, afferrato intuitivamente,
prima di entrare in abstracto per la ragione nella coscienza
riflessa. Intuitiva, immediata comprensione mediante l'intelletto fu
la scoperta fatta da R. Hookes della legge di gravitazione, e il
ricondurre tanti grandi fenomeni a quest'unica legge, come poi
confermarono i calcoli di Neuton11; tale fu anche per Lavoisier la
scoperta dell'ossigeno e della sua importante funzione nella natura;
tale per Goethe la scoperta del modo di formazione dei colori
naturali. Tutte queste scoperte non sono altro che un esatto,
immediato risalir dall'effetto alla causa, cui tosto segue il
riconoscimento dell'identità della forza naturale
manifestantesi in tutte le cause dello stesso genere: e questa
intera penetrazione è un atto, diverso soltanto nel grado,
della medesima ed unica funzione dell'intelletto, per cui anche un
animale intuisce come oggetto nello spazio la causa agente sul suo
corpo. Perciò anche tutte quelle grandi scoperte sono,
proprio come l'intuizione e ogni manifestazione dell'intelletto, una
penetrazione immediata, e, come tali, l'opera di un attimo, un
appergu, un'idea improvvisa, e non il prodotto di lunghe deduzioni
in abstracto; le quali ultime servono invece a fissare per la
ragione, deponendola nei suoi concetti astratti, l'immediata
conoscenza intellettiva, ossia a mettersi in grado di spiegarla,
dichiararla ad altri. Quell'acume dell'intelletto nell'afferrare le
relazioni causali dell'oggetto conosciuto immediatamente, trova la
sua applicazione non solo nella scienza naturale (che gli deve tutte
le sue scoperte), ma anche nella vita pratica, dove prende il nome
di avvedutezza; mentre invece nel primo uso vien meglio chiamato
acutezza, penetrazione e sagacità: in senso preciso,
avvedutezza indica esclusivamente l'intelletto che sta al servizio
della volontà. Tuttavia i limiti di questi concetti non
devono esser tracciati troppo recisamente, perché si tratta
sempre di un'unica funzione del medesimo intelletto che opera in
ogni animale con l'intuizione degli oggetti nello spazio. Questa nel
suo più alto grado ora investiga rettamente nei fenomeni
della natura la causa ignota, partendo da un dato effetto, e
dà così alla ragione la materia per escogitar regole
universali, come leggi della natura; ora, con l'impiego di cause
conosciute per fini prestabiliti, inventa complicate, ingegnose
macchine; ora, applicandosi alla motivazione, o penetra e rende vani
sottili intrighi e macchinazioni, oppure quegli stessi motivi e gli
uomini, che a ciascuno di essi sono sensibili, dispone
convenientemente e mette in moto a suo piacere come macchine mosse
da leve e ruote, guidandoli ai suoi fini. Mancanza d'intelletto si
chiama in senso proprio stupidità, ed è appunto
ottusità dell'applicazione della legge causale,
incapacità d'afferrare immediatamente le concatenazioni di
causa ed effetto, motivo ed azione. Uno sciocco non vede il nesso
dei fenomeni naturali, né dove si presentano abbandonati a se
stessi, né dove sono diretti intenzionalmente, ossia
utilizzati nelle macchine: perciò crede volentieri ad arte
magica ed a miracoli. Uno sciocco non osserva che diverse persone,
in apparenza indipendenti le une dalle altre, in realtà
agiscono secondo un accordo prestabilito, e perciò si lascia
facilmente mistificare e raggirare; non osserva i celati motivi di
consigli dati, di giudizi espressi, e così via. Questo solo
gli manca costantemente: acume, sveltezza, facilità
nell'applicare la legge di causalità, ossia gli manca la
forza dell'intelletto. Il maggiore, e per l'argomento che ci occupa
più istruttivo esempio di stupidità, che mi sia mai
capitato, era un ragazzo di circa undici anni, del tutto idiota, al
manicomio: il quale aveva sì l'uso di ragione, perché
parlava ed ascoltava, ma per intelletto stava al di sotto di
più di un animale. Imperocché ogni volta ch'io venivo,
osservava un paio d'occhiali che portavo al collo e in cui si
riflettevano le finestre della stanza con le cime degli alberi
prospicienti: di ciò aveva ogni volta maraviglia e gioia
grande, né si stancava di contemplare con stupore;
perché non comprendeva questa causalità affatto
immediata del riflesso.
Come negli uomini sono assai differenti i gradi dell'acume
intellettuale, così fors'anche più differenti sono fra
le varie specie animali. Ma in tutte, e perfino in quelle che stanno
più vicine alla pianta, è tuttavia tanto intelletto
quanto basta per il passaggio dell'azione sull'oggetto immediato
all'oggetto mediato come causa: quanto basta dunque per
l'intuizione, per l'apprendimento di un oggetto; perché
l'intuizione appunto fa che siano animali, porgendo loro la
possibilità di muoversi secondo dati motivi e quindi di
cercare o almeno di ghermire il nutrimento. Le piante invece hanno
solo un moto prodotto da stimoli, di cui debbono attendere l'azione
diretta, oppure languire, senza poterne andare in traccia o
afferrarle. Negli animali più perfetti ammiriamo la grande
sagacia: per esempio nel cane, nell'elefante, nella scimmia, nella
volpe, la cui astuzia ha così magistralmente descritta il
Buffon. In questi animali più intelligenti possiamo con
sufficiente precisione misurare quanto possa l'intelletto senza
l'aiuto della ragione, ossia della conoscenza astratta per concetti;
in noi stessi non possiamo giudicar di questo egualmente,
perché in noi intelletto e ragione si sorreggono sempre a
vicenda. Perciò troviamo sovente le manifestazioni
d'intelligenza presso gli animali ora sopra ora sotto la nostra
aspettazione. Da un lato ci sorprende la sagacia di quell'elefante
il quale, dopo esser passato su molti ponti durante il suo viaggio
in Europa, si rifiuta un giorno di varcarne uno, sul quale vede
tuttavia passar come al solito la carovana di uomini e animali di
cui fa parte, sol perché gli sembra troppo leggermente
costruito per il suo peso; ma dall'altra parte ci meravigliamo che
gli intelligenti oranghi non alimentino, aggiungendovi legna, il
fuoco da essi trovato sul camino, al quale si scaldano: prova che
questo richiederebbe già una riflessione, la quale senza
concetti astratti è impossibile. Che il conoscimento di causa
ed effetto, come forma universale dell'intelletto, sia insito a
priori negli animali, è invero già pienamente sicuro
pel fatto che quel conoscimento è per essi, come per noi, la
condizione prima d'ogni conoscimento intuitivo del mondo esterno. Se
poi si vuole averne ancora una prova particolare, basti considerar
per esempio come finanche un giovanissimo cane non osi saltar
giù dalla tavola, per quanto desiderio ne abbia,
perché prevede l'effetto del peso del suo corpo; pur senza
aver prima sperimentato questa caduta. Nel giudicar l'intelletto
degli animali, noi dobbiamo tuttavia guardarci dall'attribuirgli
ciò che è manifestazione dell'istinto;
proprietà la quale, sebbene affatto diversa dall'intelletto,
com'anche dalla ragione, pure opera spesso in modo assai analogo
all'azione combinata dell'intelletto e della ragione. La spiegazione
di ciò non appartiene a questo luogo, ma troverà il
suo posto nel secondo libro, dove si tratta della armonia o
cosiddetta teleologia della natura; ed a tale spiegazione è
consacrato esclusivamente il 27° capitolo dei Supplementi12.
Mancanza d'intelletto si chiama stupidità; mancato impiego
della ragione nel campo pratico riconosceremo in seguito per
insania; così anche mancanza di giudizio, per scempiaggine; e
infine parziale o completa mancanza di memoria per follia. Ma d'ogni
cosa si tratterà a suo luogo. Ciò che dalla ragione
vien riconosciuto esatto è verità, ossia un giudizio
astratto con ragion sufficiente (Dissertazione sul principio di
ragione, § 29 sgg.): ciò che vien riconosciuto esatto
dall'intelletto è realtà, ossia legittimo passaggio
alla causa dall'effetto prodotto nell'oggetto immediato. Alla
verità si contrappone l'errore come inganno della ragione,
alla realtà l'illusione come inganno dell'intelletto.
L'illustrazione più ampia di tutto ciò è da
leggersi nel primo capitolo del mio scritto sopra la vista ed i
colori. Illusione si ha quando uno stesso effetto può esser
prodotto da due cause del tutto diverse, delle quali l'una agisce
molto spesso, e l'altra raramente: l'intelletto, che non ha alcun
dato per distinguere quale causa agisca in quel caso, poiché
l'effetto è proprio il medesimo, presuppone allora una volta
per tutte la causa più frequente; e non essendo la sua
attività riflessiva e discorsiva, ma diretta ed immediata,
quella falsa causa sta davanti a noi come oggetto intuito, il che,
appunto costituisce la falsa apparenza. Come sorga in questo modo la
doppia percezione visiva o tattile, quando gli organi sensorii sono
adoprati in una posizione non abituale, ho già mostrato nel
luogo citato; e appunto con ciò ho fornito una prova
indiscutibile del fatto che l'intuizione si ha solo mediante
l'intelletto e per l'intelletto. Esempi di questo inganno
dell'intelletto, o illusione, sono inoltre il bastone immerso
nell'acqua, che sembra spezzato; le immagini degli specchi sferici,
che se la superficie è convessa appariscono alquanto indietro
di questa, e se la superficie è concava appariscono davanti
alla superficie stessa, a una certa distanza. Qui anche va ricordata
la dimensione apparentemente maggiore della luna all'orizzonte che
allo zenith, non per effetto di ottica; perché, come dimostra
il micrometro, l'occhio vede anzi la luna allo zenith in un angolo
visuale alquanto più grande che all'orizzonte; ma per
l'intelletto, il quale attribuisce il più debole splendore
della luna e delle altre stelle sull'orizzonte ad una loro distanza
maggiore, considerandole secondo la prospettiva aerea come oggetti
terrestri; perciò ritiene la luna all'orizzonte molto
più grossa che allo zenith, e anche la volta celeste ritiene
più ampia all'orizzonte, quasi fosse più distesa. Lo
stesso falso apprezzamento dovuto alla prospettiva aerea ci fa
ritenere più vicine dal vero, con pregiudizio della loro
altezza, altissime montagne, di cui la sola vetta è a noi
visibile nella pura aria trasparente, come per esempio il Monte
Bianco visto da Salenche. E tutte queste illusioni ingannatrici
stanno davanti a noi come intuizione immediata, che non si
può allontanare per mezzo d'alcun ragionamento. Quest'ultimo
può solo impedir l'errore, ossia un giudizio senza ragion
sufficiente, contrapponendogli un giudizio esatto: come per esempio
il conoscere in abstracto che non la maggior distanza, bensì
i vapori più densi all'orizzonte sono cause del più
debole splendore della luna e delle stelle. Ma l'illusione
rimarrà incrollabile in tutti i casi citati, malgrado
qualsivoglia conoscenza astratta: perché l'intelletto
è completamente e nettamente separato dalla ragione –
facoltà conoscitiva aggiuntasi esclusivamente all'uomo – ed
è in se stesso a dir vero irragionevole anche nell'uomo. La
ragione non può che sapere: al solo intelletto, e libero
dall'influsso di quella, rimane l'intuizione.
§ 7.
Sul proposito di tutta la nostra precedente considerazione è
forse ancora da osservare quanto segue. In essa non abbiamo preso le
mosse né dall'oggetto né dal soggetto; bensì
dalla rappresentazione, la quale già li contiene e presuppone
entrambi; poiché la divisione in oggetto e soggetto è
la sua forma prima, più generale e più essenziale.
Abbiamo dunque dapprima considerato questa forma come tale, dipoi
(pur rinviando per la sostanza alla dissertazione introduttiva) le
altre forme a lei subordinate, tempo, spazio e causalità; le
quali appartengono soltanto all'oggetto. Ma poiché esse sono
essenziali a questo in quanto è tale, e l'oggetto a sua volta
è essenziale al soggetto in quanto soggetto, possono dal
soggetto stesso venir trovate, ossia conosciute a priori; e pertanto
sono da considerare come limite comune d'entrambi. Ma tutte si
lascian ricondurre ad una comune espressione – il principio di causa
– com'è ampiamente mostrato nella dissertazione introduttiva.
Ora, questo procedimento distingue affatto la nostra concezione
dalle filosofie tentate finora, come quelle che tutte partivano o
dall'oggetto o dal soggetto, e per conseguenza cercavano di spiegare
l'uno mediante l'altro, precisamente secondo il principio di
ragione, alla signoria del quale noi veniamo invece a sottrarre il
rapporto tra oggetto e soggetto, lasciandole solamente l'oggetto. Si
potrebbe considerar come non compresa nella suaccennata
contrapposizione di sistemi filosofici la filosofia della
identità, sorta a' nostri giorni e universalmente conosciuta;
in quanto questa non fa né l'oggetto né il soggetto il
vero e primo punto di partenza, bensì un terzo, l'Assoluto,
conoscibile mediante l'intuizione razionale; il quale non è
né oggetto né soggetto, ma identità di
entrambi. Sebbene io, per assoluta mancanza d'ogni intuizione
razionale, non presuma entrare a discorrere con gli altri della
suddetta venerabile identità e dell'assoluto, devo tuttavia
osservare, fondandomi sui protocolli aperti a tutti, anche a noi
profani, di coloro i quali sanno intuire razionalmente, che la detta
filosofia non va eccettuata dalla opposizione di due errori
più sopra esposta. Perché essa, malgrado
l'identità di soggetto e oggetto – identità che non
può esser pensata, ma solo intuita intellettualmente o
appresa mediante uno speciale assorbimento in lei – non evita
tuttavia quei due errori opposti, ma piuttosto li unisce in
sé, scindendosi ella medesima in due discipline: ossia in
primo luogo l'idealismo trascendentale, che è la teoria
fichtiana dell'io, e per conseguenza, secondo il principio di
ragione, fa venir l'oggetto fuori dal soggetto o svolto da questo
come un filo dalla rocca; e in secondo luogo la filosofia della
natura, che egualmente fa sviluppare a poco a poco il soggetto
dall'oggetto, con l'impiego di un metodo che vien chiamato
costruzione. Di questo ben poco m'è chiaro, ma abbastanza per
vedere che esso è un avanzar progressivo secondo il principio
di ragione in forme svariate. Alla profonda sapienza, che quella
filosofia contiene, rinunzio; poiché per me, cui manca del
tutto l'intuizione razionale, tutti quei discorsi che la
presuppongono devono essere un libro chiuso con sette suggelli. Il
che poi anche è vero in tal grado, che – strano a dirsi –
davanti alla profonda saggezza di quelle dottrine ho l'impressione
di non ascoltar nient'altro che spaventose e per di più
noiosissime fanfaronate.
I sistemi che prendevano le mosse dall'oggetto si ponevano invero
sempre come problema tutto il mondo dell'intuizione e il suo
ordinamento; ma l'oggetto, che essi stabiliscono come punto di
partenza, non è sempre quel mondo, o la materia, suo elemento
fondamentale: piuttosto si può fare una partizione di tali
sistemi conformemente alle quattro classi di oggetti possibili,
fissate nella dissertazione introduttiva. Si può dire
così che dalla prima di quelle classi, ossia dal mondo reale,
sono partiti: Talete e la scuola jonica, Democrito, Epicuro,
Giordano Bruno ed i materialisti francesi. Dalla seconda, ossia dal
concetto astratto: Spinoza (precisamente dal puro concetto astratto
di sostanza esistente soltanto nella sua definizione) e innanzi a
lui gli Eleati. Dalla terza classe, ossia dal tempo, e
conseguentemente dai numeri: i Pitagorici e la filosofia chinese
dell'I-king. Finalmente, dalla quarta classe, ossia dall'atto di
volontà motivato dalla conoscenza: gli scolastici, che
insegnano una creazione dal Nulla, mediante l'atto di volontà
di un essere personale fuori del mondo.
Il metodo obiettivo si può sviluppare con maggior conseguenza
e condur più lontano quando si presenta come vero e proprio
materialismo. Questo pone la materia, e con lei tempo e spazio, come
esistenti assolutamente, e trascura il rapporto col soggetto, senza
pensare che materia, tempo e spazio esistono solo in questo. Prende
poi per filo conduttore la legge di causalità, e con essa
vuole avanzare, considerandola come un ordine delle cose in
sé esistente, veritas aeterna; passando così sopra
all'intelletto, nel quale e per il quale esclusivamente esiste
causalità. Poi cerca di trovare il primo, più semplice
stato della materia, e quindi ricavare da esso gli altri, salendo
dal puro meccanismo al chimismo, alla polarità, alla
vegetazione, all'animalità: e supposto che ciò riesca,
ultimo anello della catena sarebbe la sensibilità animale, il
conoscere: che comparirebbe quindi a questo punto come una semplice
modificazione della materia, uno stato di questa prodotto dalla
causalità. Ora, se noi avessimo seguito fin là, con
rappresentazioni intuitive, il materialismo, appena giunti con esso
al suo vertice saremmo stati presi da un accesso del riso
inestinguibile degli Olimpi: accorgendoci d'un tratto, come
svegliati da un sogno, che il suo ultimo risultato così
faticosamente raggiunto – la conoscenza – era già presupposto
come condizione assoluta fin dal primissimo punto di partenza, dalla
semplice materia; e noi c'eravamo figurati di pensare col
materialismo la materia, mentre in realtà nient'altro avevamo
pensato che il soggetto, il quale rappresenta la materia, l'occhio
che la vede, la mano che la sente, l'intelletto che la conosce.
Così sarebbe venuta inaspettatamente a scoprirsi l'enorme
petitio principii: quando all'improvviso l'ultimo anello si fosse
presentato come il punto d'appoggio dal quale già pendeva il
primo, e la catena come un circolo; il materialista avrebbe
rassomigliato al Barone di Munchhausen, il quale, nuotando a cavallo
nell'acqua, con le gambe solleva il cavallo, e solleva se stesso
tirandosi pel codino della propria parrucca ripiegato sul davanti.
Perciò l'assurdità fondamentale del materialismo
consiste in questo, che parte dall'oggettivo, e un oggettivo prende
come termine: sia poi questo la materia, in abstracto, come essa
viene solamente pensata, o la materia data empiricamente, che
già ha preso forma, ossia la materia costitutiva, come per
esempio i corpi chimici semplici, con le loro combinazioni
più elementari. Cotali cose prende il materialismo come
esistenti in sé e assolutamente, per farne scaturire la
natura organica e infine il soggetto conoscente, dando con
ciò piena spiegazione di quella e di questo – mentre in
realtà ogni elemento oggettivo, già in quanto tale, ha
in varia maniera per condizione il soggetto conoscente, secondo le
forme della sua conoscenza, e quelle forme presuppone; sì che
svanisce del tutto, se si toglie di mezzo il soggetto. Il
materialismo è adunque il tentativo di spiegar ciò che
ci è dato immediatamente con ciò che ci è dato
mediatamente. Tutto l'oggettivo, l'esteso, l'agente, cioè
tutta la materialità, che dal materialismo è ritenuta
così solido fondamento delle sue spiegazioni da non potersi
più altro desiderare dopo essere stati ricondotti a quella
(massimamente se mette capo da ultimo alla legge di azione e
reazione), tutto questo, dico io, è qualcosa che è
dato più che mediatamente e condizionatamente, sì da
avere un'esistenza appena relativa: perché è passato
attraverso il meccanismo e la fabbricazione del cervello, e
penetrato così nelle forme di questo, tempo, spazio,
causalità; in grazia delle quali comincia a presentarsi come
esteso nello spazio ed agente nel tempo. Con un tal dato pretende il
materialismo di spiegare persino il dato immediato ossia la
rappresentazione (in cui quello è tutto compreso) e
finalmente la volontà stessa, con la quale piuttosto sono in
realtà da spiegare tutte quelle forze elementari che si
manifestano legittimamente, seguendo il filo conduttore delle cause.
All'affermazione, che il conoscere sia modificazione della materia,
si contrappone sempre con egual diritto l'altra, che ogni materia
non è se non modificazione del conoscere nel soggetto, come
rappresentazione di questo. Nondimeno il fine e l'ideale di tutta la
scienza della natura è una compiuta attuazione del
materialismo. Ora, l'opinione che riconosce questo come palesemente
impossibile è confermata da un'altra verità, che
sarà per risultare dal seguito della nostra indagine: che
cioè nessuna scienza nel significato preciso della parola –
con la quale io intendo la conoscenza sistematica secondo il
principio di ragione – può raggiungere una mèta finale
né una spiegazione che soddisfi del tutto; perché non
coglie mai la più intima essenza nel mondo, né mai
può andare oltre la rappresentazione; bensì piuttosto
null'altro insegna, in fondo, che il rapporto d'una rappresentazione
con l'altra.
Ciascuna scienza parte sempre da due dati fondamentali. Di questi,
l'uno è costantemente il principio di ragione, in una forma
qualsiasi come organo; l'altra, il suo oggetto particolare, come
problema. Così ad esempio la geometria ha per problema lo
spazio, e come organo il principio d'esistenza nello spazio;
l'aritmetica ha come problema il tempo, e il principio dell'essere
nel tempo come organo; la logica ha per problema il collegamento dei
concetti come tali, e per organo il principio di conoscenza; la
storia ha come problema i fatti accaduti agli uomini nel loro
complesso, e il principio di motivazione come organo; la scienza
naturale infine ha la materia come problema, e come organo la legge
di causalità. Sua mèta e suo scopo è quindi
ricondurre l'uno all'altro e finalmente ad uno stato unico, seguendo
il filo conduttore della causalità, tutti i possibili stati
della materia; poi viceversa dedurli gli uni dagli altri, e alla
fine da un unico stato. Due stati si trovano adunque come estremi
nella storia naturale: lo stato in cui la materia è nel minor
grado, e quello in cui essa è nel maggior grado oggetto
immediato del soggetto: ossia la bruta, inerte materia, la materia
primitiva, da una parte; e dall'altra l'organismo umano. La scienza
naturale in quanto è chimica studia la prima, in quanto
fisiologia il secondo. Ma finora questi due estremi non sono stati
raggiunti, e s'è conquistato solo qualche punto fra di essi.
Anzi, le prospettive sono alquanto disperate. I chimici, in base
alla premessa che la divisibilità qualitativa della materia
non vada all'infinito come la quantitativa, cercano di ridurre
sempre più il numero dei suoi corpi semplici, che sono ancora
circa 60: e li avessero pure ridotti a due: ancora vorrebbero
ricondur questi due ad uno solo. Imperocché la legge
d'omogeneità conduce alla ipotesi di un primo stato chimico
della materia, che solo appartiene alla materia in quanto tale, ed
ha preceduto tutti gli altri, come quelli che alla materia in quanto
materia non sono essenziali, bensì appaiono forme e
qualità casuali di essa. Per altro non si riesce a vedere
come un tale stato, non essendovene un secondo in grado di agire su
di esso, abbia potuto subire una trasformazione chimica; dal che
nasce qui nel campo chimico il medesimo imbarazzo in cui cadde in
fatto di meccanica Epicuro, quand'ebbe da mostrare come il primo
atomo fosse deviato dalla direzione originaria del suo moto. Questa
contraddizione, che sorge di per se stessa e non si può
né impedire né risolvere, potrebbe benissimo esser
presentata come un'antinomia chimica: e come essa si trova qui al
primo dei due estremi della scienza naturale, così
verrà a mostrarsi all'altro estremo una contraddizione
corrispondente. Altrettanto poca speranza v'ha di raggiungere
quest'altro estremo; perché sempre più si comprende
che non può un fenomeno chimico essere ricondotto ad un
fenomeno meccanico, né un fenomeno organico ad un fenomeno
chimico o elettrico. E coloro che oggi s'incamminano di nuovo per
questo sentiero fallace dovranno ben presto ritrarsene quatti
quatti, come tutti i loro predecessori. Di ciò sarà
fatto più ampio discorso nel libro seguente. Le
difficoltà qui ricordate di sfuggita si oppongono alla
scienza naturale nel suo stesso territorio. Presa come filosofia,
ella sarebbe inoltre materialismo: ma questo porta fin dalla
nascita, come abbiamo veduto, la morte nel cuore, perché
passa sopra al soggetto e alle forme della conoscenza; le quali
nondimeno vanno premesse tanto per la più bruta materia, da
cui il materialismo vorrebbe muovere, quanto per la materia
organica, a cui vuol pervenire. Imperocché «nessun
oggetto senza soggetto» è il principio, che rende per
sempre impossibile ogni materialismo. Sole e pianeti, senza un
occhio che li veda e un intelletto che li conosca, si possono
bensì esprimere a parole: ma queste parole sono per la
rappresentazione un sideroxylon. È vero d'altra parte che la
legge di causalità e l'osservazione e la ricerca della
natura, che su quella si fonda, ci conducono necessariamente alla
certezza che ogni più perfetto stato organico della materia
ha seguito nel tempo uno stato più grossolano: che
cioè gli animali sono comparsi prima degli uomini, i pesci
prima degli animali terrestri, le piante anche prima dei pesci, la
materia inorganica prima della organica; che quindi la materia
primitiva ha dovuto traversare una lunga serie di modificazioni,
innanzi che il primo occhio si aprisse. E tuttavia l'esistenza del
mondo intero rimane sempre dipendente da questo primo occhio che si
è aperto – fosse pure stato l'occhio di un insetto – come
dall'indispensabile intermediario della conoscenza, per la quale e
nella quale esclusivamente il mondo esiste, e senza la quale esso
non può nemmeno essere pensato: perché il mondo
è semplicemente rappresentazione; e tale essendo, abbisogna
del soggetto conoscente come fondamento della sua esistenza. Anzi,
quella medesima lunga successione di tempi, riempita da innumerevoli
trasformazioni, attraverso cui la materia si elevò di forma
in forma fino all'avvento del primo animale conoscente, può
esser pensata soltanto nell'identità di una coscienza: di cui
essa costituisce la serie delle rappresentazioni e la forma della
conoscenza. Senza quest'identità, tale successione perde ogni
senso e non è più nulla. Così vediamo da un
lato l'esistenza del mondo intero dipendere di necessità dal
primo essere conoscente, per quanto sia quest'ultimo ancora
imperfetto; e dall'altro lato con la stessa necessità questo
primo animale conoscente dipendere in tutto e per tutto da una lunga
catena anteriore di cause e di effetti, alla quale esso viene ad
aggiungersi come un piccolo anello. Queste due opposte vedute, a
ciascuna delle quali siamo invero condotti da una pari
necessità, si potrebbero dire anch'esse un'antinomia nella
nostra facoltà conoscitiva, e porre a riscontro
dell'antinomia trovata alla prima estremità della scienza
naturale; mentre la quadrupla antinomia di Kant sarà
dimostrata una inconsistente illusione nella critica della filosofia
kantiana che fa da appendice all'opera presente. La contraddizione
che qui da ultimo ci è necessariamente risultata si risolve
tuttavia osservando che, per parlare nel linguaggio di Kant, tempo,
spazio e causalità non appartengono alla cosa in sé,
bensì esclusivamente al suo fenomeno, del quale essi sono
forma; il che nel linguaggio mio viene a dire che il mondo
oggettivo, il mondo come rappresentazione non è l'unico,
bensì è uno degli aspetti, anzi l'aspetto esteriore
del mondo; il quale ha poi un tutt'altro aspetto, che è la
sua intima essenza, il suo nocciolo, la cosa in sé: e questo
noi esamineremo nel libro seguente, dandogli il nome della
più immediata fra le sue oggettivazioni – volontà. Ma
il mondo come rappresentazione, il solo che qui consideriamo,
comincia veramente dall'aprirsi del primo occhio, senza il quale
mezzo della conoscenza esso non può esistere, e quindi non
esisteva anteriormente. Ma senza quell'occhio, ossia senza la
conoscenza, non c'era neppure nulla di anteriore, non c'era il
tempo. Tuttavia non per ciò il tempo ha un principio, essendo
invece ogni principio in esso: ma poi che il tempo è la forma
più generale della conoscenza, in cui tutti i fenomeni
vengono a connettersi mediante il vincolo della causalità,
anche il tempo comincia ad esistere, in tutta la sua bilaterale
infinità, con la prima conoscenza. Il fenomeno che riempie
questo primo presente deve esser conosciuto come causalmente
collegato e dipendente da una serie di fenomeni, che si stende
all'infinito nel passato; il qual passato tuttavia è
anch'esso altrettanto sotto condizione di questo primo presente,
come viceversa questo di quello. Sicché, come il primo
presente, anche il passato da cui esso deriva dipende dal soggetto
conoscente e non è nulla senza di questo. Tuttavia il passato
genera la necessità, che questo primo presente non apparisca
come veramente primo, ossia come principio del tempo, senz'avere
alcun passato per padre, bensì come seguito del passato,
secondo il principio d'esistenza nel tempo. E così anche il
fenomeno che lo riempie apparirà come effetto di stati
anteriori, che riempivano quel passato secondo la legge di
causalità. Chi ama le sottigliezze simboliche della mitologia
può considerare come l'immagine del momento qui
rappresentato, in cui principia il tempo, che tuttavia non ha
principio, la nascita di Kronos (χρόονος‘) il più giovine
titano; col quale, avendo egli evirato il padre, cessano i mostruosi
prodotti del cielo e della terra, e viene in iscena la razza degli
dèi e degli uomini.
Questa esposizione, nella quale siamo venuti seguendo le tracce del
più conseguente fra i sistemi filosofici che prendono le
mosse dall'oggetto – il materialismo, – serve nello stesso tempo a
fare intuire l'indissolubile dipendenza reciproca, accompagnata da
un'opposizione indistruttibile, fra soggetto ed oggetto; la qual
conoscenza è di guida a cercare l'intima essenza del mondo,
la cosa in sé, non più in uno di quei due elementi
della rappresentazione, ma piuttosto in alcunché di affatto
diverso dalla rappresentazione, che non sia partecipe di tale
originaria, essenziale e quindi insolubile contraddizione.
Contro il su esposto dipartirsi dall'oggetto, per fare sviluppare da
questo il soggetto, sta il partire dal soggetto per far spuntar
fuori da questo l'oggetto. Se frequente e generale è stato in
tutte le filosofie fino al giorno d'oggi quel primo sistema, del
secondo si trova invece un unico esempio, e recentissimo: la
pseudofilosofia di J. G. Fichte. Il quale merita quindi di venir
notato sotto questo rispetto, per quanto poco genuino pregio e
intimo contenuto abbia avuto la sua dottrina in sé stessa;
essendo stata in verità nient'altro che un vaniloquio, il
quale, esposto tuttavia con aria di profondissima gravità,
tono sostenuto e vivo calore, e difeso con abile polemica contro
deboli avversari, poteva brillare e aver l'apparenza d'essere
qualche cosa. Ma a questo come a tutti gli altri somiglianti
filosofi, che si conformano alle circostanze, mancava affatto la
vera serietà, che insensibile a tutti gli influssi esteriori
tien l'occhio fisso imperturbabilmente alla sua mèta – la
verità. Né a lui di certo poteva capitare altrimenti.
Imperocché il filosofo diventa sempre tale in virtù di
una perplessità, che egli cerca di superare, e che è
il θαυμαζειν di Platone,che Platone medesimo chiama μαλα φιλοσοφικον
παθος. Ma qui i falsi filosofi si distinguono dai veri, in questo,
che nei veri quella perplessità nasce dalla vista diretta del
mondo; negli altri invece soltanto da un libro, da un sistema, che
si trovano già belli e pronti. E questo era anche il caso di
Fichte, che divenne filosofo solo a proposito della cosa in
sé di Kant e senza di questa probabilissimamente si sarebbe
occupato di tutt'altre cose con molto miglior successo,
poiché possedeva un notevole talento retorico. Ma, se fosse
almeno penetrato un po' addentro nel senso del libro che fece di lui
un filosofo – la Critica della ragion pura – avrebbe capito che lo
spirito della dottrina fondamentale della Critica è il
seguente: che il principio di ragione non è, come vuole tutta
la filosofia scolastica, una veritas aeterna, ossia non ha un valore
incondizionato, fuori e sopra del mondo: bensì soltanto un
valore relativo e condizionato, valido esclusivamente nel fenomeno,
sia che si presenti come nesso necessario dello spazio o del tempo,
o come legge di causalità o come legge del principio di
conoscenza; che quindi l'essenza interna del mondo, la cosa in
sé, non può mai essere trovata seguendo il principio
di ragione, ma tutto ciò, a cui questo conduce, è
ancora alla sua volta dipendente e relativo, è sempre
soltanto un fenomeno, non cosa in sé; che inoltre il
principio di ragione non si applica punto al soggetto, ma è
solo forma degli oggetti, i quali appunto perciò non sono
cose in sé; e con l'oggetto si presenta immediatamente
insieme il soggetto, e quello con questo; sì che né
l'oggetto può venir dopo il soggetto né questo dopo
quello, come un effetto viene dopo la sua causa. Ma nulla di tutto
ciò è minimamente penetrato in Fichte; la sola cosa
che lo interessava in questo era il partire dal soggetto; via scelta
da Kant per dimostrare falso il partire dall'oggetto, come s'era
usato fino allora, il quale oggetto era perciò diventato la
cosa in sé. Invece Fichte prese il partir dal soggetto per la
cosa importante; suppose, come tutti gli imitatori, che se egli in
ciò andasse più lontano di Kant, perverrebbe a
superarlo; e ripetè in quest'indirizzo gli errori, che fino
allora aveva commesso il dogmatismo, provocando appunto con
ciò la critica di Kant. Così nulla era mutato nella
sostanza; e il vecchio errore fondamentale, l'ammissione di un
rapporto di causa ed effetto tra oggetto e soggetto, continuò
come per l'innanzi; quindi il principio di ragione conservò,
proprio come prima, un valore incondizionato. E la cosa in
sé, invece di stare come al solito nell'oggetto, veniva ora
trasferita nel soggetto della conoscenza; ma la completa
relatività di entrambi – la quale indica che la cosa in
sé, ossia l'intera essenza del mondo, non va cercata in essi,
bensì fuori di questa come d'ogni altra esistenza
condizionata – seguitò a rimanere, come per l'innanzi,
sconosciuta. Proprio come se Kant non fosse esistito, il principio
di ragione è in Fichte ancora quel che era in tutti gli
scolastici, una aeterna veritas. Imperocché, come imperava
sugli dèi degli antichi l'eterno fato, così imperavano
sul Dio degli scolastici quelle aeternae veritates, ossia le
verità metafisiche, matematiche e metalogiche, e presso
alcuni anche la validità della legge morale. Queste sole
verità erano affatto indipendenti da tutto: e in virtù
della loro necessità esistevano tanto Dio che il mondo. In
virtù adunque del principio di ragione, come d'una tale
veritas aeterna, è l'Io per Fichte causa del mondo, ossia del
Non-io, dell'oggetto: il quale appunto è sua conseguenza, sua
produzione. Perciò si è ben guardato dall'esaminare o
controllare più oltre il principio di ragione. Ma s'io
dovessi indicare la forma di quel principio, seguendo la quale
Fichte fa venir fuori il Non-io dall'Io, come dal ragno la sua tela,
troverei che è il principio della ragione dell'essere nello
spazio: perché solo riferendosi a questo acquistano un
qualche senso e significato quelle tormentose deduzioni del modo
come l'Io produce dal suo seno e fabbrica il Non-io – deduzioni le
quali costituiscono il contenuto del più insensato e, anche
solo per questo, del più noioso libro che mai sia stato
scritto. La filosofia fichtiana, pel resto neppur degna di ricordo,
c'interessa soltanto come il vero e proprio contrapposto, comparso
tardi, dell'antichissimo materialismo; il quale era il più
conseguente sistema che partisse dall'oggetto, come quella il
più conseguente fra i sistemi che partono dal soggetto. Come
il materialismo non s'accorgeva, che insieme col più semplice
oggetto veniva a stabilire contemporaneamente anche il soggetto,
così non s'accorgeva Fichte che insieme col soggetto (lo
chiamasse poi come voleva) aveva già stabilito anche
l'oggetto, perché nessun soggetto può esser pensato
senza oggetto; e inoltre gli sfuggiva il fatto che ogni deduzione a
priori, anzi in generale ogni dimostrazione, poggia sopra una
necessità, ma ogni necessità si fonda esclusivamente
sul principio di ragione. Imperocché l'esser necessario e il
derivare da una data causa sono concetti equivalenti13. E gli
sfuggì che il principio di ragione non è altro se non
l'universal forma dell'oggetto come tale, sì che già
presuppone l'oggetto, né può viceversa, vigendo
all'infuori e prima di quello, produrlo e farlo nascere
conformemente alla propria legge. Insomma, adunque, il partir dal
soggetto ha in comune col su esposto partir dall'oggetto il medesimo
errore, di ammettere in anticipazione ciò che afferma di
dedurre solo in seguito, ossia il necessario correlato del suo punto
di partenza.
Ora, da codesti due contrari equivoci il nostro metodo si distingue
toto genere, in quanto noi non partiamo né dall'oggetto
né dal soggetto, ma dalla rappresentazione, come primo fatto
della coscienza, di cui è essenzialissima forma fondamentale
lo sdoppiarsi in oggetto e soggetto. La forma dell'oggetto alla sua
volta è il principio di ragione nelle sue differenti forme,
ciascuna delle quali domina talmente la classe di rappresentazioni a
lei spettante, che, come s'è mostrato, con la conoscenza di
tale forma è conosciuta insieme l'essenza dell'intera classe;
non essendo questa (come rappresentazione) nient'altro per l'appunto
che quella forma medesima. Così il tempo non è altro
che il principio dell'essere nel tempo, ossia successione; lo spazio
nient'altro che il principio di ragione nello spazio, ossia
posizione; la materia nient'altro che causalità; il concetto
(come sarà subito dimostrato) niente altro che relazione col
principio di conoscenza. Questa integrale e costante
relatività del mondo come rappresentazione, sia nella sua
forma più generale (soggetto e oggetto), sia in quella
sottoposta alla prima (principio di ragione), ci richiama, come
s'è detto, a cercar l'intima essenza del mondo in un aspetto
di esso del tutto diverso dalla rappresentazione – un aspetto che il
libro seguente dimostrerà come cosa non meno immediatamente
certa in ogni essere vivente.
Tuttavia bisogna dapprima esaminare ancora quella classe di
rappresentazioni, che appartiene soltanto all'uomo: classe che ha
per materia il concetto, e per correlato soggettivo la ragione; come
correlato delle rappresentazioni finora considerate erano intelletto
e sensibilità, che sono proprii di tutti gli animali14.
§ 8.
Come dalla diretta luce del sole al derivato riflesso della luna,
passiamo ora dalla rappresentazione intuitiva, immediata, che
sostiene e garentisce se stessa, alla riflessione: agli astratti,
discorsivi concetti della ragione, che tutto il loro contenuto hanno
solo da quella conoscenza intuitiva ed in rapporto a lei. Fino a
quando noi restiamo nella pura intuizione, tutto è chiaro,
solido e sicuro. Non ci sono problemi, né dubbi, né
errori: non si domanda di più, non si può andar oltre;
si ha riposo nell'atto d'intuire, soddisfazione nel presente.
L'intuizione basta a se stessa: quindi ciò che da lei
scaturisce puro ed a lei è rimasto fedele, come per esempio
la genuina opera d'arte, non può mai essere falso, né
essere giammai confutato: perché non si tratta di opinione,
bensì della cosa stessa. Con la conoscenza astratta invece,
con la ragione, penetrano nel campo teoretico il dubbio e l'errore,
nel campo pratico l'ansia e il pentimento. Se nella rappresentazione
intuitiva l'apparenza può per qualche istante deformare la
realtà, viceversa nella rappresentazione astratta l'errore
può dominare per secoli, imporre a popoli interi il suo giogo
di ferro, soffocare le più nobili aspirazioni
dell'umanità; e perfino colui, ch'esso non riesce a
ingannare, può far mettere in ceppi dai proprii schiavi,
vittime dell'inganno. Esso è il nemico, contro il quale i
più saggi spiriti d'ogni tempo sostennero una lotta
disuguale; e soltanto ciò, che quelli hanno a lui strappato,
è divenuto patrimonio della umanità. Per questo
è bene richiamar subito l'attenzione su di esso, mentre
cominciamo a mettere il piede sul suolo ove si estende il suo
dominio. Per quanto sia stato detto sovente che bisogna seguir le
tracce della verità, anche dove non c'è da sperare
alcun vantaggio, potendo questo essere indiretto e venire quando non
lo si aspetta: tuttavia io qui voglio ancora aggiungere che in egual
modo bisogna darsi da fare per iscoprire e disperdere ogni errore,
pur dove non è da attenderne alcun danno: anche il danno
potendo essere indiretto, e comparire inaspettatamente,
perché ogni errore ha nel suo interno un veleno. Se è
lo spirito, se è la conoscenza che fa l'uomo signore della
terra, non possono esservi errori inoffensivi, e ancor meno errori
rispettabili o sacri. Ed a conforto di coloro, i quali in
qualsivoglia maniera ed occasione dedicano forza e vita alla
difficile e così aspra guerra contro l'errore, non posso
astenermi dall'aggiungere qui, che l'errore può bensì
aver libero giuoco, come civette e pipistrelli nella notte, fin che
la verità non è apparsa: ma è più facile
attendersi di veder civette e pipistrelli respingere il sole verso
l'oriente, che veder la verità, una volta riconosciuta e
chiaramente, compiutamente affermata, esser di nuovo respinta,
perché l'antico errore riprenda daccapo, indisturbato, il suo
comodo posto. Tale è la potenza della verità: di cui
è difficile e faticosa la vittoria; ma questa, una volta
raggiunta, non può più esserle strappata.
Oltre le rappresentazioni fin qui considerate – le quali, per la
loro costituzione, si potevan ricondurre a tempo, spazio e
causalità, ponendo mira all'oggetto; ed a pura
sensibilità ed intelletto (ossia conoscimento della
causalità) ponendo mira al soggetto – è dunque
penetrata nell'uomo, unico fra tutti gli abitatori della terra,
ancora un'altra facoltà conoscitiva: è sorta una
conscienza affatto nuova, molto calzantemente e con profonda
giustezza chiamata riflessione. Imperocché essa è in
verità un riflesso, un derivato di quella conoscenza
intuitiva, pure avendo natura e costituzione fondamentalmente
diversa; non conosce le forme di quella, ed anche il principio di
ragione, che impera su tutti gli oggetti, assume in lei un aspetto
del tutto diverso. È solo questa nuova coscienza di secondo
grado, questo astratto riflesso dell'intuitivo in un concetto di
ragione non intuitivo, che dà all'uomo la riflessione, per
cui la sua coscienza è così nettamente distinta da
quella degli animali, e tutto il suo passaggio sulla terra si compie
in modo così diverso da quello de' suoi fratelli
irragionevoli. Molto anche l'uomo li supera in potenza e in dolore.
Essi vivono solo nel presente, mentre l'uomo per di più vive
contemporaneamente nell'avvenire e nel passato. Essi soddisfano il
bisogno momentaneo; egli provvede con le più accorte
disposizioni al proprio avvenire, anzi perfino ad epoche che non
giungerà a vedere. Essi sono in tutto sottoposti
all'impressione del momento, alla azione del movente intuitivo; egli
è guidato da concetti astratti indipendenti dal presente.
Perciò esegue piani meditati, oppure agisce secondo massime
prestabilite, senza riguardo all'ambiente e alle impressioni
fortuite dell'istante. Può, per esempio, prendere con calma
le complicate disposizioni per la propria morte, può
infingersi, fino a rendersi impenetrabile, e portar con sé
nella tomba il suo segreto; ha finalmente una vera scelta fra
numerosi motivi: perché solo in abstracto possono vari
motivi, l'un presso l'altro, esser presenti nella coscienza, trarre
con sé il conoscimento che l'uno esclude l'altro, misurando
così in contrasto il loro potere sulla volontà; quindi
il motivo preponderante, dando il tratto alla bilancia, diventa
meditata risoluzione della volontà, e manifesta come certo
indizio la sua natura. Al contrario, la sola impressione momentanea
determina l'animale: soltanto la paura di una costrizione immediata
può domare le sue cupidigie, finché quella paura
finisce col diventare abitudine, e allora lo determina come tale:
questo significa ammaestramento. L'animale sente e intuisce; l'uomo
per di più pensa e sa: entrambi vogliono. L'animale comunica
la sua sensazione e disposizione per mezzo di movimento e suono:
l'uomo comunica all'altro uomo pensieri, per mezzo del linguaggio, o
nasconde pensieri, per mezzo del linguaggio. Il linguaggio è
il primo prodotto e il necessario strumento della sua ragione; per
questo in greco ed in italiano linguaggio e ragione vengono indicati
con la stessa parola: ὁ λογος, il discorso15. In tedesco Vernunft
(ragione) viene da vernehmen, che non è sinonimo di
hóren, udire, ma indica la comprensione del pensiero
comunicato per mezzo di parole. Solo con l'aiuto del linguaggio
può la ragione eseguire i suoi compiti importantissimi, come
sarebbe la concorde azione di molti individui, la metodica
collaborazione di molte migliaia d'uomini, la civiltà, lo
stato; e inoltre la scienza, la conservazione dell'esperienza
anteriore, l'aggruppamento delle note comuni in un concetto, la
partecipazione della verità, la diffusione dell'errore, il
pensare e il poetare, i dogmi e le superstizioni. L'animale conosce
la morte solo nella morte: l'uomo s'appressa di ora in ora
coscientemente alla morte sua, e questo rende talvolta pensosa anche
la esistenza di chi non ha ancora riconosciuto alla vita intera
questo carattere di perenne distruzione. Soprattutto per questo ha
l'uomo filosofie e religioni: ma rimane tuttavia incerto, se sia
frutto di quelle ciò che noi a buon diritto stimiamo in
più alto grado nel suo operare, la volontaria giustizia e
l'animo generoso. Invece come indubbi, esclusivi germogli delle
filosofie e delle religioni, e prodotti della ragione, appaiono le
più stravaganti e arrischiate opinioni filosofiche delle
diverse scuole, e le stranissime, talora anche crudeli costumanze
dei preti delle diverse religioni.
Che tutte queste sì svariate ed estese manifestazioni
provengano da un principio comune, da quella particolare
facoltà dello spirito, che è privilegio dell'uomo in
confronto dell'animale e che fu chiamata ragione, ὁ λογος το
λογιστικον, το λογιμον, ratto, è opinione unanime di tutti i
tempi e di tutti i popoli. E anche sanno tutti gli uomini benissimo
riconoscere le manifestazioni di questa facoltà, e dire
ciò che è ragionevole e ciò che è
irragionevole, e dove la ragione viene a conflitto con le altre
facoltà e proprietà dell'uomo, e finalmente ciò
che non ci si potrà mai attendere anche dal più
intelligente degli animali, per la mancanza di ragione. I filosofi
di tutti i tempi anche si esprimono generalmente in armonia con
quell'universale conoscenza della ragione, ed oltre a ciò
mettono in rilievo qualche sua manifestazione più importante,
come sarebbe il dominio sugli affetti e sulle passioni, la
capacità di giudicare e di porre principi generali con una
certezza che talvolta precede ogni esperienza, e così via.
Nondimeno tutte le loro spiegazioni intorno alla vera essenza della
ragione sono traballanti, non determinate nettamente, prolisse,
senza unità né centro, intese a mettere in rilievo or
questa or quella manifestazione, e perciò spesso divergenti
l'una dall'altra. Si aggiunga, che molte partono dal contrasto fra
ragione e rivelazione, il quale è del tutto estraneo alla
filosofia, e non serve che ad accrescere la confusione. È
oltremodo sorprendente, che finora nessun filosofo abbia rigidamente
ricondotto quelle svariate manifestazioni della ragione ad una
funzione semplice, la quale sia da riconoscere in tutte, e tutte le
spieghi, e costituisca perciò la vera intima essenza della
ragione. L'esimio Locke indica bensì molto giustamente
nell'Essay on Human Understanding, libro 2, cap. 11, §§ 10
e 11, come carattere distintivo fra animale ed uomo, i concetti
universali astratti, e Leibniz ripete lo stesso con pieno accordo
nei Nouveaux essays sur l'entendement humain, libro 2, cap. 11,
§§ 10 e 11. Ma quando Locke nel libro 4, cap. 17,
§§ 2, 3, viene alla vera e propria spiegazione della
ragione, perde affatto di vista quel semplice carattere
fondamentale, e cade anche lui in una oscillante, imprecisa,
incompiuta esposizione di manifestazioni derivate e frammentarie di
quella: anche Leibniz, nel luogo corrispondente della sua opera, si
contiene in complesso nel medesimo modo, solo con maggior confusione
ed oscurità. E fino a qual punto abbia poi Kant confuso e
falsato il concetto dell'essenza della ragione, ho detto ampiamente
nell'appendice. Ma chi voglia darsi la pena di scorrere sotto questo
riguardo la massa di scritti filosofici venuti in luce da Kant in
qua, riconoscerà che, come gli errori dei principi sono
scontati da popoli interi, gli errori dei grandi spiriti distendono
la loro influenza dannosa su intere generazioni anche per secoli;
anzi, crescendo e propagandosi, finiscono col degenerare in
mostruosità: e tutto questo deriva dal fatto che, come dice
Berkeley: «Few men think; yet all will have opinions»16.
Come l'intelletto ha soltanto una funzione: immediata conoscenza del
rapporto di causa ed effetto: e l'intuizione del mondo reale, come
anche tutta l'avvedutezza, sagacia, facoltà inventiva – per
quanto sia molteplice la loro applicazione – non sono tuttavia
evidentemente null'altro che manifestazioni di quella funzione
semplice; così anche la ragione ha una sola funzione: formare
il concetto. In base a quest'unica funzione si spiegano molto
facilmente, e compiutamente, e spontaneamente tutti i fenomeni sopra
citati, che distinguono la vita dell'uomo da quella dell'animale. E
all'uso o al non-uso di quella funzione si riconduce sempre
ciò che ovunque e in ogni tempo si è chiamato
ragionevole o irragionevole17.
§ 9.
I concetti formano una classe speciale di rappresentazioni, che si
trova solo nello spirito dell'uomo, toto genere diversa dalle
rappresentazioni intuitive esaminate finora. Perciò non
possiamo mai raggiungere una conoscenza intuitiva, assolutamente
evidente, del loro essere; ma soltanto una conoscenza astratta e
discorsiva. Sarebbe quindi assurdo pretender che venissero provati
con l'esperienza, in quanto s'intende per esperienza il mondo reale
esterno, che è appunto rappresentazione intuitiva; o che
fossero portati davanti agli occhi, o davanti alla fantasia, come
oggetti d'intuizione. Essi si lasciano esclusivamente pensare, non
intuire; e soltanto gli effetti che per mezzo di quelli l'uomo
produce, sono materia di vera e propria esperienza. Tali sono la
lingua, l'azione metodica e meditata, e la scienza; e dipoi tutto
quanto nasce da queste. Evidentemente il discorso, come oggetto
dell'esperienza interna, non è altro che un telegrafo molto
perfezionato, il quale comunica segni convenzionali con
rapidità massima e delicatissima precisione. Ma che cosa
significano questi segni? Come vengono decifrati? Forse che noi,
mentre un altro parla, traduciamo immediatamente il suo discorso in
immagini della fantasia, le quali con la rapidità del lampo
ci trasvolano innanzi e si muovono, si concatenano, si trasformano e
si colorano a seconda delle fluenti parole e delle loro flessioni
grammaticali? Quale tumulto sarebbe allora nel nostro capo all'atto
d'ascoltare un discorso o di leggere un libro! Ma non accade punto
così. Il senso del discorso viene compreso immediatamente,
afferrato con precisione e determinatezza, senza che di regola si
confondano i fantasmi. È la ragione che parla alla ragione,
mantenendosi nel proprio dominio; e ciò che essa comunica o
riceve, sono concetti astratti, rappresentazioni non intuitive, le
quali, formate una volta per sempre e relativamente scarse di
numero, comprendono, contengono e rappresentano nondimeno tutti gli
innumerevoli oggetti del mondo reale. Solo con ciò si spiega
che non mai un animale può parlare o comprendere, sebbene
abbia comuni con noi gli strumenti del linguaggio ed anche le
rappresentazioni intuitive; appunto perché le parole
esprimono quella classe affatto speciale di rappresentazioni, di cui
è correlato soggettivo la ragione, esse sono per l'animale
prive di valore e di significato. Pertanto il linguaggio, come ogni
altro fenomeno che noi ascriviamo alla ragione, e come tutto
ciò che distingue l'uomo dall'animale, va spiegato mediante
quest'una e semplice origine: i concetti – le rappresentazioni
astratte, non intuitive; universali, non individuate nel tempo e
nello spazio. Solo in alcuni casi passiamo dai concetti alla
rappresentazione, formandoci fantasmi che sono intuitivi
rappresentanti di concetti, ai quali tuttavia non sono mai adeguati.
Questi sono stati particolarmente illustrati nella memoria sul
principio della ragione, § 28, né voglio quindi
ripetermi ora. Con ciò che è detto colà va
confrontato quanto scrive Hume nel dodicesimo dei suoi Philosophical
Essays, p. 244, e Herder nella Metacritica (libro d'altronde
cattivo), Parte I, p. 274. L'idea platonica, che diventa possibile
mediante l'unione di fantasia e ragione, forma l'argomento
principale del terzo libro dell'opera presente.
Ora, per quanto i concetti siano adunque fondamentalmente diversi
dalle rappresentazioni intuitive, stanno tuttavia in un necessario
rapporto con queste, senza di cui non esisterebbero; il qual
rapporto costituisce quindi tutta la loro essenza ed esistenza. La
riflessione è necessariamente imitazione, riproduzione
dell'originario mondo intuitivo, per quanto imitazione di tutt'altro
genere, in una materia del tutto eterogenea. Perciò i
concetti si posson benissimo chiamare rappresentazioni di
rappresentazioni. Il principio di ragione ha qui egualmente una
forma particolare; e come la forma con cui esso domina in una classe
di rappresentazioni costituisce ed esaurisce tutta l'essenza di
questa classe in quanto è formata di rappresentazioni, –
sì che, come abbiamo veduto, il tempo è in tutto e per
tutto successione, e nient'altro, lo spazio in tutto e per tutto
posizione, e nient'altro, la materia in tutto e per tutto
causalità e nient'altro – così anche tutta l'essenza
dei concetti, ossia della classe delle rappresentazioni astratte,
consiste esclusivamente nella relazione che in essi esprime il
principio di ragione. Ed essendo questa la relazione col principio
di conoscenza, la rappresentazione astratta ha tutta la sua essenza
unicamente, esclusivamente nel suo rapporto con un'altra
rappresentazione, che è il suo principio di conoscenza. Ora
questa può essere alla sua volta un concetto, o
rappresentazione astratta, ed anch'essa può avere ancora un
altrettale principio di conoscenza astratta. Ma non si continua
così all'infinito: bensì alla fine la serie dei
principi di conoscenza deve chiudersi con un concetto, che ha la sua
base nella conoscenza intuitiva. Imperocché tutto il mondo
della riflessione poggia sul mondo dell'intuizione come suo
principio di conoscenza. Quindi la classe delle rappresentazioni
astratte ha di fronte alle altre la seguente nota distintiva: che in
queste il principio di ragione esige sempre soltanto un rapporto con
un'altra rappresentazione della medesima classe, mentre nelle
rappresentazioni astratte esige alla fine un rapporto con una
rappresentazione di altra classe.
Quei concetti che, come si è detto or ora, non direttamente,
bensì solo mediante l'intermediario di uno o anche più
altri concetti si riferiscono alla conoscenza intuitiva, vengono
chiamati di preferenza abstracta; e concreta viceversa quelli che
hanno il loro fondamento immediato nel mondo intuitivo. Ma
quest'ultima denominazione non conviene se non molto impropriamente
ai concetti da lei indicati, perché ancor questi sono pur
sempre abstracta, e non già rappresentazioni intuitive. Tali
denominazioni sono venute solamente da una coscienza molto confusa
del divario che si voleva così esprimere; ma con
l'interpretazione qui indicata possono tuttavia sussistere. Esempi
della prima maniera, ossia abstracta in senso eminente, sono
concetti come «relazione, virtù, investigazione,
inizio», etc. Esempi della seconda maniera, ossia
impropriamente chiamati concreta, sono i concetti «uomo,
pietra, cavallo», etc. Se non fosse un paragone troppo
figurato e perciò tendente allo scherzo, si potrebbe con
immagine calzante chiamare gli ultimi concetti il pianterreno,
mentre i primi sarebbero invece i piani superiori dell'edifizio
della riflessione18.
Che un concetto comprenda molto sotto di sé, ossia che molte
rappresentazioni intuitive o magari anche astratte stiano con lui
nel rapporto del principio di conoscenza, cioè vengano
pensate per suo mezzo, non è, come solitamente si ammette,
proprietà essenziale di quel concetto, bensì solamente
secondaria e derivata; la quale può addirittura non sempre
trovarsi di fatto, per quanto ognora possibile. Codesta
proprietà deriva da ciò, che il concetto è
rappresentazione di una rappresentazione, ossia ha tutta la sua
essenza esclusivamente nella sua relazione con un'altra
rappresentazione; ma il concetto non è tale rappresentazione,
ed anzi questa addirittura appartiene di solito a tutt'altra classe
di rappresentazioni: avendo carattere intuitivo, può di
conseguenza aver determinazioni di tempo, di spazio, ed altre.
Può insomma aver molte relazioni, che nel concetto non
vengono punto pensate: quindi più rappresentazioni, fra loro
diverse in ciò che non è sostanziale, possono venir
pensate con lo stesso concetto, ossia venir assunte sotto di questo.
Ma questo valer per oggetti vari non è proprietà
essenziale, bensì accidentale, del concetto. Si possono
adunque dare concetti, coi quali vien pensato un solo oggetto reale,
ma che sono tuttavia astratti ed universali, e non già
rappresentazioni isolate ed intuitive. Tale è per esempio il
concetto che si ha d'una città determinata, la quale ci
è nota solo dalla geografia: sebbene con codesto concetto
venga pensata quella sola città, sarebbero tuttavia possibili
più città, pur differenti in alcune parti, alle quali
tutte converrebbe il concetto medesimo. Non per essere astratto da
più oggetti acquista universalità un concetto:
bensì al contrario, essendo per esso, in quanto
rappresentazione astratta della ragione, essenziale
l'universalità, ossia la non-determinazione del singolo,
possono diverse cose esser pensate per mezzo del medesimo concetto.
Da quanto s'è detto risulta che ogni concetto, appunto
perché è rappresentazione astratta, non intuitiva e
quindi non in tutto determinata, ha quel che chiamiamo una
estensione circolare o sfera, perfino nel caso che gli corrisponda
un solo oggetto reale. Ora, noi troviamo costantemente che la sfera
d'ogni concetto ha qualcosa di comune con quelle d'altri concetti:
ossia, che in esso viene parzialmente pensato ciò che si
pensa in quegli altri, e viceversa; sebbene, quando sono davvero
concetti differenti, ciascuno o per lo meno uno dei due contenga
qualcosa che l'altro non ha. In questo rapporto sta ogni soggetto
col suo predicato. Riconoscere questo rapporto, dicesi giudicare. La
rappresentazione di quelle sfere mediante figure geometriche
è stata un pensiero felicissimo. L'ha avuto forse per primo
Goffredo Plouquet, il quale si servì a tal fine di quadrati;
il Lambert, sebbene venuto dopo, usò ancora semplici linee,
che disponeva l'una sotto l'altra; l'Euler perfezionò la
figurazione valendosi di cerchi. Su che cosa poggi in fondo questa
sì precisa analogia fra i rapporti dei concetti e quelli
delle figure geometriche, non so dire. Ma intanto è per la
logica un'assai favorevole circostanza questa, che tutti i rapporti
dei concetti, perfino secondo la loro possibilità, ossia a
priori, si possano rappresentare intuitivamente per mezzo di tali
figure, nel modo che segue:
1. Le sfere di due concetti sono identiche: per esempio il concetto
della necessità e quello dell'effetto prodotto da una data
causa; così quello di ruminantia e di bisulca (ruminanti e
animali con l'unghia fessa); e similmente il concetto di vertebrati
e d'animali a sangue rosso (al che sarebbe tuttavia qualcosa da
opporre a proposito degli anellidi). Tutti codesti sono concetti
equivalenti. Li rappresenta un unico circolo, il quale indica tanto
l'uno quanto l'altro.
2. La sfera di un concetto chiude interamente in sé quella
d'un altro:
3. Una sfera ne racchiude due o più, che si escludono e
contemporaneamente riempiono la prima:
4. Due sfere includono ciascuna una parte dell'altra:
5. Due sfere sono comprese in una terza, senza riempirla:
Quest'ultimo caso vale per tutti i concetti, le cui sfere non hanno
una comunione immediata: perché ve n'è sempre una
terza, se pur sovente assai ampia, che li racchiude entrambi.
A questi casi si potrebbero ricondurre tutte le combinazioni dei
concetti, e se ne ricava l'intera dottrina dei giudizi; con la loro
conversione, contrapposizione, reciprocazione, disgiunzione
(quest'ultima conformemente alla terza figura). E così anche
le proprietà dei giudizi, sulle quali Kant stabiliva le
pretese categorie dell'intelletto; facendo nondimeno eccezione della
forma ipotetica, che non è più una combinazione di
puri concetti, bensì di giudizi, ed eccettuando inoltre la
modalità: della quale, come d'ogni proprietà dei
giudizi che serve di fondamento alle categorie, da conto
distesamente l'appendice. Circa le possibili combinazioni di
concetto sopraindicate, è solo da aggiungere che esse possono
anche venir combinate variamente; per esempio la quarta figura con
la seconda. Solo quando una sfera, la quale ne contiene un'altra in
tutto o in parte, viene a sua volta contenuta tutta in una terza, le
tre insieme rappresentano il sillogismo della prima figura, ossia
quella combinazione di giudizi mediante la quale viene riconosciuto
che un concetto, contenuto in tutto o in parte in un altro, è
anche contenuto egualmente in un terzo concetto che contenga
quest'altro: o anche rappresentano il caso opposto, la negazione; la
cui espressione figurata può naturalmente consistere solo in
due sfere congiunte, che non sono comprese in una terza. Quando
molte sfere si comprendono l'una nell'altra in questa maniera, ne
vengono lunghe catene di sillogismi. Questo schematismo dei
concetti, il quale già in molti trattati è abbastanza
bene esposto, può esser messo come fondamento alla dottrina
dei giudizi, com'anche a tutta la sillogistica; dal che
l'esposizione d'entrambe sarà resa assai facile e semplice.
Imperocché tutte le regole di quelle ne vengono approfondite,
dedotte e spiegate secondo la loro origine. Ma il sovraccaricar di
queste regole la memoria non è necessario; perché la
logica non ha pratica utilità, ma solo importanza teorica per
la filosofia. Poiché sebbene si dica che la logica si
comporta riguardo al pensiero raziocinativo come il basso
fondamentale riguardo alla musica, o anche, se vogliamo esser meno
precisi, come l'etica riguardo alla virtù, o l'estetica
all'arte; tuttavia bisogna riflettere che nessuno è divenuto
artista per lo studio dell'estetica, né un nobile carattere
s'è formato con lo studio dell'etica; che da gran tempo prima
del Rameau fu composta musica corretta e bella, e che inoltre non
c'è bisogno di sentirsi padroni del basso fondamentale per
accorgersi delle disarmonie: similmente non occorre saper la logica
per non lasciarsi trarre in inganni da sofismi. Si deve tuttavia
convenire che, se non per l'apprezzamento, il basso fondamentale
è di grande utilità per la pratica della composizione
musicale: e perfino l'estetica o addirittura l'etica possono,
sebbene in misura assai minore, esser nella pratica di qualche
utilità – per quanto sia un'utilità più che
altro negativa – sì che non può esser loro negato ogni
valore pratico. Ma della logica non può dirsi nemmeno questo.
Essa non è se non la consapevolezza in abstracto di
ciò che ognuno sa in concreto. Quindi, come non se n'ha
bisogno per respingere un falso ragionamento, così non si
ricorre alle sue regole per farne uno giusto; e finanche il
più addottrinato dei logici le lascia affatto da canto
nell'atto del suo effettivo pensare. Questo si spiega con
l'osservazione che segue. Ogni scienza consiste in un sistema di
verità, leggi e regole generali, e quindi astratte, relative
a un qualche genere d'oggetti. Ciascun nuovo caso particolare, che
venga a capitare fra questi, viene di volta in volta determinato
secondo quella nozione generale, che vale una volta per tutte;
perché questa applicazione della regola generale è
infinitamente più facile che non l'investigare da capo, per
sé, ogni sopravveniente caso isolato; essendo che la general
conoscenza astratta, una volta raggiunta, ci è ognora
più agevole che l'investigazione empirica del caso singolo.
Ma con la logica accade il contrario. Essa è la
consapevolezza generale del modo di procedere della ragione,
raggiunta mediante la diretta osservazione della ragione stessa, e
l'astrazione da ogni contenuto. Ma un tal modo di procedere è
per la ragione necessario ed essenziale: in nessun caso ella se ne
può rimuovere, non appena sia abbandonata a se stessa.
È adunque più facile e più sicuro in ogni caso
speciale lasciarla procedere conformemente alla sua natura, che non
metterle innanzi, in forma di legge esteriore, venuta dal di fuori,
una teoria tratta appunto da quel suo procedere. È più
facile: perché, se in tutte le altre scienze la regola
generale ci è più comoda che l'investigazione del
singolo caso da solo o in se medesimo, invece nell'uso della ragione
il suo natural modo di comportarsi in un dato caso ci vien
più spontaneo sempre che non la regola generale tratta da
quello: poi che l'elemento pensante in noi è per l'appunto la
ragione stessa. Ed è più sicuro: perché molto
più agevolmente può capitare un errore in quel sapere
astratto o nella sua applicazione, che non possa subentrare un
processo della ragione, il quale ripugni alla sua essenza, alla sua
natura. Da ciò proviene il fatto singolare, che se di regola
nelle altre scienze si prova la verità del caso particolare
con la regola, nella logica all'opposto la regola viene sempre
sperimentata nel caso singolo: ed anche il logico più
esercitato, accorgendosi che in un singolo caso viene a concludere
differentemente dal modo imposto da una regola, cercherà
sempre l'errore nella regola, prima che nella deduzione da lui
fatta. Voler fare uso pratico della logica, sarebbe dunque un voler
derivare, con indicibile pena, da regole generali, ciò di cui
noi siamo immediatamente consci, con la massima sicurezza, caso per
caso: sarebbe come un voler prender consiglio nei propri movimenti
dalla meccanica, e nella digestione dalla fisiologia. E chi apprende
la logica per fini pratici somiglia a colui che voglia insegnare a
un castoro la costruzione del suo nido. Sebbene la logica sia
adunque senza pratica utilità, deve nondimeno venir
conservata, perché ha importanza filosofica, come speciale
conoscenza dell'organismo e attività della ragione. Nella sua
qualità di disciplina chiusa, esistente di per sé, in
sé compiuta, perfetta, e affatto sicura, è in diritto
di essere trattata scientificamente, da sola, e senza dipender da
tutte le altre scienze, venendo anche insegnata nelle
università: ma non acquista il suo effettivo valore se non
nel complesso dell'intera filosofia, nell'esame della conoscenza, e
precisamente della conoscenza razionale o astratta. Perciò la
sua esposizione non dovrebbe aver tanto la forma di una scienza
rivolta alla pratica, né contener soltanto nude regole pel
giusto modo di formular giudizi, sillogismi e così via;
bensì esser piuttosto indirizzata a meglio riconoscer
l'essenza della ragione e del concetto, ed ampiamente esaminare il
principio di ragione della conoscenza. Imperocché la logica
è una semplice parafrasi di questo, e precisamente per il
solo caso, in cui il principio che dà verità ai
giudizi, non sia empirico o metafisico, ma logico o metalogico.
Accanto al principio di ragione della conoscenza, sono quindi da
porre le tre rimanenti leggi fondamentali del pensiero, ossia
giudizi di verità metalogica, a quello così
strettamente affini; e su questa base si forma a poco a poco
l'intera tecnica della ragione. L'essenza del pensare vero e
proprio, ossia del giudizio e del sillogismo, va spiegata con le
combinazioni delle sfere dei concetti, conformemente allo schema
geometrico, nel modo sopra accennato; e da questo, per costruzione,
vanno derivate tutte le regole del giudizio e del sillogismo. In un
sol modo si può far uso pratico della logica: quando nel
disputare si dimostrano all'avversario non tanto le sue conclusioni
veramente errate, quanto quelle intenzionalmente false, chiamandole
col loro nome tecnico di paralogismi e sofismi. Ma per codesto
rigetto dell'indirizzo pratico e per la messa in rilievo della
connessione che ha la logica con l'intera filosofia, come un
capitolo di questa, non dovrebbe quella divenir tuttavia più
trascurata che oggi non sia; poi che al giorno d'oggi deve aver
studiato filosofia speculativa ciascuno il quale non voglia rimanere
incolto in ciò che più importa, e confuso nella massa
ignorante ed opaca. Imperocché questo secolo decimonono
è un secolo filosofico; con la qual cosa non si deve tanto
intendere che esso possegga una filosofia o che la filosofia vi
domini, quanto piuttosto che per la filosofia il secolo è
maturo, e appunto perciò ne ha bisogno assoluto. Questo
è un segno di cultura molto elevata, anzi addirittura un
punto fermo sulla scala della civiltà19.
Per quanto poca utilità pratica possa avere la logica, non si
può tuttavia negare che essa fu inventata per un fine
pratico. Io mi spiego la sua origine nel modo che segue. Quando fra
gli eleatici, megarici e sofisti il gusto del disputare si fu sempre
più sviluppato, arrivando fin presso alla mania, la
confusione in cui quasi ogni disputa cadeva dovè far loro
presto sentire la necessità di un procedimento metodico: e,
come introduzione a questo, era da cercare una dialettica
scientifica. La prima cosa da osservare era che le due parti
contendenti dovevano sempre essere d'accordo sopra un principio
qualunque, a cui eran da ricondurre i punti controversi nell'atto
del disputare. L'inizio del procedimento metodico è
consistito nel fatto, che questi principi da tutti ammessi vennero
formalmente dichiarati tali, e posti a capo dell'investigazione. Ma
tali principi concernevano dapprima soltanto il lato materiale di
questa. Presto si comprese che, pur nella maniera di rifarsi dalla
verità universalmente riconosciuta, e tentar di derivarne le
proprie affermazioni, si seguivano certe forme e leggi, intorno alle
quali anche senza precedente intesa non mai si dissentiva; dal che
apparve, che quelle dovevano essere il procedimento proprio ed
essenziale della ragione, ossia il lato formale dell'investigazione.
Ora, sebbene questo non fosse esposto al dubbio e al disaccordo, un
cervello sistematico fino alla pedanteria venne nondimeno a pensare,
che farebbe un bel vedere, e sarebbe il compimento della dialettica
metodica, se codesto lato formale d'ogni disputa, codesto sempre
regolare procedimento della ragione medesima venisse anch'esso
formulato in principi astratti; i quali, appunto, al modo di quei
principi universalmente riconosciuti, che concernono il lato
materiale dell'investigazione, si ponessero a capo di questa, come
un canone fisso del disputare, al quale si dovesse ognora volger
l'occhio e riferirsi. Nel mentre in tal modo si voleva
coscientemente riconoscer per legge, e formalmente dichiarare,
quello che fino allora s'era seguito in virtù di tacito
accordo o praticato come per istinto, si trovarono a poco a poco
espressioni più o meno perfette per i principi logici, come
il principio di contraddizione, di ragion sufficiente, del terzo
escluso, il dictum de omni et nullo, e poi le speciali regole della
sillogistica, come per esempio ex meris particularibus aut negativis
nihil sequitur, a rationato ad rationem non valet consequentia, etc.
Ma come di ciò si venisse a capo solo lentamente e con molta
fatica, e come tutto fosse rimasto assai imperfetto prima di
Aristotele, vediamo in parte dal modo impacciato e prolisso con cui
vengono portate alla luce le verità logiche in alcuni
dialoghi platonici; e ancor meglio da ciò che ci riferisce
Sesto Empirico sulle contese dei megarici intorno alle più
facili e semplici leggi logiche, ed alla faticosa maniera con cui le
chiarivano (Sext. Emp. adv. Math. 1. 8, p. 112 sgg.). Aristotele
raccolse, ordinò, corresse quanto aveva trovato innanzi a
sé, e lo portò ad una perfezione incomparabilmente
più alta. Se si considera in questo modo come il cammino
della cultura greca aveva preparato e provocato il lavoro di
Aristotele, si sarà poco disposti a prestar fede alla
testimonianza di scrittori persiani comunicataci da Jones, il quale
vi dà molto peso: che cioè Callistene abbia trovata
presso gl'Indiani una logica bell'e fatta, e l'abbia inviata a suo
zio Aristotele («Asiatic Researches», vol. IV, p. 163).
Si comprende facilmente, che nel triste medioevo la logica
aristotelica sia stata oltremodo bene accetta allo spirito degli
scolastici, avido di contese e, nella mancanza d'ogni conoscenza
positiva, nutrito soltanto di formule e parole; e da quello
cupidamente ghermita, malgrado la mutilazione araba, e tosto elevata
a centro di tutto il sapere. Decaduta poi dalla sua gloria, si
è nondimeno conservata fino al nostro tempo nella rinomanza
d'una scienza indipendente, pratica, ed utilissima; finanche a'
nostri giorni la filosofia kantiana, la quale propriamente tolse
dalla logica la propria base, ha fatto nascer daccapo un nuovo
interesse per lei; interesse ch'ella d'altronde merita sotto questo
rispetto, ossia come mezzo per conoscere l'essenza della ragione.
Se alle giuste e severe conclusioni si perviene osservando con cura
il rapporto delle sfere concettuali, e sol quando una sfera è
precisamente contenuta in un'altra, e questa a sua volta è
tutta contenuta in una terza, si riconosce anche la prima come
contenuta appieno nella terza; l'arte della persuasione, invece,
poggia sul fatto, che i rapporti delle sfere concettuali sono
sottoposti a una considerazione appena superficiale, e si
determinano in modo unilaterale, a seconda delle nostre intenzioni.
Ciò accade soprattutto quando – mentre la sfera di un
concetto preso in esame è solo parzialmente compresa in
un'altra, ed il resto è compreso invece in una sfera affatto
diversa – la si fa passare come tutta compresa nella prima, o tutta
nella seconda, come conviene a chi parla. Se, per esempio, si
discorre di passione, questa si può far entrare a piacere nel
concetto della maggior forza e del più poderoso agente che
sia al mondo, oppure nel concetto dell'irragionevolezza; e questo, a
sua volta, nel concetto dell'impotenza, della debolezza. Questo
sistema potrebbe esser continuato e applicato ad ogni concetto, sul
quale cada il discorso. Quasi sempre nella sfera di un concetto
s'incrociano più sfere, ciascuna delle quali contiene nel
proprio dominio una parte del dominio del primo concetto, ma
abbraccia inoltre anche altro dominio: e di queste ultime sfere
concettuali si mette in evidenza solo quella, sotto di cui si vuole
assumere il primo concetto; lasciando le altre inosservate, o
tenendole nascoste. Su questo artifizio poggiano precisamente tutte
le insidie della persuasione, tutti i più sottili sofismi:
poiché i sofismi logici, come il mentiens, velatus, cornutus,
etc. sono evidentemente troppo grossolani per l'impiego effettivo.
Non constandomi che finora l'essenza d'ogni sofisticazione e
persuasione sia stata ricondotta a quest'ultimo principio della sua
possibilità, e additata nella particolare natura dei
concetti, ossia nel modo di conoscenza della ragione; voglio, or che
il mio discorso m'ha condotto a questo punto, chiarire la cosa – per
quanto essa sia di facile comprensione – mediante uno schema esposto
nella tavola qui annessa [v. pp. 90-1].
Il quale schema intende mostrare come variamente s'intreccino le
sfere concettuali, offrendo campo all'arbitrio di passar da ogni
concetto a questo o a quell'altro. Soltanto, non vorrei che dalla
tavola si fosse falsamente indotti ad attribuire a questa piccola
dilucidazione incidentale maggiore importanza di quella che per sua
natura le compete. Come esempio, ho scelto il concetto del
viaggiare. La sua sfera s'interseca col campo di altre quattro, in
ciascuna delle quali può passare a volontà chi parli
col proposito di persuadere; queste, alla lor volta, s'intersecano
con altre sfere, e talune di esse contemporaneamente con due o
più, tra le quali colui che parla sceglie arbitrariamente la
propria via, sempre come se ve ne fosse una sola – e così
alla fine perviene – a seconda del suo proposito, o al Bene o al
Male. Ma nel procedere da sfera a sfera si deve sempre andar dal
centro (ossia da un dato concetto fondamentale) verso la periferia,
e non camminare all'indietro. Questa sofistica può assumere
la forma del discorso filato o anche quella del rigido sillogismo,
secondo consiglia il lato debole dell'ascoltatore. In fondo, la
più parte delle dimostrazioni scientifiche e specialmente
filosofiche non sono fatte molto diversamente. Altrimenti, come
sarebbe possibile che tante cose, in tempi diversi, non solo siano
state erroneamente accettate (perché l'errore in se stesso ha
un'altra origine), ma dimostrate e provate, e nondimeno più
tardi riconosciute falsissime; per esempio la filosofia di Leibnitz
e di Wolff, l'astronomia tolemaica, la chimica di Stahl, la dottrina
dei colori di Newton, etc., etc.?20.
§ 10.
In tutto questo ci si fa sempre più vicina la domanda, come
mai sia da raggiungere la certezza, come siano da fondare i giudizi,
in che consistano il sapere e la scienza, che noi, accanto al
linguaggio e all'agire con riflessione, vantiamo come il terzo
grande privilegio ottenuto mediante la ragione.
La ragione è di natura femminile: ella può dare
soltanto dopo di aver ricevuto. Da per sé sola non ha se non
le vuote forme del suo operare. Non v'è altra conoscenza
razionale in tutto pura, fuori dei quattro principi, ai quali io ho
attribuito verità metalogica, ossia i principi di
identità, di contraddizione, del terzo escluso e di ragion
sufficiente. Imperocché perfino il resto della logica non
è già più conoscenza razionale affatto pura,
presupponendo i rapporti e le combinazioni delle sfere dei concetti.
E concetti in genere si hanno soltanto in seguito a precedenti
rappresentazioni intuitive; essendo tutta l'essenza di quelli
costituita dalla lor relazione con queste, sì che i concetti
presuppongono le rappresentazioni. Ma poiché codesta
presupposizione non si estende al contenuto determinato dei concetti
bensì soltanto ad un'esistenza di essi in genere, può
tuttavia la logica, presa nel suo complesso, valere come una pura
scienza razionale. In tutte le altre scienze la ragione ha preso il
suo contenuto dalle rappresentazioni intuitive: nella matematica
dalle relazioni, intuitivamente conosciute prima d'ogni esperienza,
dello spazio e del tempo; nella scienza naturale pura, ossia in
quello che noi sappiamo sul corso della natura anteriormente ad ogni
esperienza, il contenuto proviene dal puro intelletto, cioè
dalla conoscenza a priori della legge di causalità e del suo
collegamento con le pure intuizioni dello spazio e del tempo. In
ogni altro sapere tutto ciò che non è tolto dalle
intuizioni or ora indicate appartiene all'esperienza. Sapere, in
generale, significa aver in potere della propria mente, per
riprodurli a volontà, quei giudizi, che hanno il lor
principio sufficiente di conoscenza in qualcosa fuori di se stessi,
ossia sono veri. Solo la conoscenza astratta è quindi un
sapere; questo è perciò sotto condizione della
ragione; e parlando degli animali, per esser precisi, non possiamo
dire che essi sappiano, sebbene abbiano conoscenza intuitiva e,
quindi, anche memoria, e perciò fantasia: il che d'altronde
dimostrano i loro sogni. Riconosciamo loro la coscienza; il concetto
della quale, per conseguenza, sebbene la parola derivi da scire,
viene a coincidere con quello di rappresentazione, di qualunque
specie questa poi sia. Perciò anche s'attribuisce
bensì da noi vita alla pianta, ma non coscienza. Sapere
è adunque la conscienza astratta: l'aver fissato in concetti
della ragione ciò che è stato conosciuto per altra
via.
§ 11.
Ora, da, questo punto di vista il vero contrapposto del sapere
è il sentimento, del quale dobbiamo a questo punto introdurre
l'esame. Il concetto espresso dalla parola sentimento ha un
contenuto del tutto negativo, ossia significa che qualcosa, presente
nella coscienza, non è concetto, non è conoscenza
astratta della ragione. Sia poi d'altronde quel che vuole, sempre va
nel concetto di sentimento, la cui sfera smisuratamente ampia
comprende le cose più eterogenee; delle quali non si viene a
capo di scorgere come possano accozzarsi insieme, fin quando non si
sia riconosciuto che s'accordano soltanto per questo rispetto
negativo, di non essere concetti astratti. Imperocché gli
elementi più disparati, anzi i più contrastanti stanno
tranquillamente l'un presso l'altro in quel concetto; per esempio,
sentimento religioso, sentimento del piacere, sentimento morale,
sentimento corporeo come tatto, come dolore, come sentimento dei
colori, dei suoni, e delle loro armonie e disarmonie; sentimento
dell'odio, della ripugnanza, della contentezza di sé,
dell'onore, dell'onta, del diritto, del torto; sentimento della
verità, sentimento estetico, sentimento di forza, debolezza,
sanità, amicizia, amore, etc. etc. Nessuna affinità
passa tra questi sentimenti, se non quella negativa di non essere
conoscenze astratte di ragione. Ma è ancor più
sorprendente, quando perfino la conoscenza intuitiva a priori delle
relazioni spaziali, e oltre a ciò la conoscenza puramente
intellettiva, vengon ricondotte al concetto di sentimento; e in
genere d'ogni conoscenza, d'ogni verità, della quale si sia
consci solo intuitivamente, ma che non anco è deposta in
concetti astratti, vien detto che la si sente. Di ciò
intendo, a mo' di chiarimento, riferire alcuni esempi tolti a libri
recenti, perché sono prove efficaci della mia spiegazione. Mi
rammento d'aver letto nel proemio d'una traduzione tedesca di
Euclide, che ai principianti in geometria si debbano far disegnare
tutte le figure, prima di procedere alle dimostrazioni;
affinchè in tal modo essi sentano la verità
geometrica, ancor prima che la dimostrazione dia loro la conoscenza
compiuta. Similmente nella Critica della dottrina dei costumi di F.
Schleiermacher si parla di sentimento logico e matematico (p. 339),
e anche del sentimento d'identità o differenza di due formule
(p. 342); inoltre nella Storia della filosofia di Tennemann, vol. I,
p. 361, si legge: «Si sentiva, che i sofismi erano sbagliati,
ma non si poteva tuttavia scoprirne il difetto». Fin quando
questo concetto di sentimento non venga considerato da un giusto
punto di vista, e non si riconosca quell'unica caratteristica
negativa che gli è propria, esso deve costantemente fornir
materia d'equivoci e di contese, per l'eccessiva ampiezza della sua
sfera, e per il suo tenue contenuto, affatto negativo e solo
unilateralmente determinato. Poiché noi abbiamo in tedesco la
voce abbastanza corrispondente Empfindung (sensazione), sarebbe
utile riservar questa per i sentimenti corporei, come una
sottospecie. Ma l'origine di quel concetto di sentimento, senza
paragone sproporzionato in confronto di tutti gli altri, è
fuor d'ogni dubbio la seguente. Tutti i concetti – e soltanto
concetti sono espressi dalle parole – esistono esclusivamente per la
ragione, da questa prendono le mosse: si sta dunque con essi
già da un punto di vista unilaterale. Ma guardando da questo
punto, ciò che è vicino apparisce chiaro, e viene
stabilito come positivo; ciò ch'è lontano si confonde,
e vien presto a esser considerato solo negativamente. Nello stesso
modo ogni nazione chiama straniere le altre, il greco chiama barbari
gli altri popoli, l'inglese chiama continent e continental
ciò che non è Inghilterra o non è inglese, il
devoto chiama eretici o pagani tutti gli altri, pel nobile sono
tutti roturiers, per lo studente tutti Philister (filistei), e
così via. In questa medesima unilateralità, o si
può dire in questa medesima grossolana ignoranza proveniente
da orgoglio, incorre anche la ragione, per quanto ciò possa
parere strano, quando comprende sotto l'unico concetto di sentimento
ogni modificazione della coscienza, che non spetti immediatamente
alla sua maniera di rappresentazione, cioè che non sia
concetto astratto. E finora, non essendosi resa conscia del suo
stesso procedimento per mezzo d'una profonda conoscenza di se
medesima, ha dovuto scontare ciò con equivoci e smarrimenti
nel suo proprio dominio; perché s'è perfino stabilita
una particolare facoltà del sentimento, e se ne sono
costruite le teorie.
§ 12.
Sapere – il cui opposto contraddittorio è il concetto di
sentimento or ora chiarito – è, come ho detto, ogni
conoscenza astratta, ossia conoscenza di ragione. Ora, poiché
la ragione offre sempre alla conoscenza solo ciò che ha
ricevuto per altro mezzo, non allarga propriamente i confini della
conoscenza, bensì non fa che darle un'altra forma. Ossia
ciò ch'era stato conosciuto intuitivamente, in concreto, lo
fa conoscere in modo astratto e universale. Ma ciò è
senza confronto più importante che non sembri, così
formulato, a tutta prima. Imperocché ogni sicura
conservazione, ogni possibile comunicazione, ogni precisa e ampia
applicazione della conoscenza al campo pratico dipende dall'esser
divenuta un sapere, una conoscenza astratta. La conoscenza intuitiva
vale sempre solamente per un caso solo, si riferisce solo a
ciò ch'è più vicino, ed a questo si ferma,
perché senso e intelletto possono propriamente afferrare un
solo oggetto alla volta. Ogni attività durevole, coordinata,
sistematica deve perciò muovere da principi, ossia da un
sapere astratto, ed esser guidata secondo quelli. Per esempio, la
conoscenza che ha l'intelletto del rapporto di causa ed effetto
è invero in sé molto più compiuta, profonda ed
esauriente di quanto possa esserne pensato in abstract o:
l'intelletto solo conosce per intuizione, immediatamente e
compiutamente, il modo d'agire d'una leva, d'una carrucola, d'una
ruota d'ingranaggio, la stabilità d'una volta etc. Ma per la
proprietà or ora toccata della conoscenza intuitiva, di
riferirsi solo a ciò ch'è immediato e presente,
l'intelletto non perviene da solo alla costruzione di macchine e di
edifizi: qui deve piuttosto intervenire la ragione, porre concetti
astratti in luogo d'intuizioni, quelli prendere a guida dell'azione;
e il buon successo verrà, se i concetti son giusti.
Così nella pura intuizione noi conosciamo perfettamente
l'essenza e la regolarità d'una parabola o iperbole o
spirale; ma per fare nella realtà una sicura applicazione di
tale conoscenza, questa deve dapprima esser diventata sapere
astratto; nel che essa perde, è vero, il carattere intuitivo,
ma guadagna in compenso la certezza e la determinatezza del sapere
astratto. Così ogni calcolo differenziale non allarga punto
la nostra conoscenza delle curve, e nulla contiene che già
non contenesse la semplice intuizione pura di quelle; bensì
cambia il modo della conoscenza, trasmuta la conoscenza intuitiva in
astratta, e questo è di grandissima importanza per
l'applicazione. Ma qui è il momento di trattar d'un'altra
proprietà del nostro potere conoscitivo, che non si poteva
bene osservare finora, non essendo del tutto chiarita la distinzione
tra conoscenza intuitiva ed astratta. Ed è questa: che le
relazioni di spazio non possono essere trasferite immediatamente, e
come tali, nella conoscenza astratta; bensì sono a ciò
adatte soltanto le grandezze di tempo, ossia i numeri. I numeri
soli, non le quantità spaziali, possono venire espressi in
concetti astratti, che loro perfettamente corrispondano. Il concetto
mille è altrettanto diverso dal concetto dieci, quanto
entrambe le grandezze temporali sono diverse nell'intuizione: noi
pensiamo nel mille un determinato multiplo del dieci; nel quale
possiamo scomporre quello a piacere per l'intuizione nel tempo,
ossia possiamo contarlo. Ma fra il concetto astratto d'un miglio e
quello d'un piede, senza nessuna rappresentazione intuitiva
d'entrambi e senz'aiuto del numero, non c'è una distinzione
netta e corrispondente a quelle grandezze. In entrambe viene pensata
solo una quantità spaziale; e se debbono venir distinte con
sufficiente precisione, bisogna in ogni modo o ricorrere
all'intuizione spaziale, abbandonando perciò il dominio della
conoscenza astratta, o pensare la differenza in numeri. Se si vuol
quindi avere una conoscenza astratta delle relazioni spaziali,
queste prima devon esser ridotte a relazioni temporali, ossia in
numeri: perciò solamente l'aritmetica, e non la geometria,
è dottrina universale delle quantità; e la geometria
dev'esser tradotta in aritmetica, se vuole avere
comunicabilità, determinazione precisa, e possibilità
d'applicazione al campo pratico. È vero che una relazione di
spazio si può pensar come tale anche in abstracto, per
esempio: «il seno cresce in ragione dell'angolo»; ma se
la quantità di questa relazione dev'essere indicata, ha
bisogno del numero. È questa necessità di convertir lo
spazio con le sue tre dimensioni nel tempo, che ha una dimensione
sola, quando si voglia aver una conoscenza astratta (ossia un sapere
e non una semplice intuizione) delle sue relazioni; è questa
necessità che rende così difficile la matematica. La
cosa diventa chiarissima, se paragoniamo l'intuizione delle curve
col loro calcolo analitico, o anche soltanto le tavole dei logaritmi
delle funzioni trigonometriche con l'intuizione delle relazioni
variabili delle parti del triangolo, le quali vengono espresse
mediante quelle tavole. Ciò che l'intuizione afferra qui in
un'occhiata, pienamente e con la massima precisione, ossia come il
coseno diminuisca col crescer del seno, come il coseno di un angolo
sia il seno dell'altro, il rapporto inverso del diminuire o crescere
dei due angoli, etc.; di quale immane contesto di numeri, di qual
faticoso computo abbisognerebbe, per esprimersi in abstracto! Come
deve tormentarsi il tempo, si potrebbe dire, con la sua unica
dimensione, per rendere le tre dimensioni dello spazio! Ma questo
era necessario, se volevamo, all'effetto dell'applicazione pratica,
posseder le relazioni dello spazio formulate in concetti astratti.
Quelle non potevano passare direttamente in questi, ma solo per la
trafila della quantità puramente temporale, del numero, come
quello che immediatamente si muta in conoscenza astratta. Inoltre
è da notare, che mentre lo spazio è tanto atto
all'intuizione, e, per mezzo delle sue tre dimensioni, lascia
facilmente scorgere relazioni anche complicate, esso si sottrae
invece alla conoscenza astratta. Viceversa il tempo rientra
facilmente nei concetti astratti, ma dà invece ben poco
all'intuizione. La nostra intuizione dei numeri nel loro proprio
elemento, il tempo puro, senza aggiungervi lo spazio, giunge appena
fino a dieci; più in su abbiamo solamente concetti astratti,
ma non conoscenza intuitiva dei numeri: al contrario colleghiamo con
ciascun numero e con tutti i segni algebrici concetti astratti
precisamente determinati.
Va qui notato di sfuggita, che taluni spiriti trovano piena
soddisfazione solo in ciò che viene conosciuto
intuitivamente. Causa ed effetto dell'essere nello spazio,
intuitivamente manifesto, è ciò ch'essi cercano: una
dimostrazione euclidea, o una soluzione aritmetica di problemi
geometrici non li attira. Altri spiriti all'opposto domandano i
concetti astratti, che soli si prestano all'applicazione e alla
comunicazione: essi hanno pazienza e memoria per i principi
astratti, formule, dimostrazioni in lunghe serie di sillogismi, e
calcoli, i segni dei quali rappresentano le più complicate
astrazioni. Questi cercano determinatezza: quelli,
intuitività. La differenza è caratteristica.
Il sapere, la conoscenza astratta, ha il suo maggior pregio nella
comunicabilità e nella possibilità di venir conservato
in forma fissa: con ciò solo diventa così
inestimabilmente importante per la pratica. Taluno può avere
nel puro intelletto una conoscenza immediata, intuitiva del nesso
causale dei cambiamenti e dei moti dei corpi naturali, e trovare in
quella una piena soddisfazione; ma essa diviene atta ad esser
comunicata, solo dopo che egli l'ha fissata in concetti. Per la
pratica è sufficiente una conoscenza della prima maniera, fin
tanto che colui assume tutto solo l'attuazione, e quando sia
un'azione da eseguirsi allor che ancora è viva la conoscenza
intuitiva; ma non più, se egli abbisogna d'aiuto estraneo, o
anche di una propria azione personale da attuarsi in diverse epoche,
e quindi d'un piano meditato. Così, per esempio, può
un esercitato giocator di bigliardo avere soltanto nell'intelletto,
soltanto per l'intuizione immediata, una piena conoscenza delle
leggi che riflettono l'urto di corpi elastici l'un contro l'altro; e
con ciò raggiungere appieno le sue mire: all'opposto solo uno
scienziato della meccanica ha una vera e propria scienza di quelle
leggi, ossia ne ha una conoscenza in abstracto. Perfino alla
costruzione di macchine basta la conoscenza intellettuale puramente
intuitiva, quando l'inventore della macchina la costruisce egli
medesimo da solo, come si vede spesso fare a ingegnosi operai
senz'alcuna scienza: invece non appena son necessari più
uomini ed una loro attività coordinata, esercitantesi in
momenti diversi, pel compimento d'una operazione meccanica, d'una
macchina, d'una costruzione, allora deve colui che li dirige aver
tracciato il piano in abstracto, e solo mediante il contributo della
ragione divien possibile una tale attività collettiva.
Notevole è tuttavia che in quella prima maniera
d'attività, dove taluno deve eseguir da solo qualcosa in una
ininterrotta operazione, il sapere, l'uso della ragione, la
riflessione possono essergli perfino d'impedimento; per esempio nel
gioco del bigliardo, nella scherma, nel suono d'uno strumento, nel
canto. Qui dev'esser la conoscenza intuitiva a guidare direttamente
l'attività: il passare per la riflessione la rende malsicura,
per il fatto che scinde l'attenzione confonde l'uomo. Perciò
selvaggi e uomini incolti, i quali sono pochissimo avvezzi a
pensare, eseguono vari esercizi corporali, lotta con le belve, tiro
dell'arco e simili, con una sicurezza e rapidità, che il
riflessivo europeo non raggiunge mai, appunto perché la sua
riflessione lo fa tentennare ed esitare: poi ch'egli cerca di
trovar, per esempio, il posto buono, o il momento opportuno a pari
distanza da due falsi estremi; mentre l'uomo semplice li coglie
immediatamente, senza deviazioni. Così non m'è d'aiuto
il saper indicare in abstracto per gradi e per minuti l'angolo in
cui ho da adoperare il rasoio, se non lo conosco intuitivamente,
ossia non lo formo naturalmente impugnando il rasoio. Nella stessa
maniera ci disturba l'uso della ragione nell'apprezzamento della
fisonomia: questo anche deve avvenire direttamente, mediante
l'intelletto. Si dice, che l'espressione, il significato dei
lineamenti si può solo sentire, ossia che appunto non rientra
nei concetti astratti. Ciascun uomo ha la sua immediata fisiognomica
e patognomica intuitiva: ma l'uno riconosce più chiaramente
che l'altro quella signatura rerum. Una fisiognomica in abstracto,
che si possa insegnare ed apprendere, non si può costruire;
perché le sfumature sono qui tanto fine, che il concetto non
vi può discendere. Quindi il sapere astratto si comporta di
fronte a quelle come una figura a mosaico di fronte a una di van der
Werft o Denner; come, per fino che sia il mosaico, rimangono
tuttavia sempre visibili i contorni d'ogni pietruzza e non è
perciò possibile il passaggio continuo da una tinta
all'altra; così anche i concetti con la loro rigidità
e la lor netta limitazione, per quanto sottilmente si possano
suddividere mediante una più minuta determinazione, sono pur
sempre incapaci di raggiungere le fine sfumature dell'intuizione,
che son quelle che importano appunto nella fisiognomica qui addotta
ad esempio21.
Questa medesima costituzione dei concetti, che li fa simili alle
pietruzze della figura musiva, e grazie alla quale l'intuizione
rimane sempre la loro asintote, è anche il motivo, per cui
nell'arte nulla vien fatto di buono con essi. Se il cantante, il
musicista vuol prodursi con la guida della riflessione, si
demolisce. Lo stesso vale per il compositore, il pittore, il poeta
stesso: il concetto rimane sempre infruttuoso per l'arte. Esso non
può guidare in lei che la tecnica: suo dominio è la
scienza. Nel terzo libro esamineremo più da vicino,
perché ogni vera arte provenga dalla conoscenza intuitiva,
non mai dal concetto. Perfino riguardo al modo di contenersi, alla
piacevolezza nei rapporti sociali, il concetto non serve se non
negativamente, per trattenere le grossolane esplosioni dell'egoismo
e della bestialità, come d'altra parte è suo lodevole
frutto la cortesia: ma ciò che attira, ciò che
è grazioso, avvincente nel contegno, amorevole e gentile, non
deve provenire dal concetto: in caso contrario
fühlt man Absicht und man ist verstimmt
[si sente il voluto e si è male disposti].
Ogni finzione è frutto di riflessione; ma alla lunga e di
continuo la finzione non può durare: nemo potest personam diu
ferre fictam, dice Seneca, nel libro De clementia: inoltre essa
viene il più delle volte smascherata, e manca il suo effetto.
In un alto fervore di vita, dove occorre veloce risoluzione, azione
ardita, rapida e ferma iniziativa, è bensì la ragione
necessaria; ma può facilmente guastare tutto se prende il
sopravvento. Allora, generando confusione, impedisce la trovata
intuitiva, diretta, puramente intellettiva, la pronta e giusta
risoluzione, ed è causa d'irresolutezza.
Finalmente, anche virtù e santità non provengono dalla
riflessione, ma dall'intima profondità del volere e dalla sua
relazione col conoscere. Il dimostrar ciò spetta a tutt'altro
luogo di quest'opera: qui voglio soltanto osservare, che i dogmi
riferentisi al mondo etico possono essere i medesimi nella ragione
di popoli interi, ma diverso l'agire in ogni individuo, e viceversa.
Si agisce, come suol dirsi, per sentimenti: ossia non per concetti,
ossia non secondo il lor contenuto etico. I dogmi tengono occupata
la pigra ragione: l'azione procede indipendente da quelli pel suo
cammino, il più delle volte secondo massime non astratte, ma
inespresse, di cui è espressione appunto tutto l'uomo,
medesimo. Quindi, per quanto diversi siano i dogmi religiosi dei
popoli, pure è per tutti causa d'inesprimibile contento la
buona azione, e la cattiva è accompagnata da orrore infinito.
Nessun dileggio scuote quel contento; nessuna assoluzione del
confessore libera da quell'orrore. Tuttavia non si vuol negare con
questo, che l'uso della ragione sia necessario nella pratica
continuata della virtù: soltanto, la ragione non è la
fonte di questa; bensì la sua funzione è subordinata,
e consiste nell'osservanza di deliberazioni già prese, nel
tener presenti le massime, per resistere alle debolezze momentanee e
agire conseguentemente. Lo stesso ufficio compie la ragione anche
nell'arte, dov'essa non ha bensì alcun potere sostanziale, ma
sorregge l'esecuzione; appunto perché il genio non sta a
disposizione in tutti i momenti, mentre l'opera dev'essere compiuta
in ogni sua parte e arrotondata in un tutto22.
§ 13.
Tutte queste considerazioni, sì intorno all'utilità
che allo svantaggio dell'impiego della ragione, devono servire a
render chiaro, che sebbene il sapere astratto sia il riflesso della
rappresentazione intuitiva e si fondi su questa, non è
tuttavia in alcun modo identico a lei, sì da poter fare
ovunque le sue veci. Anzi, non le corrisponde mai perfettamente;
quindi, come abbiamo veduto, è vero che molte delle azioni
umane vengono a buon termine solo con l'aiuto della ragione e della
condotta meditata, ma talune riescon meglio senza. Appunto quella
incongruenza del conoscere intuitivo e dell'astratto, in grazia
della quale quest'ultimo s'agguaglia al primo solo
approssimativamente, come il mosaico alla pittura, è anche il
motivo d'un fenomeno molto singolare; il quale, appunto come la
ragione, è proprio esclusivamente della natura umana. Le
spiegazioni sempre nuove che ne furon tentate finora sono tutte
insufficienti: intendo parlare del riso. In virtù di questa
sua origine, non possiamo sottrarci qui ad una spiegazione di esso,
sebbene ne venga ancora ritardato il nostro cammino. Il riso volta
per volta nasce da nient'altro che da un'incongruenza,
improvvisamente percepita, fra un, concetto e gli oggetti reali, che
erano pensati mediante quel concetto, in una relazione qualsiasi: ed
esso medesimo è proprio solamente l'espressione di tale
incongruenza. Questa è prodotta sovente da ciò, che
due o più oggetti reali sono pensati mediante un unico
concetto, la cui identità è trasportata in essi: ma
tosto una completa dissomiglianza loro nel resto rende palese che il
concetto conveniva ad essi sotto un solo punto di vista. Tuttavia
è altrettanto frequente un unico oggetto reale, la cui
incongruenza col concetto, a cui da un lato era stato sussunto con
ragione, divien sensibile d'un tratto. Quanto è più
giusta da un lato la sussunzione di tali oggetti reali sotto un
concetto, e più grossa e stridente dall'altro la loro
discordanza da quello; tanto più forte è l'azione del
ridicolo emergente a questo contrasto. Ogni riso è provocato
quindi da una sussunzione paradossale e quindi inattesa, si esprima
questa in parole od in atti. Tale è, in breve, l'esatta
spiegazione del ridicolo.
Non m'indugierò qui a narrare aneddoti ed esempi per chiarire
la mia spiegazione, essendo questa tanto semplice e agevole, da non
averne bisogno; e ciascun caso ridicolo, di cui si sovvenga il
lettore, serve in egual modo di prova. Ma forse la nostra
spiegazione riceve conferma e chiarimento insieme dalla distinzione
di due generi del ridicolo, che appunto ne risultano. Può
accadere che si siano trovati prima nella conoscenza due o
più oggetti reali meno diversi (rappresentazioni intuitive) e
li si abbia arbitrariamente eguagliati nell'unità di un
concetto che li racchiude entrambi: questo modo di ridicolo si
chiama spirito. O, viceversa, il giudizio è primo a trovarsi
nella conoscenza, e si parte da esso per venire alla realtà e
all'azione sulla realtà, alla pratica. In questo caso oggetti
nel resto fondamentalmente diversi, ma tutti pensati sotto quel
concetto, vengono ora riguardati e trattati ad un modo, fin quando
la lor grande diversità in tutto il rimanente balza fuori,
producendo sorpresa e stupore in chi agisce: questo genere di
ridicolo si chiama buffoneria. Per conseguenza ogni ridicolo
è una trovata umoristica, oppure un'azione buffonesca, a
seconda che si proceda dalla discrepanza degli oggetti
all'identità del concetto, o viceversa. Il primo caso
è sempre volontario, il secondo sempre involontario ed
imposto esteriormente. Aver l'aria di permutare questi punti di
partenza, e mascherare l'umorismo da buffoneria, è l'arte del
buffone di corte e del pagliaccio: di chi, pur essendo ben conscio
della diversità degli oggetti, li ravvicina, con celata
arguzia, sotto un concetto; e partendo poi da questo, ricava dalla
diversità degli oggetti, in seguito scoperta, quella sorpresa
che egli stesso s'era preparata. Da questa breve, ma sufficiente
teoria del ridicolo appare che (facendo astrazione dall'ultimo caso
citato del burlone), lo spirito si deve mostrar sempre a parole, la
buffoneria invece il più sovente nei fatti, sebbene a volte
si mostri anche a parole, come quando non fa che esporre il suo
proposito invece di eseguirlo, o si manifesta soltanto in giudizi ed
opinioni.
Alla buffoneria appartiene anche la pedanteria. Essa proviene
dall'aver poca fiducia nel nostro intelletto, e dal non poterlo
lasciar libero di trovare immediatamente la via giusta in ogni
singolo caso; quindi lo si colloca in tutto e per tutto sotto la
tutela della ragione, e ci si vuol servire sempre di questa: ossia
muover sempre da concetti universali, regole, massime; ed
attenervisi esattamente nella vita, nell'arte, perfino nella buona
condotta morale. Di qui l'attaccamento, caratteristico della
pedanteria, alla forma, alla maniera, all'espressione, alla parola;
che per lei si sostituiscono all'assenza della cosa. Allora non si
tarda a veder l'incongruenza del concetto con la realtà; si
vede come quello non scende mai fino al particolare, e come quella
universalità e rigida determinatezza non possa mai adattarsi
alle fine sfumature e alle variate modificazioni della
realtà. Quindi il pedante con le sue massime generali si
trova sempre al disotto nella vita, e si mostra inetto, insulso,
inservibile; nell'arte, per la quale il concetto è sterile,
produce aborti esanimi, rigidi, artificiosi. Perfino il rispetto
etico il proposito d'agir giustamente o nobilmente non può
sempre essere attuato secondo massime astratte; perché in
molti casi la natura delle circostanze con le loro infinite,
delicate sfumature richiede una scelta della vita giusta emersa
lì per lì dal carattere dell'individuo. Invece
l'applicazione di pure massime astratte in parte da cattivi
risultati, perché queste non convengono che a metà; in
parte non si può fare, quando le massime sono estranee al
carattere individuale di chi agisce, e questi non può
rinnegar del tutto se stesso: da ciò possono derivare
inconseguenze. Non possiamo assolvere pienamente Kant dall'accusa di
pedanteria, quando pone a condizione del valore morale di un atto,
che questo si faccia secondo pure massime astratte razionali,
senz'alcuna inclinazione o eccitazione del momento; accusa che
è anche il senso dell'epigramma schilleriano «Scrupolo
di coscienza». Quando, soprattutto in cose politiche, si parla
di dottrinari, teorici, eruditi, etc., s'intendono sempre pedanti:
ossia persone che conoscono bensì le cose in abstracto, ma
non in concreto. L'astrazione consiste nel cancellar dal pensiero le
circostanze particolari: mentre sono appunto queste, che hanno
grande importanza nella pratica.
Per compiere la teoria è da ricordare ancora un falso genere
di spirito: il giuoco di parole, calembourg, pun, al quale si
può ravvicinare anche il doppio senso, l’équivoque,
usato principalmente per l'oscenità. Come lo spirito forza
due oggetti reali ben diversi a stare sotto un concetto, così
il giuoco di parola riunisce con l'aiuto del caso due concetti
differenti in un'unica parola. Ne viene lo stesso contrasto, ma
molto più fiacco e superficiale, essendo sorto non
dall'essenza delle cose, bensì dal caso delle denominazioni.
Il vero spirito ha identità nel concetto, differenza nella
realtà; col giuoco di parole invece si ha differenza nei
concetti e identità nella realtà, considerando come
tale il suono della parola. Sarebbe un paragone un po' troppo
ricercato, il dire che il giuoco di parole sta allo spirito come la
parabola del cono superiore rovesciato sta a quella dell'inferiore.
Il fraintendimento della parola poi, ossia il quid pro quo, è
il calembourg involontario, e sta a questo proprio come la
buffoneria all'umorismo. Perciò un uomo duro d'orecchi
può, come il buffone, dar materia al riso; e i commediografi
scadenti se ne servono in luogo di quello.
Ho considerato qui il riso unicamente dal lato psichico; sotto
l'aspetto fisico si vegga quanto se ne dice nei Parerga, vol. II,
Cap. 6, § 96, p. 134 (prima ediz.)23.
§ 14.
Dopo tutte queste varie considerazioni (le quali è sperabile
abbian posto in piena luce la differenza e la relazione fra il modo
di conoscere della ragione, ossia il sapere, il concetto, da un
lato, e dall'altro la conoscenza immediata nella pura intuizione
sensibile e matematica, nonché il suo apprendimento da parte
dell'intelletto); e quindi dopo le dilucidazioni episodiche intorno
al sentimento ed al riso – cui siamo stati condotti quasi
inevitabilmente attraverso l'esame di quella singolare relazione dei
nostri modi di conoscenza – riprendo ora a spiegare che cosa sia la
scienza: come quella che accanto al linguaggio e all'azione
meditata, è il terzo privilegio concesso all'uomo dalla
ragione. L'esame generale della scienza, che qui c'incombe,
toccherà per una parte la sua forma, per l'altra il
fondamento dei suoi giudizi, e finalmente anche il suo contenuto.
Abbiamo veduto che – facendo eccezione del fondamento della logica
pura – nessun altro sapere ha la sua origine nella ragione;
bensì, attinto da altra sorgente in qualità di
conoscenza intuitiva, nella ragione viene depositato, passando
così in un modo di conoscenza affatto diverso: la conoscenza
astratta. Ogni sapere, ossia ogni conoscenza elevata alla coscienza
in abstracto, sta alla vera e propria scienza come un frammento sta
al tutto. Ciascun uomo, sia per esperienza, sia per considerazione
dei singoli dati, ha raggiunto un sapere intorno ad oggetti
svariati: ma solo chi s'impone d'acquistare compiuta conoscenza in
abstracto d'una data specie d'oggetti, aspira veramente alla
scienza. Solo per mezzo del concetto può isolare quella
specie: quindi al sommo d'ogni scienza sta un concetto, mediante il
quale dal complesso di tutte le cose viene staccata una parte, di
cui la scienza promette una piena cognizione in abstracto. Per
esempio il concetto delle relazioni spaziali, o dell'azione
reciproca dei corpi organici, o della natura delle piante e degli
animali, o delle successive trasformazioni della superficie della
terra, o dell'evoluzione complessiva del genere umano, o della
formazione d'una lingua, e così via. Se la scienza volesse
acquistar cognizione del suo campo, indagando ad una ad una tutte le
cose pensate col concetto, e venendo così a poco a poco a
conoscere il tutto, né la memoria umana basterebbe allo
scopo, né si raggiungerebbe mai la certezza d'aver tutto
conosciuto. Perciò la scienza si vale della proprietà,
più sopra illustrata, che hanno le sfere concettuali, di
esser comprese l'una nell'altra; e considera principalmente le sfere
più ampie fra quelle che si trovano racchiuse nel concetto
del suo oggetto. Quando ha determinato le loro relazioni reciproche,
ha contemporaneamente determinato in genere tutto ciò che in
quelle sfere viene pensato e che ora sarà determinato con
sempre maggiore precisione, man mano che si vengano ad isolare sfere
concettuali più ristrette. Così diventa possibile ad
una scienza di abbracciare completamente il suo oggetto. E questa
via, che conduce alla conoscenza procedendo dall'universale verso il
particolare, distingue la scienza dal sapere comune: quindi la forma
sistematica è una caratteristica essenziale della scienza. Il
collegamento delle più vaste sfere concettuali d'ogni
scienza, ossia la conoscenza dei suoi principi superiori, è
condizione assoluta del suo apprendimento: rimane poi ad arbitrio
dello scienziato il punto a cui vuol pervenire, scendendo da quei
principi superiori a principi di mano in mano più limitati;
con ciò si accresce non la profondità, ma l'estensione
della scienza. Il numero dei principi superiori, ai quali sono tutti
subordinati i rimanenti, è molto diverso a seconda delle
varie scienze, tanto che in alcune si ha più subordinazione,
in altre più coordinazione; sotto il qual punto di vista
quelle richiedono più forza di giudizio, queste più
memoria. Era già noto agli scolastici24 che, richiedendo il
sillogismo due premesse, nessuna scienza può muovere da un
unico principio superiore, che non sia a sua volta derivabile da un
altro; ma deve averne parecchi; o almeno due. Le scienze di
classificazione vera e propria: zoologia, botanica, ed anche fisica
e chimica, in quanto queste due ultime riconducono a poche forze
elementari ogni azione inorganica, hanno la massima subordinazione;
viceversa la storia non ne ha punto, perché in lei
l'universale consiste appena nel prospetto delle epoche principali
maggiori, da cui tuttavia non si posson derivare le circostanze
particolari. Queste sono a quelle subordinate solo per il tempo, ma
coordinate in quanto al concetto. Perciò la storia, presa in
senso preciso, è bensì un sapere, ma non una scienza.
Nella matematica gli assiomi sono, secondo la trattazione euclidea,
i soli principi superiori non dimostrabili, e tutte le dimostrazioni
sono di grado in grado rigidamente subordinate a quelli: tuttavia
questo modo di trattazione non è essenziale alla matematica,
e in realtà ogni teorema fa sorgere una nuova costruzione
spaziale, che in sé è indipendente dalle precedenti e
può invero indipendentemente da quelle esser conosciuta, di
per se stessa, nella pura intuizione dello spazio, nella quale anche
la più complicata costruzione ha in realtà la stessa
immediata evidenza dell'assioma. Ma di ciò sarà
trattato ampiamente in seguito. Frattanto, ogni principio matematico
rimane pur sempre una verità universale, applicabile ad
innumerevoli casi singoli; alla matematica è anche essenziale
un graduato procedere dai principi semplici ai meno semplici, e
questi vanno ricondotti a quelli. Perciò la matematica
è sotto ogni rispetto una scienza. La perfezione d'una
scienza in quanto tale, ossia nella sua forma, consiste nell'aver
quanto più è possibile subordinazione di principi, e
poca coordinazione. Quindi il talento scientifico in genere è
l'attitudine a subordinare le sfere concettuali, secondo le loro
varie determinazioni; affinchè, come ripetutamente esorta
Platone, non costituisca scienza un solo principio universale, sotto
cui siano giustapposti una sterminata varietà di casi
singoli, ma bensì la conoscenza proceda gradualmente dal
più universale al particolare, attraverso concetti intermedi
e partizioni, fatte secondo determinazioni sempre più
strette. Con le parole di Kant, questo si chiama soddisfare
egualmente la legge di omogeneità e quella di specificazione.
Ma appunto dal fatto che ciò costituisce la vera perfezione
scientifica, deriva che scopo della scienza non è una
maggiore certezza, la quale può esser altrettanto data anche
dalla più limitata conoscenza singola; bensì una
maggior facilità del sapere mediante la forma di esso, o per
tal via la possibilità di un sapere compiuto. È quindi
opinione corrente ma sbagliata, che il carattere scientifico della
conoscenza sta nella maggior certezza, ed altrettanto falsa è
l'affermazione che ne deriva, che soltanto la matematica e la logica
siano scienze in senso proprio; essendo solo in quelle, a causa
della loro completa apriorità, un'incrollabile certezza della
conoscenza. Quest'ultimo privilegio non si può contrastare:
ma esso non dà loro nessuno speciale monopolio del carattere
scientifico, poiché questo consiste non già nella
certezza, bensì nella sistematica forma della conoscenza
fondata sul graduale discendere dal generale al particolare. Codesto
cammino della conoscenza proprio delle scienze (ossia il discender
dal generale al particolare), porta con sé che molto in esse
poggia sulla derivazione da principi anteriori, e quindi su
dimostrazioni. E questo ha provocato l'antico errore, esser vero
soltanto ciò che è provato, ed ogni verità
abbisognar d'una prova; mentre al contrario ogni prova abbisogna
piuttosto d'una verità non provata, che appoggi la prova
stessa o anche, alla lor volta, le prove di questa. Perciò
una verità direttamente accertata è da preferire a
quella fondata su una dimostrazione, come l'acqua della sorgente
è preferibile a quella dell'acquedotto. Intuizione – o pura,
a priori, come quella della matematica, o empirica, a posteriori,
come quella di tutte le altre scienze – è la sorgente d'ogni
verità e il fondamento d'ogni scienza. (Va eccettuata solo la
logica, fondata sulla conoscenza non intuitiva, sebbene sia anche
immediata conoscenza che la ragione ha delle sue proprie leggi). Non
i giudizi provati, né le loro prove: bensì quelli
direttamente attinti dall'intuizione e fondati su questa, in luogo
d'ogni prova, sono nella scienza quel ch'è il sole
nell'universo: perché da essi deriva tutta la luce, dalla
quale illuminati splendono gli altri alla lor volta. Fondar
direttamente sull'intuizione la verità di codesti giudizi
primi; estrarre dall'infinita moltitudine di oggetti reali codesti
cardini della scienza: tale è il compito della facoltà
giudicante; la quale consiste nel trasferire con giustezza e
precisione nella coscienza astratta ciò che è
conosciuto intuitivamente, e quindi è intermediaria tra
intelletto e ragione. Solo una forza di giudizio eccezionale,
superiore alla media, in un individuo, può far davvero
avanzare le scienze: ma derivare principi da principi, dimostrare,
sillogizzare può ciascuno, sol che abbia sana ragione.
All'opposto, deporre e fissare in concetti convenienti, per
riflessione, la conoscenza intuitiva; sì che da un lato i
caratteri comuni di molti oggetti reali siano pensati con un
concetto, e dall'altro con altrettanti concetti i loro caratteri
differenti; per modo che il differente, malgrado una parziale
concordanza, sia conosciuto e pensato come differente, e l'identico
alla sua volta come identico, malgrado una parziale differenza
(sempre secondo lo scopo e il punto di vista che in ogni singolo
caso predomina), tutto questo fa il giudizio. Mancanza di giudizio
è stoltezza. Lo stolto misconosce ora la parziale o relativa
differenza di ciò che per un altro riguardo è
identico, ora l'identità del relativamente o parzialmente
diverso. D'altronde a questa spiegazione del giudizio si può
applicare la partizione che fa Kant in giudizio riflettente e
sussumente, a seconda ch'esso proceda dagli oggetti intuitivi verso
il concetto, o da questo a quelli; ma, nell'un caso e nell'altro,
sempre facendo da intermediario tra la conoscenza intuitiva
dell'intelletto e quella riflessa della ragione. Non esiste nessuna
verità, che possa incondizionatamente essere ricavata solo
mediante sillogismi; e il bisogno di fondarla coi soli sillogismi
è sempre relativo, anzi subiettivo. Essendo sillogismi tutte
le dimostrazioni per una verità nuova, non si deve cominciare
a cercar una prova, bensì l'evidenza assoluta; e solo
finché questa viene a mancare, è da costruire in via
provvisoria una dimostrazione. Nessuna scienza può esser
provata in tutto e per tutto, come un edifizio non può
reggersi in aria: tutte le sue prove devono risalire ad un fatto
intuitivo e quindi non più dimostrabile. Imperocché
l'intero mondo della riflessione poggia e ha le sue radici nel mondo
intuitivo. Ogni evidenza ultima, ossia originaria, è
intuitiva: la parola stessa lo dice. Può essere empirica,
oppure fondata sull'intuizione a priori delle condizioni
dell'esperienza possibile: ma in entrambi i casi essa fornisce
conoscenza immanente, non trascendente. Ogni concetto ha il suo
valore e la sua essenza soltanto nella relazione, sia pur molto
indiretta, con una rappresentazione intuitiva. E, ciò che
vale pei concetti, vale anche per i giudizi, che son composti di
concetti, e per tutte le scienze. Dev'esser dunque possibile, in
qualche modo, di conoscer direttamente, senza sillogismi e senza
prove, ciascuna verità che sia stata trovata con sillogismi e
comunicata con prove. La cosa è più difficile per
certi complicati principi matematici, cui perveniamo solo attraverso
catene di sillogismi, come per esempio il calcolo delle corde e
delle tangenti per tutti gli archi, cui si perviene, per mezzo di
sillogismi, dal teorema di Pitagora. Ma anche codesta verità
non può poggiare sostanzialmente ed esclusivamente su
principi astratti, e così le relazioni spaziali, che le
servono di fondamento, devono poter esser ricavate con la pura
intuizione a priori, in modo che la loro astratta enunciazione venga
fondata direttamente. Ma della dimostrazione matematica si
tratterà subito distesamente.
Si parla spesso in tono enfatico di scienze, le quali poggiano
esclusivamente su deduzioni esatte da sicure premesse, e quindi
devono essere incrollabilmente vere. Ma con una serie puramente
logica di deduzioni, siano pur vere le premesse quanto si voglia,
non si otterrà mai altro che una maggior chiarezza e
dimostrazione di ciò, che già si trova bell'e pronto
nelle premesse: non si farà quindi che esporre explicite
ciò che si trova implicite colà. Quelle scienze
così vantate sono in ispecial modo le scienze matematiche, e
soprattutto l'astronomia. Ma la certezza dell'astronomia proviene
dal fatto, ch'ella ha per fondamento l'intuizione a priori, e quindi
infallibile, dello spazio; mentre tutte le relazioni spaziali si
svolgono l'una dall'altra con una necessità (principio
dell'essere) che dà certezza a priori, e si posson quindi
dedurre successivamente con sicurezza. A queste determinazioni si
aggiunge qui una sola forza naturale, la gravità, che agisce
nella precisa relazione delle masse e del quadrato della distanza; e
finalmente ancora la legge d'inerzia, che è certa a priori,
perché derivante dalla causalità, accanto al dato
empirico del movimento impresso una volta per sempre a ciascuna di
quelle masse. Questo è tutto il materiale dell'astronomia; il
quale, tanto per la sua semplicità quanto per la sua
certezza, conduce a risultati fermi, e molto interessanti a causa
della grandezza e importanza degli oggetti. Se io, per esempio,
conosco la massa d'un pianeta e la distanza del suo satellite,
potrò con certezza determinare il tempo di rivoluzione di
quest'ultimo, in conformità della seconda legge di Keplero:
ma il principio di questa legge è che, ad una data distanza,
una data velocità può insieme tener legato il
satellite al pianeta ed impedirgli di cadere in questo. Quindi solo
su tal fondamento geometrico, ossia per mezzo di un'intuizione a
priori, e inoltre con l'applicazione d'una legge naturale, si
può andar così lontano con le deduzioni; perché
queste sono qui nient'altro che ponti da un'intuizione ad un'altra.
Ma non altrettanto si può fare con semplici e pure deduzioni
per via esclusivamente logica. L'origine delle prime verità
fondamentali dell'astronomia è propriamente induzione, ossia
riunione di ciò ch'è dato da molte intuzioni in un
giudizio esatto, direttamente fondato. Su quest'ultimo vengono poi
formate ipotesi, la cui conferma mediante l'esperienza – induzione
molto prossima alla compiutezza – fornisce la prova di quel primo
giudizio. Per esempio, l'apparente moto dei pianeti è
conosciuto empiricamente: dopo molte false ipotesi sulla connessione
spaziale di questo moto (orbita dei pianeti) fu trovata infine la
giusta; poi, subito, le loro leggi (leggi di Keplero); e finalmente
anche la loro causa (gravitazione universale). Ed a tutte le ipotesi
diede piena certezza l'accordo, empiricamente conosciuto, di tutti i
casi avveratisi con le ipotesi stesse e con le loro conseguenze –
ossia l'induzione. La scoperta delle ipotesi era compito del
giudizio, che afferrò esattamente, e convenientemente
espresse, i dati di fatto; ma l'induzione, ossia intuizione
molteplice, ne confermò la verità. Questa poteva
tuttavia poggiare anche direttamente sopra un'unica intuizione
empirica, se noi fossimo stati in grado di trasvolar liberamente per
gli spazi, avendo occhi telescopici. Per conseguenza anche qui le
deduzioni non sono l'essenziale ed unica sorgente della conoscenza,
ma sempre un semplice espediente.
Finalmente, per citare un terzo esempio d'altra natura, vogliamo
ancora osservare, che neppur le cosiddette verità metafisiche
– ossia quelle che Kant enumera nei Principi metafisici della
scienza detta natura – devono alle dimostrazioni la loro evidenza.
Ciò che è certo a priori, lo conosciamo direttamente:
come forma di ogni conoscenza, ha per noi il carattere della massima
necessità. Per esempio, che la materia persista, cioè
non abbia principio né fine, ci è noto direttamente
come verità negativa: perché la nostra intuizione pura
dello spazio e del tempo dà la possibilità del moto, e
l'intelletto dà, nella legge di causalità, la
possibilità del cambiamento di forma e qualità; ma le
forme dell'intuizione possibile ci mancano per un nascere o svanire
della materia. Quindi codesta verità fu sempre, dovunque ed a
tutti evidente, né mai posta seriamente in dubbio; il che non
potrebbe essere, se il suo principio di conoscenza non fosse ben
diverso dalla dimostrazione così difficile di Kant, che
sembra procedere su punte di spilli. Oltre a ciò, la prova di
Kant l'ho trovata falsa (com'è spiegato nell'appendice); ed
ho più sopra mostrato che la permanenza della materia non va
dedotta dalla partecipazione che ha il tempo alla possibilità
della esperienza, ma da quella che v'ha lo spazio. La vera base di
tutte le verità chiamate in questo senso metafisiche, ossia
espressioni astratte delle forme necessarie e universali della
conoscenza, non può stare alla sua volta in principi
astratti; ma solo nella coscienza diretta delle forme della
rappresentazione. La qual coscienza si manifesta a priori mediante
affermazioni apodittiche, più forti di qualunque obiezione.
Se nondimeno si vuol darne una prova, questa può consister
solo nel dimostrare che la verità da provarsi è
già contenuta – sia come parte, sia come premessa – in
qualche altra verità non mai contestata. Così io ho
dimostrato, per esempio, che ogni intuizione empirica già
contiene l'applicazione della legge di causalità; la cui
cognizione è quindi base d'ogni esperienza, e non può
per tal motivo esser data e condizionata da questa, come Hume
affermava. Le dimostrazioni d'altronde servono meno a chi impara,
che non a chi vuol disputare. Questi ultimi negano con ostinazione
ogni certezza direttamente conseguita. Ma la verità sola
può esser conseguente da tutti i lati: si deve quindi
mostrare a costoro, che essi in un modo e direttamente concedono
ciò, che in un altro modo e indirettamente negano; ossia
mostrare la necessaria connessione logica fra quel ch'è
negato e quel ch'è concesso.
Inoltre la forma scientifica, che è subordinazione di tutto
il particolare al generale e così via, salendo sempre
più alto, ha per conseguenza, che la verità di molti
principi sia fondata solo logicamente, cioè in virtù
della loro dipendenza da altri principi; quindi per mezzo di
deduzioni, che fanno insieme le veci di dimostrazioni, Ma non va mai
dimenticato, che tutta codesta forma scientifica è
semplicemente facilitazione della conoscenza, e non mezzo per
raggiungere una maggiore certezza. È più facile
conoscere la natura di un animale dalla specie a cui esso
appartiene, e questa via via dal genere, dalla famiglia, dall'ordine
e dalla classe, anzi che studiare volta per volta ogni animale
isolatamente; ma la verità di tutti i principi derivati da
deduzioni è sempre appena relativa, e alla fine dipendente da
un'altra verità, la quale riposa non sopra deduzioni, ma
sopra l'intuizione. Se questa fosse sempre così accessibile
come una deduzione per sillogismi, sarebbe in tutti i modi da
preferire. Poiché ogni deduzione da concetti è – per
la varia intersecazione delle sfere più sopra mostrata, e per
la determinazione spesso incerta del loro contenuto – esposta a
molti sbagli; dei quali sono esempi tante dimostrazioni di false
dottrine, e sofismi d'ogni genere. I sillogismi sono invero
certissimi quanto alla forma, ma assai malsicuri quanto alla loro
materia, che sono i concetti; perché in parte le sfere di
questi non sono spesso determinate con sufficiente nettezza, in
parte s'intrecciano così variamente, che una sfera è
in modo frammentario contenuta in molte altre, e da lei si
può liberamente passare all'una o all'altra di queste e
così via; come fu già esposto. O con altre parole: il
terminus minor ed anche il medius possono sempre venir subordinati a
differenti concetti, fra' quali si sceglie a volontà il
terminus maior ed il medius: dal che dipende la diversità
della conclusione. Sempre è adunque la diretta evidenza da
preferire di gran lunga alla verità dimostrata; e questa va
accolta solo quando l'altra s'avrebbe a cercar troppo lontano, ma
non quando sono egualmente vicine o è più vicina
l'evidenza. Perciò vedemmo, che in realtà anche nella
logica, dove la conoscenza diretta in ogni singolo caso ci è
più prossima che la derivata conoscenza scientifica, guidiamo
il nostro pensiero sempre secondo la conoscenza immediata delle
leggi del pensiero stesso, e lasciamo la logica stessa in
disparte25.
§ 15.
Ora, se noi con la nostra fede che l'intuizione sia la fonte prima
d'ogni evidenza, e sola assoluta verità sia la diretta o
mediata relazione con lei; che inoltre la via più sicura per
giungere alla verità sia sempre la più breve,
perché ogni frapposizione di concetti può esser causa
di inganni – se noi, dico, con questa fede ci volgiamo alla
matematica, quale è stata eretta a scienza da Euclide e
rimasta in complesso fino al giorno d'oggi, non possiamo fare a meno
di giudicar singolare, anzi assurda, la via che questa percorre. Noi
pretendiamo che ogni argomentazione logica sia ricondotta ad
un'intuizione; la matematica invece si sforza a gran fatica di
rigettare temerariamente l'evidenza intuitiva che le è
propria e le sta sempre a portata di mano, per sostituire
un'evidenza logica. Questo a noi fa l'effetto di qualcuno che si
tagli le gambe, per camminare con le grucce; o del principe che nel
«Trionfo della sensibilità» rifugge dalla vera,
bella natura, per compiacersi d'una decorazione teatrale che la
imita. Devo qui richiamare quel che ho detto nel sesto capitolo
della memoria sopra il principio di ragione, e che suppongo fresco
nella memoria al lettore e ben presente, sì da potervi
riannodare le mie osservazioni senza spiegar daccapo il divario tra
il semplice principio di conoscenza di una verità matematica,
che può esser dato logicamente, e il principio dell'essere,
che è la connessione diretta, conoscibile solo
intuitivamente, delle parti dello spazio e del tempo. Solo il
penetrare in questa dà vero appagamento e piena conoscenza;
mentre il semplice principio di conoscenza rimane sempre alla
superficie, facendoci sapere che qualcosa è così, ma
non perché è così. Euclide ha seguito questa
seconda via, con palese svantaggio della scienza. Imperocché,
ad esempio, fin dal principio, dove dovrebbe dimostrare una volta
per sempre che nel triangolo angoli e lati si determinano a vicenda,
e sono reciprocamente causa ed effetto gli uni degli altri, secondo
la forma che ha il principio di ragione nello spazio puro e che
produce quivi, come ovunque, la necessità che una cosa sia
così com'è, perché un'altra, da quella affatto
diversa, è così com'è – invece di rivelare in
questo modo a fondo l'essenza del triangolo, stabilisce alcune
proposizioni frammentarie sul triangolo, scelte a suo modo, e ne
dà un principio logico di conoscenza con una dimostrazione
faticosa, logica, condotta secondo il principio di contraddizione.
Da ciò, invece d'una conoscenza a fondo di codeste relazioni
spaziali, si vengono ad avere solo alcune risultanze di quelle,
comunicate ad arbitrio; e ci si trova nelle condizioni di colui al
quale si mostrino le differenti operazioni d'una macchina, ma
tacendone la costituzione interna ed il funzionamento. Che tutto sia
come Euclide dimostra, bisogna concedere, costretti dal principio di
contraddizione: ma perché sia così, non si apprende.
Si ha quindi press'a poco la stessa impressione spiacevole che ci
lascia un giuoco di destrezza; e in verità a questi
somigliano in massima parte le dimostrazioni euclidee. Quasi sempre
la verità irrompe da una porticina secondaria, risultando per
accidens da qualche circostanza accessoria. Sovente una
dimostrazione apagogica chiude tutte le porte, l'una dopo l'altra, e
ne lascia aperta una sola, nella quale s'ha quindi da entrare per
forza. Spesso, come accade nel teorema di Pitagora, vengono tirate
certe linee senza che si sappia perché: dipoi si apprende che
erano lacciuoli destinati a stringersi all'improvviso, per
imprigionar l'assenso del discepolo: il quale ora, stupito, deve
accettare un fatto che gli rimane ancora del tutto incomprensibile
nel suo intimo nesso. Tanto incomprensibile, ch'egli deve studiare
Euclide da capo a fondo senza potersi render davvero conto delle
leggi delle relazioni spaziali, e imparandone invece a memoria
appena pochi risultati. Questa conoscenza, empirica e non
scientifica, somiglia a quella del medico, il quale conosce
bensì malattia e rimedio, ma non la connessione d'entrambi.
Tutto ciò è prodotto dal respinger capricciosamente il
modo di dimostrazione e l'evidenza propri d'un genere di conoscenza,
introducendo invece per forza un metodo eterogeneo. Nondimeno la
maniera in ciò adoperata da Euclide merita tutta
l'ammirazione, che per secoli le è stata tributata, e che
è giunta tant'oltre da farla proclamare il prototipo d'ogni
dimostrazione scientifica, sul quale si cercò di modellare
tutte le altre scienze. Più tardi s'è cambiata
opinione, senza saper bene perché. Ai nostri occhi tuttavia
quel metodo euclideo nella matematica apparisce non altrimenti che
una brillantissima stortura. Ma di ogni grande aberrazione, seguita
con proposito e con metodo, sia che tocchi la vita o la scienza, si
troverà sempre il principio nella filosofia corrente al suo
tempo. Gli Eleatici furono i primi a scoprire il divario, anzi il
frequente contrasto, fra l'intuito, φαινομενον, e il pensato,
νοουμενον 26, e se ne servirono variamente pei loro filosofemi, ed
anche per sofismi. A loro tennero dietro poi Megarici, Dialettici,
Sofisti, Neoaccademici e Scettici; questi attirarono l'attenzione
sull'apparenza, ossia sull'illusione dei sensi, o piuttosto
dell'intelletto, che i loro dati trasforma in intuizione; la quale
illusione ci fa spesso veder cose di cui la ragione con certezza
nega la realtà, per esempio il bastone spezzato nell'acqua e
così via. Si comprese che non c'è da fidarsi
incondizionatamente dell'intuizione sensibile, e con troppa fretta
si concluse che soltanto il razionale, logico pensiero fosse
fondamento di verità; sebbene Platone (nel Parmenide), i
Megarici, Pirrone e i Neoaccademici dimostrassero con esempi (come
fece più tardi Sesto Empirico), come d'altra parte anche
sillogismi e concetti inducano in errore, generando paralogismi e
sofismi molto più facili a sorgere e più difficili a
disperdere che non sia l'illusione nell'intuizione sensibile.
Frattanto, adunque, quel razionalismo, sorto in opposizione
all'empirismo, mantenne il sopravvento, e sulle sue tracce
elaborò Euclide la matematica: poggiando per necessità
sull'evidenza intuitiva (φαινομενον) i soli assiomi, e tutto il
resto su illazioni (νοουμενον). Il suo metodo rimase a dominare per
tutti i secoli, e così doveva essere, fin quando l'intuizione
pura a priori non venne distinta dall'intuizione empirica. È
vero che già Proclo, commentatore d'Euclide, sembra aver
conosciuto appieno quella distinzione, come dimostra il passo di lui
tradotto in latino da Keplero nel suo libro de harmonia mundi: ma
Proclo non diede abbastanza peso alla cosa, la presentò
troppo isolatamente, rimase inosservato e non ebbe successo. Quindi
solo due secoli dopo, la dottrina di Kant, cui tocca in sorte di
produrre così grandi trasformazioni in tutto il sapere, il
pensiero e l'azione dei popoli europei, provocherà la stessa
trasformazione anche nella matematica. Poiché soltanto dopo
aver appreso da questo grande spirito che le intuizioni dello spazio
e del tempo sono affatto diverse dalle intuizioni empiriche, affatto
indipendenti da ogni impressione dei sensi, essendo essi condizione
dell'impressione e non viceversa; che sono in altri termini a
priori, e quindi inaccessibili all'illusione dei sensi – soltanto
ora possiamo comprendere, che la trattazione euclidea della
matematica fondata sulla logica è una provvidenza inutile,
una gruccia per gambe sane. E rassomiglia ad un pellegrino, che,
scambiando per acqua nella notte una bella strada chiara, si guardi
dal posarvi il piede, e la vada fiancheggiando sul terreno
disuguale, contento d'imbattersi di tanto in tanto nell'acqua
supposta. Ora soltanto possiamo con certezza affermare, che quando
ci si rivela necessario nell'intuizione di una figura non viene
dalla figura stessa, disegnata forse molto male sulla carta, e
nemmeno dal concetto astratto che noi ce ne facciamo, bensì
direttamente dalla forma d'ogni conoscenza, forma di cui siam consci
a priori. Questa è, in tutto, il principio di ragione. Qui
essa come forma dell'intuizione, ossia spazio, è principio di
ragione dell'essere; la cui evidenza e validità è
altrettanto grande ed immediata come quella del principio di ragione
di conoscenza, ossia della certezza logica. Non abbiamo dunque
bisogno né dobbiamo, per creder solo alla logica, abbandonare
il dominio proprio della matematica, venendo a dimostrare questa
sopra un dominio che le è affatto estraneo – quello dei
concetti. Se ci teniamo sul terreno proprio della matematica, ne
ricaviamo il grande vantaggio, che quivi il sapere che qualcosa sta
in un certo modo, è tutt'uno col sapere perché sta
così. Mentre invece il metodo euclideo separa nettamente
questi due termini, e fa conoscere solo il primo, non il secondo.
Ma, dice ottimamente Aristotele negli Analyt. post, I, 27:
Ακριβεστερα δ’επιστημη επιστημης και προτερα ἡτε του ὁτι και του
διοτι ἡ αυτη, αλλα μη χωρις του ὁτι, της του διοτι (Subtilior autem
et praestantior ea est scientia, qua quod aliquis sit, et cur sit
una simulque intelligimus, non separatim quod, et cur sit). In
fisica siamo pur soddisfatti sol quando la conoscenza che qualcosa
è in un certo modo, si congiunge con quella del perché
è così. Che il mercurio del tubo torricelliano s'alzi
a 28 pollici, è un povero sapere, se non si aggiunge che vien
trattenuto a quel limite dal contrappeso dell'aria. Ma ci
dovrà bastare in matematica quella qualitas occulta del
circolo, per cui i segmenti d'ogni due corde intersecantisi in esso
formano sempre rettangoli uguali? Che sia così, dimostra
invero Euclide nella 35a proposizione del terzo libro: il
perché sta ancora nell'ombra. Nello stesso modo c'insegna il
teorema di Pitagora a conoscere una qualitas occulta del triangolo
rettangolo; ma la dimostrazione zoppicante, anzi insidiosa di
Euclide ci lascia senza il perché; e la semplice figura che
qui segue, già nota, ci fa in un solo sguardo veder la cosa
molto più addentro che non faccia quella dimostrazione; e ci
dà la intima, ferma persuasione di quella necessità, e
della dipendenza di quella proprietà dell'angolo retto.
Anche se i cateti sono disuguali, si deve pervenire a codesta
convinzione intuitiva, e così nel caso di tutte le
verità geometriche possibili: anche solo per questo, che la
loro scoperta derivò sempre da una consimile necessità
d'intuizione, e la dimostrazione ne fu pensata soltanto in seguito.
Basta dunque un'analisi del processo mentale nella prima scoperta
d'una verità geometrica, per conoscere intuitivamente la sua
necessità. Il metodo, che in genere io preferisco per
l'esposizione della matematica, è l'analitico, e non il
metodo sintetico che ha usato Euclide. È vero tuttavia che,
quando si tratta di verità matematiche complicate, quello
offre grandi difficoltà: ma non insuperabili. Già si
comincia qua e là in Germania a modificare l'esposizione
della matematica, seguendo più spesso questa via analitica.
L'ha fatto più risolutamente il signor Kosack, insegnante di
matematica e fisica nel ginnasio di Nordhausen, nell'accompagnare il
programma d'esame del 6 aprile 1852 con un diffuso tentativo di
trattazione geometrica secondo i miei principi.
Per migliorare il metodo della matematica, si richiede soprattutto
di rinunziare al pregiudizio che la verità dimostrata abbia
una qualsivoglia preminenza sulla verità conosciuta
intuitivamente: o che la verità logica, fondata sul principio
di contraddizione, prevalga sulla verità metafisica, la quale
è di evidenza diretta, ed a cui appartiene anche l'intuizione
pura dello spazio.
Quel che c'è di più certo, né mai può
essere spiegato, è il contenuto del principio di ragione.
Imperocché questo, nei suoi vari atteggiamenti, esprime la
forma universale di tutte le nostre rappresentazioni e conoscenze.
Ciascuna spiegazione è un risalire a codesto principio; un
constatare nel caso singolo il nesso delle rappresentazioni, che
quello esprime in genere. Esso è quindi il principio d'ogni
spiegazione, e perciò non può avere spiegazione alla
sua volta, né di spiegazioni ha bisogno: poi che ciascuna
spiegazione lo presuppone, e solo per suo mezzo acquista un senso.
Ma nessuna delle sue manifestazioni ha preminenza sulle altre: esso
è a un modo certo e indimostrabile in qualità di
principio dell'essere, o del divenire, o dell'agire, e del
conoscere. Nell'una come nell'altra delle sue forme, è sempre
necessaria la relazione di causa ed effetto; anzi è questa
l'origine, nonché l'unico significato, del concetto di
necessità. Non c'è altra necessità che quella
dell'effetto, allorché è data la causa; e non v'ha
causa che non generi la necessità dell'effetto. Con la stessa
certezza con cui dal principio di conoscenza, dato nelle premesse,
deriva la conseguenza espressa nella proposizione finale, determina
il principio d'essere nello spazio la sua conseguenza nello spazio:
e quando ho conosciuto intuitivamente quest'ultima relazione, ho una
certezza altrettanto grande quanto una certezza logica. Ma qualsiasi
teorema geometrico esprime una tal relazione egualmente bene, come
un de' dodici assiomi: perché è una verità
metafisica, e come tale immediatamente certo, al modo stesso del
principio di contraddizione, il quale è una verità
metalogica e serve di base universale a tutte le dimostrazioni
logiche. Chi nega la necessità intuitivamente manifestata
delle relazioni spaziali espresse in un qualsiasi teorema,
può con lo stesso diritto negare gli assiomi, e con lo stesso
diritto la derivazione della conclusione dalle premesse, o
addirittura il principio di contraddizione: perché in tutto
ciò sono egualmente relazioni indimostrabili, d'immediata
evidenza, e conoscibili a priori. Se quindi la necessità
delle relazioni spaziali, conoscibile intuitivamente, si vuol
derivare attraverso una dimostrazione logica dal principio di
contraddizione, gli è come se al diretto signore d'una terra
volesse un altro conceder la stessa terra in feudo. E proprio questo
ha fatto Euclide. Soltanto i suoi assiomi egli fa per forza poggiare
sull'immediata evidenza: tutte le verità geometriche, che ne
derivano, vengono dimostrate logicamente, ossia con la premessa di
quegli assiomi, mediante l'accordo con le ipotesi fatte nel teorema,
o con un teorema precedente; o anche mediante la contraddizione
dell'opposto del teorema con le ipotesi, gli assiomi, i teoremi
precedenti, o addirittura con se stesso. Ma gli assiomi stessi non
hanno evidenza diretta maggiore d'ogni altro teorema geometrico,
bensì soltanto maggiore semplicità a causa del minor
contenuto.
Se si interroga un delinquente, si stende un verbale delle sue
dichiarazioni, per giudicarne la verità dalla loro
concordanza. Ma questo è un semplice espediente, del quale
certo non ci si appagherebbe, se si potesse indagare a parte la
verità di ciascuna delle sue dichiarazioni: tanto più
ch'egli potrebbe mentire con conseguenza dal principio alla fine.
Eppure è proprio con quel primo metodo, che Euclide ha
indagato lo spazio. È vero ch'egli partì in ciò
dalla giusta premessa che la natura dappertutto – e quindi anche
nella sua forma principale, lo spazio – dev'esser conseguente, e
quindi – perché le parti dello spazio stanno reciprocamente
in relazione di causa ed effetto – neppure una determinazione
spaziale può esser diversa da quel che è, senza
trovarsi in contraddizione con tutte le altre. Ma questo è un
deviar dalla via diritta, molesto e poco soddisfacente; che
preferisce la conoscenza mediata a quella – altrettanto certa –
immediata; e con danno grave della scienza separa la cognizione che
qualcosa esista, da quella del perché esista. E, infine,
impedisce del tutto al discepolo la penetrazione nelle leggi dello
spazio, anzi, lo distoglie dalla vera e propria indagine del
fondamento e dell'intimo nesso delle cose, avviandolo invece a
contentarsi d'un sapere storico, che la cosa stia in un certo modo.
L'esercizio d'acume mentale, tanto incessantemente vantato in questo
metodo, consiste solo in ciò, che lo scolaro si esercita a
sillogizzare, ossia a usare il principio di contraddizione; ma
soprattutto affatica la propria memoria, per ritenere quei dati dei
quali deve giudicare l'accordo.
Va notato inoltre, che questo metodo dimostrativo è stato
applicato soltanto alla geometria e non all'aritmetica. In questa
effettivamente la verità si lascia svelare dalla sola
intuizione, che qui consiste nel puro contare. Poi che l'intuizione
dei numeri è nel tempo solamente, e non può quindi
venir rappresentata da uno schema sensibile, come la figura
geometrica, non si ebbe qui il sospetto che l'intuizione fosse solo
empirica e quindi soggetta all'illusione; sospetto che soltanto il
metodo della dimostrazione logica ha potuto introdurre nella
geometria. Il contare è – poi che il tempo ha una sola
dimensione – l'unica operazione aritmetica, alla quale sono da
ricondurre tutte le altre: e questo contare non è tuttavia
altro, che un'intuizione a priori, alla quale ci si richiama qui
senz'alcuna riluttanza; e per suo mezzo viene da ultimo confermato
tutto il resto, ogni equazione, ogni calcolo. Non si dimostra, per
esempio, che ; ma ci si riferisce alla pura intuizione nel tempo, al
contare. Ogni singola proposizione diventa dunque un assioma. Invece
delle dimostrazioni che riempiono la geometria, tutto il contenuto
dell'aritmetica e dell'algebra è quindi un semplice metodo
per abbreviare il conto. La nostra intuizione immediata dei numeri
nel tempo non arriva, come fu detto, più in là del
dieci all'incirca: più oltre deve già un concetto
astratto del numero, fissato mediante una parola, fare le veci
dell'intuizione; la quale perciò non è più
effettivamente attuata, ma soltanto indicata con tutta
determinatezza. Tuttavia anche così, col valido aiuto
dell'ordine dei numeri, che fa sempre rappresentare i numeri grandi
per mezzo dei piccoli, è resa possibile un'evidenza intuitiva
d'ogni calcolo; perfino là dove si ricorre tanto
all'astrazione, che non solo i numeri ma anche indeterminate
quantità ed intere operazioni sono pensate unicamente in
abstracto, e in cotal forma espresse; come ad esempio []; sì
che non si eseguono, ma vengono appena accennate.
Con lo stesso diritto e la stessa certezza, come nell'aritmetica, si
potrebbe anche nella geometria lasciar la verità fondata
soltanto sulla pura intuizione a priori. In verità è
pur sempre questa necessità conosciuta intuitivamente,
secondo il principio di ragione dell'essere, che dà alla
geometria la sua grande evidenza, e su cui poggia nella coscienza
d'ognuno la certezza delle sue proposizioni: e non è di certo
la prova logica, avanzante faticosamente sui trampoli. Questa,
estranea sempre al vivo della cosa, il più sovente vien
subito dimenticata senza danno della persuasione, e potrebbe essere
eliminata del tutto, senza che ne fosse diminuita l'evidenza della
geometria, essendo questa affatto indipendente dalla prova logica;
la quale dimostra soltanto ciò di cui già si ha piena
certezza mediante un altro modo di conoscenza. Somiglia sotto questo
rispetto ad un soldato, che vibrasse un colpo al nemico già
ucciso da altri e si vantasse d'averlo abbattuto27.
In seguito a tutto ciò, spero non vi sia più alcun
dubbio sul fatto che l'evidenza della matematica, la quale è
diventata modello e simbolo d'ogni evidenza, per propria natura non
poggia su dimostrazioni, bensì sull'immediata intuizione: e
questa in matematica come dappertutto è base, è la
prima base e la sorgente d'ogni verità. Tuttavia l'intuizione
che sta a fondamento della matematica ha un gran privilegio su
ciascun'altra, quindi anche sull'intuizione empirica. Ossia, ella
è a priori, e perciò indipendente dall'esperienza, che
vien data sempre soltanto in modo frammentario e successivo: tutto
è vicino egualmente, e si può a volontà partir
dalla causa o dall'effetto. Ora, questo le dà una piena
infallibilità, per il fatto che in lei l'effetto viene
conosciuto dalla causa, la qual conoscenza è la sola ad aver
necessità: per esempio l'eguaglianza dei lati vien conosciuta
come fondata sull'eguaglianza degli angoli. All'opposto, ogni
intuizione empirica e la maggior parte di tutta l'esperienza procede
invece dall'effetto alla causa – modo di conoscere non infallibile,
perché la necessità appartiene solo all'effetto quando
è data la causa, e non alla conoscenza della causa
dall'effetto; potendo questo effetto provenire da cause differenti.
Quest'ultimo modo di conoscenza non è altro che induzione:
ossia movendo da molti effetti, che fanno capo ad una causa, viene
ammessa la causa come certa. Ma poiché i casi non possono mai
esser raccolti tutti, la verità non è qui mai
assolutamente certa. Eppur questo è il solo genere di
verità che appartenga alla conoscenza raggiunta mediante
intuizione sensibile, ed alla massima parte dell'esperienza.
L'impressione d'un senso provoca un passar dell'intelletto
dall'effetto alla causa: ma poi che il passaggio dal causato alla
causa non è mai sicuro, sempre rimane possibile e si ha
sovente una falsa apparenza, come inganno dei sensi; secondo
è sopra dimostrato. Solo quando più sensi, o tutti e
cinque, ricevono impressioni che fan capo alla stessa causa, solo
allora diventa minima la possibilità dell'inganno, per quanto
ancor sussista; poi che in taluni casi, per esempio con monete
false, s'ingannano tutti quanti i sensi. Nella stessa condizione si
trova tutta la conoscenza empirica, e quindi l'intera scienza della
natura, lasciandone fuori la parte pura (o metafisica, secondo
Kant). Anche qui le cause vengono conosciute attraverso gli effetti:
quindi ogni dottrina naturale è fondata su ipotesi, che
spesso son false, e solo a poco a poco cedono il posto a dottrine
più esatte. Solo negli esperimenti disposti con un dato
proposito la conoscenza va dalla causa all'effetto, seguendo la via
sicura: ma anch'essi sono dapprima intrapresi in conseguenza di
ipotesi. Perciò non poteva nessun ramo della scienza
naturale, come fisica, o astronomia, o fisiologia, essere scoperto
d'un tratto, come furono matematica e logica: bensì fu ed
è necessaria l'esperienza comparata di molti secoli. Solo una
molteplice conferma empirica porta l'induzione – su cui poggia
l'ipotesi – tanto vicina alla compiutezza, che questa per la pratica
prende il posto della certezza. Ed alla ipotesi reca la propria
origine così poco danno, quanto ne reca all'applicazione
della geometria l'incommensurabilità delle linee rette e
curve, o all'aritmetica l'impossibilità di raggiunger
l'assoluta esattezza del logaritmo. Imperocché come la
quadratura del cerchio e il logaritmo si possono accostare
all'esattezza fino ad esserne separati da una distanza
infinitesimale, così l'induzione, ossia conoscenza della
causa dall'effetto, mediante molteplici esperienze viene accostata
all'evidenza matematica, per modo che ne la divida una distanza non
proprio infinitesimale, ma tuttavia minima; sì che la
possibilità dell'errore si riduca tanto da poterla
trascurare. Ciò nondimeno, tale possibilità sussiste:
ad esempio, quando da innumerevoli casi l'induzione conclude per
tutti i casi, ossia precisamente per la causa ignota, da cui tutti
dipendono. Quale fra le conclusioni di tal sorta ci appare
più sicura di questa, che tutti gli uomini hanno il cuore a
sinistra? Tuttavia ci sono, come rarissime, isolate eccezioni,
uomini che hanno il cuore a destra. Intuizione sensibile e scienza
sperimentale hanno dunque la stessa maniera d'evidenza. Il
privilegio che matematica, scienza naturale pura e logica in quanto
conoscenza a priori hanno su di quelle, consiste solo in ciò,
che il lato formale delle conoscenze, sul quale ogni
apriorità si fonda, è dato per intero e tutto in una
volta, e quindi si può qui sempre passare dalla causa
all'effetto, mentre là si passa generalmente dall'effetto
alla causa. In sé d'altronde la legge di causalità, o
principio di ragione del divenire, che guida la conoscenza empirica,
è tanto certa, quanto quelle altre forme del principio di
ragione, cui seguono le citate scienze a priori. Dimostrazioni
logiche dedotte da concetti, o sillogismi, hanno, nello stesso modo
come la conoscenza per intuizione a priori, il privilegio di passar
dalla causa all'effetto: per la qual cosa essi sono in se stessi,
ossia rispetto alla lor forma, infallibili. Questo ha molto
contribuito a procacciar tanto rispetto alle dimostrazioni. Ma
codesta loro infallibilità è relativa: essi non fanno
che sussumere sotto i principi superiori della scienza: ma son pur
sempre questi, che contengono tutto il fondo di verità della
scienza stessa, né si possono alla lor volta dimostrare:
bensì devono fondarsi sull'intuizione, che se è pura
in quelle poche scienze a priori citate, è invece sempre
empirica altrove, e solo mediante induzione è stata elevata
dal particolare al generale. Se adunque anche nelle scienze
empiriche il singolo viene provato col generale, il generale alla
sua volta ha ricevuto tutta la sua verità dal singolo.
È un magazzino carico di provviste, non un suolo di per
sé fecondo.
Questo basti intorno al fondamento della verità. Circa
l'origine e la possibilità dell'errore, molte spiegazioni
sono state tentate, a partir dalle soluzioni figurate di Platone,
come quella della colombaia, dove invece del colombo desiderato se
ne ghermisse un altro, e così via (Theaetet., p. 167 sgg.).
La vaga, indeterminata spiegazione dell'origine dell'errore fatta da
Kant mediante l'immagine del moto diagonale si trova nella Critica
della ragion pura, p. 294 della prima, e p. 350 della quinta
edizione. Essendo la verità relazione d'un giudizio col suo
principio di conoscenza, è un vero problema come avvenga che
colui, il quale giudica, creda d'avere effettivamente codesto
principio, mentre invece non l'ha; ossia, come sia possibile
l'errore, l'inganno della ragione. Io trovo questa
possibilità affatto analoga a quella dell'illusione, o
inganno dell'intelletto, che più sopra è stata
chiarita. La mia opinione invero è (e perciò trova qui
posto la mia spiegazione) che ogni errore è una conclusione
dall'effetto alla causa, conclusione che ha valore. quando si sa che
l'effetto può avere quella causa e nessun'altra; ma non in
altri casi. Chi sbaglia, o attribuisce all'effetto una causa, che
quello non può punto avere; nel che dimostra vera mancanza di
intelletto, ossia incapacità di conoscer direttamente il
nesso tra causa ed effetto: oppure, come accade più spesso,
dato l'effetto determina bensì una causa possibile, ma alla
maggior premessa del sillogismo, con cui va dall'effetto alla causa,
aggiunge che codesto effetto costantemente proviene dalla causa
attribuitagli. In ciò potrebbe esser giustificato solo da una
compiuta induzione, che egli bensì presuppone, ma che non ha
fatta. Quel costantemente è dunque un concetto troppo ampio,
invece del quale potrebbe star solo un talvolta, o il più
sovente; sì che la conclusione verrebbe ad esser
problematica, e come tale non sarebbe erronea. Un tal modo di
procedere da parte di chi sbaglia può essere effetto di
precipitazione, oppure di troppo limitata conoscenza della
possibilità; per cui ignora la necessità
dell'induzione da fare. L'errore è quindi affatto analogo
all'illusione. Entrambi sono conclusioni dall'effetto alla causa:
l'illusione si compie sempre nel puro intelletto, e secondo la legge
di causalità, quindi direttamente nell'intuizione stessa;
l'errore si compie dalla ragione, secondo tutte le forme del
principio di ragione (quindi nel pensiero vero e proprio), ma
più spesso secondo la legge di causalità, come
mostrano i tre esempi seguenti che si posson considerare come tipi o
rappresentanti di questa classe d'errori. 1. L'illusione dei sensi
(inganno dell'intelletto) genera errore (inganno della ragione), per
esempio, quando si scambia una pittura per un altorilievo e
veramente per tale la si tiene. Questo accade mediante una deduzione
dalla seguente premessa maggiore: «Se il grigio oscuro qua e
là passa nel bianco attraverso tutte le sfumature, di
ciò è sempre causa la luce che diversamente batte i
rilievi e le cavità: ergo ...». 2. «Se manca
denaro nella mia cassa, ne è sempre cagione il fatto che il
mio domestico ha una chiave falsa: ergo ..», 3. «Se
l'immagine del sole rotta, ossia sospinta all'insù o
all'ingiù dal prisma, appare allungata, il motivo è
sempre questo: che nella luce si trovano raggi omogenei variamente
colorati e variamente rifrangibili; i quali, separatisi per la loro
varia rifrangibilità, mostrano ora un'immagine allungata e
insieme variopinta: ergo... bibamus!». Ogni errore va
ricondotto ad una consimile deduzione da una premessa maggiore
spesso soltanto falsamente generalizzata, ipotetica, sorta
dall'ammetter una data causa per un dato effetto. Fanno eccezione
gli errori di calcolo, che non sono per l'appunto errori veri e
propri, ma semplici sbagli. Non l'operazione, che i concetti dei
numeri indicavano, è stata eseguita nell'intuizione pura, nel
calcolo; bensì un'altra in sua vece.
Per quanto riguarda il contenuto delle scienze in genere, questo
è sempre in relazione scambievole dei fenomeni del mondo, in
conformità del principio di ragione e sulle orme del
perché; il quale da esso principio unicamente trae
significazione e valore. L'indicar quella relazione si chiama
spiegazione. Questa non può dunque mai far di più, che
mostrar due rappresentazioni nel loro reciproco rapporto, secondo la
forma del principio di ragione dominante nella classe a cui tali
rappresentazioni appartengono. Arrivati a questo punto, non si
può domandare altro perché: poiché la relazione
indicata non si può in nessun modo rappresentare altrimenti,
ossia è la forma d'ogni conoscenza. Quindi non ci si domanda
perché 2 + 2 = 4; o perché eguaglianza d'angoli nel
triangolo determini eguaglianza di lati; o perché a una data
causa segua il suo effetto; o perché dalla verità
delle premesse brilli la verità della conclusione. Ogni
spiegazione, che non faccia capo ad un rapporto, oltre il quale non
si possa pretendere alcun perché, si arresta davanti a una
supposta qualitas occulta: e di tal sorta è ogni forza
elementare della natura. Davanti a queste deve alfine arrestarsi
ogni spiegazione scientifica: ossia davanti ad alcunché
affatto oscuro. Deve quindi lasciare tanto inesplicata l'intima
essenza d'una pietra, quanto quella dell'uomo; non può dar
conto della gravità, della coesione, delle proprietà
chimiche, che la pietra manifesta, più di quanto possa dar
conto del conoscere e dell'agire dell'uomo. Così per esempio
la gravità è una qualitas occulta: perché si
può fare a meno di pensarla, e non sorge quindi come una
necessità dalla forma del conoscere. Questo invece è
il caso della legge d'inerzia, in quanto deriva da quella di
causalità: quindi il richiamarvisi è una spiegazione
del tutto sufficiente. Due cose invero sono proprio inesplicabili,
non si possono cioè ricondurre alla relazione formulata dal
principio di ragione: in primo luogo, il principio stesso di
ragione, nelle sue quattro forme, perché esso è il
principio d'ogni spiegazione, quello in rapporto al quale ogni
spiegazione ha senso; e, in secondo luogo, ciò che non
è raggiunto dal principio di ragione, ma da cui proviene
l'elemento primordiale in tutti i fenomeni – ossia la cosa in
sé, la cui conoscenza non è punto subordinata al
principio di ragione. Quest'ultima deve rimaner per ora nell'ombra,
perché diventerà comprensibile solo col libro
seguente, nel quale riprenderemo anche questa considerazione della
capacità delle scienze. Ma là, dove la scienza
naturale, anzi ogni scienza, s'arresta davanti agli oggetti, e non
solo la spiegazione che ne dà, ma perfino il principio di
questa spiegazione – il principio di ragione – non oltrepassa quel
punto: là viene la filosofia a prender codesti oggetti e li
considera a suo modo, con metodo affatto diverso dalla scienza.
Nella memoria sul principio di ragione, § 51, ho mostrato che
nelle varie scienze è principal filo conduttore l'una o
l'altra forma di quel principio: e invero si potrebbe far su questa
base la miglior suddivisione delle scienze. Ma ogni spiegazione data
seguendo quel filo è, come ho detto, sempre relativa: spiega
gli oggetti in reciproca relazione, lasciando sempre qualcosa
d'inesplicato, che appunto già presuppone. Questo è il
caso, per esempio, di spazio e tempo nella matematica; così
nella meccanica, nella fisica e nella chimica la materia, le
qualità, le forze elementari, le leggi naturali; nella
botanica e nella zoologia la varietà delle specie e la vita
stessa; nella storia la razza umana, con le sue proprietà del
pensare e del volere; – in tutte, il principio di ragione; nella
forma che volta per volta è applicata. La filosofia ha questo
di caratteristico, che non presuppone nulla di già noto, ma
tutto le è in egual misura estraneo e costituisce un
problema: non solo le relazioni dei fenomeni, ma anche i fenomeni
stessi, e lo stesso principio di ragione, al quale le altre scienze
s'appagano di tutto ricondurre. Da codesto risalire al principio di
ragione la filosofia non avrebbe nulla da guadagnare, perché
un anello della catena le è sconosciuto come l'altro, e
quella stessa maniera di connessione è per lei un problema
pari al problema dei termini che essa congiunge; e questi rimangono
problemi dopo rilevato il loro rapporto, come prima. Perché,
come ho detto, appunto ciò, che le scienze presuppongono e
mettono a base delle loro spiegazioni e si stabiliscono come limite,
è il vero problema della filosofia; la quale per conseguenza
comincia, dove le scienze finiscono. Dimostrazioni non possono
essere il suo fondamento: perché queste ricavano principii
ignoti dai noti, mentre a lei tutto è ad un modo ignoto e
straniero. Non vi può esser nessun principio, in base del
quale abbia preso esistenza il mondo con tutti i suoi fenomeni:
perciò non si può per via di dimostrazioni dedurre,
come Spinoza voleva, una filosofia ex firmis principiis. La
filosofia è anche il sapere più universale, i cui
principi fondamentali non possono perciò esser derivazioni da
un altro più universale ancora. Il principio di
contraddizione stabilisce semplicemente la concordanza dei concetti;
ma non da esso medesimo concetti. Il principio di ragione spiega i
collegamenti dei fenomeni, ma non i fenomeni: perciò la
filosofia non può andar a cercar una causa efficiens o una
causa finalis del mondo intero. La filosofia moderna, almeno, non
indaga punto l'origine e la finalità del mondo; bensì
soltanto che sia il mondo. Ma il perché è qui
subordinato al che cosa: poiché esso già fa parte del
mondo, sorgendo unicamente dalla forma in cui questo appare – il
principio di ragione – e solo per tal rispetto acquista significato
e valore. Si potrebbe dire bensì, che ciascuno senz'altro
aiuto conosce da sé che cosa sia il mondo, essendo egli
medesimo il soggetto della conoscenza, del quale il mondo è
rappresentazione: ed anche questo sarebbe vero in tal senso. Ma
quella conoscenza è di natura intuitiva, in concreto:
riprodurla in abstracto, elevare a sapere astratto, chiaro, durevole
l'intuizione successiva e mutabile, e specialmente tutto ciò,
che il vasto concetto del sentimento abbraccia ed indica appunto in
modo negativo come un sapere non astratto, confuso – ecco la
missione della filosofia. Ella dev'esser quindi una dichiarazione in
abstracto dell'essenza del mondo intero, del suo complesso come di
tutte le sue parti. Ma tuttavia, per non perdersi in una massa
infinita di giudizi singoli, deve servirsi dell'astrazione, ed ogni
singolo pensare in forma generale, ed in forma generale anche le sue
differenze: quindi in parte separerà, in parte
congiungerà, per trasmettere al sapere, condensata in pochi
concetti astratti, tutta la molteplicità del mondo nella sua
essenza. Con quei concetti, in cui ella fissa l'essenza del mondo,
deve nondimeno, come il generale, anche il particolarissimo venir
conosciuto, e la conoscenza d'entrambi esser quindi collegata
strettissimamente: perciò l'attitudine alla filosofia
consiste appunto là dove Platone la poneva, nel conoscer
l'uno nel molteplice, e il molteplice nell'uno. La filosofia
sarà dunque una somma di giudizi molto generali, il cui
principio di conoscenza è direttamente il mondo medesimo nel
suo complesso, senza alcuna esclusione: ossia tutto ciò che
si trova nella coscienza umana. Ella sarà una completa
ripetizione, e quasi un riflesso del mondo in concetti astratti,
possibile solo mediante la riunione di ciò ch'è
essenzialmente identico in un concetto, e l'isolamento del diverso
in un altro concetto. Questo compito assegnava già Bacone da
Verulamio alla filosofia, dicendo: «Ea demum vera est
philosophia, quae mundi ipsius voces fidelissime reddit, et veluti
dictante mundo conscripta est, et nihil aliud est, quam ejusdem
simulacrum et reflectio, ncque addit quidquam de proprio, sed tantum
iterat et resonat» (De augm. scient., 1. 2, e. 13). Noi
prendiamo tuttavia la cosa in senso più ampio di quanto
potesse allora pensare Bacone.
La reciproca concordanza che hanno fra loro tutti gli aspetti e le
parti del mondo, appunto perché appartengono ad un tutto,
deve ritrovarsi anche in quell'astratta riproduzione del mondo.
Così fu possibile in quella somma di giudizi derivare in
certo modo l'uno dall'altro; e viceversa, sempre. Ma per ciò
devono i giudizi in primo luogo esistere, e dunque prima venir
stabiliti, come direttamente fondati in concreto sulla conoscenza
del mondo; tanto più che ogni fondamento immediato è
più sicuro che il mediato. La loro armonia reciproca, in
grazia della quale confluiscono perfino nell'unità di un
pensiero, e che sgorga dall'armonia ed unità del mondo
intuitivo medesimo, che è il lor comune principio di
conoscenza, non è adunque adoprata come primo argomento per
la loro dimostrazione; ma verrà solo come una conferma della
loro verità: Tuttavia questo compito può diventar ben
chiaro solo mediante la sua attuazione28.
§ 16.
Dopo tutto questo esame sia della ragione, come d'una forza
conoscitiva propria, particolare dell'uomo soltanto, sia delle
operazioni e dei fenomeni anche proprii dell'umana natura, che da
quella derivano, mi rimarrebbe a parlar della ragione in quanto
guida le azioni degli uomini; e sotto tal rispetto può
definirsi pratica. Ma la maggior parte di ciò, che qui
andrebbe detto, ha trovato luogo altrove, ossia nell'appendice di
quest'opera, dove mi propongo di combattere l'esistenza della
cosiddetta ragion pratica di Kant; la quale egli (invero molto
comodamente) rappresenta come sorgente immediata d'ogni
virtù, e come sede di un dovere assoluto (ovvero caduto dal
cielo). La diffusa e radicale confutazione di questo principio della
morale kantiana io l'ho fatta più tardi, nei Problemi
fondamentali dell'etica. Perciò non ho che poco da dire qui
ancora sull'effettivo influsso che la ragione – nel vero senso della
parola – ha sull'azione. Già sul principio del nostro esame
della ragione abbiamo in generale osservato quanto la condotta
dell'uomo si distingua da quella dell'animale, e come codesta
distinzione sia unicamente da considerare come dovuta alla presenza
di concetti astratti nella coscienza. L'influsso di questi su tutto
il nostro essere è così penetrante e significativo,
che in certo modo ci pone davanti agli animali nella stessa
situazione, in cui si trovano gli animali veggenti in confronto di
quelli privi della vista (alcune larve, vermi e zoofiti). Questi
ultimi conoscono solo mediante il tatto ciò, che si trova
nello spazio immediatamente presso di loro, e li tocca; mentre i
veggenti dispongono di un'ampia sfera da presso e da lungi.
Similmente l'assenza della ragione limita gli animali alle
rappresentazioni intuitive, ossia agli oggetti reali, che son loro
immediatamente presenti nel tempo: mentre noi, grazie alla
conoscenza in abstracto, abbracciamo, di là dal ristretto
presente della realtà, anche tutto il passato ed il futuro,
oltre l'ampio dominio della possibilità; noi dominiamo con lo
sguardo la vita, liberi da ogni parte, fino a grandissima distanza
dal presente e dalla realtà. Quel che l'occhio è nello
spazio, e per la conoscenza sensibile, è in certo modo la
ragione nel tempo, e per la conoscenza interiore. Ma, come la
visibilità degli oggetti ha valore e significato solo
perché ne denota la tangibilità, così sempre
l'intero valore della conoscenza astratta consiste nella sua
relazione con la conoscenza intuitiva. Quindi l'uomo conforme alla
natura dà sempre maggior peso a ciò che ha conosciuto
immediatamente ed intuitivamente, che non ai concetti astratti,
ossia a ciò che ha soltanto pensato: egli preferisce la
conoscenza empirica alla conoscenza logica. Opposta è la
disposizione di coloro che vivono più in parole che in fatti,
che hanno guardato più alla carta ed ai libri che al mondo
reale, e nella loro grandissima degenerazione diventano pedanti e
spulciatori di vocaboli. Così soltanto si comprende come
Leibniz e Wolff e tutti i loro seguaci si potessero tanto smarrire,
sull'esempio di Duns Scoto, da dir che la conoscenza intuitiva non
è che una conoscenza astratta ingarbugliata! Ad onore di
Spinoza devo ricordare che il suo buon senso ha viceversa ritenuto
tutti i concetti comuni come sorti dalla confusione della conoscenza
intuitiva (Eth., II, prop. 40, schol. 1). Da quella assurda
concezione è anche derivato che si rigettasse il genere
d'evidenza proprio della matematica, per far valere la sola evidenza
logica; che in genere ogni conoscenza non astratta si comprendesse e
si trascurasse sotto l'ampio nome di sentimento; che finalmente
l'etica kantiana dichiarasse senza valore e senza merito, come puro
sentimento ed emozione, quella volontà buona, che si fa
immediatamente sentire con la conoscenza dei fatti, e spinge al
giusto operare ed al bene – mentre invece attribuiva valore morale
soltanto alla condotta guidata da massime astratte.
Il privilegio, che l'uomo in grazia della ragione ha sull'animale,
di dominar da ogni parte con lo sguardo la vita nel suo complesso,
si può anche paragonare ad un disegno geometrico, incolore,
astratto, rimpicciolito, del corso della sua vita. L'uomo con
ciò sta rispetto all'animale, come il navigatore, il quale
con l'aiuto della carta di navigazione, della bussola e del
quadrante sappia con precisione il suo percorso ad ogni punto del
mare, sta rispetto alla ciurma ignara, la quale non vede che le onde
e il cielo. Ne consegue un fatto notevole, anzi mirabile: che
l'uomo, accanto alla propria vita in concreto, ne conduce una
seconda in abstracto. Nella prima è dato in balia a tutte le
tempeste della realtà e all'influenza del presente: deve
lottare, soffrire, morire come l'animale. Ma la sua vita in
abstracto, qual'essa sta davanti alla sua ragionante riflessione,
è quel disegno ridotto, qui sopra accennato. Quivi, nel
dominio della pacata meditazione, gli appare freddo, incolore ed
estraneo al momento presente ciò, che colà tutto lo
possiede e violentemente lo agita: quivi egli è un semplice
spettatore ed osservatore. In codesto ritrarsi nella riflessione
egli rassomiglia ad un attore, il quale ha recitato la sua scena, e,
fino al momento di ricomparire, prende posto fra gli spettatori;
donde contempla indifferente qualunque cosa possa accader nel
dramma, foss'anche la preparazione della propria morte. Poi, al
momento dato, torna sulla scena e agisce e soffre come deve. Da
questa doppia vita sorge quell'umana calma – tanto diversa
dall'animale spensieratezza – con la quale taluno per ben ponderata
riflessione, per una risoluzione presa o una riconosciuta
necessità, lascia freddamente venir su di sé o compie
egli medesimo cose per lui essenzialissime, spesso terribili:
suicidio, supplizio, duello, temerità mortali d'ogni specie
e, in genere, cose contro le quali si ribella tutta la sua natura
animale. Qui si vede, in qual misura la ragione si renda padrona
della natura animale, e gridi all'uomo forte: σιδηρειον νυ τοι ητορ!
(ferreum certe tibi cor!) Il, 24, 521. E qui può dirsi che
davvero si manifesti la ragione praticamente: quindi, ovunque l'atto
è guidato dalla ragione, dove i moventi sono concetti
astratti, dove il motivo determinante non è costituito da
isolate rappresentazioni intuitive né dall'impressione
momentanea, che guida gli animali, – qui si mostra ragione pratica.
Ma che tutto ciò sia affatto diverso ed indipendente dal
merito etico della condotta; che condotta razionale e condotta
virtuosa siano due cose del tutto distinte; che la ragione possa
unirsi sì con grande cattiveria come con grande bontà,
e questa come quella renda attive con la propria presenza; che la
ragione sia ugualmente pronta e valevole per l'attuazione metodica e
conseguente d'un nobile proposito come d'un cattivo, di una massima
intelligente come d'una massima stolta (il che proviene dal suo
carattere femminile, atto a ricevere e conservare, ma non a produrre
direttamente); – tutto ciò ho ampiamente spiegato
nell'appendice e illustrato con esempi. Le cose quivi dette
dovrebbero invero trovarsi in questo luogo; ma han dovuto esser
trasportate colà per la polemica contro la pretesa ragion
pratica di Kant. Perciò torno a rinviare all'appendice.
Il più perfetto svolgimento della ragione pratica nel vero e
proprio senso della parola; il più alto culmine a cui l'uomo
può elevarsi col semplice impiego della sua ragione, e sul
quale più evidente appare la sua diversità dagli
animali, è come ideale rappresentato nel sapiente stoico.
Imperocché l'etica stoica originariamente ed essenzialmente
non è punto una dottrina di virtù, ma semplice
avviamento alla vita razionale, di cui è meta e scopo la
felicità ottenuta con la calma dello spirito. La condotta
virtuosa vi si trova solo come per accidens, come mezzo, non come
scopo. Perciò l'etica stoica, in tutta la sua essenza e nella
sua concezione, è radicalmente diversa dai sistemi etici, che
spingono direttamente alla virtù, come sarebbero le dottrine
dei Veda, di Platone, del Cristianesimo e di Kant. Il fine
dell'etica stoica è la felicità: τελος το ευδαιμονειν
(virtutes omnes finem habere beatitudinem) si legge nell'esposizione
della Stoa presso Stobeo (Ecl, 1. II, e. 7, p. 114, ed anche p.
138). Tuttavia l'etica stoica insegna, che la felicità si
può trovar con certezza solo nella pace interiore e nella
calma dello spirito (αταραξια), e la calma alla sua volta si
raggiunge esclusivamente con la virtù: questo appunto
significa l'espressione, che bene supremo sia la virtù. Ma se
poi a poco a poco si dimentica il fine per il mezzo e la
virtù viene raccomandata in modo da rilevar tutt'altro
interesse che quello della propria felicità, sì da
star con quest'ultima in aperto contrasto; abbiamo in ciò una
delle inconseguenze, per le quali in ogni sistema la verità
direttamente conosciuta (o, come suol dirsi, sentita) riconduce sul
diritto cammino, facendo violenza ai ragionamenti. La qual cosa si
vede chiaramente, per esempio, nell'etica di Spinoza, che
dall'egoistico suum utile quaerere deriva, mediante sofismi da
toccarsi con mano, una pura dottrina della virtù. Secondo il
modo in cui ho inteso lo spirito dell'etica stoica, la sua origine
sta nel pensare, se il grande privilegio dell'uomo – la ragione,
che, mediatamente, per mezzo della condotta sistematica e di
ciò che ne deriva, di tanto gli allevia la vita ed i suoi
pesi – non sarebbe anche capace di sottrarlo d'un tratto
direttamente, ossia per conoscenza pura, ai mali ed ai tormenti
d'ogni specie che gli riempiono la vita: sottrarlo del tutto, ovvero
quasi del tutto. Si ritenne non conveniente al privilegio della
ragione, che l'essere, il quale ne è dotato, e per suo mezzo
abbraccia e domina un'infinità di cose e di fatti, fosse
nondimeno in balia di tanto dolore, di sì grande angoscia e
sofferenza, quanta ne può sorgere dal tumultuoso impeto della
brama o dell'avversione: e ciò per l'effetto del momento
presente, e per i casi che i pochi anni d'una sì breve,
fugace, incerta vita possono contenere. E si pensò che il
conveniente uso della ragione potesse elevar l'uomo sopra a questo
male, renderlo invulnerabile. Disse perciò Antistene: Δει̃
κτα̃σθαι νου̃ν, ἣ βρόχον (aut mentem parandam, aut laqueum, Plut.,
De sthoic. repugn., e. 14), ossia: la vita è così
piena di tormenti e di molestie, che conviene o collocarsene fuori
mediante la saviezza del pensiero, o abbandonarla. Si comprese che
la privazione, il soffrire, non nascono direttamente e
necessariamente dal non avere, bensì dal voler avere e non
avere; che quindi questo voler avere è la condizione
necessaria, per la quale il non avere diventa privazione, e genera
il dolore. Ου πενια λυπην εργζεται, αλλ επιθυμια (non paupertas
dolorem efficit, sed cupiditas, Epict. fragm. 25). Si conobbe
inoltre dall'esperienza, che solo la speranza, l'idea d'aver diritto
ad una cosa, genera ed alimenta il desiderio; perciò
né i molti mali a tutti comuni ed inevitabili, né
gl'irraggiungibili beni ci agitano e tormentano: bensì solo
l'insignificante misura maggiore o minore di ciò che l'uomo
può raggiungere o evitare. Si conobbe anzi, che perfin quanto
non è irraggiungibile in modo assoluto, ma soltanto relativo,
ci lascia del tutto tranquilli; perciò i mali, che
stabilmente si sono associati alla nostra individualità, o i
beni, che per necessità a lei devono rimanere negati, si
considerano con indifferenza; ed in grazia di questa
proprietà dell'uomo, ogni desiderio tosto muore né
può più generare dolore, non appena la speranza cessa
d'alimentarlo. Da questo risultò, che tutta la
felicità consiste solo nella proporzione delle nostre
aspirazioni con ciò che ci viene accordato: la maggior o
minor misura delle due grandezze di questa proporzione è
indifferente, e la proporzione può esser ristabilita sia con
l'impiccolir la prima grandezza, sia con l'ingrandir la seconda.
Egualmente risultò, che ogni dolore invero nasce dalla
sproporzione di ciò, che pretendiamo ed aspettiamo, con
ciò che ci è dato; la qual sproporzione tuttavia sta
evidentemente solo nella conoscenza29, e potrebbe esser tolta di
mezzo appieno, mediante una miglior valutazione. Disse perciò
Crisippo: δει ζην κατ’εμπειριαν των φυσει συμβαινοντων (Stob., Ecl.,
1. il, e. 7, p. 134), ossia: si deve vivere con opportuna conoscenza
dell'andamento delle cose del mondo. Imperocché ogni volta
che un uomo in qualsiasi modo perda il dominio di sé, o
è schiacciato da un dolore, o s'infuria, o si scoraggia; egli
dimostra così di trovar le cose diverse da quel che
s'attendeva; dimostra quindi d'essere stato impigliato nell'errore,
di non aver conosciuto il mondo e la vita; non aver saputo come la
natura inanimata intralci ad ogni passo la volontà di
ciascuno per mezzo del caso, e la natura animata l'intralci sia con
l'opporle fini contrari, sia con la malvagità. Adunque egli o
non s'è servito della sua ragione per venire ad una generale
consapevolezza di questa condizione della vita, oppure ha mancato di
giudizio, disconoscendo nel caso particolare quel che conosceva in
generale; e perciò appunto si sorprende, e perde il dominio
di sé30. Nello stesso modo è ogni viva gioia un
errore, un vaneggiamento; perché nessun desiderio appagato
può soddisfare a lungo, e perché ogni possessione,
ogni felicità ci è concessa dal caso per un tempo
indeterminato – e quindi ci può esser tolta nello spazio di
un'ora. Ma intanto ogni dolore proviene dal dileguarsi di codesto
vaneggiamento. Questo e quello derivano adunque da manchevole
conoscenza. Perciò dal saggio rimangono gioia e dolore sempre
lontani e nessun evento scuote la sua αταραξια.
Conformemente a tale spirito ed a tal mira della Stoa, Epitteto
parte dal principio – e vi torna sopra continuamente, come al
nocciolo della sua sapienza – che occorra ben meditare e distinguere
ciò che dipende e ciò che non dipende da noi, e non
contare mai su quest'ultimo. In questo modo si può
fiduciosamente tenersi liberi da ogni dolore, sofferenza ed
angoscia. Ciò che dipende da noi, è solamente la
volontà; e qui si viene a fare un graduale passaggio alla
dottrina della virtù, mentre si osserva che, come il mondo
esterno da noi indipendente determina gioia e dolore, così
dalla volontà nasce interna soddisfazione o insoddisfazione
di noi stessi. In seguito poi si domandò, se nel primo o nel
secondo caso si convenissero i nomi di bene e di male. Questo era
invero un problema arbitrario, da risolversi a piacere e non mutava
nulla alla cosa. Eppure su di esso contesero incessantemente Stoici
con Peripatetici ed Epicurei, si baloccarono con l'impossibile
paragone di due quantità affatto incommensurabili e con le
opposte, paradossali sentenze che ne derivavano, scagliandosele
vicendevolmente addosso. Un'interessante raccolta, dal punto di
vista stoico, ce n'è tramandata nei Paradoxa di Cicerone.
Zenone, il fondatore, sembra aver seguito in origine un cammino
alquanto diverso. Il suo punto di partenza era questo: che per
raggiungere il massimo bene, ossia la felicità mediante la
calma dello spirito bisognerebbe vivere d'accordo con se stessi.
(ὁμολογουμενως ζην τουτο δ’εστι καθ’ ἑνα λογον και συμφωνον ξην.
Consonanter vivere: hoc est secundum unam rationem et concordem sibi
vivere; Stob. Ecl, eth., L. II, c. 7, p. 132. Così ancora:
αρετην διαθεσιν ειναι ψυχης συμφωνον ἑαυτῃ περι ὁλον τον βιον.
Virtutem esse animi affectionem secum per totam vitam consentientem,
ibid., p. 104). Ma questo era possibile solo informando tutta la
propria vita alla ragione, secondo concetti, non secondo mutevoli
impressioni e fisime. E poi che né il successo, né i
fatti esterni, ma solo le massime direttive sono in nostro potere,
si doveva fare di queste sole, non di quelle il proprio scopo, se si
voleva rimaner conseguenti; entrando così per quest'altra via
nella dottrina della virtù.
Ma già agl'immediati successori di Zenone parve il suo
principio morale – vivere armonicamente – troppo formale e privo di
contenuto. Gli diedero perciò un contenuto materiale, con
quest'aggiunta: «vivere in armonia con la natura»
(ὁμολογουμενως τῃ φυσει ξῃν.); la quale aggiunta, secondo c'informa
Stobeo nel luogo indicato, venne fatta dapprima da Cleante ed
allargò di molto il principio, per l'ampia sfera del concetto
e l'indeterminatezza dell'espressione. Imperocché Cleante
intendeva tutta la natura in generale, Crisippo invece la natura
umana in particolare (Diog. Laert., 7, 89). La cosa conforme solo a
quest'ultima doveva quindi esser la virtù, come la
soddisfazione degl'istinti animali è conforme alla natura dei
bruti. E così si rientrava di nuovo risolutamente nella
dottrina della virtù; l'etica – venisse pure a piegarsi o a
rompersi – doveva esser fondata sulla fisica. Imperocché gli
Stoici miravano soprattutto all'unità del principio; Dio e il
mondo non essendo per loro punto distinti.
L'etica stoica, presa in complesso, è veramente un
pregevolissimo e considerevolissimo tentativo di giovarsi della
maggior prerogativa umana – la ragione – per uno scopo importante e
salutare com'è quello di elevarsi sopra i patimenti e i
dolori toccati in sorte a ciascuna vita, con un ammonimento:
Qua ratione queas traducere leniter aevum:
Ne te semper inops agitet
vexetque cupido,
Ne pavor et rerum mediocriter utilium spes.
Con ciò l'etica stoica tendeva a far l'uomo partecipe in
altissimo grado della dignità che a lui, essere ragionevole,
spetta in confronto dell'animale – dignità che solo in questo
senso e in nessun altro va presa. Questo mio modo di considerar
l'etica stoica mi ha condotto a doverne parlare qui, dove tratto di
ciò che la ragione è, e di ciò che può
compiere. È certamente vero, che quello scopo è fino a
un dato punto raggiungibile con l'uso della ragione, e con un'etica
esclusivamente razionale; perché anche l'esperienza dimostra,
che gli uomini di carattere puramente razionale, i quali si soglion
chiamare filosofi pratici (e con ragione, perché, come il
filosofo vero, ossia teorico, trasporta la vita nei concetti,
trasportano essi il concetto nella vita) sono forse i più
felici. Tuttavia moltissimo manca, perché si possa in questa
maniera giungere ad alcunché di perfetto, e la ragione
esattamente applicata possa davvero liberarci da tutto il peso, da
tutti i patimenti della vita, conducendoci alla felicità.
C'è piuttosto una assoluta contraddizione nel proposito di
voler vivere senza soffrire; contraddizione che reca in sé
anche il comune modo di dire: «vita felice». Questo
brillerà ben chiaro a chi avrà compresa fino
all'ultimo l'esposizione seguente. Codesta contraddizione si rivela
già in quell'etica della ragione pura, pel fatto che lo
Stoico è costretto ad intercalare nel suo avviamento ad una
vita felice (e tale rimane pur sempre la sua etica) la
raccomandazione del suicidio – come nel sontuoso corredo dei
depositi orientali si trova anche una preziosa fiala di veleno – per
il caso che i dolori del corpo, i quali non si lasciano sopprimere
da nessun principio o ragionamento filosofico, prendano il
sopravvento e siano incurabili. Allora il fine unico – la
felicità – viene a mancare; e per sottrarsi al patimento, non
altro rimane che la morte, la quale va presa in tal caso
indifferentemente, come una medicina. Qui si fa manifesta una forte
opposizione fra l'etica stoica e quelle altre sopra citate, le quali
pongono a scopo della vita la virtù in se stessa,
direttamente, anche fra le più penose sofferenze; né
ammettono che per sottrarsi ai patimenti si dia termine alla vita –
sebbene nessuna di loro abbia saputo esprimere il vero argomento
contro il suicidio, e tutte invece siano venute accozzando
faticosamente motivi illusori. Nel quarto libro quell'argomento
risulterà in relazione col nostro sistema. Ma il contrasto su
riferito palesa e conferma appunto il dissidio essenziale e
fondamentale tra la Stoa, che in sostanza non è se non una
particolar forma d'eudemonismo, e quelle dottrine citate; sebbene
l'una e le altre s'accordino spesso nei risultati, ed abbiano
un'apparente parentela. La surriferita contraddizione inerente
all'etica stoica, perfino nel suo pensiero sostanziale, si mostra
inoltre anche in questo: che il suo ideale, il Sapiente stoico, non
potè neppur da lei medesima rappresentato, conseguir mai
vita, o intima poetica verità; bensì rimane un
legnoso, rigido fantoccio, del quale non si sa cosa fare, che non sa
egli stesso dove voglia andare con la sua saggezza; e la cui calma
perfetta, contentezza, felicità stanno in aperto contrasto
con la natura umana, né possono darci di sé una
rappresentazione intuitiva. Come differenti appaiono, accanto a
questo fantoccio, i Superatori del mondo e volontari Penitenti, che
la sapienza indiana ci presenta ed effettivamente ha prodotti; o
anche il Salvatore cristiano – quella magnifica figura, piena di
vita profonda, d'immensa verità poetica e di altissimo
significato, la quale nondimeno, malgrado la sua perfetta
virtù, santità ed elevatezza, viene davanti a noi in
istato di altissimo dolore31.
LIBRO SECONDO
IL MONDO COME VOLONTÀ
PRIMA CONSIDERAZIONE
L'obiettivazione del volere.
Nos habitat, non tartara, sed nec sidera coeli:
Spìritus, in nobis qui viget, illa facit.
§ 17.
Nel primo libro abbiamo esaminato la rappresentazione solo come
tale, ossia nella sua forma generica. Tuttavia, per ciò che
riguarda la rappresentazione astratta – il concetto – questa ci fu
nota anche nel suo contenuto, in quanto essa riceve ogni contenuto e
significato solamente dalla sua relazione con la rappresentazione
intuitiva; senza la quale sarebbe priva di valore e di contenuto.
Dovendo quindi far capo esclusivamente alla rappresentazione
intuitiva, cercheremo di conoscere anche il contenuto suo, le sue
più precise determinazioni e gli atteggiamenti ch'essa ci
presenta. Baderemo particolarmente a chiarire con precisione il suo
vero significato: quel significato, che di solito è soltanto
sentito, ed in grazia del quale le immagini della rappresentazione
non sfilano davanti a noi, come altrimenti accadrebbe, del tutto
straniere e mute; bensì ci parlano direttamente, vengono
comprese ed acquistano un interesse, che avvolge tutto il nostro
essere.
Dirizziamo lo sguardo alla matematica, alla scienza naturale ed alla
filosofia; ciascuna delle quali ci fa sperare che ci darà una
parte della luce desiderata. Ora, la filosofia ci appare a tutta
prima come un mostro dalle molte teste, ognuna parlante una lingua
diversa. È vero che non tutte sono discordi sul punto che qui
si tocca, il significato della rappresentazione intuitiva:
perché, eccezion fatta degli scettici e degli idealisti,
tutte le altre, nella sostanza, parlano con sufficiente accordo di
un oggetto, che sta a base della rappresentazione, e che, pur
essendo dalla rappresentazione affatto distinto nell'essere e.
nell'essenza, le somiglia d'altra parte tanto per ogni verso, quanto
un uovo ad un altro uovo. Ma con ciò non siamo tratti
d'impaccio: perché noi non sappiamo punto distinguere un tale
oggetto dalla rappresentazione, anzi troviamo che questa e quello
sono tutt'uno, poiché ogni oggetto sempre e perennemente
presuppone un soggetto, e rimane quindi rappresentazione;
così pure abbiamo conosciuto il fatto d'essere oggetto, come
appartenente alla più general forma della rappresentazione,
che è appunto la scissione in oggetto e soggetto. Inoltre il
principio di ragione, al quale ci si riferisce in tale proposito,
è per noi similmente la pura forma della rappresentazione,
ossia il regolare collegamento di una rappresentazione con un'altra,
e non collegamento dell'intera, finita o infinita serie delle
rappresentazioni con qualcosa che non sia rappresentazione,
né sia quindi rappresentabile. Degli scettici e
degl'idealisti si è parlato più sopra, spiegando la
contesa intorno alla realtà del mondo esteriore.
Se domandiamo ora alla matematica la desiderata, precisa conoscenza
della rappresentazione intuitiva, che conosciamo solo in generale,
nella sua pura forma; la matematica ci parlerà solo di
codeste rappresentazioni in quanto riempiono tempo e spazio, ossia
in quanto sono quantità. C'indicherà con perfetta
esattezza il «quanto» e il «quanto grande»;
ma poi che questo è sempre relativo, ossia è un
confronto d'una rappresentazione con un'altra, e consiste solo in
quell'unilaterale riguardo della quantità, non potrà
darci la nozione a cui principalmente miriamo.
Se guardiamo infine all'ampio, in molti campi diviso, territorio
della scienza naturale, possiamo subito distinguere due partizioni
fondamentali. Essa è o descrizione di forme – ch'io chiamo
morfologia – o spiegazione dei cambiamenti – ch'io chiamo etiologia.
La prima considera le forme permanenti, la seconda considera la
materia evolvente secondo le leggi del suo passaggio da una forma
all'altra. La prima è ciò che vien chiamato, sia pure
impropriamente, storia naturale, nel suo senso più ampio.
Specialmente come botanica e zoologia c'insegna a conoscere le
diverse forme organiche, permanenti, e quindi nettamente
determinate, nell'incessante mutar degli individui, le quali
costituiscono gran parte del contenuto della rappresentazione
intuitiva. Esse vengono da lei classificate, isolate, riunite,
ordinate in sistemi naturali ed artificiali, raccolte sotto
concetti, che rendono possibile uno sguardo d'insieme e una
conoscenza di tutte. Viene inoltre mostrata un'analogia, nel
complesso o nelle parti, che fra tutte le forme passa con infinite
sfumature (unité de plan), in grazia della quale esse
rassomigliano a molteplici variazioni di un tema non formulato. Il
passaggio della materia in quelle forme, ossia il sorgere degli
individui, non è la parte principale da considerare,
perché ogni individuo deriva da un suo simile per via di
generazione; la quale, sempre egualmente misteriosa, si sottrae
finora a una chiara nozione: ed il poco, che se ne sa, trova posto
nella fisiologia, che già appartiene alla scienza etiologica
della natura. Anche la mineralogia, che pure, nella sostanza,
appartiene alla morfologia, tende verso l'etiologia, specie
là dove diventa geologia. Vera e propria etiologia sono poi
le branche della scienza naturale rivolte soprattutto alla causa e
all'effetto: queste insegnano, come, secondo una legge infallibile,
ad uno stato della materia necessariamente un altro determinato
consegua; come un determinato cambiamento sia condizione e causa di
un altro, egualmente determinato: la qual prova si chiama
spiegazione. Qui troviamo in primo luogo meccanica, fisica, chimica,
fisiologia.
Ma, se ci mettiamo alla lor scuola, non tardiamo ad accorgerci, che
la cognizione a cui soprattutto miriamo non ci vien data
dall'etiologia più che dalla morfologia. Quest'ultima ci
mostra forme innumerevoli, – per noi, rappresentazioni –
infinitamente varie, e pur affini per un'innegabile aria di
famiglia; le quali per questa via ci rimangono eternamente estranee
e, guardate in questo solo modo, ci stanno davanti come
incomprensibili geroglifici. L'etiologia viceversa c'insegna che,
secondo la legge di causa ed effetto, un certo stato della materia
ne produce un altro; e con ciò ha spiegato, ed ha fatto il
suo compito. Così, in sostanza, non fa altro che mostrare
l'ordine regolare, col quale gli stati si presentano nello spazio e
nel tempo, e per tutti i casi insegnare quale fenomeno debba
necessariamente prodursi in un dato tempo, in un dato luogo. Assegna
quindi ai fenomeni il loro posto nel tempo e nello spazio, secondo
una legge, il cui contenuto preciso viene rivelato dall'esperienza,
ma della cui generale forma e necessità siamo consapevoli
indipendentemente da quella. Tuttavia, sull'intima essenza d'uno
qualsiasi tra codesti fenomeni non riceviamo con ciò la
minima luce: tale essenza vien chiamata forza naturale, e sta fuor
del dominio della spiegazione etiologica; la quale chiama legge
naturale l'immutabile costanza nell'apparir della manifestazione di
codesta forza, ogni qual volta si presentino le condizioni che
l'etiologia ha riconosciute. Ma questa legge naturale, queste
condizioni, questo apparir d'un fenomeno in luogo determinato, a
tempo determinato, è tutto ciò che essa conosce e
potrà conoscere. La forza in sé, che si manifesta,
l'intima essenza dei fenomeni, producentesi secondo quelle leggi,
rimane per lei sempre un segreto, alcunché di straniero ed
ignoto, tanto nei fenomeni più semplici, quanto nei
più complicati. Imperocché, sebbene l'etiologia abbia
finora meglio conseguito il suo fine nella meccanica, e meno
compiutamente nella fisiologia; la forza, in virtù della
quale una pietra cade a terra o un corpo ne urta un altro, non ci
è meno estranea e misteriosa di quella che produce i
movimenti e lo sviluppo di un animale. La meccanica presuppone come
imperscrutibili materia, gravità, impenetrabilità,
comunicabilità del moto mediante urto, rigidità, etc.;
e tutto ciò chiama forze naturali; chiama leggi naturali il
loro necessario e regolare prodursi in date condizioni. E da questo
punto soltanto comincia la propria spiegazione, la quale consiste
nell'indicar con fedele e matematica esattezza come, dove, quando
ciascuna forza si estrinseca; e nel ricondurre ad una di codeste
forze ogni fenomeno che a lei si presenti. Lo stesso fanno fisica,
chimica, fisiologia nel loro territorio, con la sola differenza, che
presuppongono ancor più, e spiegano ancor meno. Perciò
anche la più completa spiegazione etiologica di tutta la
natura non sarebbe propriamente altro, che un elenco delle forze
inesplicabili, ed una sicura indicazione delle regole, secondo cui i
fenomeni di quelle forze si producono, si succedono, si
sostituiscono vicendevolmente nel tempo e nello spazio: ma l'intima
essenza delle forze in tal modo manifestantisi verrebbe a rimaner
sempre nell'ombra, perché la legge, che l'etiologia segue,
non conduce a spiegar quell'essenza: essa deve fermarsi al fenomeno
ed alla sua classificazione. La spiegazione etiologica si potrebbe
quindi paragonare al taglio di un marmo, il quale mostra molte
venature l'una accanto all'altra, ma non lascia seguire il loro
corso dall'interno del blocco fino alla superficie. Oppure – se mi
è consentito, perché calzante, un esempio scherzoso –
davanti all'etiologia completa della natura intera, l'indagatore
filosofo dovrebbe sentirsi sempre come qualcuno il quale capiti,
senza saper come, in una società a lui del tutto sconosciuta,
dove ciascuno degli astanti a turno gli presenti un altro come suo
amico o cugino, senz'altra spiegazione: e frattanto quegli, mentre
ogni volta si dichiara felice di farne la conoscenza, ha sempre
sulla punta della lingua la domanda: «Ma come diavolo sono
capitato in questa società?».
Dunque, nemmeno l'etiologia può darci su quei fenomeni che
chiamiamo nostre rappresentazioni la luce desiderata, capace di
farci avanzare oltre i fenomeni stessi. Anche dopo tutte le sue
spiegazioni, essi seguitano a starci davanti, del tutto sconosciuti,
come pure rappresentazioni, delle quali non comprendiamo il
significato. Il nesso causale ci dà soltanto la regola e la
relativa disposizione del loro prodursi nello spazio e nel tempo, ma
non ci fa conoscere da vicino che cosa sia ciò che in tal
modo si produce. Inoltre la stessa legge di causalità vige
soltanto per rappresentazioni, per oggetti d'una determinata classe;
ha significato solo con la presupposizione di quelli: è
adunque sempre, come gli oggetti medesimi, esclusivamente in
relazione col soggetto, ossia non si ha se non condizionatamente:
per la qual cosa viene conosciuta egualmente, sia che si parta dal
soggetto, ossia a priori, o dall'oggetto, ossia a posteriori, come
Kant ci ha insegnato.
Ma ciò, che ora ci spinge all'indagine, è appunto
questo: che non ci basta saper che abbiamo rappresentazioni, che le
rappresentazioni sono così e così, e che si collegano
secondo queste o quelle leggi, delle quali è sempre
espressione generale il principio di ragione. Noi vogliamo sapere il
significato della rappresentazione: noi domandiamo, se questo mondo
non sia altro che rappresentazione; nel qual caso dovrebbe passare
davanti ai nostri occhi come un sogno inconsistente, o uno
fantastica visione, indegna della nostra attenzione; o se non sia
qualcosa d'altro, qualcosa di più, e che cosa sia. Si vede
subito, che questo, a cui miriamo, è alcunché di
sostanzialmente diverso dalla rappresentazione, e che devono
essergli del tutto estranee le forme e le leggi di questa: sì
che, partendo dalla rappresentazione, non si può giungere ad
esso seguendo il filo di quelle leggi, le quali collegano soltanto
fra loro oggetti, rappresentazioni; leggi che sono poi le forme del
principio di ragione.
Vediamo già a questo punto, che all'essenza delle cose non si
potrà mai pervenire dal di fuori: per quanto s'indaghi, non
si trova mai altro che immagini e nomi. Si fa come qualcuno, che
giri attorno ad un castello, cercando invano l'ingresso, e ne
schizzi frattanto le facciate. Eppur questa è la via tenuta
da tutti i filosofi prima di me.
§ 18.
In verità, il senso tanto cercato di questo mondo, che mi sta
davanti come mia rappresentazione – oppure il passaggio da esso, in
quanto pura rappresentazione del soggetto conoscente, a quel che
ancora può essere oltre di ciò – non si potrebbe
assolutamente mai raggiungere, se l'indagatore medesimo non fosse
nient'altro che il puro soggetto conoscente (alata testa d'angelo
senza corpo). Ma egli ha in quel mondo le proprie radici, vi si
trova come individuo: ossia il suo conoscere, che è
condizione dell'esistenza del mondo intero in quanto
rappresentazione, avviene in tutto e per tutto mediante un corpo; le
cui affezioni, come s'è mostrato, sono per l'intelletto il
punto di partenza dell'intuizione di quel mondo. Codesto corpo
è per il puro soggetto conoscente, in quanto tale, una
rappresentazione come tutte le altre, un oggetto fra oggetti: i suoi
movimenti, le sue azioni non sono da lui, sotto questo rispetto,
conosciute altrimenti che le modificazioni di tutti gli altri
oggetti intuitivi; e gli sarebbero egualmente estranee ed
incomprensibili, se il loro senso non gli fosse per avventura
svelato in qualche modo affatto diverso. In caso contrario, vedrebbe
la propria condotta regolarsi con la costanza d'una legge naturale
sui motivi che le si offrono, proprio come le modificazioni degli
altri oggetti sono regolate da cause, stimoli, motivi. Ma non
comprenderebbe l'influsso dei motivi meglio di quanto comprenda il
nesso di ogni altro effetto, a lui visibile, con la causa
rispettiva. All'intima, per lui incomprensibile essenza di quelle
manifestazioni ed operazioni del suo corpo, egli seguiterebbe allora
a dare i nomi di forza, qualità, carattere, a piacere: e non
vedrebbe più addentro. Ma le cose non stanno così: al
soggetto conoscente, che appare come individuo, è data la
parola dell'enigma; e questa parola è volontà. Questa,
e questa sola, gli da la chiave per spiegare il suo proprio
fenomeno, gli manifesta il senso, gli mostra l'intimo congegno del
suo essere, del suo agire, dei suoi movimenti. Al soggetto della
conoscenza, il quale per la sua identità col proprio corpo ci
si presenta come individuo, questo corpo è dato in due modi
affatto diversi: è dato come rappresentazione nell'intuizione
dell'intelletto, come oggetto fra oggetti, e sottomesso alle leggi
di questi; ma è dato contemporaneamente anche in tutt'altro
modo, ossia come quell'alcunché direttamente conosciuto da
ciascuno, che la parola volontà esprime. Ogni vero atto della
sua volontà è immediatamente e ineluttabilmente anche
un moto del suo corpo: egli non può voler davvero l'atto,
senz'accorgersi insieme ch'esso appare come movimento del corpo.
L'atto volitivo e l'azione del corpo non sono due diversi stati
conosciuti oggettivamente, che il vincolo della causalità
collega; non stanno fra loro nella relazione di causa ed effetto:
bensì sono un tutto unico, soltanto dati in due modi affatto
diversi, nell'uno direttamente, e nell'altro mediante l'intuizione
per l'intelletto. L'azione del corpo non è altro, che l'atto
del volere oggettivato, ossia penetrato nell'intuizione.
Nel seguito vedremo, che ciò vale per ogni movimento del
corpo, non solo per quelli provocati da motivi, ma anche per quelli
arbitrarii provocati da semplici stimoli; vedremo, anzi, che il
corpo intero non è altro se non la volontà
oggettivata, ossia divenuta rappresentazione – tutte cose che
risulteranno e appariranno evidenti dalla successiva trattazione.
Chiamerò dunque qui il corpo, sotto questo punto di vista,
l'obiettità della volontà; mentre nel libro precedente
e nella memoria sopra il principio di ragione l'avevo chiamato –
secondo il punto di vista colà assunto intenzionalmente
(quello dell'intuizione) – l'oggetto immediato. In un certo senso si
può quindi anche dire: la volontà è la
conoscenza a priori del corpo, e il corpo la conoscenza a posteriori
della volontà. Decisioni della volontà, riferentisi
anche al futuro, sono semplici riflessioni della ragione su
ciò che si vorrà che allora avvenga, e non veri e
proprii atti volitivi: soltanto l'attuazione suggella la
risoluzione, che, finché non sia attuata, è ancor
sempre un proposito soggetto a variare, ed esiste soltanto nella
ragione, in abstracto. Nella semplice riflessione, volere ed agire
sono distinti: nella realtà sono tutt'uno. Ogni vero,
genuino, immediato atto volitivo è subito e direttamente
anche un visibile atto del corpo: e corrispondentemente, d'altra
parte, ogni azione sul corpo, subito e direttamente, è anche
azione sulla volontà; come tale si chiama dolore, se ripugna
alla volontà; benessere, piacere, se è a questa
conforme. Assai diverse sono le gradazioni del dolore e del piacere.
Ma si ha pieno torto, se si dà il nome di rappresentazioni al
dolore ed al piacere, che non sono punto tali, bensì
affezioni dirette della volontà nella sua manifestazione
fenomenica, ch'è il corpo: un forzato, istantaneo volere o
non volere l'impressione, che questo subisce. Sono da considerar
semplici rappresentazioni, e vanno quindi eccettuate da quanto or
ora s'è detto, soltanto alcune poche impressioni corporee che
non eccitano la volontà, e per le quali il corpo diventa
immediato oggetto della conoscenza, mentre come intuizione è
già oggetto mediato nell'intelletto, al pari di tutti gli
altri oggetti. S'intendono con ciò le affezioni dei sensi
puramente oggettivi: della vista, dell'udito e del tatto; e solo in
quanto codesti organi sono impressionati nella maniera specialmente
caratteristica, specifica, naturale di ciascuno. Codesta è
un'impressione così estremamente debole della
sensibilità aumentata e specificamente modificata di tali
organi, da non toccare la volontà; e, non turbata da nessuna
eccitazione di quest'ultima, non fa che fornire all'intelletto i
dati dai quali nasce l'intuizione. Ma ogni affezione di questi
organi più intensa o di altra natura è dolorosa, ossia
contraria alla volontà, all'oggettità della quale
anch'essi dunque appartengono. Debolezza di nervi si manifesta in
quanto le impressioni, le quali dovrebbero aver solo il grado di
forza, che basti a farne dati per l'intelletto, raggiungono il grado
più elevato, in cui muovono la volontà, ossia
producono dolore o piacere; più sovente, invero, dolore, il
quale in parte è ottuso ed indistinto, quindi non solo
singoli suoni e forte luce fa dolorosamente avvertire, bensì
produce anche una generale disposizione di malessere ipocondrico,
senza venir chiaramente conosciuto. Inoltre, l'identità del
corpo e della volontà si mostra fra l'altro anche nel fatto,
che ogni movimento vivace ed eccessivo della volontà, ossia
ogni affetto, scuote direttamente il corpo ed il suo intimo
meccanismo, disturbando l'andamento delle sue funzioni vitali.
Ciò si trova in modo speciale spiegato nella Volontà
nella natura, p. 27 della seconda edizione.
Finalmente la conoscenza che io ho della mia volontà
è, sebbene immediata, tuttavia inseparabile da quella del mio
corpo. Conosco la mia volontà non nel suo complesso, non come
unità, non appieno nella sua essenza; ma la conosco soltanto
nei suoi singoli atti, e quindi nel tempo, ch'è forma del
fenomeno del mio corpo, come d'ogni oggetto: sì che il corpo
è condizione per la conoscenza della mia volontà.
Questa volontà, senza il mio corpo, io non riesco invero a
rappresentarmela. Nella memoria sul principio di ragione è
bensì la volontà, o piuttosto il soggetto del volere,
presentata come una speciale classe di rappresentazioni o oggetti:
ma già quivi vedemmo codesto oggetto coincidere col soggetto,
ossia cessar di essere oggetto. Noi chiamammo questa coincidenza il
miracolo κατ’ εξοχην: in certo modo tutta l'opera presente è
spiegazione di quello. In quanto conosco veramente la mia
volontà come oggetto, la conosco come corpo: ma allora mi
ritrovo daccapo nella prima classe di rappresentazioni stabilita in
quello scritto, ossia fra gli oggetti reali. Verremo scorgendo
sempre meglio, in seguito, che quella prima classe di
rappresentazioni trova appunto la sua sola chiave e spiegazione
nella quarta classe, anche colà stabilita, la quale non si
contrappone più, propriamente, come oggetto al soggetto. E,
in corrispondenza con ciò, dovremo arrivare a capire,
attraverso la legge di motivazione che governa la quarta classe,
l'intima essenza della legge di causalità, dominante nella
prima, e di quanto accade in conformità della legge medesima.
L'identità, ora esposta in via provvisoria, della
volontà e del corpo, può soltanto essere mostrata come
qui per la prima volta s'è fatto e sempre più si
farà in seguito; ossia dalla coscienza immediata, dalla
conoscenza in concreto, venir elevata a nozione razionale, o
trasportata nella conoscenza in abstracto. Viceversa non può,
per la sua natura, venir provata, ossia esser dedotta come
conoscenza mediata da un'immediata, appunto perché essa
è la più immediata; e se non la prendiamo e teniamo
per tale, attenderemo invano di riceverla in qualche modo
mediatamente, come conoscenza derivata. Essa è una conoscenza
di genere affatto speciale, la cui verità appunto
perciò non può esser propriamente disposta sotto una
delle quattro rubriche, in cui ho distinto ogni verità nello
scritto sul principio di ragione, § 29 sgg.: ossia
verità logica, empirica, metafisica e metalogica.
Imperocché non è, come quelle, la relazione d'una
rappresentazione astratta con un'altra rappresentazione, o con la
forma necessaria della rappresentazione intuitiva od astratta:
bensì è il rapporto di un giudizio con la relazione
tra una rappresentazione intuitiva – il corpo – e ciò che non
è punto rappresentazione, ma alcunché da questa toto
genere diverso: volontà. Vorrei dunque distinguere questa
verità da tutte le altre, e chiamarla verità
filosofica κατ’ εξοχην. L'espressione di questa può esser
formulata variamente, dicendo: il mio corpo e la mia volontà
sono tutt'uno; oppure, ciò, che io chiamo mio corpo come
rappresentazione intuitiva, chiamo mia volontà in quanto ne
sono conscio in maniera del tutto diversa, non paragonabile a
nessun'altra; oppure, il mio corpo è l'oggettità della
mia volontà; oppure, prescindendo dal fatto che il mio corpo
è mia rappresentazione, esso non è altro che mia
volontà; e così via32.
§ 19.
Se nel primo libro, con intima riluttanza, dichiaravamo il nostro
proprio corpo esser pura intuizione del soggetto conoscente, come
tutti gli altri oggetti di questo mondo intuitivo, ormai ci si
è fatto chiaro ciò che nella coscienza di ciascuno
distingue la rappresentazione del proprio corpo da ogni altra, pel
resto simile a quella. Ossia, che il corpo si presenta alla
coscienza anche in tutt'altra maniera, toto genere diversa, la quale
viene indicata con la parola volontà, e che questa doppia
conoscenza, che abbiamo del nostro corpo, ci dà sopra di
esso, sopra il suo operare e muoversi in seguito a motivi, come
anche sul suo risentirsi dell'azione esterna – in una parola, sopra
ciò ch'esso è, non in quanto rappresentazione, ma in
se stesso – quella luce, che non possiamo avere immediatamente
sull'essenza, l'attività, l'impressionabilità di tutti
gli altri oggetti reali.
Il soggetto conoscente è appunto un individuo per questa
speciale relazione con un corpo, il quale, considerato fuori di tal
relazione, non è che una rappresentazione eguale a tutte le
altre. Ma la relazione, in virtù della quale il soggetto
conoscente è individuo, appunto perciò sussiste
unicamente fra lui e una sola di tutte le sue rappresentazioni. Di
questa sola egli è quindi conscio non semplicemente come
d'una rappresentazione, bensì in pari tempo anche in
tutt'altro modo, ossia come d'una volontà. Ma, se si astrae
da quella speciale relazione, da quella duplice ed eterogenea
conoscenza di un tutto uno ed identico, – essendo quell'uno, il
corpo, una rappresentazione eguale a tutte le altre – l'individuo
conoscente, per orientarsi a questo proposito, deve ammettere che
l'elemento distintivo di quell'unica rappresentazione stia
esclusivamente nel fatto, che la conoscenza, ch'egli ne ha, si trovi
in codesta duplice relazione con quella rappresentazione sola, e che
solo di quest'unico oggetto intuitivo egli possa aver nozione in due
modi; ma che ciò non va spiegato con la differenza di tale
oggetto da tutti gli altri, bensì con una differenza della
relazione esistente tra la sua conoscenza e quest'unico oggetto, da
quella ch'essa ha con tutti gli altri. Oppure, deve ammettere che
quest'unico oggetto sia essenzialmente diverso da tutti gli altri,
solo fra tutti sia contemporaneamente volontà e
rappresentazione; e gli altri, invece, semplice rappresentazione,
ossia puri fantasmi; che il suo corpo adunque sia l'unico individuo
reale nel mondo, ossia l'unico fenomeno di volontà e l'unico
oggetto immediato del soggetto. Che gli altri oggetti, considerati
come semplici rappresentazioni, siano eguali al nostro corpo, ossia
come questo riempiano lo spazio (che anch'esso esiste solo in
possibilità come rappresentazione), e come questo operino
nello spazio, si può dimostrare con tutta certezza con la
legge di causalità, che per le rappresentazioni è
certa a priori. Questa non ammette effetto senza causa. Ma,
prescindendo dal fatto che dall'effetto si può risalire solo
ad una causa in genere, e non ad una causa eguale, qui si è
sempre nel dominio della pura rappresentazione, sol per la quale
vige la legge della causalità, né si può andare
oltre. Se poi gli oggetti noti all'individuo come semplici
rappresentazioni siano tuttavia, come il suo proprio corpo, fenomeni
d'una volontà; questo è, come già fu detto nel
libro precedente, il vero senso della quistione intorno alla
realtà del mondo esterno. Negare ciò, è seguire
il pensiero dell'egoismo teoretico, che appunto per questo ritiene
fantasmi tutti i fenomeni, eccettuato il proprio individuo,
precisamente come fa, sotto il rispetto pratico, l'egoismo pratico;
il quale considera e tratta la persona propria come la sola persona
reale, e tutte le altre come puri fantasmi. L'egoismo teorico non si
potrà mai confutare con prove: tuttavia filosoficamente non
è di certo altro che un sofisma scettico, ossia dedotto per
pura apparenza. Come convinzione seria, lo si potrebbe trovare
soltanto al manicomio; dove a combatterlo non occorrerebbe tanto una
prova quanto una cura. Per questo non ci indugiamo ancora a
trattarne, ma lo consideriamo unicamente come l'ultima fortezza
dello scetticismo, che è sempre polemico. Ora adunque, se la
nostra conoscenza, sempre legata all'individualità e
perciò stesso limitata, reca con sé la
necessità che ogni individuo sia bensì uno, ma possa
tutto il resto conoscere (la qual limitazione appunto fa sorgere il
bisogno della filosofia); noi, che appunto perciò ci
sforziamo d'allargar mediante la filosofia i limiti della nostra
conoscenza, considereremo l'argomento dell'egoismo scettico, che qui
ci si oppone, come una piccola fortezza di confine, la quale
è per sempre inespugnabile, ma il cui presidio non ha modo
d'uscirne, sì che si può passarle davanti e senza
pericolo lasciarsela alle spalle.
La doppia conoscenza, ormai assurta a chiarezza, e raggiunta in due
modi affatto eterogenei, che noi abbiamo dell'essenza e
dell'attività del nostro corpo, ci servirà d'ora
innanzi come una chiave per aprirci l'essenza d'ogni fenomeno nella
natura; e sull'analogia del nostro corpo giudicar tutti gli oggetti,
che non come quel corpo, ossia non in duplice modo, ma soltanto come
rappresentazioni sono dati alla nostra coscienza; e quindi
ammettere, che com'essi da un lato, a mo' del corpo, sono
rappresentazioni, e perciò della stessa sua natura,
così d'altra parte quel che rimane, quando si metta in
disparte il loro essere in quanto rappresentazioni del soggetto, sia
nella sua intima essenza identico a ciò che in noi stessi
chiamiamo volontà. Invero, quale altra specie d'esistenza o
di realtà dovremmo attribuire al rimanente mondo corporeo?
donde prender gli elementi, coi quali metterlo insieme? All'infuori
di volontà e rappresentazione, nient'altro conosciamo,
né possiamo pensare. Se al mondo reale, che esiste
immediatamente sol nella nostra rappresentazione, vogliamo
attribuire la massima realtà a noi nota, gli diamo la
realtà, che per ciascuno di noi ha il suo proprio corpo:
poiché questo è per ciascuno quanto v'è di
più reale. Ma se poi analizziamo la realtà di questo
corpo e delle sue azioni, all'infuori del fatto d'essere nostra
rappresentazione, non altro vi troviamo che la volontà: e con
ciò viene ad essere esaurita la sua realtà. Non
possiamo quindi trovare in niun luogo una realtà differente
per attribuirla al mondo corporeo. Se il mondo corporeo adunque
dev'essere qualcosa di più che nostra semplice
rappresentazione, dobbiamo dire ch'esso, oltre che rappresentazione,
e quindi in se medesimo e nella sua più intima essenza,
è ciò che troviamo direttamente in noi stessi come
volontà. Io dico, nella sua più intima essenza: ma
codesta essenza della volontà dobbiamo prima conoscerla
meglio, per saper distinguere ciò che appartiene a lei da
ciò che già spetta al suo fenomeno nei vari gradi di
esso. Così, per esempio, l'essere in compagnia della
conoscenza e il relativo agir per determinazione di motivi non
appartiene, come vedremo in seguito, all'essenza della
volontà, bensì semplicemente al suo fenomeno visibile
in quanto uomo o animale. Se io quindi dirò: la forza, che fa
cadere a terra la pietra, nella sua essenza, in sé, e fuori
d'ogni rappresentazione, è volontà; non si
attribuirà a quest'affermazione l'insano significato, che la
pietra si muova secondo un motivo conosciuto, perché
nell'uomo la volontà si manifesta in questo modo33. Ma oramai
ci proponiamo di mostrare, fondare con più estensione e
chiarezza, e sviluppare in tutta la sua ampiezza, quanto fin qui fu
esposto in maniera provvisoria e generica34
§ 20.
Come essenza in sé del nostro corpo, come ciò che
questo corpo è, oltre all'esser oggetto di intuizione o
rappresentazione, si palesa la volontà primamente, secondo
s'è detto, nei movimenti volontari del corpo medesimo, in
quanto questi non sono altro che la visibilità dei singoli
atti volitivi.
Con tali atti, i movimenti si producono in diretta e immediata
concomitanza, formando un tutto unico; distinti da quelli solo nella
forma di conoscibilità in cui sono passati, diventando
rappresentazione. Codesti atti della volontà hanno sempre un
principio fuori di se stessi, nei motivi. Questi tuttavia non
determinano se non ciò che io voglio in un dato tempo, in un
dato luogo, in date circostanze: non il fatto generico del mio
volere, né ciò che io genericamente voglio, ossia la
massima a cui s'impronta tutto il mio volere. Quindi il mio volere
non si può spiegare in tutta la sua essenza coi motivi; ma
questi determinano soltanto la sua manifestazione in un dato
momento, sono la semplice occasione, in cui la mia volontà si
manifesta. Essa rimane nondimeno fuor del dominio assegnato alla
legge di motivazione: solo il suo rivelarsi in ciascun istante
è determinato necessariamente da quest'ultima. Esclusivamente
con la premessa del mio carattere empirico il motivo è una
spiegazione sufficiente della mia condotta: ma s'io faccio
astrazione dal mio carattere, e poi domando perché io voglio
questa cosa e non quell'altra, nessuna risposta è possibile;
appunto perché soltanto il fenomeno della volontà
è sottomesso al principio di ragione, e non la volontà
stessa, che sotto questo rispetto può dirsi non abbia
ragione. Qui da una parte presuppongo nota la dottrina kantiana del
carattere empirico ed intelligibile, come anche il chiarimento ch'io
ne diedi nei miei Problemi fondamentali dell'etica, pp. 48-58, e p.
178 sgg. della prima edizione; per altra parte avremo a discorrere
ampiamente di ciò nel quarto libro. Per ora ho solo
richiamato l'attenzione sul fatto, che l'essere un fenomeno fondato
sull'altro (in questo caso dunque l'azione sul motivo) non esclude
punto che la sua essenza sia, in sé, volontà; la quale
non ha alla sua volta nessun fondamento, perché il principio
di ragione in tutte le sue applicazioni è semplice forma
della conoscenza, ed estende la sua validità alla sola
rappresentazione, ch'è il fenomeno, la visibilità del
volere, ma non al volere medesimo, che diventa visibile.
Ora, se ogni azione del mio corpo è fenomeno di un atto
volitivo, nel quale, in seguito a determinati motivi, si riflette la
mia volontà genericamente ed in complesso, ossia il mio
carattere; dev'esser anche condizione e premessa immancabile d'ogni
azione un fenomeno della volontà. Imperocché il
fenomeno della volontà non può dipendere da qualche
cosa che non esista direttamente e per solo mezzo di lei, che sia
rispetto a lei dovuto al solo caso, sì che diverrebbe
semplicemente casuale anche il fenomeno stesso: ma quella condizione
è il corpo intero. Il corpo deve dunque già essere
fenomeno della volontà, e comportarsi di fronte alla mia
volontà generica, – ossia al mio carattere intelligibile, del
quale è fenomeno nel tempo il mio carattere empirico – come
la singola azione del corpo si comporta di fronte al singolo atto
della volontà. Dunque, non deve tutto il corpo essere altro
che la mia volontà, diventata visibile; dev'essere la mia
volontà stessa, in quanto questa è oggetto intuitivo,
rappresentazione della prima classe. Come conferma di ciò, fu
già osservato che ogni impressione ricevuta dal nostro corpo
eccita istantaneamente e direttamente anche la nostra
volontà, e sotto questo rispetto si chiama dolore o piacere;
oppure, in un grado inferiore, sensazione piacevole o spiacevole. E
fu anche osservato che, viceversa, ogni moto violento della
volontà, affetto e passione, scuote il corpo e turba
l'andamento delle sue funzioni. Si può, è vero,
spiegare etiologicamente (sia pure in maniera assai incompleta) la
nascita, e, un po' meglio, lo sviluppo e la conservazione del corpo;
tale è il compito della fisiologia. Ma questa risolve il suo
problema, così come i motivi spiegano la condotta. Quindi,
come la spiegazione dei singoli atti mediante il motivo, e il
necessario derivar di quelli da questo, non contrastano col fatto
che l'azione in genere e nella sua essenza è fenomeno di una
volontà, in se stessa priva di spiegazione; così la
spiegazione fisiologica delle funzioni corporee non reca nocumento
alla verità filosofica, per cui l'intera esistenza del corpo
e la serie compiuta delle sue funzioni è soltanto
l'obiettivazione di quella volontà appunto, che appare
determinata da motivi nelle azioni esterne del corpo medesimo. La
fisiologia si studia bensì di far risalire a cause proprie
dell'organismo codeste azioni esterne, i moti direttamente
volontari; – spiegar per esempio il movimento dei muscoli con un
afflusso di succhi («come la contrazione d'una corda
inumidita», dice Reil, nel suo Archivio di fisiologia, vol.
VI, p. 153) – ma, pur concedendo che si venisse davvero a una
radicale spiegazione di tal sorta, questa non escluderebbe mai la
verità direttamente certa, che ogni moto volontario
(functiones animales) è fenomeno di un atto volitivo. Nello
stesso modo la spiegazione fisiologica della vita vegetativa
(functiones naturales, vitales), per quanto si possa spingere
avanti, non perverrà a cancellare la verità, che
quest'intera vita animale, così come si svolge, è
fenomeno della volontà. In genere, com'è spiegato
più sopra, qualsiasi spiegazione etiologica non può
darci altro che il punto, necessariamente determinato nel tempo e
nello spazio, d'ogni singolo fenomeno, e il suo necessario prodursi
in quel punto secondo una regola fissa: ma l'intima essenza d'ogni
fenomeno rimane per questa via sempre imperscrutabile, venendo
presupposta da ciascuna spiegazione etiologica, e semplicemente
designata col nome di forza, o legge naturale, o, se si tratta
d'azioni, carattere, volontà. Sebbene adunque ogni singola
azione, essendo presupposto un determinato carattere, si svolga
necessariamente secondo i motivi presentatisi, e sebbene lo
sviluppo, il processo nutritivo, e tutte le modificazioni della vita
animale avvengano secondo cause (stimoli) necessariamente operanti;
nondimeno la serie compiuta delle azioni (quindi anche ogni azione
singola, e così la condizione di queste, ossia tutto il corpo
medesimo che le compie; e per conseguenza anche il processo, pel
quale e nel quale il corpo sussiste) non è altro che il
fenomeno della volontà, l'estrinsecazione visibile,
l'obiettità della volontà. Su questo fatto poggia la
piena concordanza del corpo umano ed animale con l'umana ed animale
volontà; somigliante a quella – pur sopravanzandola di molto
– che uno strumento costruito per un certo scopo ha con la
volontà del costruttore; e perciò apparendoci come
finalità, ossia spiegabilità ideologica del corpo. Le
parti del corpo debbono quindi corrisponder perfettamente ai bisogni
principali, in cui la volontà si manifesta, debbono essere la
visibile espressione di quelli: denti, esofago e canale intestinale
sono la fame oggettivata; i genitali, l'istinto sessuale
oggettivato; le mani prensili, i piedi veloci corrispondono al
già più mediato bisogno della volontà, che mani
e piedi rappresentano. Come la general forma umana alla general
volontà umana, così alla volontà
individualmente modificata, al carattere dell'individuo singolo
corrisponde la forma individuale del corpo; la quale è
perciò nel suo complesso, come in ciascuna parte,
caratteristica ed espressiva. È assai notevole che già
Parmenide l'abbia detto, nei seguenti versi citati da Aristotele
(Metaph. III, 5).
Ως γαρ ἑκαστος εχει κρασιν μελεων πολυκαμπτων,
Τως νοος ανθρωποισι
παρεστηκεν ˙ το γαρ αυτο
Εστιν, ὁπερ φρονεει, μελεων φυσις
ανθρψποισι,
Και πασιν και παντι ˙ το γαρ πλεον εστι νοημα.
(Ut enim cuique complexio membrorum flexibilium se habet, ita mens
hominibus adest: idem namque est, quod sapit, membrorum natura
hominibus, et omnibus et omni: quod enim plus est, intelligentia
est.)35.
§ 21.
Attraverso tutte queste considerazioni, chi può aver
raggiunto anche in abstracto – quindi con chiarezza e certezza – la
conoscenza che ciascuno ha direttamente in concreto, ossia come
sentimento: che cioè l'essenza in sé del nostro
proprio fenomeno (il quale come rappresentazione ci si offre sia
nelle nostre azioni, sia nel permanente loro substrato: il nostro
corpo) è la nostra volontà; e che questa costituisce
l'elemento immediato della nostra coscienza, ma come tale non
è tutta passata nella forma della rappresentazione, in cui si
contrappongono soggetto ed oggetto; bensì si manifesta in una
maniera immediata, nella quale soggetto ed oggetto non sono distinti
nettamente; e tuttavia non è conoscibile nel suo complesso
dall'individuo, ma solo nei suoi singoli atti: chi, io dico,
è arrivato con me a codesta persuasione, troverà che
questa è per lui come la chiave per conoscere l'intima
essenza della natura intera; applicandola anche a quei fenomeni che
non gli son dati, come i suoi propri, in conoscenza immediata oltre
che mediata, ma solo in quest'ultima, quindi solo unilateralmente,
come semplice rappresentazione. Non soltanto in quei fenomeni che
sono affatto simili al suo proprio – negli uomini e negli animali –
egli dovrà riconoscere, come più intima essenza,
quella medesima volontà; ma la riflessione prolungata lo
condurrà a conoscer anche la forza che ferve e vegeta nella
pianta, e quella per cui si forma il cristallo, e quella che volge
la bussola al polo, e quella che scocca nel contatto di due metalli
eterogenei, e quella che si rivela nelle affinità elettive
della materia, come ripulsione ed attrazione, separazione e
combinazione; e da ultimo perfino la gravità, che in ogni
materia sì potentemente agisce e attrae la pietra alla terra,
come la terra verso il sole – tutte queste forze in apparenza
diverse conoscerà nell'intima essenza come un'unica forza,
come quella forza a lui più profondamente e meglio nota
d'ogni altra cosa, che là, dove più chiaramente si
produce, prende nome di volontà. Solo quest'impiego della
riflessione non ci fa più arrestare al fenomeno, bensì
ci conduce fino alla cosa in sé. Fenomeno è
rappresentazione, e non più: ogni rappresentazione, di
qualsivoglia specie, ogni oggetto è fenomeno. Cosa in
sé invece è solamente la volontà: ella, come
tale, non è punto rappresentazione, bensì qualcosa
toto genere differente da questa: ogni rappresentazione, ogni
oggetto, è fenomeno, estrinsecazione visibile,
obiettità di lei. Ella è l'intimo essere, il nocciolo
di ogni singolo, ed egualmente del Tutto: ella si manifesta in ogni
cieca forza naturale; ella anche si manifesta nella meditata
condotta dell'uomo. La gran differenza, che separa la forza cieca
dalla meditata condotta, tocca il grado della manifestazione, non
l'essenza della volontà che si manifesta.
§ 22.
Questa cosa in sé (vogliamo mantener come formula fissa
l'espressione di Kant), che in quanto tale non è mai oggetto,
appunto perché ogni oggetto è invece semplice fenomeno
di quella, e non è più lei medesima, doveva, per poter
esser nondimeno pensata oggettivamente, prendere a prestito nome e
concetto da un oggetto, da alcunché oggettivamente dato,
quindi da uno dei suoi fenomeni. Ma questo, per servir di mezzo di
comprensione, non poteva esser altro se non il più perfetto
di tutti i fenomeni, ossia il più chiaro, il più
sviluppato, dalla conoscenza direttamente illuminato: la
volontà umana. Bisogna tuttavia osservare, che qui usiamo
invero solo una denominatio a potiori, mediante la quale, appunto
perciò, il concetto di volontà acquista una ampiezza
maggiore di quella finora avuta. Conoscenza dell'identico in
fenomeni diversi, e del diverso nell'identico è, come spesso
nota Platone, condizione per far della filosofia. Non s'era finora
conosciuta come identica con la volontà l'essenza di tutte le
forze agitantisi e operanti nella natura; e si consideravan quindi
come eterogenei gli svariati fenomeni, che sono invece specie
differenti d'un medesimo genere. Perciò non poteva aversi
alcuna parola, che indicasse il concetto di codesto genere. Io
quindi indico il genere col nome della più nobile specie; la
cui immediata conoscenza, la più facile per noi, ci è
guida alla conoscenza mediata delle altre specie.
Si troverebbe quindi impigliato in un perenne equivoco chi non fosse
capace di applicar la richiesta estensione del concetto, e con la
parola volontà seguitasse ancora ad intendere soltanto la
specie con essa comunemente indicata, ossia la volontà
diretta dalla conoscenza e manifestantesi esclusivamente in seguito
a motivi, anzi a soli motivi astratti, e quindi sotto la guida della
ragione – volontà speciale, che, come s'è detto, non
è se non il più evidente fenomeno della volontà
intesa nel senso più vasto. Ma è appunto l'intima
essenza di codesto fenomeno, che noi dobbiamo isolare col pensiero,
e trasportarla poi in tutti i più deboli, meno chiari
fenomeni dell'essenza medesima, venendo così a compiere la
desiderata estensione del concetto di volontà. Cadrebbe
nell'equivoco opposto, chi pensasse che sia alla fin fine
indifferente chiamar quell'essenza in sé di tutti i fenomeni
col nome di volontà, o con un altro nome qualsiasi. Sarebbe
questo il caso, se quella cosa in sé fosse il semplice frutto
d'una deduzione, e quindi conosciuta solo mediatamente, in
abstracto. La si potrebbe allora chiamar con un nome purchessia; il
nome sarebbe il semplice segno d'una entità incognita. Invece
la parola volontà, che a noi, come una formula magica, deve
svelar la più intima essenza d'ogni cosa nella natura, non
indica punto una entità sconosciuta, un quid ottenuto per via
di deduzioni, bensì alcunché direttamente conosciuto,
e così ben noto, che noi sappiamo ciò che sia
volontà, meglio di qualsivoglia altra cosa. Finora si
assumeva il concetto di volontà sotto quello di forza: io
faccio il contrario, e voglio che ogni forza della natura sia
pensata come volontà. Non si creda che questa sia una
logomachia, o una quistione indifferente; perché anzi
è di altissima significazione ed importanza. Infatti, a base
del concetto di forza, come di tutti gli altri concetti, sta la
conoscenza intuitiva del mondo oggettivo, ossia il fenomeno, la
rappresentazione: ed esso con quella si esaurisce. Tale concetto
è ricavato dal territorio in cui imperano causa ed effetto,
ossia dalla rappresentazione intuitiva; ed indica appunto il
carattere causale della causa, nel punto in cui esso non è
più oltre spiegabile etiologicamente, ma diventa proprio la
necessaria premessa d'ogni spiegazione etiologica. Viceversa, il
concetto di volontà è l'unico, fra tutti i concetti
possibili, che non abbia la propria origine nel fenomeno, non nella
semplice rappresentazione intuitiva; ma derivi dall'intimo, dalla
coscienza immediata di ciascuno; nella qual coscienza ciascuno
contemporaneamente conosce ed insieme è il suo proprio
individuo, nella sua essenza, immediatamente, senz'alcuna forma,
neppur quella di soggetto ed oggetto: perché qui il
conoscente e il conosciuto coincidono. Se riportiamo quindi il
concetto di forza a quello di volontà, abbiamo effettivamente
ricondotto un'incognita ad un quid infinitamente più noto,
anzi, all'unico che a noi sia davvero direttamente e compiutamente
noto; e la nostra conoscenza ne viene grandemente, allargata. Se
invece sussumiamo, come s'è fatto finora, il concetto di
volontà sotto quello di forza, veniamo a rinunziare all'unica
conoscenza immediata, che abbiamo dell'intima essenza del mondo,
lasciandola perdere sotto un concetto ricavato dal mondo fenomenico,
col quale non possiamo quindi superar la cerchia del fenomeno.
§ 23.
La volontà come cosa in sé è affatto diversa
dal suo fenomeno, e pienamente libera da tutte le forme di questo,
nelle quali appunto, ella passa all'atto del suo manifestarsi;
sì che codeste forme riguardano la sua obiettità, ma
le sono sostanzialmente estranee. La stessa forma più
generale d'ogni rappresentazione – quella dell'oggetto per un
soggetto – non la tocca; ed ancor meno le forme subordinate alla
prima, le quali hanno collettivamente la loro espressione comune nel
principio di ragione. Ad esse appartengono, com'è noto, anche
tempo e spazio, e per conseguenza pur la pluralità, che solo
mediante il tempo e lo spazio esiste e diventa possibile. Da
quest'ultimo punto di vista chiamerò tempo e spazio – con
espressione tolta all'antica scolastica propriamente detta – il
principium individuationis: il che prego di notare una volta per
sempre. Imperocché, per mezzo del tempo e dello spazio
ciò che è tutt'uno nell'essenza e nel concetto
apparisce invece diverso, come pluralità giustapposta e
succedentesi; tempo e spazio sono quindi il principium
individuationis, l'oggetto di tante disquisizioni e contese degli
scolastici, le quali si trovan raccolte presso Suarez (Disp.
Metaph., disp. v, sect. 3). Per le ragioni sopraddette, la
volontà come cosa in sé sta fuor del dominio del
principio di ragione in tutte le sue forme, ed è quindi
assolutamente senza ragione, sebbene ogni sua manifestazione sia in
tutto sottomessa al principio di ragione; sta fuori inoltre di ogni
pluralità, sebbene le sue manifestazioni nel tempo e nello
spazio siano innumerevoli. Ella è una, ma non com'è
uno un oggetto, la cui unità può esser conosciuta solo
in contrasto con la possibile pluralità; e nemmeno
com'è uno un concetto, che è sorto dalla
pluralità mediante astrazione: bensì è una in
quanto sta fuori del tempo e dello spazio, fuori del principium
individuationis, ossia della possibile pluralità. Solo quando
tutto ciò ci sarà diventato intelligibile appieno,
attraverso la seguente considerazione dei fenomeni e delle varie
manifestazioni della volontà, comprenderemo interamente il
senso della dottrina kantiana, per cui tempo, spazio e
causalità non appartengono alla cosa in sé, ma sono
semplici forme della conoscenza.
La mancanza di ragione nella volontà si è
effettivamente conosciuta là, dov'essa si manifesta in modo
più palese, come volontà dell'uomo; e la
volontà fu detta libera, indipendente. Ma nello stesso tempo,
appunto per codesta mancanza di ragione, si trascurò la
necessità, a cui è sempre sottomesso il suo fenomeno:
e gli atti furon dichiarati liberi, mentre non sono tali;
perché ogni singolo atto proviene con stretta
necessità dall'azione del motivo sul carattere. Ogni
necessità è, come s'è detto, relazione tra
causa ed effetto, e non altro. Il principio di ragione è
forma generale di ciascun fenomeno, e l'uomo nella sua
attività, come ogni altro fenomeno, dev'essergli sottomesso.
Ma poiché nella coscienza personale la volontà vien
conosciuta direttamente ed in sé, in codesta coscienza
v'è anche la consapevolezza della libertà. Nondimeno
si dimentica che l'individuo, la persona, non è
volontà come cosa in sé, bensì fenomeno della
volontà; e come tale già determinato, già
passato nella forma del fenomeno, nel principio di ragione. Di qui
viene il fatto singolare, che ciascuno a priori si ritiene del tutto
libero, anche nelle sue singole azioni; e ritiene di poter iniziare
ad ogni momento un nuovo indirizzo di vita quasi diventando un
altro. Ma a posteriori, attraverso l'esperienza, s'accorge con suo
stupore di non esser libero, bensì sottomesso alla
necessità; che malgrado tutti i propositi e le riflessioni,
non muta il suo modo d'agire, e dal principio alla fine di sua vita
è costretto a trascinar quel carattere ch'egli medesimo
disapprova, quasi recitasse fino all'ultimo una parte. Non posso qui
sviluppare più a lungo questa considerazione, che per la sua
natura etica spetta ad altro luogo della presente opera. Qui voglio
intanto semplicemente ricordare, che il fenomeno della
volontà in sé, priva di ragione, è tuttavia, in
quanto fenomeno, sottomesso alla legge di necessità, ossia al
principio di ragione. E voglio ricordarlo, perché la
necessità, con cui avvengono i fenomeni della natura, non sia
d'impedimento a vedere in questi le manifestazioni della
volontà.
Finora furon considerati fenomeni della volontà solo quelle
modificazioni, le quali non hanno altra causa che un motivo, ossia
una rappresentazione. Perciò in tutta la natura si attribuiva
una volontà soltanto all'uomo, e tutt'al più agli
animali; perché il conoscere, il rappresentare, come ho
già notato altrove, è la genuina ed esclusiva
caratteristica dell'umanità. Ma che la volontà agisca
anche là dove nessuna conoscenza la guida, vediamo subito
dall'istinto e dalle tendenze meccaniche degli animali36. Che essi
abbiano rappresentazioni e conoscenza, non è cosa che ora ci
riguardi; imperocché lo scopo, al quale essi dirigono la loro
azione quasi fosse un motivo conosciuto, rimane ad essi del tutto
ignoto. Perciò il loro agire avviene in quel caso senza
motivo, non è guidato dalla rappresentazione, e ci mostra
immediatamente e chiarissimamente, che la volontà agisce
anche senz'alcuna conoscenza. L'uccello di un anno non ha nessuna
rappresentazione delle uova, per le quali costruisce un nido; un
giovine ragno non ne ha della preda, per la quale tesse una rete;
non il formicaleone della formica, a cui per la prima volta scava
una fossa; la larva del cervo volante fora il legno, dove vuol
compiere la sua metamorfosi; e quando essa vuol diventare un insetto
mascolino, il foro è doppio di quando vuol diventare femmina,
per dar posto alle corna, delle quali non ha ancor nessuna
rappresentazione. In tali atti di codesti animali è pur
palesemente in gioco la volontà, come nelle altre loro
azioni; ma essa agisce in un'attività cieca, la quale
è bensì accompagnata dalla conoscenza, ma non ne
è guidata. Ora, se ci siamo persuasi che la rappresentazione,
come motivo, non è punto necessaria ed essenziale condizione
dell'attività del volere, conosceremo più facilmente
l'effetto della volontà in casi dov'è meno
appariscente. Per esempio, non attribuiremo il guscio della
chiocciola ad una volontà guidata da conoscenza, ma estranea
alla chiocciola stessa, come non pensiamo che la casa da noi stessi
costruita sorga per effetto d'una volontà che non sia la
nostra; ma questa casa e la casa della chiocciola conosceremo quali
opere della volontà, oggettivantesi in entrambi i fenomeni;
volontà, che opera in noi secondo motivi, e nella chiocciola
ciecamente, come un impulso costruttivo rivolto al di fuori. Anche
in noi la stessa volontà agisce in vari modi ciecamente: in
tutte le funzioni del nostro corpo, che nessuna conoscenza guida, in
tutti i suoi processi vitali e vegetativi, digestione, circolazione
del sangue, secrezione, sviluppo, riproduzione. Non solo le azioni
del corpo, ma il corpo medesimo è in tutto e per tutto, come
abbiamo mostrato, fenomeno della volontà, volontà
oggettivata, volontà concreta: tutto ciò, che in esso
accade, deve quindi accadere per effetto di volontà; sebbene
qui codesta volontà non sia diretta dalla conoscenza,
né determinata da motivi, ma agisca ciecamente in seguito a
cause che in tal caso prendono il nome di stimoli.
Chiamo causa, nel senso più stretto della parola, quello
stato della materia che, mentre ne produce necessariamente un altro,
subisce a sua volta una modificazione grande come quella ch'esso
produce; la qual cosa si esprime con la regola «azione e
reazione si equivalgono». Inoltre, con una vera e propria
causa l'azione cresce in proporzione della causa, e così
anche la reazione; sì che, una volta conosciuto il modo
d'agire, dal grado d'intensità della causa si può
misurare e calcolare il grado dell'effetto, e viceversa. Tali cause
propriamente dette agiscono in tutti i fenomeni del meccanismo,
chimismo, e così via; insomma, in tutte le modificazioni dei
corpi inorganici. Chiamo invece stimolo quella causa, la quale non
subisce nessuna reazione proporzionata alla sua azione, e la cui
intensità non procede punto parallela di grado con
l'intensità dell'azione, la quale perciò non
può esser misurata su quella: anzi una piccola diminuzione
dello stimolo può produrne una grandissima nell'azione, o
anche distruggere del tutto l'azione precedente, etc. Di tal maniera
è ogni azione su corpi organici come tali: da stimoli dunque,
non da semplici cause, procedono tutte le modificazioni veramente
organiche e vegetative nel corpo animale. Ma lo stimolo, come del
resto ogni causa, e com'anche il motivo, non determina mai altro che
il punto, in cui prende a manifestarsi ciascuna forza nel tempo e
nello spazio, non già l'intima essenza della forza
manifestantesi, che noi, secondo la precedente deduzione, conosciamo
per volontà; alla qual volontà riferiamo quindi tanto
le consapevoli quanto le inconsapevoli modificazioni del corpo. Lo
stimolo tiene la via di mezzo, fa da transizione tra il motivo, che
è la causalità penetrata dalla conoscenza, e la causa
in senso stretto. Nei singoli casi lo stimolo s'accosta ora al
motivo, ora alla causa, ma si può tuttavia distinguer sempre
da entrambi. Per esempio, il salire dei succhi nelle piante avviene
per stimolo e non si può spiegar con pure cause, secondo le
leggi dell'idraulica o della capillarità; tuttavia è
da queste leggi aiutato, e sta già molto vicino alla pura
modificazione causale. Invece, i movimenti dell'hedysarum gyrans e
della mimosa pudica, per quanto prodotti da semplici stimoli, sono
già molto prossimi a quelli prodotti da motivi, e sembrano
quasi esser passaggio dagli uni agli altri. Il restringersi delle
pupille all'aumentar della luce accade in virtù di stimolo,
ma passa già fra i movimenti prodotti da motivi: esso accade
perché la luce troppo forte impressionerebbe dolorosamente la
retina, e noi, per impedirlo, restringiamo la pupilla. La spinta
all'erezione è un motivo, essendo una rappresentazione;
tuttavia essa agisce con la necessità di uno stimolo, ossia
non vi si può resistere, e bisogna allontanarla per renderla
inefficace. Lo stesso si dica degli oggetti disgustosi, che eccitano
tendenza al vomito. Come un vero intermediario, di tutt'altro
genere, tra il movimento prodotto da stimolo e l'agire in forza d'un
motivo conosciuto, abbiamo or ora considerato l'istinto degli
animali. Quale altro intermediario dello stesso tipo si potrebbe
ancora esser tentati di ritener la respirazione: essendosi discusso
se appartenga ai movimenti volontari o involontari, ossia
precisamente se si produca per motivo o per eccitazione; sì
che la si potrebbe forse porre nel mezzo fra questa e quello.
Marshall Hall (On the diseases of the nervous system, § 293
sg.) dichiara che è una funzione mista, stando sotto
l'influsso parte dei nervi cerebrali (volontari), parte degli
spinali (involontari). Frattanto noi dobbiamo finir tuttavia per
attribuirla alle manifestazioni della volontà prodotte da
motivi: perché altri motivi, ossia semplici rappresentazioni,
possono determinar la volontà a rallentare o accelerare la
respirazione; e questa, come ogni altra azione volontaria, da
l'impressione che la si possa del tutto interrompere, e
volontariamente morire asfissiati. E questo si potrebbe veramente
fare, qualora un altro motivo qualsiasi determinasse con tanta forza
la volontà, da vincere l'imperioso bisogno dell'aria. Secondo
alcuni, avrebbe Diogene effettivamente posto in tal guisa termine
alla propria vita (Diog. Laert., vi, 76). Anche taluni negri pare
l'abbiano fatto (F. B. Osiander, Sul suicidio [1813], pp. 170-80).
Avremmo in ciò un forte esempio dell'influsso di motivi
astratti, ossia della prevalenza del volere propriamente razionale,
sul semplice volere animale. In favore della dipendenza, almeno in
parte, della respirazione dall'attività cerebrale sta il
fatto, che l'acido prussico uccide paralizzando il cervello, e
così fermando indirettamente la respirazione; ma se questa
vien prolungata artificialmente, finché sia passato quello
stordimento del cervello, la morte viene evitata. In pari tempo la
respirazione ci fornisce qui incidentalmente il più
bell'esempio del fatto che i motivi agiscono con altrettanto grande
necessità, quanto gli stimoli e le semplici cause in senso
ristretto; e appunto sol da opposti motivi – come pressione da
contropressione – possono esser privati della loro forza.
Imperocché nella respirazione, la possibilità
apparente di poterla interrompere è senza confronto minore
che in altri movimenti prodotti da motivi; essendo il motivo di
quella imperioso, presente, di facilissima soddisfazione, a causa
dell'infaticabilità dei muscoli respiratorii; nulla in
generale opponendovisi, ed essendo il tutto favorito dalla
inveterata abitudine dell'individuo. Eppure tutti i motivi agiscono
con la stessa necessità. Il conoscer che la necessità
è comune tanto ai movimenti prodotti da motivi, quanto a
quelli prodotti da stimoli, ci renderà più facile
comprendere, che anche quanto avviene nel corpo organico per effetto
di stimoli ed in modo affatto regolare è tuttavia, nella sua
intima essenza, volontà. La quale, non già in
sé, ma in tutti i suoi fenomeni è sottomessa al
principio di ragione, ossia alla necessità37. Non ci
fermeremo quindi a riconoscer che gli animali, come nel loro agire,
così in tutto quanto il loro essere, nella forma del corpo,
nell'organizzazione, sono fenomeni di volontà; ma questa
conoscenza immediata, a noi soli concessa, dell'essenza in sé
delle cose, noi trasporteremo anche alle piante, i cui movimenti
avvengono tutti per effetto di stimoli: poiché la privazione
di conoscenza, e del conseguente muoversi per impulso di motivi,
costituisce il solo divario essenziale fra la pianta e l'animale.
Ciò che alla nostra rappresentazione della pianta apparisce
pura vegetazione, cieca forza, noi lo apprezzeremo nella sua essenza
per volontà; e vi riconosceremo quella medesima forza, che
costituisce la base del nostro proprio fenomeno, quale essa si
palesa nella nostra attività, e primieramente in tutta
l'esistenza del nostro corpo.
Un ultimo passo ci rimane da fare: l'estensione del nostro sistema
anche a quelle forze, che agiscono nella natura secondo leggi
generali ed immutabili, conformemente alle quali si producono i
movimenti di tutti quei corpi che, affatto privi di organi, non sono
sensibili allo stimolo e non possono conoscere motivi. La chiave per
l'intendimento delle cose nella loro sostanza in sé – chiave
che sola poteva darci l'immediata cognizione della nostra propria
essenza – dobbiamo ora applicarla anche a questi fenomeni del mondo
inorganico, che sono i più remoti da noi stessi. Ora, se noi
li osserviamo con occhio indagatore; se vediamo il veemente,
incessante impeto, con cui le acque precipitano verso il profondo;
la costanza, con cui il magnete torna sempre a volgersi al polo; lo
slancio, con cui il ferro corre alla calamita; la vivacità,
con cui i poli elettrici tendono a congiungersi, vivacità che
viene aumentata dagli ostacoli, proprio come accade ai desideri
umani; se vediamo il cristallo formarsi quasi istantaneamente, con
tanta regolarità di conformazione, la quale evidentemente
è solo una risoluta e precisa tendenza verso differenti
direzioni, irrigidita e fissata d'un tratto; se osserviamo la
scelta, con cui i corpi sottratti ai vincoli della solidità,
e fatti liberi dallo stato liquido, si cercano, si sfuggono, si
congiungono, si separano; se infine sentiamo direttamente che un
peso, la cui tendenza verso terra sia trattenuta dal nostro corpo,
grava e preme incessantemente su di questo, seguendo la propria
unica tendenza; – non ci costerà un grande sforzo di fantasia
il riconoscere, anche a sì gran distanza, la nostra medesima
essenza: quella stessa, che in noi opera secondo i suoi fini alla
luce della conoscenza, mentre qui, nei più deboli de' suoi
fenomeni, opera in modo cieco, sordo, unilaterale ed invariabile.
Ella è sempre una e sempre la stessa in così diverse
manifestazioni, e perciò – come il primo crepuscolo partecipa
coi raggi del pieno meriggio del nome di luce solare – in queste ed
in quelle deve prendere il nome di volontà: il quale
contrassegna ciò che è essenza di ciascuna cosa nel
mondo, ed unica sostanza di ogni fenomeno.
Tuttavia la distanza, o addirittura l'apparenza di un completo
divario tra i fenomeni della natura inorganica, e la volontà,
che noi percepiamo come l'intimo della nostra propria essenza, viene
principalmente dal contrasto fra la regolarità ben
determinata dell'una e l'apparente arbitrio sregolato dell'altra
classe di fenomeni. Nell'uomo l'individualità si afferma
poderosamente: ciascuno ha il suo proprio carattere. Quindi lo
stesso motivo non ha su tutti lo stesso potere, e mille circostanze
accessorie, che hanno posto nell'ampia sfera di conoscenza d'ogni
individuo, ma rimangono ignote agli altri, modificano la sua azione
per modo che dal solo motivo non si può determinare in
precedenza l'azione; poiché manca l'altro fattore, la precisa
cognizione del carattere individuale e della conoscenza che lo
accompagna. Invece mostrano qui i fenomeni delle forze naturali
l'altro estremo: queste operano secondo leggi generali, senza
deviazione, senza individualità, in base a circostanze palesi
sottomesse alla più esatta predeterminazione; e la stessa
forza naturale si manifesta identicamente in milioni dei suoi
fenomeni. Per chiarire questo punto, per mostrare l'identica natura
dell'una e indivisibile volontà in tutti i suoi fenomeni
tanto diversi – nei più deboli come nei più forti –
dobbiamo in primo luogo considerare il rapporto, che la
volontà come cosa in sé ha col proprio fenomeno, ossia
il rapporto, che il mondo come volontà ha col mondo come
rappresentazione. Ci si aprirà così la miglior via
verso un'indagine profonda di tutta la materia trattata in questo
secondo libro38.
§ 24.
Dal grande Kant abbiamo imparato, che tempo, spazio e
causalità, in tutta la loro legittimità e nella
possibilità di tutte le loro forme, esistono nella nostra
conscienza affatto indipendenti dagli oggetti, che in essi
appariscono e ne costituiscono il contenuto. Ossia, con altre
parole, essi possono venir conosciuti sia che si parta dal soggetto
o dall'oggetto: e' si posson quindi denominare, con egual diritto,
modi d'intuizione del soggetto, o anche qualità dell'oggetto,
in quanto è oggetto (per Kant: fenomeno), ossia
rappresentazione. Quelle forme si possono anche considerare come
l'indivisibile confine tra oggetto e soggetto: perciò
è bensì vero che ogni oggetto deve mostrarsi in
quelle, ma anche il soggetto – indipendente dall'oggetto
rappresentato – le possiede e le domina appieno. Ora, se gli oggetti
rappresentati in codeste forme non fossero vuoti fantasmi, ma
avessero un significato, dovrebbero riferirsi a qualcosa, essere
espressione di qualcosa, che alla sua volta non fosse egualmente
oggetto, rappresentazione, esistente di un'esistenza solo relativa
al soggetto: di qualcosa, che esistesse senza dipender da un
elemento che le sta di fronte come condizione essenziale, e dalle
forme di questo – ossia non fosse più rappresentazione, ma
cosa in sé. Quindi si potrebbe almeno domandare: sono quelle
rappresentazioni, quegli oggetti, qualche altra cosa di più,
prescindendo dall'essere rappresentazioni, oggetti del soggetto? E
che cosa sarebbero in questo senso? Che cos'è quell'altro
loro aspetto, toto genere diverso dalla rappresentazione? Che
è mai la cosa in sé? La volontà: è stata
la nostra risposta, che tuttavia per ora metto in disparte.
Checché sia la cosa in sé, Kant ha giustamente
stabilito che tempo, spazio e causalità (riconosciuti in
seguito da noi come varietà del principio di ragione, il
quale fu alla sua volta riconosciuto come espressione generale delle
forme del fenomeno) non sono sue determinazioni, ma le vengono
attribuiti solo e in quanto la cosa in sé è divenuta
rappresentazione; ossia appartengono solo al suo fenomeno, e non a
lei medesima. Invero, poiché il soggetto li conosce e
costruisce da sé, indipendenti da ogni oggetto, debbono
quelli essere inerenti all'atto di rappresentare in quanto è
tale, e non a ciò che diventa rappresentazione. Debbono esser
la forma della rappresentazione come tale, e non proprietà di
ciò che ha assunto questa forma. Debbono già esser
dati con la semplice contrapposizione di soggetto ed oggetto (non
nel concetto, bensì nel fatto); debbono quindi esser soltanto
la precisa determinazione della forma della conoscenza in genere;
della quale codesta contrapposizione è appunto la
determinazione più generale. Ora, ciò che nel
fenomeno, nell'oggetto, è sotto condizione del tempo, dello
spazio e della causalità, in quanto sol per loro mezzo
può venir rappresentato – ossia pluralità, per mezzo
di giustapposizione e successione; mutamento e durata, per mezzo
della legge di causalità e della materia, la quale è
rappresentabile unicamente sotto condizione della causalità;
e infine quant'altro non si può rappresentare senza cotali
forme – tutto ciò, in complesso, non è proprio
essenzialmente di quello che apparisce, che è passato nella
forma della rappresentazione: bensì è inerente solo a
questa forma medesima. Viceversa, ciò che nel fenomeno non
è sotto condizione di tempo, spazio e causalità,
né si può a questi ricondurre, né con questi
spiegare, sarà appunto l'elemento, nel quale si manifesta
direttamente l'essenza del fenomeno, la cosa in sé. Per
conseguenza la più perfetta conoscibilità, ossia la
massima chiarezza, limpidità ed esauriente
perscrutabilità debbono necessariamente toccare a ciò
che è proprio della conoscenza in quanto tale, ossia alla
forma della conoscenza: e non a ciò che, in sé non
essendo rappresentazione, non oggetto, è diventato
conoscibile (cioè è diventato rappresentazione,
oggetto) soltanto col passare in tali forme. Adunque solo quel che
dipende dal fatto come tale d'esser conosciuto, d'esser
rappresentato (non da ciò che viene conosciuto ed è
diventato rappresentazione); quel che quindi s'appartiene senza
distinzione a quanto vien conosciuto; quel che per conseguenza
può esser trovato sia muovendo dal soggetto sia dall'oggetto
– quello solo può dar senza riserva una sufficiente e fino al
fondo esauriente conoscenza. E non consiste in altro che nelle forme
d'ogni fenomeno, delle quali siamo consci a priori, che si esprimono
collettivamente nel principio di ragione: le varietà del
quale, riferentisi alla conoscenza intuitiva (con la quale
esclusivamente abbiamo qui da fare), sono tempo, spazio e
causalità. Su questi ultimi soltanto poggia l'intera
matematica pura e la pura scienza naturale a priori. Perciò
la conoscenza non trova in queste discipline alcuna oscurità,
non va a urtare contro l'imperscrutabile (l'infondato, ossia la
volontà), contro ciò che non può esser
più dedotto: e sotto questo rispetto anche Kant, come ho
detto, voleva dare di preferenza, anzi esclusivamente a cotali
discipline, oltre che alla logica, il nome di scienze. Ma d'altra
parte, siffatte discipline non ci mostrano altro che semplici
rapporti, relazioni d'una rappresentazione con l'altra, forma senza
contenuto. Ciascun contenuto ch'esse ricevano, ciascun fenomeno che
riempia quelle forme, comprende già qualcosa di non
più conoscibile appieno in tutta la sua essenza, non
più spiegabile in tutto mediante un'altra cosa: ossia
alcunché privo di base, per cui la conoscenza immantinenti
perde in evidenza, e si vede mancar la sua perfetta trasparenza. E
questo elemento, che si sottrae all'indagine, è la cosa in
sé; è ciò che essenzialmente non è
rappresentazione, non oggetto di conoscenza, ma che è
diventato conoscibile solo passando in quelle forme. La forma
è ad esso dapprima estranea, né esso può mai
diventar tutt'uno con lei, non alla semplice forma venir ricondotto;
e – poiché la forma è il principio di ragione – non
può dar piena ragione di sé. Quindi, se anche tutta la
matematica ci dà compiuta conoscenza di ciò, che nei
fenomeni è grandezza, posizione, numero – in breve, ogni
relazione spaziale e temporale –; se tutta l'etiologia ci indica per
intero le regolari condizioni, in cui si producono i fenomeni, con
tutte le loro determinazioni, nel tempo e nello spazio (senza
insegnarci altro con ciò, se non perché ogni volta
ciascun determinato fenomeno debba mostrarsi appunto in un certo
momento in un certo spazio, ed appunto in un certo spazio in un
certo momento): col loro aiuto tuttavia non penetreremo mai
nell'intima essenza delle cose. Rimane sempre alcunché
d'inaccessibile ad ogni spiegazione, che anzi ogni spiegazione deve
presupporre: ossia le forze della natura, il determinato modo
d'agire delle cose, la qualità, il carattere di ciascun
fenomeno, ciò che non ha perché, ciò che non
dipende dalla forma del fenomeno, dal principio di ragione;
ciò a cui questa forma in sé è estranea, ma che
è entrato in lei e si manifesta secondo la sua legge. La
quale legge determina nondimeno soltanto il fenomeno, e non
l'essenza del fenomeno; la forma, e non il contenuto. Meccanica,
fisica, chimica insegnano le regole e le leggi, secondo le quali
agiscono le forze dell'impenetrabilità, gravità,
solidità, fluidità, coesione, elasticità,
calore, luce, affinità elettive, magnetismo,
elettricità etc.: ossia quella legge, quella regola che
codeste forze seguono, ogni qual volta si manifestano nel tempo e
nello spazio. Ma le forze in se stesse rimangono, per quanto si
faccia, qualitates occultae. Imperocché la cosa in sé,
la quale nel manifestarsi presenta quei fenomeni, è per
l'appunto da essi affatto diversa: in tutto soggetta bensì,
nel suo manifestarsi, al principio di ragione come alla forma della
rappresentazione, ma tale da non potervi esser ricondotta ella
medesima, e quindi etiologicamente inesplicabile a fondo, né
mai suscettibile d'essere spiegata appieno; comprensibilissima
tuttavia in quanto è fenomeno, ossia in quanto ha assunto
quella forma, ma per nulla spiegata da codesta
comprensibilità. Per conseguenza, quanta più
necessità trae seco una conoscenza, quanto più
è in lei di ciò che non può esser pensato e
rappresentato altrimenti – come per esempio le relazioni spaziali –,
quanto più chiara e soddisfacente ella diviene: tanto meno
contenuto oggettivo comprende, o tanto minore realtà è
in lei data. O viceversa, quanto più in lei può essere
giudicato del tutto contingente, quanto più ci viene offerto
di puro dato empirico, tanto più di vero elemento oggettivo
ed effettivamente reale è in codesta conoscenza: ma in pari
tempo, tanto più d'inesplicabile, ossia non deducibile da
altro.
In tutti i tempi, invero, un'etiologia ignara del proprio fine si
è sforzata di far risalire ogni vita organica a chimismo, o
elettricità; ogni chimismo, ossia qualità, a
meccanismo (azione mediante la forma degli atomi); e quest'ultimo,
in parte all'oggetto della foronomia (ossia al tempo e allo spazio
congiunti per la possibilità del movimento), in parte alla
geometria pura (ossia posizione nello spazio); – press'a poco come,
a buon diritto, si costruisce in geometria pura il decrescere di
un'azione in ragione del quadrato della distanza, e la teoria della
leva. La geometria finalmente si risolve nell'aritmetica; la quale,
a causa dell'unità di dimensione, è la forma del
principio di ragione più facile a comprendere, a dominare.
Prove del metodo qui indicato in generale sono: gli atomi di
Democrito, il vortice di Cartesio, la fisica meccanica di Lesage,
che sulla fine del secolo scorso tentò di spiegare
meccanicamente, mediante l'urto e la pressione, tanto le
affinità chimiche quanto la gravitazione, come si può
più minutamente vedere nel Lucrèce Neutonien. A quella
mira tende anche Reil con la dottrina della forma e del miscuglio,
come causa della vita animale: della stessa natura è anche il
rozzo materialismo appunto ora, a mezzo il secolo XIX, nuovamente
ravvivato, e per ignoranza reputantesi originale. Il materialismo,
con una stupida negazione della forza vitale, vorrebbe dapprima
spiegare i fenomeni della vita con forze fisiche e chimiche, e
queste alla lor volta far provenire dall'attività meccanica
della materia, dalla situazione, dalla forma, e dal movimento di
certi sognati atomi; e così tutte le forze della natura far
risalire all'urto ed alla ripercussione, che sarebbero la
«cosa in sé» del materialismo. Per conseguenza,
dovrebbe perfino la luce esser la vibrazione meccanica, o
addirittura l'ondulazione di un etere immaginario e postulato a tal
fine: il quale, per così dire, suona il tamburo sulla retina,
dove per esempio 483 bilioni di colpi di tamburo al secondo danno il
color rosso, e 727 bilioni il violetto, e così via. I
daltonici sarebbero dunque coloro, che non possono contare i colpi
di tamburo: non è vero? Cotali crasse, meccaniche,
democritee, pesanti e veramente informi teorie sono degne di gente
che, cinquant'anni dopo l'apparir della teoria goethiana dei colori,
crede ancora alle luci omogenee di Neuton e non si vergogna di
dirlo. Costoro apprenderanno, come ciò che si perdona al
fanciullo (a Democrito) non può essere scusato nell'uomo. Un
giorno potrebbero perfino finire molto male: ma ognuno allora se la
svigna, con l'aria di dire: io non c'ero! Dovremo presto riparlar di
questo falso ricondur le forze naturali l'una all'altra: qui basti
di ciò. Ammesso che le cose andassero così, sarebbe
invero tutto spiegato a fondo, anzi ricondotto da ultimo ad un
problema di calcolo, che verrebbe ad essere il Santissimo nel tempio
della sapienza, cui arriveremmo guidati felicemente dal principio di
ragione. Ma tutto il contenuto del fenomeno sarebbe svanito,
rimanendo la semplice forma: il che cosa appare, sarebbe ridotto al
come appare; e questo come sarebbe il conoscibile a priori, quindi
in tutto dipendente dal soggetto, solo pel soggetto esistente; e per
conseguenza, infine, un puro fantasma, rappresentazione e forma
della rappresentazione in tutto e per tutto: non si potrebbe
più andare in cerca di nessuna cosa in sé. Posto che
così fosse, allora veramente sarebbe il mondo intero dedotto
dal soggetto: e si farebbe effettivamente ciò che Fichte con
le sue ciarle vuote voleva fingere di fare. Ma la cosa non sta
così: a quel modo si costruivano fantasie, sofisticazioni,
castelli in aria, ma non scienza. Si è riusciti – e fu, ogni
volta, un vero progresso – a far risalire i molti e svariati
fenomeni della natura a poche forze originarie; molte forze e
qualità, prima ritenute diverse, sono state dedotte le une
dalle altre (per esempio, il magnetismo dall'elettricità),
diminuendone così il numero: l'etiologia avrà toccato
la meta, quando avrà conosciuto e fissato come tali tutte le
forze elementari della natura, e stabilito i loro modi d'agire;
ossia la regola, con cui si producono nel tempo e nello spazio i
loro fenomeni, seguendo il filo conduttore della causalità,
determinandosi a vicenda il loro posto. Ma sempre avanzeranno forze
prime; sempre avanzerà, come insolubile residuo, un contenuto
dei fenomeni, che non si può ridurre alla loro forma, ossia
spiegare con qualcos'altro secondo il principio di ragione.
Imperocché in ogni cosa della natura è
alcunché, la cui ragione non può mai essere indicata,
di cui nessuna spiegazione è possibile, nessuna causa
è da cercare più oltre: e ciò è il modo
specifico della sua attività, ossia appunto il modo del suo
essere, la sua essenza. Si può certamente d'ogni singola
azione dell'oggetto mostrare una causa, dalla quale deriva ch'esso
debba agire proprio in un dato momento, in un dato luogo: ma del
fatto ch'esso in genere agisca, e agisca così, nessuna. Se
anche non ha nessun'altra proprietà, se è un atomo di
polvere nel sole, mostra tuttavia nel peso e
nell'impenetrabilità quel quid imperscrutabile. Ora questo,
io dico, è ad esso, quel che all'uomo è la
volontà; e, come questa, non è nella sua intima
essenza soggetto a spiegazione, anzi è in sé identico
a lei. Certo, che per ogni manifestazione del volere, per ogni
singolo atto di questo in un certo tempo e luogo, si può
indicare un motivo a cui quell'atto, dato il carattere dell'uomo,
doveva necessariamente seguire. Ma dell'aver l'uomo questo
carattere, anzi della facoltà stessa di volere; e del fatto,
che fra molti motivi per l'appunto questo e nessun altro, o
addirittura che un qualunque motivo muova la sua volontà: di
tutto ciò non si può dar ragione alcuna. Quel
ch'è per l'uomo il suo proprio imperscrutabile carattere,
presupposto indispensabile d'ogni spiegazione dei suoi atti condotti
da motivi, è per ogni corpo organico la sua essenziale
qualità, il modo della sua attività. Le manifestazioni
di codesta attività sono provocate da un'influenza esterna;
mentre il suo modo, ossia la qualità essenziale, non è
da nulla determinato fuor che da se stesso, ed è quindi
inesplicabile. I suoi singoli fenomeni – ne' quali soltanto ella
diviene visibile – sono sottomessi al principio di ragione: ma ella
non sottosta a ragione. Ciò avevano già gli scolastici
esattamente riconosciuto, e chiamato forma substantialis (si veda
Suarez, Disp. metaph., disp. XV, sect. 1).
È un errore tanto grosso quanto comune, il pensar che siano i
più frequenti, più generali e più semplici
fenomeni quelli, che noi meglio comprendiamo: mentre sono
semplicemente quelli, a cui si sono meglio abituati il nostro
sguardo e la nostra ignoranza. Che una pietra cada in terra, ci
è tanto inesplicabile quanto il vedere muoversi un animale.
Si è ritenuto, com'è detto più sopra, che
partendo dalle più generali forze di natura (per esempio
gravitazione, coesione, impenetrabilità) si potessero
spiegare con esse le forze più rare ed operanti solo in
circostanze combinate (per esempio qualità chimica,
elettricità, magnetismo); poi finalmente con queste
l'organismo e la vita degli animali, e perfino dell'uomo. Ci si
accordò tacitamente nel proposito di partire da pure
qualitates occultae, che si rinunziava a chiarire, avendo intenzione
di costruirci sopra e non di scavarle da sotto. Impresa siffatta non
può, come ho detto, riuscire. Ma, anche prescindendo da
ciò, un simile edifizio sarebbe sempre campato in aria. A che
giovano spiegazioni, che da ultimo conducono ad un termine
altrettanto sconosciuto quanto il primo problema? Si arriva forse,
alla fine, a capir dell'intima essenza di quelle universali forze
della natura più che non si capisse dell'intima essenza d'un
animale? Non è l'una cosa inesplicata quanto l'altra?
Imperscrutabile, perché senza ragione, perché è
il contenuto, la sostanza del fenomeno, la quale non può mai
esser ridotta alla forma di esso, al come, al principio di ragione.
Ma noi, che qui abbiamo di mira non l'etiologia, bensì la
filosofia, ossia non la relativa ma l'assoluta cognizione
dell'essenza del mondo, battiamo la via opposta, e muoviamo da quel
che conosciamo direttamente, nel modo più pieno, e che ci
è più famigliare; moviamo da quel che ci sta
più vicino, per comprendere ciò che ci è noto
solo da lontano, unilateralmente e mediatamente: e dal fenomeno
più vivace, più significante, più chiaro
vogliamo apprendere a capire il meno compiuto e più debole.
Di tutte le cose – eccettuato il mio proprio corpo – è a me
conosciuto un solo aspetto, quello della rappresentazione: la loro
intima essenza mi rimane chiusa, ed è un profondo mistero,
anche se io conosco tutte le cause, in seguito a cui si producono le
loro modificazioni. Solo dal confronto con ciò che accade in
me se, mentre un motivo mi scuote, compie il mio corpo un'azione –
il che è l'intima essenza delle mie proprie modificazioni
prodotte da fattori esterni – posso penetrare il modo con cui quei
corpi inanimati si modificano sotto azione di cause, e comprendere
così che cosa sia l'intima essenza loro; poiché il
conoscer la causa, per cui quell'essenza si manifesta, mi dà
semplicemente la regola del suo entrar nel tempo e nello spazio, ma
non più. E questo confronto posso fare, perché il mio
corpo è l'unico oggetto del quale io non un solo aspetto –
quello della rappresentazione – conosca: bensì anche l'altro
aspetto, che si chiama volontà. Invece adunque di credere,
ch'io capirei la mia propria organizzazione, e quindi il mio
conoscere e volere e muovermi in seguito a motivi, se io potessi
tutto ridurre a movimento prodotto da cause quali
elettricità, chimismo, meccanismo: io devo viceversa – in
quanto cerco filosofia, e non etiologia – dai miei propri movimenti,
effetto di motivi, imparare a capir dapprima, nella loro intima
essenza, anche i più semplici e comuni movimenti del corpo
inorganico, ch'io vedo provocati da cause; e le imperscrutabili
forze, che in tutti i corpi della natura si manifestano, riconoscere
identiche, nel modo, con ciò che in me è la
volontà, e solo per grado diverse da questa. In altre parole:
la quarta classe di rappresentazioni, stabilita nella memoria sul
principio di ragione, deve fornirmi la chiave per la conoscenza
della prima classe; e dalla legge di motivazione devo apprendere a
capire la legge di causalità, nel suo intimo significato.
Dice Spinoza (Epist. 62) che la pietra lanciata nell'aria
crederebbe, se avesse coscienza, di volare per sua propria
volontà. Io aggiungo soltanto, che la pietra avrebbe ragione.
Il lancio è per lei, quel che per me è il motivo; e
ciò che nella pietra apparisce come coesione, peso,
permanenza nello stato acquisito, è, nell'intima essenza, il
medesimo, ch'io conosco in me come volontà, e che anch'essa
come volontà conoscerebbe, se acquistasse conoscenza.
Spinoza, in quel passo, aveva rivolta l'attenzione alla
necessità, con cui la pietra vola; e cercò, con
ragione, di ragguagliarla alla necessità dei singoli atti
volontari d'una persona. Io ho di mira invece l'intima essenza, che
è la sola a dar significato e valore ad ogni necessità
reale (ossia effetto da causa) come suo presupposto; e chiamandosi
nell'uomo carattere, nella pietra qualità, è nondimeno
la stessa in entrambi. Là, dov'è immediatamente
conosciuta, si chiama volontà; e ha nella pietra il
più debole, nell'uomo il più alto grado di
visibilità, di obiettità. Quest'essenza, identica
nella nostra volontà e nell'attività di tutte le cose,
già conobbe con giusto sentimento sant'Agostino, e non posso
astenermi dal riportare qui la sua ingenua espressione del fatto:
«Si pecora essemus, carnalem vitam et quod secundum sensum
ejusdem est amaremus, idque esset sufficiens bonum nostrum, et
secundum hoc si esset nobis bene, nihil aliud quaereremus. Item, si
arbores essemus, nihil quidem sentientes motu amare possemus:
verumtamen id quasi appetere videremur, quo feracius essemus,
uberiusque fructuosae. Si essemus lapides, aut fluctus, aut ventus,
aut fiamma, vel quid ejusmodi, sine ullo quidem sensu atque vita,
non tamen nobis deesset quasi quidam nostrorum locorum atque ordinis
appetitus. Nam velut amores corporum momenta sunt ponderum, sive
deorsum gravitate, sive sursum levitate nitantur: ita enim corpus
pendere, sicut animus amore fertur quocumque fertur» (De civ.
Dei, xi, 28).
Merita ancora d'esser notato, che già Euler comprese dover
l'essenza della gravitazione esser ricondotta ad una particolare
«tendenza e brama» dei corpi – quindi volontà
(nella 68a lettera alla Principessa). Questo lo allontana anzi dal
concetto della gravitazione, quale è formulato da Neuton; ed
egli è disposto a tentarne una modificazione secondo
l'anterior teoria cartesiana: derivar cioè la gravitazione
dall'urto di un etere sui corpi. Diventerebbe così
«più razionale e più confacente a coloro che
amano principi chiari ed afferabili». L'attrazione egli vuol
vederla bandita, come qualitas occulta, dalla fisica. Il che
è appunto conforme alla morta concezione della natura che
dominava ai tempi di Euler, come correlato dell'anima immateriale;
ma è nondimeno degna di nota, sotto il rispetto della
verità fondamentale da me stabilita. La vedeva balenar da
lungi, questo fine cervello: ma tosto s'affrettò a volgersi
da un'altra parte e, nel suo timore di veder minacciate tutte le
capitali concezioni d'allora, cercò perfino salvezza in
vecchie e già smesse assurdità.
§ 25.
Sappiamo che la pluralità in genere è necessariamente
determinata da tempo e spazio, e può esser pensata solo in
questi, che noi per tal rispetto chiamiamo prindpium
individuationis. Ma tempo e spazio abbiamo conosciuti come forme del
principio di ragione, nel qual principio si esprime tutta la nostra
conoscenza a priori. E questa, come abbiamo più sopra
spiegato, appunto in quanto tale, si riferisce solo alla
conoscibilità delle cose, non alle cose stesse; ossia
è solamente la nostra forma di conoscenza, non
proprietà della cosa in sé. La cosa in sé, in
quanto tale, è libera da ogni forma della conoscenza, anche
da quella più generale dell'essere oggetto per il soggetto;
ossia è qualcosa d'affatto diverso dalla rappresentazione.
Ora, se la cosa in sé, com'io credo d'aver sufficientemente
provato e reso chiaro, è la volontà; questa,
considerata in quanto tale e isolata dal suo fenomeno, sta dunque
fuori del tempo e dello spazio, e non conosce quindi alcuna
pluralità: essa è una. Non tuttavia, secondo ho
già detto, com'è uno un individuo o un concetto:
bensì come alcunché, a cui sia estranea la condizione
della pluralità possibile, il principium individuationis. La
pluralità delle cose nello spazio e nel tempo, che insieme
formano la sua obiettità, non tocca perciò la
volontà; e questa rimane, senza riguardo a quelli,
indivisibile. Né per avventura è una minor parte di
lei nella pietra, una maggiore nell'uomo: imperocché il
rapporto di parte e di tutto appartiene esclusivamente allo spazio,
e non ha più senso quando si prescinda da codesta forma
d'intuizione. Il più e il meno è cosa che tocca solo
il fenomeno, ossia la visibilità, la obiettivazione.
Quest'ultima è in più alto grado nella pianta che
nella pietra, nell'animale che nella pianta: la volontà resa
visibile, la sua obiettivazione, ha tante infinite gradazioni,
quante ne passano tra il più incerto crepuscolo e la
più sfolgorante luce solare, tra il più forte suono e
l'eco più impercettibile. Torneremo a considerare in seguito
questi gradi della visibilità, che appartengono
all'obiettivazione della volontà, al riflesso della sua
essenza. Ma meno ancora di quanto i gradi della sua obiettivazione
tocchino direttamente la volontà, la tocca la
pluralità dei fenomeni in tali diversi gradi, ossia la massa
degli individui d'ogni forma, o delle singole manifestazioni d'ogni
forza; poiché codesta pluralità è
immediatamente sottoposta alla condizione del tempo e dello spazio,
che rimangono fuori della volontà. La volontà si
palesa tutta e con egual forza in una quercia, come in milioni di
querce. Il lor numero, la loro moltiplicazione nello spazio e nel
tempo, non ha significato alcuno rispetto a lei, ma solo rispetto
alla pluralità degli individui conoscenti nello spazio e nel
tempo, ed appunto perciò moltiplicati e dispersi, ma la cui
pluralità alla sua volta riguarda solo il fenomeno della
volontà, non la volontà medesima. Perciò si
potrebbe anche affermare che se, per impossibile, un unico essere –
fosse pure l'infimo – venisse del tutto annientato, sarebbe con lui
annientato il mondo intero. Col sentimento di questa verità
dice il grande mistico Angelus Silesius:
Ich weiss, dass ohne mich Gott nicht cin Nu kann leben:
Werd'ich
zunicht; er muss von Noth den Geist aufgeben.39
Si è tentato in vari modi di rendere accessibile alla
comprensione di ciascuno la smisurata grandezza dell'universo, e
toltone motivo a considerazioni edificanti, come per avventura
quella intorno alla relativa piccolezza della terra, ed anche
dell'uomo; poi d'altra parte – in contrasto con la prima – quella
intorno alla grandezza dello spirito in quest'uomo così
piccolo, che può avvertire e comprendere, anzi misurare,
l'immenso mondo. Benissimo! Per me intanto, nel misurar
l'incommensurabilità del mondo, è questo il
principale: che l'essenza in sé, della quale il mondo
è fenomeno – sia poi essa quel che le piace – non può
di certo aver così spezzato e disperso il suo vero essere
nello spazio infinito; questa infinita estensione appartiene
unicamente al suo fenomeno, mentr'essa è presente in ciascun
essere vivente, tutta intera e indivisa. Non si perde quindi nulla,
quando ci si ferma ad un solo individuo; né la vera sapienza
s'acquista col misurare a fondo lo sconfinato universo, o col
trasvolar di persona – il che sarebbe ancor più atto al
proposito – lo spazio infinito. Ma s'acquista bensì indagando
bene addentro un qualsivoglia singolo, cercando di comprenderne
appieno la vera e propria essenza.
Sarà perciò materia d'ampia trattazione nel libro
seguente un argomento, che già dev'essersi qui affacciato con
forza ad ogni scolaro di Platone: che cioè questi differenti
gradi d'obiettivazione del volere – i quali, espressi in individui
inumerevoli, stanno come gl'irraggiungibili modelli di questi, o
come le forme eterne delle cose, senza rientrar nel tempo e nello
spazio, che sono il medium degli individui: stanno fermi, a nessun
mutamento soggetti, sempre esistenti, mai divenuti, mentre
gl'individui nascono e periscono, sempre diventano e non mai sono –
che, dicevo, questi gradi d'oggettivazione della volontà
altro non siano, se non le idee di Platone. Vi accenno qui di
sfuggita, per poter usare d'ora innanzi la parola idea in questo
senso, la quale dunque, usata da me, è sempre da comprendere
nel suo vero e originario significato, attribuitole da Platone,
né va punto confusa con quegli astratti prodotti della
ragione scolasticamente dogmatizzante, riferendosi ai quali Kant
abusò in modo sì inopportuno come inesatto d'una
parola, che Platone aveva fatta propria ed usata ottimamente a
proposito. Per idea intendo adunque ogni determinato ed immobile
grado di obiettivazione della volontà, in quanto esso
è cosa in sé, e sta quindi fuor della
pluralità. Codesti gradi stanno ai singoli oggetti, come le
loro forme eterne, o i loro modelli. La più breve e precisa
espressione di quel celebre dogma platonico ci è data da
Diogene Laerzio (in, 12): ὁ Πλατων φησι, εν τη φυσει τας ιδεας
ἑσταναι, καθαπερ παραδειγματα τα δ‛αλλα ταυταις εοικεναι, τουτων ὁ
μοιωματα καθεστωτα. (Plato ideas in natura velut exemplaria dixit
subsistere; cetera his esse similia, ad istarum similitudinem
consistentia.) Sull'abuso kantiano non mi diffondo: il necessario in
proposito è detto nell'Appendice.
§ 26.
Come infimo grado dell'obiettivazione della volontà, si
presentano le forze più generali della natura; le quali per
una parte appariscono in ogni materia senza eccezione (come peso,
impenetrabilità), e per l'altra si sono ripartite alla
rinfusa in tutta la materia esistente, sì che alcune dominano
su questa, altre su quella materia, la quale appunto da ciò
viene ad essere specificata. Queste ultime sono, per esempio,
solidità, fluidità, elasticità,
elettricità, magnetismo, proprietà chimiche e
qualità d'ogni sorta. In sé, esse sono fenomeni
immediati della volontà, altrettanto quanto l'attività
umana; e come tali non hanno fondamento di ragione, a modo del
carattere dell'uomo; solo i loro singoli fenomeni sono sottomessi al
principio di ragione, come le azioni umane. Non possono adunque mai
avere il nome di effetto o di causa, ma sono invece le antecedenti e
presupposte condizioni di tutte le cause e di tutti gli effetti, per
mezzo dei quali si svolge e palesa la loro intima essenza. È
dunque cosa stolta domandar la causa del peso,
dell'elettricità: sono codeste forze originarie, le cui
manifestazioni si producono bensì per causa ed effetto, in
modo che ogni loro singolo fenomeno ha una causa, la quale a sua
volta è un consimile fenomeno singolo, e fa sì che
quella forza debba manifestarsi producendosi nel tempo e nello
spazio; ma non è mai la forza stessa effetto d'una causa,
né causa d'un effetto. Quindi è anche falso il dire:
«il peso è causa della caduta della pietra»;
causa è piuttosto la vicinanza della terra, che attira la
pietra. La forza in sé sta completamente fuori della catena
delle cause e degli effetti, la quale presuppone il tempo, avendo
significato soltanto in ordine a questo: mentre quella sta anche
fuori del tempo. La singola modificazione ha per causa, ogni volta,
un'altra singola modificazione; ma non così la forza, che in
lei si palesa. Poiché ciò, che appunto fornisce
l'attività ad una causa – agisca pure questa innumerevoli
volte – è una forza naturale, priva come tale del fondamento
di ragione; ossia sta del tutto fuor della catena delle cause, e in
genere fuor del dominio del principio di ragione. E viene conosciuta
filosoficamente come immediata obiettità del volere, che
è l'in-sé di tutta la natura. Nell'etiologia – nel
caso presente, nella fisica – è indicata come forza
primitiva, ossia qualitas occulta.
Nei gradi superiori dell'obiettità della volontà,
vediamo farsi efficacemente avanti l'individualità, in
particolar modo nell'uomo, come gran distinzione di caratteri
individuali, ossia compiuta personalità; espressa anche
esteriormente da una fisonomia individuale nettamente segnata, la
quale comprende l'intera conformazione del corpo. Un tal grado di
personalità non hanno nemmeno alla lontana gli animali;
soltanto gli animali superiori ne hanno una lieve impronta, sulla
quale domina tuttavia ancora in tutto e per tutto il carattere della
specie, sì che perciò appena si disegna la fisonomia
individuale. Quanto più si discende, tanto più ogni
traccia di carattere individuale si perde nel carattere generale
della specie, la cui fisonomia finisce col regnare da sola. Si
conosce il carattere psicologico della specie, e se ne deduce
ciò che bisogna attendersi dall'individuo; mentre invece
nella specie umana ogni individuo vuol essere studiato e scrutato
per sé. E questo è difficilissimo, quando si voglia
determinare in anticipazione con qualche sicurezza la condotta di un
uomo; perché con la ragione è sottentrata la
possibilità della finzione. Verosimilmente con questa
differenza della specie umana da tutte le altre ha rapporto il
fatto, che i solchi e le circonvoluzioni del cervello, i quali negli
uccelli mancano del tutto e nei roditori sono ancora molto deboli,
negli animali superiori sono dalle due parti molto più
simmetrici e costanti che nell'uomo40. Inoltre è da
considerar come un fenomeno di quello special carattere individuale,
distinguente l'uomo da tutti gli animali, il fatto che presso gli
animali l'istinto sessuale cerca di soddisfarsi senza una visibile
scelta; mentre codesta scelta nell'uomo – e in modo istintivo,
indipendente da ogni riflessione – è spinta tant'oltre, da
salir fino alla possente passione. Così, mentre ciascun uomo
va guardato come un fenomeno della volontà particolarmente
determinato e caratterizzato, anzi in certo modo come un'idea a
parte, negli animali questo carattere individuale manca del tutto,
avendo la specie sola un significato caratteristico; e la sua
traccia sempre più svanisce, man mano che gli animali si
allontanano dall'uomo; le piante finalmente non hanno più
alcuna particolarità individuale, se non quelle che si
possono spiegare con i favorevoli o sfavorevoli influssi esterni del
suolo e del clima, e con altre circostanze casuali. Così ogni
individualità finisce con lo svanire del tutto nel regno
inorganico della natura. Soltanto il cristallo è ancora in
certo modo da considerarsi come individuo: esso è
l'unità d'una tendenza verso determinate direzioni,
irrigidita, che rende duratura l'orma di tale tendenza; esso
è in pari tempo un aggregato risultante da una figura
centrale, costituito a unità da un'idea, proprio come
l'albero è un aggregato venuto dalla singola germogliante
radice, che si riproduce e si ripete in ogni nervatura di foglia, in
ogni foglia, in ogni ramo: ed in certo qual modo ciascuna di queste
parti appare come un vegetale a sé, il quale da parassita si
nutre del vegetale grande: sì che l'albero, come il
cristallo, è un aggregato sistematico di piccole piante –
sebbene il tutto sia la compiuta presentazione di un'idea
indivisibile, ossia d'un certo determinato grado d'obiettivazione
della volontà. Ma gl'individui della stessa specie di
cristalli non possono aver fra loro altra distinzione, che quella
prodotta da accidentalità esteriori: si può perfino
far cristallizzare ogni specie, a piacere, in cristalli grandi o
piccoli. L'individuo come tale, ossia con le impronte d'un carattere
individuale, non si trova assolutamente più nella natura
inorganica. Tutti i fenomeni di questa sono manifestazioni di forze
naturali generali, ossia di quei gradi d'obiettivazione della
volontà, i quali non si obiettivano punto (come nella natura
organica) nelle varie individualità, che esprimono
parzialmente la totalità dell'idea; bensì si
manifestano soltanto nella specie, e tutte intere in ogni singolo
fenomeno, senz'alcuna deviazione. Poiché tempo, spazio,
pluralità e determinazione causale non appartengono alla
volontà, né all'idea (al grado d'obiettivazione della
volontà), ma soltanto ai singoli fenomeni di questa, deve in
tutti i milioni di fenomeni di una tra cotali forze naturali (per
esempio del peso o dell'elettricità) prodursi questa
esattamente nello stesso modo, e solo le circostanze esterne possono
modificare il fenomeno. Tale unità della sua essenza, in
tutte le sue manifestazioni, tale incrollabile costanza della sua
presenza, non appena, seguendo il filo conduttore della
causalità, se ne trovino raccolte le condizioni, si chiama
legge naturale. Conosciutane una sperimentalmente, si può con
esattezza prevedere e calcolare la manifestazione della forza
naturale, il cui carattere è in quella espresso e registrato.
È appunto questa regolarità dei fenomeni nelle classi
inferiori della obiettivazione della volontà, che dà
loro un aspetto tanto diverso dalle manifestazioni della
volontà medesima nei gradi più alti, ossia più
distinti, della sua obiettivazione – negli animali, negli uomini e
nella loro attività. Qui il maggiore o minor rilievo del
carattere individuale, e l'impulso dei motivi (i quali, stando nella
conoscenza, rimangono spesso celati allo spettatore), hanno fatto
finora misconoscere del tutto l'identità dell'intima essenza
nei due generi di fenomeni.
L'infallibilità delle leggi naturali ha – se si muove dalla
conoscenza del singolo e non da quella dell'idea – alcunché
di sorprendente, anzi, a volte, di quasi terrificante. C'è da
stupire, che la natura non dimentichi neppure una volta le sue
leggi: che, per esempio, se è conforme ad una legge naturale
che nell'incontro di certe sostanze, in determinate condizioni,
abbia luogo una combinazione chimica, uno sviluppo di gas, una
combustione; ripetendosene le condizioni sia per nostra
volontà, sia per caso (dove la regolarità è
tanto più sorprendente quanto più inaspettata), oggi
come mille anni fa si produca immediatamente e senza indugio il
fenomeno determinato. Questa meraviglia proviamo più
vivacemente per certi rari fenomeni producentisi solo in circostanze
molto complicate, ma preannunziatici per quando codeste circostanze
si offrano; come, per esempio, se certi metalli si toccano a vece
alterna tra loro e con un liquido acido, e foglioline d'argento
poste fra le estremità di questa concatenazione devono
improvvisamente consumarsi in verdi fiamme; o come il duro diamante,
che sotto certe condizioni si trasforma in acido carbonico. È
la magica onnipresenza delle forze naturali, che allora ci
sorprende; e qui osserviamo quel che non ci colpisce più nei
fenomeni quotidiani, ossia come la relazione tra causa ed effetto
sia in verità misteriosa quanto quella, di cui si favoleggia,
tra una formula magica e lo spirito che da lei evocato deve
necessariamente comparire. Se invece siano penetrati addentro nel
comprendere filosoficamente, che una forza naturale è un
determinato grado nell'obiettivazione della volontà,
cioè di quella che noi stessi riconosciamo come nostra
più intima essenza; e che codesta volontà in
sé, e distinta dal suo fenomeno e dalle forme di questo, sta
fuori del tempo e dello spazio, sì che la pluralità,
da tempo e spazio determinata, non a lei, né direttamente al
grado della sua obiettivazione (ossia all'idea) compete,
bensì soltanto ai suoi fenomeni; mentre la legge di
causalità invece ha significato soltanto in relazione col
tempo e con lo spazio, assegnando in questi il posto dovuto ai
molteplici fenomeni delle diverse idee in cui la volontà si
manifesta, e determinando l'ordine in cui devono prodursi; – se a
noi, io dico, si è così svelato l'intimo senso della
grande teoria kantiana, che tempo, spazio e causalità non
appartengano alle cose in sé, ma esclusivamente al fenomeno,
e siano forme della nostra conoscenza, non qualità della cosa
in sé: in tal caso ci renderemo conto, che quello stupirsi
della regolarità e puntualità, con cui agisce una
forza naturale, e della piena identità di tutti i suoi
milioni di fenomeni, e del loro immancabile prodursi, è
invero paragonabile allo stupore d'un bambino o d'un selvaggio, il
quale, guardando per la prima volta un fiore attraverso un cristallo
faccettato, si meravigli della perfetta identità degli
innumerevoli fiori che vede, e conti ad uno ad uno i petali d'ogni
fiore.
Ogni general forza primitiva della natura è adunque nella sua
intima essenza nient'altro che l'obiettivazione della volontà
in un grado inferiore: cotal grado chiamiamo idea eterna, nel senso
platonico. Invece la legge naturale è la relazione dell'idea
con la forma del suo fenomeno. Codesta forma è tempo, spazio
e causalità – i quali hanno fra loro necessario,
indissolubile nesso e rapporto. Mediante tempo e spazio si
moltiplica l'idea in fenomeni innumerevoli; e l'ordine, con cui
questi rientrano in quelle forme della molteplicità, è
rigidamente determinato dalla legge causale. Questa è come la
norma del limite tra quelle manifestazioni d'idee diverse; in base
alla quale sono ripartiti tra' fenomeni il tempo, lo spazio e la
causalità. Tale norma si riferisce quindi necessariamente
all'identità di tutta una data materia, la quale è il
sostrato comune di quei differenti fenomeni. Se questi non fossero
tutti in rapporto ad una materia comune, nel cui possesso vanno
distribuiti, non occorrerebbe più una tal legge per fissare i
loro diritti: potrebbero tutti contemporaneamente, gli uni presso
gli altri, riempire lo spazio infinito per un tempo infinito. Quindi
solo per il fatto che tutti quei fenomeni delle eterne idee
appartengono ad una stessa materia, doveva sorgere una regola del
loro prodursi e del loro cessare; altrimenti nessuno farebbe posto
all'altro. Pertanto la legge di causalità è collegata
essenzialmente con quella della permanenza della sostanza: entrambe
acquistano sol nel reciproco rapporto un significato; né
diversamente si comportano rispetto ad esse tempo e spazio.
Imperocché la pura possibilità di opposte
determinazioni nella stessa materia è il tempo; la pura
possibilità del permaner della stessa materia in tutte le
opposte determinazioni è lo spazio. Perciò dichiarammo
nel precedente libro esser la materia una combinazione di tempo e
spazio; la qual combinazione si mostra come mutar d'accidenti nel
permanere della sostanza, di cui è possibilità
generale appunto la causalità, ossia il divenire. Pertanto
dicemmo anche esser la materia in tutto e per tutto
causalità. L'intelletto dichiarammo correlato soggettivo
della causalità, e dicemmo esister la materia (quindi il
mondo intero come rappresentazione) soltanto per l'intelletto,
essendo questa la condizione, il suo sostegno, come suo necessario
correlato. Tutto ciò non è che un rapido ricordo di
quanto è esposto nel primo libro. Il por mente all'intimo
accordo dei due libri è richiesto per la lor piena
comprensione; imperocché, ciò che nel mondo reale
è indissolubilmente congiunto, costituendone i due aspetti –
volontà e rappresentazione – è in questi due libri con
violenza separato, col fine di poter ciascuno aspetto più
esattamente conoscere, quando sia isolato dall'altro.
Non sarebbe forse superfluo render più evidente con un
esempio come la legge di causalità abbia significato solo in
rapporto al tempo, allo spazio ed alla materia, che risulta dalla
combinazione d'entrambi; questa essendo la legge che determina i
confini, entro cui le manifestazioni delle forze naturali si
dividono il possesso della materia; mentre le naturali forze
originarie medesime, come immediate obiettivazioni della
volontà, la quale in quanto cosa in sé non è
sottomessa al principio di ragione, stanno fuor di quelle forme.
Intanto solo in quelle forme ha valore e significato ogni
spiegazione etiologica, ed appunto perciò l'etiologia non
può mai condurre fino all'intima essenza della natura.
Immaginiamoci, a tal fine, una macchina costruita secondo le leggi
della meccanica. Pesi di ferro danno principio al movimento; ruote
di rame resistono con la loro rigidità, si urtano e sollevano
l'una con l'altra e muovono le leve, in grazia della propria
impenetrabilità, e così via. Peso, rigidità,
impenetrabilità sono qui forze primitive non dimostrate: la
meccanica dà soltanto il modo, con cui tali forze si
manifestano, entrano in campo, dominano una data materia, un dato
tempo e luogo. Intanto, per avventura può una forte calamita
agire sul ferro dei pesi, vincere la gravità; allora il moto
della macchina s'arresta, e la materia è d'un tratto il campo
d'una nuova forza affatto diversa, il magnetismo: ma anche questa
volta la spiegazione etiologica non sa dirci altro, se non le
condizioni in cui quella si presenta. Oppure, i dischi di rame di
quella macchina vengono poggiati su lamine di zinco,
introducendovisi frammezzo un liquido acido: immediatamente la
materia della macchina cade in potere di un'altra forza primitiva,
del galvanismo, che la domina ora secondo le proprie leggi, ed in
lei si palesa mediante i propri fenomeni, dei quali egualmente
l'etiologia altro non può dire, se non le circostanze in cui
si mostrano e le leggi che li governano. Lasciamo ora crescere la
temperatura, e prodursi del puro ossigeno: tutta la macchina arde;
ossia ancora una diversa forza naturale, il chimismo, ha in questo
istante, in questo luogo, l'incontrastata padronanza di quella
materia, e in lei si manifesta come idea, come un determinato grado
nell'obiettivazione della volontà. Ora, l'ossido metallico in
tal guisa formatosi, lo combino con un acido: un sale si forma, si
dispone in cristalli; questi sono il fenomeno di un'altra idea, a
sua volta affatto imperscrutabile, mentre il comparir della sua
manifestazione dipendeva da quelle condizioni che l'etiologia sa
indicare. I cristalli si disgregano, si mischiano con altre
sostanze, una vegetazione vi spunta: una nuova manifestazione di
volontà; – e così la stessa permanente materia si
potrebbe seguire all'infinito, e vedere come ora l'una, ora l'altra
forza naturale acquisti un diritto su di lei e ineluttabilmente lo
ghermisca, per entrare in campo e manifestare la propria essenza. La
legge di causalità fa conoscere la determinazione di questo
diritto, il punto del tempo e dello spazio in cui esso divien
valido; ma la spiegazione fondata su di lei non va più oltre.
La forza in se stessa è un fenomeno della volontà, e
come tale non sottomessa al principio di ragione, ossia senza
fondamento di ragione. Essa sta fuori di tutti i tempi, è
onnipresente, e sembra attender costantemente il presentarsi delle
circostanze, nelle quali può prodursi ed impadronirsi d'una
data materia, respingendo la forza che fino a quel momento vi
dominava. Il tempo tutto esiste solo per il suo fenomeno, ma non ha
importanza per lei; le forze chimiche sonnecchiano per millenni in
una materia, prima d'esser liberate dal contatto dei reagenti.
Allora appariscono: ma il tempo esiste solo per questa
manifestazione, non per le forze medesime. Per millenni sonnecchia
il galvanismo nel rame e nello zinco, e questi giacciono quietamente
accanto al ferro; il quale, non appena tutti e tre si toccano nelle
condizioni volute, deve andare in fiamme. Perfino nel regno organico
vediamo un seme disseccato conservare per tremila anni la forza
addormentata, che, presentandosi finalmente le circostanze
favorevoli, si sviluppa in pianta41.
Ora, se dopo codesta considerazione ci si è fatta chiara la
differenza della forza naturale da tutti i suoi fenomeni; se abbiamo
compreso, che quella forza è la volontà stessa in un
dato grado della sua obiettivazione, ma che ai soli fenomeni,
mediante tempo e spazio, appartiene la pluralità, e la legge
di causalità non è altro che la determinazione dei
singoli fenomeni in un punto del tempo e dello spazio: conosceremo
allora anche la piena verità ed il senso profondo della
dottrina di Malebranche intorno alle cause occasionali. Questa
dottrina, com'egli la espone nelle Recherches de la
vérité, particolarmente nel terzo capitolo della
seconda parte del sesto libro e negli éclaircissements
aggiunti al medesimo capitolo, vale la pena di confrontarla con la
mia presente esposizione, notando il perfettissimo accordo delle due
dottrine, malgrado tanta diversità nel procedimento del
pensiero. Anzi, mi stupisce che Malebranche, tutto irretito nei
dogmi positivi, che l'età sua irresistibilmente gl'imponeva,
abbia tuttavia saputo, malgrado quei vincoli, sotto un tal peso,
coglier con tanta giustezza il vero ed accordarlo con quei dogmi – o
almeno con la lettera di essi.
Gli è che il potere della verità è
incredibilmente grande e d'indicibile tenacia. Ne troviamo le tracce
frequenti in tutti, anche nei più bizzarri o addirittura
più assurdi dogmi di età e paesi diversi: spesso,
è vero, in singolare compagnia, in mescolanze stupefacenti –
ma tuttavia riconoscibili. La verità rassomiglia a una
pianta, che germogli sotto un mucchio di grosse pietre, e tuttavia
s'inerpichi verso la luce, affannandosi, con mille rigiri e
contorcimenti, deformata, impallidita – ma pur verso la luce.
Malebranche ha senza dubbio ragione: ogni causa naturale è
solo causa occasionale, dà solo occasione, spinta, alla
manifestazione di quell'una e indivisibile volontà, che
è l'in sé di tutte le cose; e la cui graduale
obiettivazione costituisce tutto questo mondo visibile. Il solo
prodursi, farsi visibile in un dato luogo, in un dato tempo,
è provocato dalla causa, e da questa per tal rispetto
dipendente; ma non l'insieme del fenomeno, non la sua intima
essenza. Questa è la volontà medesima, su cui non ha
potere il principio di ragione, ed è quindi senza fondamento
di ragione. Nessuna cosa al mondo ha un'assoluta e generica causa
della sua esistenza: bensì soltanto una causa per cui essa
appare per l'appunto in un dato luogo e in un dato tempo. Che una
pietra or mostri peso, ora solidità, ora elettricità,
ora proprietà chimiche, dipende da cause, da influenze
esterne, e con queste si spiega; ma quelle qualità medesime,
ossia la sua essenza, che di tali qualità risulta, e si
manifesta per conseguenza in tutti quei modi indicati: e il fatto
d'esser la pietra quale è, anzi il fatto d'esistere in
genere, non ha ragione alcuna, bensì è la
manifestazione della incausata volontà. Ogni causa è
quindi causa occasionale. Così abbiamo veduto stare le cose
nella natura incosciente: ma non diversamente stanno anche
là, dove non più cause e stimoli, ma motivi sono, che
determinano il prodursi dei fenomeni: ossia nella condotta degli
animali e degli uomini. Imperocché qui come colà
è una medesima volontà, che si palesa, diversissima
nei gradi della sua manifestazione, moltiplicata nei fenomeni di
questa, e per rispetto a questa sottomessa al principio di ragione,
ma in sé del tutto libera. I motivi non determinano il
carattere dell'uomo, ma soltanto la manifestazione di codesto
carattere, ossia gli atti; la configurazione esteriore del suo
cammino vitale, non l'intimo significato e contenuto di esso: i
quali provengono dal carattere, che è immediato fenomeno
della volontà, ossia non fondato su ragione. Che un uomo sia
cattivo, un altro buono, non dipende da motivi e da influenza
esterna, né da dottrine e prediche; ed è in questo
senso assolutamente inesplicabile. Ma se un cattivo mostra la sua
cattiveria in meschine ingiustizie, in vili macchinazioni, in basse
furfanterie, esercitate nella ristretta cerchia che lo circonda, o
se da conquistatore opprime i popoli, e tutto un mondo precipita
nella disperazione, e versa il sangue di milioni d'uomini: questa
è la forma esteriore, con cui la volontà si manifesta,
la sua parte non essenziale, dipendente dalle circostanze in cui il
destino ha posto quell'uomo, dall'ambiente, dagl'influssi esteriori,
dai motivi. Sempre inesplicabile rimarrà invece il fatto di
obbedire a tali motivi: esso risulta dalla volontà, di cui
quell'uomo è manifestazione. Di ciò si tratterà
nel quarto libro. Il modo onde il carattere dispiega le sue
qualità si può esattamente paragonare a quello, onde
ogni corpo della natura incosciente mostra le proprie. Con tutte le
sue insite qualità, l'acqua rimane acqua, sia che essendo
lago tranquillo rifletta le proprie rive, sia che spumeggiando
precipiti sulle rocce, o per forza d'artificio sprizzi con alto
zampillo verso il cielo. Queste varie disposizioni dipendono dalle
circostanze esterne, l'una le è naturale come l'altra; e
l'acqua mostra o l'una o l'altra secondo le circostanze, egualmente
disposta a tutto, ma in ogni caso fedele al proprio carattere e
sempre questo solo carattere manifestando. Non altrimenti si
manifesterà in qualsivoglia circostanza ciascun carattere
umano: ma saranno diverse le sue manifestazioni, come diverse
saranno le circostanze.
§ 27.
Se da tutte le precedenti considerazioni sopra le forze della natura
e le lor manifestazioni ci si è reso chiaro fin dove possa
giungere la spiegazione fondata sulle cause, e dove bisogna che
s'arresti, se non vuol precipitar nell'insensato sforzo di ridurre
tutti i fenomeni alla loro semplice forma, sì che alla fine
nulla rimanga se non la forma; potremo ora fissare in generale
ciò che si può pretendere da ogni etiologia.
L'etiologia deve per tutti i fenomeni della natura indagare le
cause, ossia le circostanze in cui costantemente i fenomeni si
producono: ma poi deve ricondurre i fenomeni, diversamente
atteggiati da multiformi circostanze, a ciò che in ogni
fenomeno agisce e dalla causa viene presupposto, alle elementari
forze della natura; nettamente distinguendo, se una differenza del
fenomeno proviene da una differenza della forza, o soltanto da una
differenza delle circostanze in cui la forza si manifesta; e
guardandosi bene sì dal creder fenomeno di forze diverse
ciò, che è manifestazione di una forza unica in
circostanze diverse, sì viceversa dal creder manifestazioni
di un'unica forza ciò, che in origine appartiene a forze
differenti. Ora, a questo occorre immediato giudizio; perciò
così pochi uomini sono capaci di allargare le cognizioni
nella fisica, mentre tutti sono capaci di allargare l'esperienza.
Pigrizia ed ignoranza dispongono a richiamarsi troppo presto alle
forze originarie: come si vede, in un'esagerazione che sembra
ironia, nelle entità e quiddità degli scolastici.
Niente è più lontano dal mio intendimento, che il
favorire un ritorno di queste. Non è lecito riferirsi
all'obiettivazione della volontà, invece di dare una
spiegazione fisica, più che non sia lecito riferirsi alla
forza creatrice di Dio. Imperocché la fisica esige cause, e
la volontà non è mai causa. Il suo rapporto col
fenomeno non è mai conforme al principio di ragione. Ma
ciò che è in sé volontà, per un altro
verso esiste come rappresentazione, ossia è fenomeno: come
tale segue le leggi, che costituiscono la forma del fenomeno:
perciò deve ad esempio ogni movimento, sebbene sia ognora
fenomeno di volontà, aver tuttavia una causa, in base alla
quale esso è da spiegare in relazione ad un determinato tempo
e luogo, ossia non in generale nella sua intima essenza, ma come
fenomeno singolo. Questa causa è meccanica nella pietra,
è un motivo nel movimento dell'uomo: ma mancare non
può mai. Invece, l'universale, la comune essenza di tutti i
fenomeni d'una data specie, ciò senza la cui premessa non
avrebbe senso né significato alcuna spiegazione causale –
questo è la general forza naturale, che nella fisica deve
rimaner come qualitas occulta, appunto perché qui la
spiegazione etiologica s'arresta e la metafisica incomincia. Ma la
catena delle cause e degli effetti non viene mai spezzata da una
forza primitiva, a cui ci si debba riferire, né risalire a
questa come a suo primo anello; bensì tanto il più
prossimo quanto il più lontano anello della catena già
presuppone la forza originaria, senza la quale non potrebbe nulla
spiegare. Una serie di cause ed effetti può esser la
manifestazione delle forze più differenti, il cui successivo
prodursi nella visibilità è guidato da quella serie,
come ho sopra spiegato con l'esempio d'una macchina metallica; ma la
varietà di queste forze primitive, non deducibili l'una
dall'altra, non interrompe in nessun modo l'unità di quella
catena di cause e la connessione fra tutti i suoi anelli.
L'etiologia della natura e la filosofia della natura non si
pregiudicano vicendevolmente mai, ma procedono parallele, il
medesimo oggetto guardando da differenti punti di vista. L'etiologia
dà conto delle cause, che hanno prodotto necessariamente il
singolo fenomeno da spiegarsi, e mostra a fondamento di ogni sua
spiegazione le forze generali attive in tutte codeste cause ed
effetti, determina tali cause con precisione, il loro numero, le lor
differenze, e quindi tutti gli effetti, in cui ciascuna forza,
secondo la diversità delle circostanze, si produce
diversamente ma sempre in conformità del suo speciale
carattere dispiegato secondo una regola infallibile, che si chiama
legge naturale. Quando la fisica ha compiutamente sotto ogni
rispetto esaurito questo compito, è giunta alla mèta:
poiché nessuna forza nella natura organica rimane ignota e
nessuna azione sussiste, che non sia dimostrata fenomeno d'una di
quelle forze, sotto certe determinate condizioni. Per conseguenza
una legge naturale non è se non la semplice regola, osservata
nella natura, secondo cui questa si comporta ogni volta in
determinate circostanze, tosto che si mostrino; quindi si può
invero definire la legge naturale come un fatto formulato in forma
generale, un fait généralisé, sì che una
completa esposizione di tutte leggi naturali non sarebbe che un
completo registro di fatti. L'esame di tutta la natura viene dunque
compiuto mediante la morfologia, la quale enumera, paragona ed
ordina tutte le forme costanti della natura organica; sulla causa
dell'apparirvi dei diversi esseri ha poco da dire, essendo questa
per tutti la generazione (la cui teoria sta a sé) e in rari
casi la generatio (equivoca. A quest'ultima, in senso stretto,
appartiene anche la maniera, con cui si manifestano nel caso singolo
tutti i gradi inferiori dell'obiettità della volontà,
ossia i fenomeni fisici e chimici; e l'indicar le condizioni di
codesto manifestarsi è appunto compito dell'etiologia. La
filosofia invece considera dovunque – e quindi anche nella natura –
soltanto l'universale: qui sono suo argomento le forze primitive
stesse, ed in queste ella conosce i diversi gradi d'obiettivazione
della volontà che è l'intima sostanza, l'in-sè
del mondo; il quale mondo è dalla filosofia dichiarato – se
prescinde dalla volontà – semplice rappresentazione del
soggetto. Ora se l'etiologia, invece di aprire il cammino alla
filosofia e fornire le prove applicate delle sue dottrine, tiene per
propria mèta il negar tutte le forze primitive meno forse una
sola, la più generale, per esempio l'impenetrabilità,
immaginandosi di comprenderla a fondo ed a lei riconducendo con
violenza tutte le altre; viene con ciò a sottrarre a se
stessa la propria base, e può soltanto fornire errore in
luogo di verità. Il contenuto della natura viene allora
cacciato, per mettere al suo posto la forma; tutto viene attribuito
alle circostanze agenti, nulla all'intima essenza delle cose. Se
veramente si venisse a questo, il problema del mondo finirebbe con
l'esser risolto, come ho detto, a modo d'un problema d'aritmetica. E
tal via si percorre, quando, come fu già osservato, ogni
azione fisiologica dev'essere ricondotta a forma e combinazione,
quindi per avventura ad elettricità; questa poi a chimismo, e
questo ancora a meccanismo. Tale fu l'errore per esempio di Cartesio
e di tutti gli atomisti, che riducono il movimento dei corpi celesti
all'urto di un fluido, e la qualità alla connessione ed alla
forma degli atomi; ed in tal caso lavorano a spiegare tutte le
manifestazioni della natura come semplici fenomeni di
impenetrabilità e coesione. Per quanto ci si sia ricreduti di
questo errore, fanno tuttavia lo stesso anche ai nostri giorni i
fisiologi elettrici, chimici e meccanici, che ostinatamente vogliono
spiegare tutte le funzioni dell'organismo con la «forma e
combinazione» dei suoi elementi costitutivi. Che fine della
spiegazione fisiologica sia il ridur la vita organica alle forze
generali studiate dalla fisica, si trova ancor detto nell'Archivio
di fisiologia del Meckel, 1820, vol. 5, p. 185. Anche Lamarck nella
sua Philosophte zoologique, vol. 2, cap. 3 definisce la vita quale
un semplice effetto del calore e dell'elettricità: «le
calorique et la matière électrique suffisent
parfaitement pour composer ensemble cette cause essentielle de la
vie» (p. 16). Calore ed elettricità sarebbero quindi
propriamente la cosa in sé, e fenomeno di questa il mondo
animale e vegetale. L'assurdità di quest'opinione salta
crudamente fuori a p. 306 della stessa opera. È
universalmente noto che ai nostri giorni tutte quelle concezioni
così spesso balzate fuori, sono tornate in campo con nuova
audacia. A guardar bene, hanno per supremo presupposto, che
l'organismo sia solamente un aggregato di fenomeni di forze fisiche,
chimiche e meccaniche, le quali riunitesi per caso avrebbero
prodotto l'organismo, come un giuoco di natura, senz'altro
significato. L'organismo di un animale o dell'uomo non sarebbe
quindi, filosoficamente considerato, rappresentazione di una idea a
sé, ossia non sarebbe obiettità immediata della
volontà, in un dato grado superiore; bensì
apparirebbero in esso unicamente quelle idee, che obiettivano la
volontà nell'elettricità, nel chimismo, nel
meccanismo. E l'organismo sarebbe quindi a caso accozzato
dall'incontro di queste forze, come le figure d'uomini e d'animali
formate dalle nuvole o dalle stalattiti, né più
interessanti di queste. Vedremo subito fino a qual segno le
spiegazioni fisiche e chimiche applicate all'organismo entro certi
limiti possano esser lecite ed utili, man mano ch'io verrò
esponendo, come la forza vitale si valga bensì e faccia uso
delle forze della natura inorganica, ma non sia costituita da esse,
più che il fabbro non sia costituito dall'incudine e dal
martello. Perciò nemmeno la semplicissima vita vegetale
può essere spiegata con quelle forze, come per esempio con la
capillarità e l'endosmosi, e tanto meno la vita animale. La
considerazione che segue ci apre la via a questa difficile
trattazione.
È veramente – in virtù di quanto s'è detto –
una aberrazione della scienza naturale, il voler ridurre i
più alti gradi dell'obiettità della volontà ai
più bassi; poiché il misconoscere e negare forze
naturali primitive e di per sé esistenti è altrettanto
errato, quanto l'ammetter senza fondamento forze speciali, quando si
ha semplicemente una special manifestazione di forze già
note. Kant dice adunque con ragione essere assurdo lo sperare in un
Neuton del filo d'erba, ossia in colui, che saprà ridurre il
filo d'erba a fenomeno di forze fisiche e chimiche, delle quali esso
sarebbe una concreazione casuale, come un semplice giuoco di natura,
in cui non apparisse alcuna idea speciale, ossia nessuna
volontà si manifestasse immediatamente in grado elevato e
particolare; ma soltanto come nei fenomeni della natura organica, e
fissato per caso in quella forma. Gli scolastici, i quali non
avrebbero in nessun modo concesso alcunché di simile,
avrebbero detto con piena ragione, che questo sarebbe un negar del
tutto la forma substantialis, e un abbassarla a forma accidentalis.
Imperocché la forma substantialis d'Aristotele designa
appunto ciò ch'io chiamo grado dell'obiettivazione della
volontà in un oggetto. D'altra parte, non va dimenticato che
in tutte le idee, ossia in tutte le sfere della natura inorganica ed
in tutti gli aspetti dell'organica, è una volontà
unica che si manifesta, ossia passa nella forma della
rappresentazione, nell'obiettità. La sua unità deve
quindi darsi a conoscere anche a traverso un'intima parentela fra
tutte le sue manifestazioni. Ora, questa parentela si palesa nei
gradi più alti della sua obiettità, dove tutta la
manifestazione è più chiara, ossia nel regno vegetale
ed animale, con analogia ovunque diffusa di tutte le forme, col tipo
fondamentale, che si ritrova in tutti i fenomeni: questo è
perciò diventato il principio direttivo dell'eccellente
sistema zoologico iniziato in questo secolo dai francesi, e vien
dimostrato nel modo più perfetto nell'anatomia comparata,
come l'unite du pian, l'uniformité de l'élément
anatomique. L'andarne in cerca è stata anche la principale
impresa o almeno il più lodevole sforzo dei filosofi naturali
della scuola di Schelling, che hanno vari meriti in questo
proposito, pur se in molti casi la loro caccia alle analogie nella
natura degeneri in pura sottigliezza forzata. Con ragione hanno
mostrata quella general parentela ed aria di famiglia anche nelle
idee della natura inorganica, per esempio fra elettricità e
magnetismo (la cui identità fu più tardi constatata),
fra attrazione chimica e peso, e così via. In particolar modo
hanno richiamata l'attenzione sul fatto che la polarità,
ossia lo sdoppiarsi di una forza in due attività
qualitativamente diverse, opposte, e tendenti a ricongiungersi (il
che si rivela il più delle volte anche nello spazio mediante
una scissione verso direzioni opposte) è tipo fondamentale di
quasi tutti i fenomeni della natura, dal magnete e dal cristallo
fino all'uomo. Questa conoscenza è dai più remoti
tempi corrente in Cina, nella dottrina del contrasto del Yin e del
Yang. Anzi, appunto perché tutte le cose del mondo sono
obiettità di un'unica identica volontà, identiche
quindi nell'intima essenza, non solo deve trovarsi fra loro
quell'innegabile analogia, e deve in ogni fenomeno meno perfetto
apparir la traccia, l'accenno, la preparazione del più
prossimo fenomeno d'ordine superiore; ma ancora, poiché tutte
quelle forme insomma non appartengono al mondo se non come
rappresentazioni, si può perfino ammettere, che già
nelle più generali forme della rappresentazione, in questa
vera e propria armatura di sostegno del mondo visibile, ossia nello
spazio e nel tempo, sia da cercare e mostrare il tipo fondamentale,
l'accenno, la preparazione di tutto ciò che quelle forme
riempie. Sembra che un oscuro presentimento di questa verità
abbia dato origine alla Cabbala ed a tutta la filosofia matematica
dei Pitagorici, nonché dei cinesi nel Y-king: ed anche nella
ricordata scuola di Schelling troviamo, fra gli svariati sforzi per
mettere in luce l'analogia di tutti i fenomeni della natura, anche
qualche tentativo, sia pure infelice, di derivar leggi di natura
dalle semplici leggi dello spazio e del tempo. Intanto non si
può sapere fino a che punto un intelletto geniale
potrà un giorno attuare queste tendenze.
Ora, sebbene non si debba mai perder di vista la differenza tra
fenomeno e cosa in sé, né quindi possa mai
l'identità della volontà obiettivata in tutte le idee
esser volta falsamente a identità delle singole idee in cui
si manifesta (perché ha gradi determinati della propria
obiettità), sì che per esempio l'attrazione chimica o
elettrica non possa esser ricondotta all'attrazione della
gravità – quand'anche se ne riconosca l'intima analogia, e le
prime possano quasi esser considerate come più alte potenze
di quest'ultima – più di quanto l'intima analogia della
struttura animale consenta di confondere e identificare le specie,
considerando le più perfette come varietà delle meno
perfette; se dunque infine anche le funzioni fisiologiche non son
mai da ricondurre a processi chimici o fisici, è lecito
nondimeno, a giustificazione di codesto metodo entro dati limiti,
ammettere con molta verisimiglianza quanto segue.
Se fra i fenomeni della volontà, nei gradi più bassi
della sua obiettivazione, ossia nel regno inorganico, vengono a
conflitto fra loro alcuni di quei fenomeni, volendo ciascuno
impadronirsi d'una data materia secondo la legge di
causalità, balza fuor d'una tal contesa la manifestazione di
un'idea più elevata, la quale domina tutte le meno perfette
idee precedenti; ma tuttavia sì da lasciarne sussistere
l'essenza in maniera subordinata, accogliendone in sé un
riflesso analogo; il qual procedimento è comprensibile solo
in ragione dell'identità della volontà manifestantesi
in tutte le idee, e della tendenza, che ha la volontà, verso
un'obiettivazione sempre più alta. Vediamo per esempio
nell'indurirsi delle ossa un'innegabile analogia con la
cristallizzazione, quale dominava fin dall'origine della calce –
sebbene l'ossificazione non possa esser ricondotta alla
cristallizzazione. Più debole appare l'analogia nel
solidificarsi della carne. Così la miscela dei succhi nel
corpo animale e la secrezione sono analoghi alla combinazione e
separazione chimica; anzi le leggi di queste vigono ancora in
quelle, sebbene subordinate, assai modificate, signoreggiate da
un'idea più alta, per modo che semplici forze chimiche, fuori
dell'organismo, non produrrebbero mai quei succhi; ma
Encheiresin naturae nennt es die Chemie,
Spottet ihrer selbst und
weiss nicht vie42.
L'idea od oggettivazione della volontà di grado superiore,
balzata da questa vittoria su più idee di grado inferiore,
acquista – appunto perché accoglie in sé da quelle
idee vinte alcunché d'analogo elevato a più alta
potenza – un carattere del tutto nuovo: la volontà si
obiettiva in un nuovo modo più netto: sorge, dapprima per
generatio aequivoca, poi per assimilazione a un dato germe, il succo
organico, la pianta, l'animale, l'uomo. Adunque dalla contesa di
fenomeni inferiori proviene il fenomeno più elevato, che
tutti li divora, ma nondimeno attua in sé in grado più
alto la tendenza di tutti. Domina quindi già qui la legge:
serpens, nisi serpentem comederit, non fit draco.
Vorrei che mi fosse riuscito di vincer con la chiarezza
dell'esposizione l'oscurità di questi pensieri, inerente
all'argomento: ma vedo benissimo, che deve venirmi largamente in
aiuto la meditazione personale del lettore, se non voglio rimanere
incompreso o mal compreso. In conformità del punto di vista
accennato, si potranno bensì mostrar nell'organismo le tracce
di azioni chimiche e fisiche, ma non mai spiegare quello con queste;
non essendo esso punto un fenomeno prodotto dall'azione combinata di
tali forze, ossia venuto su per caso, ma un'idea più alta, la
quale ha sottomesso a sé le idee inferiori mediante una
vittoriosa assimilazione. Poiché l'unica volontà,
obiettivantesi in tutte le idee, nel mentre tende ad
un'obiettivazione la più alta possibile, depone qui i gradi
più bassi del proprio fenomeno, dopo un loro conflitto, per
apparir di tanto più forte in un grado più elevato.
Nessuna vittoria senza lotta: l'idea superiore, o superiore
obiettivazione della volontà, pur, potendo venire soltanto
dalla sconfitta delle inferiori, deve subir la resistenza di queste;
le quali, sebbene ridotte a servitù, tendono ancora sempre a
pervenire alla libera e compiuta manifestazione della loro essenza.
Come la calamita, che ha sollevato un pezzo di ferro, sostiene una
lotta continuata contro la gravità – la quale, essendo la
più bassa obiettivazione della volontà, ha un diritto
originario sulla materia di quel ferro –; ed in questa permanente
battaglia la calamita si rafforza, quasi eccitata dalla resistenza
ad uno sforzo maggiore: così ogni fenomeno di volontà
– anche quello che si presenta nell'organismo umano – sostiene una
diuturna lotta contro le molte forze fisiche e chimiche, le quali,
essendo idee inferiori, hanno un precedente diritto su quella
materia. Cade perciò il braccio, che per un po' s'è
tenuto sollevato facendo violenza alla gravità; e quindi il
piacevole senso di salute, esprimente la vittoria che l'idea
dell'organismo conscio di sé riporta sulle leggi fisiche e
chimiche, le quali in origine dominavano gli umori vitali, è
così spesso interrotto, anzi a dir vero sempre accompagnato
da un certo maggiore o minore malessere, che nasce dalla resistenza
di quelle forze. Così anche la parte vegetativa della nostra
vita è legata perennemente ad una leggera sofferenza. Anche
la digestione deprime tutte le funzioni animali, assorbendo tutta la
forza vitale per domare con l'assimilazione le forze naturali
chimiche. Da ciò proviene in genere il peso della vita
fisica, la necessità del sonno e poi della morte, quando
finalmente, col favore delle circostanze, quelle forze naturali
soggiogate riprendono all'organismo, stanco per la stessa sua
continuata vittoria, la materia già loro strappata, e
pervengono alla libera esplicazione della loro essenza. Si
può pertanto dire che ogni organismo rappresenti l'idea di
cui è immagine, solo facendo la tara delle parti di sua
forza, impiegate a vincere le idee inferiori che gli contendono la
materia. Questo sembra esser balenato a Jacob Bohm, quand'egli dice
essere in verità mezzo morti tutti i corpi degli uomini e
degli animali, ed anche tutte le piante. Secondo che all'organismo
riesca più o meno di vincer quelle forze naturali, esprimenti
i gradi inferiori dell'obiettità della volontà, esso
diventa espressione più o meno perfetta della propria idea,
ossia sta più vicino o più lontano dall'ideale, che
nella specie di codesto organismo rappresenta la bellezza.
Così vediamo dappertutto nella natura contesa, battaglia, e
alternanze di vittorie; ed in ciò appunto conosceremo
più chiaramente d'ora innanzi l'essenziale dissidio della
volontà da se medesima. Ogni grado nell'obiettivazione della
materia contende all'altro la materia, lo spazio, il tempo. Senza
tregua deve la permanente materia mutar di forma, mentre, seguendo
il filo conduttore della causalità, fenomeni meccanici,
fisici, chimici, organici, facendo avidamente ressa per venire alla
luce, si strappano l'un l'altro la materia stessa – poiché
ciascuno vuol rendere manifesta la propria idea. Nella natura intera
si continua questa lotta; anzi, solo per essa la natura sussiste: ει
γαρ μη ην το νεικος εν τοις πραγμασιν, ἑν αν ην ἁπαντα, ὡς φησιν
Εμπεδοκλης. (nam si non inesset in rebus contentio, unum omnia
essent, ut ait Empedocles. Arist., Metaph., B, 5): essendo appunto
questa lotta la rivelazione del dissidio essenziale tra la
volontà e se stessa. Questa lotta universale raggiunge la
più chiara evidenza nel mondo animale, che ha per proprio
nutrimento il mondo vegetale; ed in cui inoltre ogni animale diventa
preda e nutrimento d'un altro; ossia deve cedere la materia, in cui
si rappresentava la sua idea, per la rappresentazione d'una idea
diversa, potendo ogni animale conservar la propria esistenza solo
col sopprimerne costantemente un'altra. In tal modo la
volontà di vivere divora perennemente se stessa, ed in
diversi aspetti si nutre di sé, finché da ultimo la
specie umana, avendo trionfato di tutte le altre, ritiene la natura
creata per proprio uso. E nondimeno questa stessa specie umana, come
vedremo nel quarto libro, rivela ancora con terribile evidenza in se
medesima quella lotta, quel dissidio della volontà; e diventa
homo homini lupus. Intanto riconosceremo la stessa lotta, la stessa
violenza egualmente nei gradi inferiori dell'obiettità della
volontà. Molti insetti (particolarmente gl'icneumonidi)
depongono le loro uova sulla pelle o addirittura nel corpo delle
larve d'altri insetti, la cui lenta distruzione è il primo
compito del vermiciattolo uscito dall'uovo. Il giovine polipo
tentacolato, che si sviluppa come un ramo dal vecchio e poi se ne
separa, contende già con esso, quando ancora vi aderisce,
l'offertasi preda, sì che l'uno deve strapparla di bocca
all'altro (Trembley, Polypod., II, p. 110 e III, p. 165). Ma il
più singolare esempio del genere ci è dato dalla
formica (bulldog ant) in Australia: quando la si taglia, comincia
una lotta fra la parte del corpo e quella della coda; quella
ghermisce questa col morso, questa si difende validamente col
pungere quella. La battaglia dura di solito una mezz'ora,
finché le due parti muoiono, o vengono trascinate via da
altre formiche. Il fatto si ripete ogni volta. (Da una lettera di
Howitt, nel «W. Journal», riportata nel
«Messenger» di Galignani del 17 novembre 1855). Sulle
rive del Missouri si vede talvolta una poderosa quercia avvolta,
legata e stretta nel tronco e nei rami da una gigantesca vite
selvatica, sì che deve inaridirsi come soffocata. Lo stesso
si osserva perfino negl'infimi gradi, per esempio dove per
assimilazione organica acqua e carbone si trasformano in succo
vegetale, oppure vegetali e pane si trasformano in sangue, e
così dovunque si abbia una secrezione animale con limitazione
delle forze fisiche ad un subordinato modo d'attività.
Similmente anche nella natura inorganica, là dove per esempio
i cristalli nel formarsi s'incontrano, s'incrociano e si ostacolano
a vicenda, sì che non possono pervenire alla pura loro forma
(quasi tutte le druse sono immagine d'una tal battaglia della
volontà in quel grado sì basso della sua
oggettivazione); oppure quando una calamita impone al ferro la sua
forza magnetica per rappresentare anche là la propria idea; o
quando il galvanismo fa violenza alle affinità elettive, le
più salde combinazioni dissolve, e le leggi chimiche annulla,
sì che l'acido d'un sale, disgregatosi al polo negativo, deve
passare al positivo senza combinarsi con gli alcali che attraversa
per via, né poter fare arrossire il girasole con cui
s'incontra. Ciò appare in grande nel rapporto tra corpo
celeste centrale e pianeta: questo, sebbene in aperta dipendenza,
resiste pur sempre, come le forze chimiche nell'organismo: dal che
proviene la permanente tensione tra forza centripeta e forza
centrifuga, la quale tiene in moto l'universo, ed è
già di per se stessa un'espressione di quell'universal
battaglia essenziale al fenomeno della volontà, della quale
discorrevamo. Invero, poiché ciascun corpo dev'essere
considerato come fenomeno d'una volontà, e volontà si
presenta necessariamente come lotta, non può essere il riposo
lo stato originario d'ogni corpo celeste conglobato in una sfera;
bensì il movimento, la spinta a proceder oltre nello spazio
infinito, senza posa e senza mèta. Né a ciò si
oppone la legge d'inerzia o quella di causalità. Infatti,
poiché secondo quella la materia come tale è
indifferente rispetto al riposo ed al moto, può il moto come
il riposo essere il suo stato originario; quindi, se la troviamo in
moto, non ci è lecito presupporre un anteriore stato di
riposo, né viceversa, se la troviamo in riposo, presupporre
un movimento anteriore a quel riposo, e chieder perché quello
sia cessato. Non bisogna perciò cercare nessun primo impulso
alla forza centrifuga: questa è nei pianeti – secondo
l'ipotesi di Kant e di Laplace – residuo dell'ordinaria rotazione
del corpo centrale, da cui si sono quelli distaccati nel suo
concentrarsi. Ma il corpo celeste centrale è mobile per
essenza: esso ruota pur sempre ed insieme trasvola nello spazio
infinito, o meglio gira intorno ad un altro maggior corpo centrale a
noi invisibile. Questa concezione s'accorda pienamente con la
congettura che gli astronomi fanno d'un sole centrale, come anche
con l'avvertito spostarsi di tutto il nostro sistema solare, e forse
dell'intero gruppo stellare cui il nostro sole appartiene; dal che
si può da ultimo dedurre un generale spostamento di tutte le
stelle fisse, insieme col sole centrale. Tale spostamento perde, a
dir vero, ogni significato nello spazio infinito (perché
nello spazio assoluto non si distingue moto da riposo); e
così appunto diventa – com'era già direttamente per il
suo agitarsi e correre senza mèta – l'espressione di quel
nulla, di quella mancanza d'un fine ultimo, che noi dovremo
riconoscere alla volontà, in tutte le sue manifestazioni, nel
concludere quest'opera. Dovevano quindi essere appunto spazio
infinito e tempo infinito le più generali ed essenziali forme
del complessivo manifestarsi della volontà, come quelle che
ne esprimono l'essenza intera. La lotta, da noi presa a considerare,
di tutti i fenomeni fra loro, si può riconoscer perfino nella
semplice materia in quanto tale, nei limiti in cui la sua essenza fu
giustamente formulata da Kant come forza di repulsione e di
attrazione; sì che anch'essa ha esistenza soltanto in una
lotta di forze contrastanti. Se facciamo astrazione da ogni
varietà chimica della materia, o risaliamo tanto lungi la
catena delle cause e degli effetti da non trovar più alcuna
differenza chimica, ci rimane la pura materia, il mondo conglobato
in una sfera; la cui vita, ossia obiettivazione della
volontà, è costituita da quella battaglia tra forza
d'attrazione e di repulsione: la prima come gravità, da tutte
le parti spingendo verso il centro, l'altra resistendo alla prima
come impenetrabilità, sia mediante solidità sia
mediante elasticità. Codesto perenne premere e resistere
può esser considerato come l'obiettità della
volontà nel suo infimo grado, e pur già esprimere il
carattere di questa.
Così vediamo dunque qui, nell'infimo grado, la volontà
presentarsi come un cieco impulso, un'oscura, sorda agitazione,
lungi da ogni immediata percettibilità. È il
più semplice e più debole modo della sua
obiettivazione. Ed ancor come cieco impulso ed inconscia aspirazione
appare in tutta la natura inorganica, in tutte le forze elementari,
che fisica e chimica s'occupano a conoscere, fissandone le regole, e
ciascuna delle quali si presenta in milioni di fenomeni affatto
simili e regolari, che non rivelano alcuna traccia di carattere
individuale, ma sono semplicemente moltiplicati per mezzo del tempo
e dello spazio, ossia del principium individuationis, come
un'immagine viene moltiplicata dalle faccette d'un cristallo.
Sempre più chiaramente obiettivandosi di grado in grado, la
volontà agisce tuttavia ancor del tutto incosciente, come
oscura forza impulsiva, nel regno vegetale, dove non più vere
e proprie cause, ma stimoli sono il legame dei suoi fenomeni, e
così anche, finalmente, nella parte vegetativa del fenomeno
animale, nella produzione e nello sviluppo d'ogni animale e nella
conservazione della sua interna economia, dove il fenomeno di esso
viene necessariamente determinato da semplici eccitazioni. I gradi
di mano in mano più alti dell'obiettità della
volontà conducono da ultimo al punto, in cui l'individuo che
rappresenta l'idea non può più ricevere in seguito a
semplici movimenti provocati da stimoli il nutrimento che deve
assimilarsi: perché lo stimolo bisogna attenderlo, mentre qui
il nutrimento è determinato in modo speciale, e nella
varietà sempre crescente dei fenomeni si è fatta
così grande la ressa e la confusione, che quelli
s'intralciano a vicenda; ed il caso, da cui deve attendersi il
proprio nutrimento l'individuo mosso da semplici stimoli, sarebbe
troppo sfavorevole. Il nutrimento deve quindi esser cercato, scelto,
a partire dall'istante in cui l'animale s'è disciolto
dall'uovo o dal corpo materno, in cui vegetava inconsciamente.
Perciò diventa qui necessario il movimento regolato da
motivi, e per esso la conoscenza; la quale adunque interviene come
un aiuto – μηχανή – fattosi necessario a questo grado di
obiettivazione della volontà, per la conservazione
dell'individuo e la propagazione della specie. Ella entra in iscena,
rappresentata dal cervello o da un grosso ganglio, appunto come ogni
altra aspirazione o determinazione dell'obiettivantesi
volontà è rappresentata da un'organo; ossia si offre
alla rappresentazione come un organo43. Ma con questo aiuto, con
questa (μηχανή), ecco balzar fuori, d'un tratto, il mondo come
rappresentazione, con tutte le sue forme, oggetto e soggetto, tempo,
spazio, pluralità e causalità. Il mondo mostra ora il
Suo secondo aspetto. Era finora semplice volontà: adesso
è, insieme, rappresentazione, oggetto del soggetto
conoscente. La volontà, che finora seguiva il suo impulso
nelle tenebre, sicuramente ed infallibilmente, ha in questo grado
acceso a se stessa una fiaccola, come un mezzo resosi necessario per
impedire lo svantaggio, che sarebbe venuto crescendo dalla ressa e
dalla complicata natura dei suoi fenomeni, e soprattutto dei
più perfetti. La sicurezza e regolarità fino allora
infallibile, con cui la volontà operava nella natura
inorganica e puramente vegetativa, derivava dal suo operar nella
propria essenza primitiva, come cieco impulso, volontà;
senz'aiuto, ma anche senza l'intralcio di un altro mondo del tutto
diverso, del mondo come rappresentazione; il quale è
bensì soltanto l'immagine dell'essenza di quella, ma pur
tuttavia è di ben altra natura, e viene ora a introdursi
nella connessione dei suoi fenomeni. Cessa ora perciò la sua
infallibile sicurezza. Gli animali sono già esposti
all'illusione, all'errore. Ed essi frattanto non hanno se non
rappresentazioni intuitive: nessun concetto, nessuna riflessione.
Sono legati al presente, non possono tener conto del futuro. Sembra
che questa conoscenza irrazionale non sia stata in tutti i casi
sufficiente al proprio scopo, ed abbia talvolta provato quasi il
bisogno di un soccorso. Imperocché ci si offre il
notevolissimo fatto, che la cieca attività della
volontà e l'attività illuminata della conoscenza, in
due classi di fenomeni, invadono l'una il dominio dell'altra. Da un
lato troviamo nell'attività degli animali, guidata dalla
conoscenza intuitiva e dai suoi motivi, un'attività
compientesi senza di quella, e cioè compiuta con
necessità della ciecamente operante volontà: la
troviamo in quegli istinti meccanici che, pur non essendo guidati da
alcun motivo né da conoscenza, hanno l'apparenza di compier
le loro operazioni in virtù di motivi astratti, razionali. Il
caso opposto è quando, viceversa, il lume della conoscenza
penetra nell'officina della ciecamente operante volontà ed
illumina le funzioni vegetative dell'organismo umano: nella
chiaroveggenza magnetica. Finalmente, là dove la
volontà è giunta al sommo grado della sua
obiettivazione, non basta più agli animali la conoscenza
razionale, cui offrono i sensi i loro dati, generando semplici
rappresentazioni vincolate al presente: l'essere complicato,
multilaterale, plasmabile, pieno di bisogni ed esposto ad
innumerevoli danni, doveva, per poter resistere, essere illuminato
da una doppia conoscenza, e quasi una potenza più elevata
della conoscenza intuitiva doveva aggiungersi a quest'ultima, come
un suo riverberamento: dico la ragione, come patrimonio di concetti
astratti. Con la ragione incomincia la riflessione, che abbraccia il
futuro ed il passato; ed in seguito vengono la meditazione, la
preoccupazione, la capacità d'una condotta premeditata,
indipendente dal presente; e infine una coscienza in tutto chiara
delle proprie decisioni volontarie, in quanto tali. Ora, se
già con la semplice conoscenza intuitiva s'era avuta la
possibilità dell'illusione e dell'errore – dal che era
distrutta l'anteriore infallibilità nell'inconsapevole agire
della volontà; sì che istinto ed abito meccanico,
quali manifestazioni incoscienti della volontà in mezzo alle
manifestazioni guidate dalla conoscenza, dovettero alla
volontà stessa venire in aiuto – con l'apparire della ragione
va quasi del tutto perduta quella sicurezza e infallibilità
con cui la volontà veniva a manifestarsi (la quale sicurezza
all'estremo opposto, nella natura inorganica, apparisce addirittura
come regola assoluta). L'istinto si ritrae completamente; la
riflessione, che ora deve sostituire tutto il resto, genera
(com'è spiegato nel primo libro) esitazione ed incertezza;
diventa possibile l'errore, il quale in molti casi impedisce
l'adeguata obiettivazione della volontà in atti.
Perché, sebbene la volontà abbia già preso nel
carattere la sua determinata ed immutabile direzione, in rispondenza
con la quale il volere medesimo opera infallibilmente dietro la
spinta dei motivi, può tuttavia l'errore falsarne le
manifestazioni, allorché motivi illusori somiglianti ai reali
s'introducono e prendono il luogo di questi44: così, per
esempio, quando la superstizione insinua motivi immaginari, dai
quali l'uomo è spinto a tenere una condotta proprio opposta a
quella che altrimenti la sua volontà seguirebbe in quelle
circostanze. Agamennone uccide sua figlia; un avaro largisce
elemosine, per puro egoismo, nella speranza di un centuplicato
compenso futuro, e così via.
Adunque la conoscenza in genere, sia razionale o sia puramente
intuitiva, nasce originariamente dalla volontà, appartiene
all'essenza dei più alti gradi della sua obiettivazione, come
una semplice (μηχανή), un mezzo per la conservazione dell'individuo
e della specie, a modo d'ogni altro organo del corpo. In origine
destinata quindi al servizio della volontà, pel
raggiungimento dei suoi fini, rimane a questa pressocché
costantemente schiava: così in tutti gli animali ed in quasi
tutti gli uomini. Vedremo tuttavia nel terzo libro, come in alcuni
uomini la conoscenza si sottragga a questa servitù, ne spezzi
il giogo, e, libera da tutti i fini della volontà, stia a
sé come un semplice, chiaro specchio del mondo. Così
nasce l'arte. E vedremo finalmente nel quarto libro, come per mezzo
di questa maniera di conoscenza, quand'ella agisce di riflesso sulla
volontà, possa aversi la soppressione della volontà
stessa; ossia la rassegnazione, che è lo scopo supremo, o
anzi la più intima essenza d'ogni virtù e
santità, ed è la redenzione del mondo.
§ 28.
Abbiamo considerato la grande molteplicità e varietà
dei fenomeni, nei quali viene ad obiettivarsi la volontà;
anzi, abbiamo veduta l'irreconciliabile lotta senza fine che fra
loro si combatte. Ma la volontà stessa, come cosa in
sé – secondo appare da tutta la nostra esposizione – non
è punto compresa in quella molteplicità ed in quella
varietà. La diversità delle idee (platoniche), ossia i
gradi dell'oggettivazione, la folla degli individui, in cui ciascuno
di questi si presenta, la battaglia delle forme per la materia:
tutto ciò non riguarda la volontà, ma solo il modo
della sua obiettivazione; e solo mediante questa ultima ha con la
volontà una relazione mediata, in grazia della quale diventa
espressione della sua essenza per la rappresentazione. Come una
lanterna magica fa apparire molte e diverse immagini, ma una sola
è la fiamma, che quelle immagini rende visibili, così
in tutti i molteplici fenomeni, che o l'uno accanto all'altro
riempiono il mondo, o l'un dopo l'altro s'incalzano in forma
d'avvenimenti, è nondimeno la volontà unica, che si
disvela; il tutto non è se non visibilità e
oggettità di lei, ed ella immota rimane in ogni mutamento,
ella sola è la cosa in sé: mentre ogni oggetto
è apparizione, o fenomeno, per parlare nel linguaggio di
Kant. Per quanto la volontà, come idea (platonica), abbia la
sua più chiara e perfetta obiettivazione nell'uomo, non
potrebbe tuttavia questa da sola esprimere l'essenza di esso. L'idea
dell'uomo doveva, per apparir nel significato che le si conviene,
non presentarsi sola ed isolata, bensì essere accompagnata da
tutta la scala discendente dei gradi, attraverso le forme animali ed
il regno vegetale, fino al regno inorganico. In tutti questi gradi
si ha la compiuta obiettivazione della volontà: essi vengono
presupposti dall'idea dell'uomo, come i fiori dell'albero
presuppongono foglie, rami, tronco e radici. Essi formano una
piramide, della quale è vertice l'uomo. Se si amano i
paragoni, si può anche dire: la loro manifestazione
accompagna quella dell'uomo con la stessa necessità, con cui
la piena luce è accompagnata da tutte le gradazioni della
penombra, attraverso le quali va a perdersi nell'oscurità. O
anche si possono definire l'eco dell'uomo, e dire: animali e piante
sono la quinta e terza minore dell'uomo, il regno inorganico
è l'ottava inferiore. Ma l'intera verità di
quest'ultimo paragone ci sarà evidente sol quando nel libro
seguente cercheremo di approfondire l'alta significazione della
musica. Vedremo come la melodia, procedente ben connessa di alti,
agili toni, sia in un certo senso da considerare quale un'immagine
della vita e dell'agitazione umana, che procede col nesso della
riflessione; mentre invece il grave e lento basso, dal quale si ha
l'armonia necessaria alla compiutezza della musica, dà
immagine della rimanente natura animale o inconsapevole. Ma di
ciò a suo tempo, quando non avrà più un aspetto
così paradossale. Quella interna necessità della serie
dei fenomeni, inseparabile dall'adeguata obiettità della
volontà, la troviamo anche espressa nell'insieme dei fenomeni
stessi, mediante una necessità esterna: in virtù della
quale l'uomo per la propria conservazione ha bisogno degli animali,
questi di grado in grado l'uno dell'all'altro, e finalmente delle
piante; che, alla lor volta, hanno bisogno del suolo, dell'acqua,
degli elementi chimici e delle loro combinazioni, del pianeta, del
sole, della rotazione e della rivoluzione intorno a quello,
dell'inclinazione dell'eclittica e così via. In fondo, questo
stato di cose proviene dal fatto che la volontà deve divorare
se stessa, perché nulla esiste fuori di lei, ed ella è
una volontà affamata. Di qui la caccia, l'ansia e la
sofferenza.
Come il conoscer che la volontà è una, in quanto cosa
in sé, nell'infinita varietà e molteplicità dei
fenomeni, può da solo dirci il vero perché di quella
stupefacente, innegabile analogia di tutte le produzioni della
natura, di quell'aria di famiglia, che ci ricorda le variazioni
d'uno stesso tema non formulato: così in certo modo mediante
la chiara e profonda conoscenza di quell'armonia, di quell'intimo
nesso, che lega tutte le parti del mondo, di quella necessaria loro
gradazione, che or ora abbiamo esaminata, ci si rivelerà in
modo sincero e sufficiente l'intima essenza dell'innegabile
finalità di tutti i prodotti organici della natura; la quale
finalità noi addirittura presupponiamo a priori nell'esame e
nel giudizio di quei prodotti.
Codesta finalità è duplice. Da un lato è
interna, ossia è una così ordinata armonia di tutte le
parti d'un singolo organismo, che la conservazione di questo e della
sua specie ne deriva, presentandosi quindi come scopo di
quell'armonia medesima. Dall'altro lato è esterna: ossia
è una relazione della natura inorganica con l'organica in
genere, o anche di singole parti della natura organica fra loro;
relazione che rende possibile la conservazione di tutta quanta la
natura organica, o anche di singole specie animali, e quindi appare
al nostro giudizio come un mezzo per la conservazione stessa.
La finalità interna si connette col nostro ragionamento nel
modo che segue. Se, conformemente a quanto abbiam detto finora,
tutti i differenti aspetti della natura e tutta la pluralità
degli individui non appartengono alla volontà, ma alla sua
obiettità ed alle forme di questa, ne segue necessariamente,
che la volontà è indivisibile, e tutta intera presente
in ogni fenomeno; sebbene siano molto diversi i gradi della sua
obiettivazione, ossia le idee (platoniche). Per maggior chiarezza,
possiamo considerare queste diverse idee come singoli, ed in
sé semplici atti di volontà, nei quali più o
meno si manifesta l'essenza della volontà medesima: ma gli
individui sono alla lor volta manifestazioni delle idee, cioè
di quegli atti, nel tempo, nello spazio e nella pluralità.
Ora un tale atto (o idea) nei gradi inferiori dell'obiettità
conserva la sua unità, anche diventando fenomeno; mentre nei
gradi superiori per manifestarsi ha bisogno di tutta una serie di
stati e di sviluppi nel tempo, i quali soltanto se presi nel loro
insieme compiono l'espressione della sua essenza. Così, per
esempio, l'idea che si palesa in qualsivoglia forza generale di
natura ha sempre una sola e semplice manifestazione, sebbene questa
si presenti variamente a seconda delle relazioni esteriori:
altrimenti non si potrebbe dimostrar la sua identità,
ciò che appunto si fa rimuovendo la varietà prodotta
unicamente dalle relazioni esterne. Così il cristallo ha una
sola manifestazione vitale: il cristallizzarsi; e questo ha poi
nella forma irrigidita, nel cadavere di quella vita momentanea, la
sua compiuta ed esauriente espressione. Ma già la pianta
esprime l'idea, di cui è fenomeno, non più in un sol
tratto e mediante una manifestazione semplice, bensì in una
successione di sviluppi dei propri organi, nel tempo. L'animale non
soltanto sviluppa nello stesso modo, in una successione di forme
spesso differenti (metamorfosi), il suo organismo; bensì
questa forma medesima, sebbene già sia obbiettità
della volontà in un dato grado, non basta tuttavia alla
compiuta manifestazione della sua idea. L'idea viene invece
integrata mediante le azioni dell'animale, nelle quali viene ad
esprimersi il suo carattere empirico, che è il medesimo in
tutta la specie, e compie la manifestazione dell'idea; nel qual
compimento questa presuppone un determinato organismo, come
condizione fondamentale. Presso l'uomo, il carattere empirico ha
già in ogni individuo una speciale natura (anzi, come vedremo
nel quarto libro, questo arriva fino a sostituir del tutto il
carattere della specie, sopprimendo spontaneamente la volontà
intera). Ciò che dal suo necessario sviluppo nel tempo e dal
conseguente frangersi in singole azioni vien conosciuto come
carattere empirico, è – fatta astrazione da questa forma
temporale del fenomeno – il carattere intelligibile (secondo
l'espressione di Kant, il quale nel dimostrare questo divario e
nell'esporre il rapporto tra libertà e necessità,
ossia propriamente tra la volontà come cosa in sé e il
suo fenomeno nel tempo, da a conoscere in modo particolarmente
felice il proprio merito immortale)45. Il carattere intelligibile
coincide quindi con l'idea, o più precisamente con
l'originario atto di volontà, che in lei si manifesta: sotto
questo rispetto, adunque, non solo il carattere empirico dell'uomo,
ma anche quello d'ogni specie animale, anzi d'ogni specie vegetale e
perfino d'ogni forza originaria della natura inorganica, è da
considerar come fenomeno d'un carattere intelligibile, ossia d'un
atto di volontà indivisibile, che sta fuori del tempo. Vorrei
qui di sfuggita richiamar l'attenzione sull'ingenuità, con
cui ciascuna pianta esprime e rivela intero tutto il proprio
carattere mediante la semplice forma, e tutto il proprio essere e
volere fa manifesto; la qual cosa rende tanto interessanti le
fisonomie delle piante. L'animale invece, per esser conosciuto nella
sua idea, ha già bisogno d'essere osservato in tutte le sue
azioni, e l'uomo, infine, va studiato bene addentro e sperimentato:
imperocché la ragione lo fa in alto grado capace di fingere.
L'animale è tanto più ingenuo dell'uomo, quanto la
pianta è più ingenua dell'animale. Nell'animale
vediamo la volontà di vivere come se fosse più nuda
che nell'uomo, dov'è rivestita di tanta conoscenza, e per di
più avvolta nella capacità della finzione; sì
che la sua vera essenza non si palesa se non per caso e
frammentariamente. Affatto nuda, ma anche più debole si
mostra la volontà di vivere nella pianta, come semplice,
cieca tendenza ad esistere, senza scopo e senza mèta. Infatti
la pianta disvela tutta la sua essenza al primo sguardo e con
perfetta innocenza; né si perita di estendere al proprio
vertice gli organi della generazione, che in tutti gli altri animali
si trovano invece nel luogo più nascosto. Questa innocenza
della pianta è fondata sulla sua incoscienza: non nel volere,
bensì nel volere cosciente risiede la colpa. Ogni pianta ci
narra, a tutta prima, della propria patria, del clima di questa,
della natura del suolo da cui è uscita. Perciò anche
l'inesperto conosce facilmente se una pianta esotica appartenga alla
zona tropicale, o temperata, e se ella cresca nell'acqua, nella
palude, sui monti, o nella landa. Inoltre, ogni pianta esprime
ancora la volontà speciale della sua specie, e dice qualcosa,
che non si può esprimere in nessuna altra lingua. Ma passiamo
ora ad applicar ciò che s'è detto alla considerazione
ideologica degli organismi, in quanto questa tocca la loro
finalità interiore. Se nella natura inorganica l'idea – la
quale va considerata ovunque come un unico atto di volontà –
si manifesta anche in un'unica e sempre eguale espressione, e si
può quindi dire, che in ciò il carattere empirico
partecipa direttamente dell'unità del carattere
intelligibile, e quasi coincide con esso, sì che non
può qui mostrarsi alcuna finalità interna; se invece
tutti gli organismi estrinsecano la loro idea mediante una
successione di sviluppi, condizionata da una molteplicità di
parti differenti l'una accanto all'altra, ossia la somma delle
manifestazioni del loro carattere empirico non è espressione
del carattere intelligibile se non nel complesso: questo necessario
giustapporsi delle parti o succedersi dello sviluppo non sopprime
punto l'unità dell'idea manifestantesi, dell'esprimentesi
atto di volontà. Piuttosto, codesta unità trova ora la
sua espressione nella necessaria relazione e concatenazione di
quelle parti e di quegli sviluppi fra loro, secondo la legge di
causalità. Essendo l'unica e indivisibile volontà, ed
appunto perciò sempre concorde con se stessa, quella che si
manifesta in tutta quanta l'idea come in un atto, deve il suo
fenomeno, pure dividendosi in una varietà di parti e di
stati, continuar tuttavia a mostrare la propria unità in una
costante armonia di quelle parti e di quegli stati: e ciò
accade mediante una necessaria relazione e dipendenza rispettiva,
sì che anche nel fenomeno viene ricostituita l'unità
dell'idea. Per conseguenza, noi conosciamo le diverse parti e
funzioni dell'organismo, reciprocamente, come mezzo e scopo le une
delle altre, e l'organismo stesso come il supremo scopo di tutte.
Quindi tanto il suddividersi della idea – in sé semplice –
nella pluralità delle parti e degli stati dell'organismo, da
un lato, quanto dall'altro la ricostituzione della sua unità
mediante il necessario collegamento di quelle parti e funzioni, che
per esso divengono causa ed effetto, ossia mezzo e scopo
reciprocamente; sono caratteristici ed essenziali non della
volontà pura, della cosa in sé, ma solamente del suo
manifestarsi nello spazio, nel tempo e nella causalità (tutte
varietà del principio di ragione, della forma del fenomeno).
Appartengono al mondo come rappresentazione, non al mondo come
volontà; si riferiscono alla maniera, con cui la
volontà diventa oggetto, ossia rappresentazione, in un dato
grado della sua obiettità. Chi ha colto il senso di questa
esposizione forse alquanto difficile, potrà ora comprendere
esattamente la dottrina kantiana, la quale tende a mostrar che tanto
la finalità del mondo organico quanto la finalità del
mondo inorganico è introdotta nella natura dal nostro
intelletto; motivo per cui si riferiscono entrambe al solo fenomeno,
e non alla cosa in sé. Lo stupore, di cui s'è detto
più sopra, di fronte all'infallibile costanza della
regolarità della natura inorganica, è sostanzialmente
identico a quello che si prova davanti alla finalità della
natura organica: perché in ambo i casi quel che ci sorprende
è il veder l'originaria unità dell'idea, la quale,
diventando fenomeno, ha preso la forma della pluralità e
della diversità46.
Per ciò che riguarda poi la seconda specie di
finalità, secondo la partizione fatta più sopra, –
ossia la finalità, esteriore, la quale si mostra non
già nell'intera economia degli organismi, bensì
nell'appoggio e nell'aiuto, che questi ricevono dal di fuori, tanto
dalla natura inorganica, quanto gli uni dagli altri – anch'essa
viene genericamente spiegata dall'esposizione fatta or ora; essendo
il mondo intero, con tutti i suoi fenomeni, obiettità della
volontà una ed indivisibile – l'idea – la quale sta a tutte
le altre idee come l'armonia sta alle singole voci, sì che
quella unità della volontà deve anche mostrarsi
nell'accordo di tutti i suoi fenomeni. Ma possiamo elevar questa
cognizione a molto maggior chiarezza, se ci facciamo a guardare un
po' più da vicino i fenomeni di quella finalità
esterna e di quell'armonia delle diverse parti della natura: il
quale esame rifletterà contemporaneamente nuova luce su
ciò che precede. Vi perverremo nel miglior modo con
l'esaminare l'analogia seguente.
Il carattere d'ogni singolo uomo può, in quanto è
affatto individuale e non tutto compreso nel carattere della specie,
esser considerato come un'idea particolare, corrispondente ad uno
speciale atto d'obiettivazione della volontà. Questo atto
medesimo sarebbe quindi il suo carattere intelligibile; e il suo
carattere empirico sarebbe la manifestazione di quello. Il carattere
empirico è in tutto e per tutto determinato
dall'intelligibile, il quale è volontà priva del
fondamento di ragione, ossia come cosa in sé non è
sottomesso al principio di ragione (forma del fenomeno). Il
carattere empirico deve render nel corso d'una vita l'immagine del
carattere intelligibile, e non può riuscir diverso da come
richiede l'essenza di quest'ultimo. Ma questa determinazione si
estende solo all'essenziale, non a ciò che non è
essenziale, nel corso della vita così determinata. Non
essenziale è la determinazione precisa degli eventi e delle
azioni, che sono il campo in cui si esplica il carattere empirico.
Eventi ed azioni sono determinati da circostanze esteriori, che
producono i motivi su cui reagisce il carattere, conformemente alla
propria natura; e potendo essere diversissimi, si dirigerà
sotto la loro influenza l'esterno atteggiamento del carattere
empirico nel suo fenomeno, ossia il determinato atteggiamento
effettivo o storico del corso vitale. Questo potrà riuscir
molto diverso, sebbene rimanga identico il nucleo essenziale, il
contenuto di tal fenomeno: così, per esempio, non è
essenziale il giuocare a noci od a soldi; ma essenziale bensì
il barare al giuoco, o l'agire onesto; l'essenziale viene
determinato dal carattere intelligibile, l'inessenziale
dall'influenza esterna. Come il medesimo tema si può
presentare in cento variazioni, così il medesimo carattere in
cento diversissime vie di vita. Ma, per quanto svariata possa essere
l'influenza esterna, il carattere empirico manifestantesi nel corso
della vita, comunque riesca, deve pur tuttavia obiettivare
esattamente il carattere intelligibile, adattando la sua
obiettivazione alle circostanze reali che gli si offrono. Dobbiamo
ammettere alcunché di analogo a quell'influsso di circostanze
esterne sulla vita, pur determinata essenzialmente dal carattere, se
vogliamo pensare al modo, con cui la volontà, nell'atto
originario della sua obiettivazione, determina le diverse idee nelle
quali si obiettiva; ossia le diverse forme d'esseri naturali d'ogni
specie, fra cui ripartisce la sua obiettivazione, e che devono
quindi aver necessariamente una reciproca relazione nel fenomeno.
Dobbiamo ammettere, che fra tutti quei fenomeni dell'unica
volontà abbia luogo un generale e reciproco adattarsi e
accomodarsi – escludendo tuttavia, come presto vedremo più
chiaramente, ogni determinazione di tempo; perché l'idea sta
fuori del tempo. Ogni fenomeno ha dovuto perciò adattarsi
alle circostanze in cui s'era trovato, e queste adattarsi a quello,
sebbene molto più recente nel tempo; e dappertutto noi
vediamo cotal consensus naturae. Quindi è ogni pianta adatta
al suo terreno ed al suo cielo, ogni animale al suo elemento ed alla
preda che deve nutrirlo, oltre ad essere in certo modo protetto
contro i suoi naturali persecutori; adatto è l'occhio alla
luce ed alla sua frangibilità, il polmone ed il sangue
all'aria, la vescica natatoria all'acqua, l'occhio della foca al
mutar dell'ambiente, le cellule acquifere nello stomaco del cammello
all'aridità dei deserti africani, la vela del nautilo al
vento che deve spinger la sua barchetta – e così giù
giù fino alle più particolari e sorprendenti
finalità esteriori47. In tutto ciò bisogna astrarre da
ogni relazione temporale, perché questa può riferirsi
soltanto al fenomeno dell'idea, e non all'idea medesima.
Conseguentemente, quel modo di spiegazione può anche valere
in senso inverso, facendoci ammettere, che se ogni specie si
conformò alle circostanze, queste circostanze presentatesi in
antecedenza ebbero altrettanto riguardo agli esseri che dovevano
venire più tardi. Imperocché è pur sempre la
volontà una ed identica, che si obiettiva nel mondo intero:
ella non conosce tempo, poiché questa forma del principio di
ragione non a lei appartiene né alle idee, sua
obiettità originaria: bensì solamente al modo, con cui
le idee vengono conosciute dagli effimeri individui, ossia al
fenomeno delle idee. Quindi nel nostro presente esame del modo, con
cui si ripartisce fra le idee l'obiettivazione della volontà,
è affatto priva di significato la successione del tempo.
Quelle idee, le cui manifestazioni – conformemente alla legge di
causalità cui sono, in quanto fenomeni, sottomesse –
entrarono dapprima nella successione del tempo, non hanno alcun
diritto di precedenza sulle altre, il cui fenomeno v'entrò
più tardi; anzi queste ultime sono appunto le più
perfette obiettivazioni della volontà, e le prime vi si
dovettero adattare, così come le ultime alle prime. Quindi il
corso dei pianeti, la inclinazione dell'eclittica, la rotazione
della terra, la separazione della terraferma e del mare,
l'atmosfera, la luce, il calore e tutti i consimili fenomeni, i
quali nella natura sono ciò che il basso fondamentale
è nell'armonia, si adattarono presaghi alle future specie
d'esseri viventi, ch'essi erano destinati a sostenere e conservare.
Similmente si adattò il terreno alla nutrizione delle piante,
queste alla nutrizione degli animali, questi ancora alla nutrizione
d'altri animali, così come pur questi a quelli. Tutte le
parti della natura si fanno incontro, perché una è la
volontà che in tutte si manifesta; ma la successione
temporale è del tutto estranea alle idee, che della
volontà sono l'originaria ed esclusivamente adeguata
obiettità (il libro seguente chiarisce quest'espressione).
Ancora adesso, quando le specie non hanno più che da
conservarsi, e non da iniziarsi, vediamo qua e là estendersi
al futuro, quasi astraendo dalla successione temporale, una cotal
provvidenza di natura, un adattarsi di ciò che esiste a
ciò che verrà. Così costruisce l'uccello il
nido per i piccoli, che non conosce ancora; alza il castoro una
casa, della quale gli è ignoto il perché; la formica,
la marmotta, l'ape raccolgono provviste per lo sconosciuto inverno;
il ragno, il formicaleone rizzano, quasi con meditata astuzia,
trappole per una preda futura, che non sanno; gl'insetti depongono
le loro uova là, dove la futura larva troverà futuro
alimento. Quando, alla stagione della, fioritura, il fiore femminile
della Valisneria distende le curve spire del suo stelo, dalle quali
era stata fino allora trattenuta in fondo all'acqua, e sale in tal
modo alla superficie; allora il fiore maschile, cresciuto in fondo
all'acqua sopra un breve stelo, si strappa da questo per venir
così, col sacrifizio della propria vita, a galla, dove
nuotando intorno va in cerca del fiore femminile. E questo,
fecondato, si ritrae di nuovo, contraendo le sue spire, nel fondo,
dove il frutto si matura48. Anche qui devo ricordare un'altra volta
la larva del cervo volante maschio, la quale scava rodendo, per la
sua metamorfosi, un buco nel legno, due volte più grosso del
buco scavato dalla femmina, perché v'abbiano spazio le sue
future corna. In generale, adunque, l'istinto degli animali ci
dà il migliore avviamento a capir tutta la teleologia della
natura. Imperocché come l'istinto è un agire simile a
quello provocato da un concetto di finalità, pur non avendone
alcuno, così ogni cosa formata dalla natura rassomiglia a
quelle guidate da un concetto di finalità, anche quando ne
è priva. Nell'esteriore come nell'interior teleologia della
natura ciò che noi dobbiamo pensare come mezzo e come scopo
è sempre unicamente la manifestazione – venuta a scindersi
per la nostra maniera di conoscenza nel tempo e nello spazio –
dell'unità dell'unica volontà, per questo rispetto
concorde con se stessa.
Frattanto il reciproco adattarsi e accomodarsi dei fenomeni,
derivato da questa unità, non può cancellare l'intimo
dissidio sopra esposto, rivelantesi nell'universale lotta della
natura, ed alla volontà inerente. Quell'armonia perviene
solamente a render possibile l'esistenza del mondo e degli esseri
viventi, che senza di lei sarebbero da tempo periti. Quindi ella si
estende solo all'esistenza della specie ed alle generali condizioni
di vita, ma non agli individui. Quindi, se in grazia di
quell'armonia ed adattamento le specie nel mondo organico e le
generali forze di natura nel mondo inorganico sussistono le une
presso le altre, sorreggendosi anzi a vicenda, l'intimo dissidio
della volontà obiettivato in tutte quelle idee si rivela
invece nell'incessante guerra sterminatrice degli individui
appartenenti alle varie specie, e nel perenne lottare delle forze
naturali fra loro, com'è sopra esposto. Campo ed oggetto di
questa guerra è la materia, che gli avversari cercano di
strapparsi a vicenda; o anche il tempo e lo spazio, la cui
combinazione sotto la forma della causalità costituisce
propriamente la materia, com'è spiegato nel primo libro49.
§ 29.
Chiudo qui la seconda parte della mia trattazione, con la speranza
che – per quanto è possibile nel comunicar per la prima volta
un pensiero nuovissimo, al quale non riesce quindi di liberarsi del
tutto dalla personalità che l'ha prodotto – mi sia riuscito
di mostrar con chiara certezza come questo mondo, nel quale viviamo
ed esistiamo, sia nella sua intera essenza in tutto e per tutto
volontà, e contemporaneamente in tutto e per tutto
rappresentazione; inoltre, come questa rappresentazione, in quanto
tale, presupponga una forma – ossia oggetto e soggetto – e sia
quindi relativa. E se ci domandiamo che cosa rimanga, sopprimendo
questa forma e tutte le altre a lei subordinate, espresse dal
principio di ragione, quest'avanzo, come alcunché toto genere
diverso dalla rappresentazione, non può essere altro che la
volontà, che è perciò la vera cosa in
sé. Ognuno sente di essere codesta volontà,
così come sente d'altra parte di essere soggetto conoscente,
di cui è rappresentazione il mondo intero; il quale esiste
solo in rapporto alla sua coscienza, che n'è il necessario
sostegno. Ognuno è adunque, per questo duplice rispetto,
tutto quanto il mondo: è il microcosmo; ed i due aspetti del
modo trova interi, compiuti in se stesso. E ciò ch'egli
conosce in tal modo come sua propria essenza, costituisce pur
l'essenza del mondo intero, del macrocosmo: anche questo è,
come lui, in tutto e per tutto volontà, in tutto e per tutto
rappresentazione; e niente di più. Così vediamo qui
coincidere la filosofia di Talete, che considerava il macrocosmo, e
quella di Socrate, che considerava il microcosmo, poiché
unico si rivela l'oggetto d'entrambe. Ma tutta la cognizione
rivelata nei due primi libri guadagnerà in compiutezza ed
evidenza nei due libri che seguiranno; nei quali, spero, talune
quistioni, sollevate fin qui nettamente od oscuramente, troveranno
piena risposta.
Frattanto, una di codeste quistioni va discussa a parte, potendo
esser posta solo in quanto non s'è ancor penetrato del tutto
il senso della trattazione fatta finora, e appunto perciò
potendo servire a chiarirla. Essa è la seguente. Ogni
volontà è volontà di qualche cosa, ha un
oggetto, una mèta del suo volere: che cosa vuol dunque alla
fin fine quella volontà, che noi abbiamo rappresentata come
essenza in sé del mondo? Questa domanda si fonda, come tante
altre, sulla confusione della cosa in sé col fenomeno. Al
fenomeno, non alla cosa in sé si estende il principio di
ragione; una forma del quale è anche la legge di motivazione.
Si può dare una ragione dei fenomeni in quanto tali, dei
singoli oggetti, ma non mai della volontà medesima, né
dell'idea, in cui questa adeguatamente si obiettiva: Nello stesso
modo, d'ogni singolo movimento, o in genere d'ogni modificazione
nella natura si deve cercar la causa, ossia uno stato, che l'abbia
necessariamente prodotta: ma non mai della forza naturale, che si
manifesta in quel fenomeno, come in altri innumerevoli fenomeni
eguali. Ed è una vera dissennatezza, proveniente da mancanza
di riflessione, il voler conoscere una causa della gravità,
della elettricità e così via. Per avventura, sol
quando si fosse dimostrato che gravità, elettricità
non sono vere e proprie forze naturali originarie, bensì
soltanto aspetti fenomenici di una forza di natura più
generale e già nota, allora si potrebbe voler conoscere la
causa, per cui codesta forza producesse qui il fenomeno della
gravità e dell'elettricità. Tutto ciò è
ampiamente spiegato più sopra. Nello stesso modo, ogni
singolo atto di volontà di un individuo conoscente (il quale
è anch'esso semplice fenomeno della cosa in sé) ha
necessariamente un motivo, senza il quale quell'atto non si sarebbe
mai prodotto: ma come la causa materiale contiene soltanto la
determinazione per cui in un dato tempo, in un dato luogo, in una
data materia deve prodursi una manifestazione di questa o quella
forza naturale, così anche il motivo determina soltanto
l'atto di volontà di un individuo conoscente in un dato
tempo, in un dato luogo, in date circostanze, come fatto singolo;
né mai determina genericamente che quell'essere voglia, e che
voglia in tal modo. Codesta è invece manifestazione del suo
carattere intelligibile, il quale come la volontà stessa – la
cosa in sé – è senza fondamento di ragione, stando
appunto fuor del dominio del principio di ragione. Quindi ciascun
uomo ha sempre finalità e motivi, in base ai quali dirige la
propria condotta, e sa ognora render conto delle proprie azioni: ma,
se gli si domandasse perché egli in genere voglia, o
perché in genere egli abbia volontà di esistere, non
avrebbe da dar risposta alcuna; piuttosto la domanda gli parrebbe
stolta. Ed in ciò appunto verrebbe ad esprimersi la coscienza
dell'essere egli medesimo niente altro se non volontà;
volontà, che si comprende da se stessa, e soltanto nei suoi
singoli atti, nei singoli momenti abbisogna di una più
precisa determinazione.
Infatti la mancanza d'ogni finalità e d'ogni confine
s'appartiene all'essenza della volontà in sé, che
è una tendenza infinita. Questo punto fu già toccato
più sopra, quando s'accennò alla forza centrifuga: e
nel modo più semplice si rivela nell'infimo grado
dell'obiettità della volontà, ossia nella
gravità; il cui perenne tendere, malgrado la palese
impossibilità di una mèta ultima, è evidente.
Foss'anche, per sua volontà, tutta la materia esistente
riunita in un'unica massa compatta, la gravità seguiterebbe
tuttavia nel suo interno a lottare pur sempre, tendendo verso il
centro, contro l'impenetrabilità, palesantesi sia come
rigidità, sia come elasticità. Questa tendenza della
materia può essere quindi appena frenata, ma non mai
appagata. E lo stesso accade ad ogni tendenza di tutti i fenomeni
della volontà. Ogni mèta raggiunta è alla sua
volta principio di un nuovo percorso, e così all'infinito. La
pianta solleva la propria manifestazione dal germe, attraverso
tronco e foglie, fino al fiore ed al frutto, che alla sua volta non
è che il principio di un nuovo germe, di un nuovo individuo,
il quale un'altra volta segue l'antico cammino, e così per un
tempo infinito. Non diversa è la vita dell'animale: suo
vertice è la generazione, e dopo averlo raggiunto, la vita
del primo individuo decade presto o tardi, mentre un nuovo individuo
garantisce alla natura la conservazione della specie, e ripete lo
stesso fenomeno. Anzi, qual semplice fenomeno di codesta perenne
aspirazione e mutazione è pur da considerare il continuo
rinnovarsi della materia in ciascun individuo, che i fisiologi hanno
ora cessato di tener per necessaria compensazione della materia
consumatasi nel movimento; imperocché il possibile logorio
della macchina non può esser punto equivalente al continuo
afflusso proveniente dalla nutrizione: eterno divenire, infinito
fluire appartengono al manifestarsi dell'essenza della
volontà. Lo stesso si può anche vedere, finalmente,
nelle aspirazioni e voglie umane, che sempre c'illudono mostrandoci
il lor compimento come supremo fine del volere; ma, non appena
raggiunte, non sembrano più le stesse, e quindi tosto
dimenticate, invecchiate, vengono sempre – anche se non vogliamo
subito convenirne – messe da parte come miraggi dileguati. Felici
ancora, se qualche cosa rimane al nostro desiderio ed alla nostra
aspirazione, per alimentare il giuoco del perenne passaggio dal
desiderio all'appagamento, e da questo ad un novello desiderio –
passaggio, che si chiama felicità quand'è rapido,
dolore quand'è lento –; invece di cadere in quella paralisi,
che si rivela come orribile, stagnante noia, confusa aspirazione
senza oggetto preciso, mortale languore. Da tutto ciò appare
che la volontà, illuminata dalla conoscenza, sempre sa
ciò che vuole in un dato momento, in un dato luogo; ma non sa
ciò che vuole in genere. Ogni singolo atto ha un fine: la
volontà nel suo insieme non ne ha alcuno. Appunto come ogni
singolo fenomeno della natura viene determinato, nel suo prodursi in
un dato luogo, in un dato tempo, da una causa sufficiente; mentre la
forza, che in esso si manifesta genericamente, non ha una causa,
poiché codesta causa è un grado nella manifestazione
della cosa in sé, della volontà senza fondamento di
ragione. L'unica conoscenza di sé, che abbia la
volontà in genere, è la rappresentazione nel suo
complesso, la totalità del mondo intuitivo. Questo mondo
è la sua obiettità, la sua rivelazione, il suo
specchio. Che cosa significhi il mondo in questa sua qualità,
sarà oggetto della nostra seguente considerazione50.