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Arthur Schopenhauer
I due problemi fondamentali
dell’etica
Indice generale
Prefazione alla prima edizione
Prefazione alla seconda edizione
Trattato su
La libertà di volere
i - Definizione dei concetti
Cosa è la libertà?
Cosa è la autocoscienza?
ii - La volontà di fronte alla autocoscienza
iii - La volontà di fronte alla coscienza delle altre
cose
iv - Predecessori
v - Conclusione e visione più elevata
vi - Appendice a integrazione del primo paragrafo
Trattato su
Il fondamento della morale
I - Introduzione
§ 1 Il problema
§ 2 Retrospettiva generale
II - Critica del fondamento dell’etica di Kant
§ 3 Panoramica
§ 4 La forma imperativa dell’etica di Kant
§ 5 Riguardo ai presunti doveri verso noi stessi, in
particolare
§ 6 Il fondamento dell’etica di Kant
§ 7 Il supremo principio dell’etica di Kant
§ 8 Forme derivate del supremo principio dell’etica di
Kant
§ 9 La dottrina kantiana della coscienza
§ 10 La dottrina kantiana del carattere empirico e
intelligibile. La teoria della libertà.
Nota
§ 11 L’etica di Fichte, come lente di ingrandimento degli
errori dell’etica di Kant
III - Motivazione dell’etica
§ 12 Requisiti
§ 13 Punto di vista scettico
§ 14 Molle di spinta antimorali
§ 15 Criterio delle azioni con valore morale
§ 16 Presentazione e dimostrazione dell’unica genuina molla
di spinta morale
§ 17 La virtù della giustizia
§ 18 La virtù dell’amore verso il
prossimo
§ 19 Conferme del fondamento della morale
presentato
§ 20 Differenza morale dei caratteri
IV - Interpretazione metafisica del fenomeno originario
dell’etica
§ 21 Chiarimento riguardo a questa appendice
§ 22 Fondamento metafisico
Giudizio della Società Reale Danese delle Scienze
Cronologia
della vita e
delle opere di
Arthur
Schopenhauer
I due problemi
fondamentali dell’etica dibattuti in due trattati
accademici dal Dottor
Arthur Schopenhauer
Membro della Regia
Società Norvegese delle Scienze
I. La libertà di volere
premiato dalla Regia Società Norvegese delle Scienze,
Drontheim, 26 Gennaio 1839
II. Il fondamento della morale
non premiato dalla Regia Società Danese delle Scienze,
Copenhagen, 30 Gennaio 1840
Prefazione alla prima edizione
Questi due trattati, sorti indipendentemente uno dall’altro in
seguito a circostanze esterne, sono tuttavia complementari nel
formare un sistema di verità fondamentali dell’etica, al
quale - spero - non si vorrà negare il merito di far compiere
un passo avanti a questa scienza, che da mezzo secolo2 si è
presa una vacanza.
Tuttavia nessuno dei due trattati ha potuto far riferimento
all’altro, né tanto meno ai miei precedenti, poiché
entrambi sono stati scritti per due diverse accademie, sotto
condizione - come si suole fare in questi casi - di un rigoroso
anonimato.
Per questo non è stato possibile evitare che alcuni punti
venissero toccati in entrambi: non potendo dare nulla per scontato,
bisognava sempre ricominciare ab ovo [dall’inizio]. In realtà
questi trattati sono particolari esposizioni di due dottrine
riportate - nei loro tratti essenziali - nel quarto libro della mia
opera principale Il mondo come volontà e rappresentazione,
dove sono state dedotte a partire dalla mia metafisica,
sinteticamente a priori.
In questi due trattati, invece, dove per forza di cose non era
ammissibile alcuna premessa, quelle due dottrine sono state esposte
analiticamente a posteriori3.
Di conseguenza ciò che in quel libro compare per primo, in
questi due trattati viene presentato per ultimo. Ma proprio grazie a
questa partenza da un punto di vista comune, e grazie anche
all’esposizione a posteriori, entrambe le dottrine hanno guadagnato
molto in comprensibilità, in forza di persuasione e in
significato.
Questi due trattati sono quindi da considerare come una integrazione
del quarto libro della mia opera principale, esattamente come il mio
scritto La volontà nella natura è da considerare come
una integrazione essenziale e importante del secondo libro della
stessa opera. Oltretutto, per quanto eterogeneo possa sembrare il
tema de La volontà nella natura rispetto a quello dei
presenti trattati, tra loro esiste un nesso reale. Quel trattato
è addirittura, in una certa misura, la chiave dei presenti,
cosicché capire questo nesso contribuisce innanzitutto alla
perfetta comprensione di entrambi.
Quando finalmente arriverà il tempo in cui si leggeranno le
mie opere, si potrà constatare che la mia filosofia è
come Tebe dalle cento porte: si può entrare da una porta
qualunque e da questa giungere direttamente al centro. Devo inoltre
far notare che il primo di questi due trattati è già
stato pubblicato a Drontheim nel più recente volume delle
Memorie della Reale Società Norvegese delle Scienze.
In considerazione della grande distanza tra Drontheim e la Germania
l’Accademia Norvegese mi ha concesso - dietro mia richiesta - con la
massima disponibilità e liberalità il permesso di
pubblicare questo trattato in Germania. Per questo voglio qui
esprimerle pubblicamente il mio più sentito ringraziamento.
Il secondo trattato - nonostante fosse l’unico in concorso - non
è stato premiato dalla Reale Società Danese delle
Scienze. Dal momento che questa Società ha già
pubblicato il suo giudizio negativo sul mio lavoro, mi sento
autorizzato a illustrarlo e a fare una replica.
Il lettore può trovare questo giudizio in coda al
corrispondente trattato. Potrà così constatare che la
Reale Società non ha trovato assolutamente nulla da lodare
nel mio lavoro, bensì solo cose da biasimare. Questo biasimo
viene espresso tramite tre diverse note, che ora voglio analizzare
singolarmente.
La prima e principale nota di biasimo - tanto che le altre sono solo
accessorie - è che io avrei frainteso la domanda, pensando
erroneamente che venisse chiesto di stabilire il fondamento
dell’etica. Invece l’oggetto della domanda sarebbe stato,
propriamente e principalmente, il nesso tra la metafisica e
l’etica4.
Io avrei completamente omesso di spiegare questo nesso (omisso enim
eo, quod potissimus postulabatur: trascurando l’essenza del
problema) si proclama nel giudizio all’inizio. Tuttavia tre righe
più avanti ci si dimentica di quanto appena detto e si
afferma il contrario (principii ethicae et metaphysicae suae
exponit: spiega il nesso tra il principio e la sua metafisica),
ossia che io avrei sì spiegato quel nesso, tuttavia lo avrei
fatto solo in una appendice, come se fosse qualcosa di superfluo,
nella quale - a mio parere - avrei dato più di quanto fosse
stato chiesto.
Di questa contraddizione del giudizio con sé stesso non
voglio tener conto: la ritengo il frutto dell’imbarazzo con cui il
giudizio è stato redatto. Invito invece il lettore, istruito
e imparziale, a leggere attentamente nel prologo del trattato, la
domanda posta nel bando di concorso dell’Accademia Danese e
l’introduzione che la precede, così come sono state stampate
in latino, assieme alla mia traduzione.
Decida poi lui stesso cosa effettivamente la domanda chiede: se la
ragione ultima, il principio, il fondamento, la vera e propria fonte
dell’etica ... oppure il nesso tra etica e metafisica. Per
facilitare il compito al lettore voglio ora passare in rassegna e
analizzare sia l’introduzione e sia il quesito, mettendo in piena
luce il significato di entrambi.
L’introduzione al quesito afferma l’esistenza di un’idea elementare
e necessaria di moralità, ovvero di una nozione primordiale
della legge morale, che si presenta sotto un duplice aspetto: da un
lato nella morale come scienza filosofica [l’etica] e dall’altro
nella vita reale. In quest’ultima si manifesta in due ulteriori
modi: nel giudizio riguardo alle azioni compiute da noi stessi
oppure a quelle compiute dagli altri. A questo concetto originario
di moralità si riallacciano poi altri concetti, che su esso
poggiano.
Sulla base di questa introduzione la Regia Società pone il
quesito: dove vanno ricercati l’origine e il fondamento della
morale? Forse in un’idea originaria di moralità che si trova
di fatto e direttamente nella consapevolezza di sé stessi o
nella propria coscienza?
In tal caso questa fonte (la coscienza di sé e delle cose
esterne) dovrebbe essere analizzata, come pure i concetti che da
essa derivano. Oppure la morale viene appresa in qualche altro modo?
Spogliato da tutto quanto non è essenziale e riformulato in
una maniera del tutto chiara, il quesito suona così:
«Dove bisogna ricercare l’origine e il fondamento della
filosofia morale? Devono essere ricercati in un’idea di
moralità immediatamente data nella coscienza oppure in
qualche altro principio di conoscenza?».5
Quest’ultima frase mostra nella maniera più chiara che il
quesito riguarda il principio di conoscenza della morale. Come se
ciò non bastasse, voglio ora aggiungere una interpretazione
del quesito con parole più semplici e comprensibili, ma che
non ne alterano il contenuto.
L’introduzione parte da due osservazioni empiriche: «Di fatto
esiste una scienza morale, come pure è un dato di fatto che
nella vita reale si manifestano dei concetti morali. In parte,
perché noi stessi giudichiamo moralmente, nella nostra
coscienza, le nostre azioni, e in parte perché giudichiamo
dal punto di vista morale le azioni degli altri. Sembra, quindi, che
esistano parecchi concetti etici - ad esempio quello di dovere, di
responsabilità e simili - universalmente validi. Da tutto
questo traspare l’esistenza di un’idea originaria della
moralità, ossia di un pensiero fondamentale di legge morale.
Sembra anche che questa legge morale sia quello che è per
motivi del tutto particolari, non solamente logici. Essa non
potrebbe quindi venir fatta valere semplicemente in base al
principio di contraddizione, a partire dalle incongruenze insite
nelle azioni da giudicare o nelle massime a cui si sono ispirate. Da
questo originario concetto di moralità deriverebbero poi gli
altri principali concetti morali che da esso dipendono e dal quale
non possono venir separati. Su cosa poggia questa legge morale?
Questo sarebbe un importante tema di ricerca, dice la Regia
Società. Essa pone quindi le seguente domande: dove
andrebbero ricercati (quaerenda sunt) la sorgente, ossia la fonte
originale, e il fondamento della morale? Dove si possono trovare?
Forse in una idea di moralità innata che portiamo dentro di
noi nella nostra coscienza? Se così fosse, questa idea,
assieme ai concetti che da essa dipendono, dovrebbe semplicemente
venire analizzata (explicandis). Oppure questa idea di
moralità va ricercata altrove? La sorgente della morale sta
forse in un principio di conoscenza dei nostri doveri completamente
diverso da quello precedentemente menzionato come suggerimento o
esempio?».
Questo è - in maniera più dettagliata e chiara, seppur
fedele ed esatta - il contenuto dell’introduzione e del quesito. Ora
a chi può rimanere anche il minimo dubbio che il quesito
posto dalla Reale Società non riguardi la fonte, l’origine,
il fondamento, il principio di conoscenza della morale?
La fonte e il fondamento della morale non possono essere che quelli
della moralità stessa. Infatti la moralità è
nella pratica ciò che la morale è nella teoria. La
fonte della moralità deve essere il motivo ultimo di ogni
comportamento moralmente valido. Da parte sua, la morale deve
stabilire questo suo fondamento, per potersi appoggiare su di esso e
per fare appello ad esso in tutto quanto la morale prescrive
all’uomo. Altrimenti la morale camperebbe i propri precetti in aria,
oppure li motiverebbe in maniera falsa.
La morale deve dimostrare quale è il motivo ultimo di ogni
moralità, poiché esso è la prima pietra
dell’etica intesa come costruzione scientifica, ed è
l’origine della moralità intesa come prassi. È
impossibile negare che il quesito non chieda proprio quale sia il
fondamentum philosophiae moralis [fondamento della filosofia
morale].
È quindi chiaro come il sole che il compito assegnato
è proprio quello di ricercare e di stabilire un principio
dell’etica (ut principium aliquod ethicae conderetur), non nel senso
di una semplice prescrizione suprema o regola di base, ma come
motivo reale di ogni moralità, quindi come principio di
conoscenza della morale. Eppure il giudizio dell’Accademia nega che
questo sia il compito da svolgere, quando sostiene di non poter
premiare il mio trattato poiché io così lo avrei
inteso.
Ma allora chiunque legga il compito assegnato non potrà fare
a meno di fraintenderlo, poiché esso sta scritto nero su
bianco con parole chiare e inequivocabili, e non può essere
negato, fintanto che i vocaboli latini conservano il loro
significato. Su questo punto mi sono dilungato fin troppo; eppure
è importante e curioso. Infatti è chiaro e certo che
questa Accademia nega di aver chiesto ciò che, invece, ha
apertamente ed innegabilmente chiesto.
Essa afferma invece di aver chiesto qualcos’altro e sostiene che il
tema principale (soltanto questo possiamo intendere per ipsum thema)
del bando di concorso sarebbe il nesso tra metafisica e morale.
Prego quindi il lettore di controllare se a questo proposito vien
detta una sola parola nel quesito o nell’introduzione: nessuna
sillaba e neppure il minimo accenno. In realtà chi chiede
quale sia il nesso tra due scienze dovrebbe menzionarle entrambe.
Eppure la parola ‘metafisica’ non viene menzionata né nel
quesito né nell’introduzione.
Oltretutto, la frase principale del giudizio dell’Accademia
diverrebbe più chiara se la si trascrivesse dalla sua forma
inversa in quella naturale. Usando esattamente le stesse parole,
essa suonerebbe così: «Proprio questo era richiesto dal
tema: una discussione in particolare sul rapporto tra metafisica ed
etica. Ma lo scrittore, trascurando l’essenza del problema, ha
ritenuto che gli venisse chiesto di individuare un fondamento
qualsiasi della morale. Di conseguenza, quella sezione del suo
scritto, nella quale spiega il nesso tra il principio etico da lui
definito e la sua metafisica, è relegata a rango di una
appendice quasi superflua rispetto al tema proposto».6
Anche la domanda riguardo al nesso tra metafisica e morale
semplicemente non rientra nel punto di vista da cui parte
l’introduzione al quesito. L’introduzione infatti comincia con
alcune osservazioni empiriche, fa riferimento alle valutazioni
morali che avvengono nella vita quotidiana e ad altre cose simili,
cosicché la Regia Società si chiede: «Da dove
deriva tutto questo?». Essa suggerisce poi, come esempio di
una possibile soluzione, un’idea di moralità innata e insita
nella coscienza.
In questo esempio - il cui proposito è di fare un tentativo e
di sollevare un problema - essa assume come soluzione un semplice
dato di fatto psicologico, non un teorema metafisico. Così
facendo la Regia Società lascia chiaramente intendere di
esigere come fondamento della morale un dato di fatto qualsiasi,
nella coscienza o nel mondo, e non di aspettarsi di vederlo dedurre
dalle fantasticherie di una metafisica qualunque. Pertanto, a chi
avesse risolto il quesito in quest’ultimo senso, l’Accademia avrebbe
potuto - a buon diritto - negare il premio. Si tenga ben in
considerazione questo fatto.
Oltretutto la presunta domanda (che non si riesce a localizzare da
nessuna parte) riguardo al nesso tra la metafisica e la morale, non
avrebbe assolutamente potuto trovare alcuna risposta. Quindi, se
vogliamo accreditare ai membri della Regia Società un minimo
di intelligenza, l’Accademia stessa non avrebbe potuto neppure
porla.
Non esiste, infatti, una riposta a questa presunta domanda, per il
semplice fatto che non esiste ‘una’ metafisica. Esistono
bensì differenti (anzi, estremamente differenti) metafisiche
(o meglio, tentativi vari di costruire una metafisica) in un numero
considerevole, tante quante sono stati i filosofi, ciascuna delle
quali recita un ritornello diverso a seconda del proprio autore,
cosicché tutte differiscono e dissentono tra di loro nella
maniera più profonda. Si potrebbe domandare il nesso tra
l’etica e la metafisica di Aristotele, Epicuro, Spinoza, Leibniz,
Locke o di qualsiasi altro filosofo, ma mai e poi mai tra l’etica e
la metafisica in genere.
Una simile domanda non avrebbe alcun senso, poiché
presupporrebbe un rapporto tra una cosa ben definita (l’etica) e una
cosa indeterminata, forse addirittura impossibile (la metafisica).
Dal momento che non esiste una metafisica inconfutabilmente
riconosciuta come oggettivamente vera - quindi, una metafisica in
assoluto - non sapremo mai se essa sia in generale anche solo
possibile, né cosa sarebbe o potrebbe essere.
Si potrebbe tuttavia obiettare che in effetti noi possediamo
già un concetto del tutto generale - anche se certamente non
ben definito - di metafisica cosicché, tenendo conto di
questo concetto, ci si potrebbe domandare, quale è il nesso
in generale tra questa metafisica in abstracto e l’etica. Giusta
obiezione.
Tuttavia la risposta al quesito posto in questo senso è
talmente facile e semplice, che sarebbe ridicolo bandire un concorso
a questo proposito. La risposta, infatti, non potrebbe essere che
questa: una vera e perfetta metafisica deve offrire un solido
sostegno e il fondamento primo anche all’etica.
Oltretutto questa considerazione viene espressa proprio nel
paragrafo § 1 del mio trattato, dove, parlando delle
difficoltà poste dal quesito, indico in particolare questa:
il quesito per sua natura esclude la possibilità di fondare
l’etica su una qualsiasi metafisica, dalla quale si possa partire e
con la quale ci si possa sostenere.
Con quanto precedentemente detto ritengo di avere inconfutabilmente
dimostrato che la Reale Società di Danimarca ha veramente
chiesto nel quesito iniziale ciò che nel giudizio finale nega
di aver chiesto. E viceversa: non ha chiesto all’inizio ciò
che in seguito sostiene di aver chiesto (oltretutto, una cosa che
non avrebbe potuto neppure chiedere).
Senza dubbio, secondo il principio morale indicato nel mio trattato,
questo comportamento della Regia Società di Danimarca non
è giusto. Ma essa non riconosce la validità del mio
principio morale, quindi deve pur esistere qualche altro principio,
secondo il quale il suo comportamento sarebbe giusto.
In realtà io ho risposto esattamente a ciò che
l’Accademia di Danimarca aveva chiesto. Innanzitutto, nella parte
critica del mio trattato (dove critico il fondamento dell’etica di
Kant) ho spiegato che il principio dell’etica non sta là dove
- da sessant’anni - si suppone che sia stato dimostrato con
certezza. In seguito, nella parte propositiva del trattato, ho
gettato una luce sulla fonte genuina di ogni comportamento
moralmente valido, e ho realmente dimostrato che questa è la
vera fonte e che nessun’altra può esserlo.
Infine ho mostrato il nesso tra questo reale fondamento della
morale, non con la mia metafisica (come il giudizio dell’Accademia
falsamente sostiene) e neppure con qualche altra determinata
metafisica, bensì con un profondo pensiero universale. Un
pensiero che è comune a moltissimi, forse alla maggior parte
dei sistemi metafisici, senza dubbio i più antichi e - a mio
parere - i più veri.
Questa spiegazione metafisica non è stata posta in appendice
(come il giudizio dell’Accademia sostiene) bensì nell’ultimo
paragrafo del trattato. Essa è la pietra finale dell’intera
opera, una considerazione di natura più elevata, nella quale
l’opera stessa sfocia.
Che poi - in un passo dell’ultimo capitolo - io abbia affermato di
stare prestando più di quanto il compito assegnato avesse
effettivamente richiesto, deriva proprio dal fatto che il quesito
stesso non dice una parola riguardo a una spiegazione metafisica,
né tantomeno (come l’Accademia invece sostiene) mira
effettivamente a una tale spiegazione. Dopotutto se questa
spiegazione metafisica sia o non sia qualcosa accessorio - ossia,
qualcosa in più di quanto richiesto - è una questione
secondaria, del tutto indifferente. Quello che importa è che
sia stata data.
Che il giudizio dell’Accademia poi voglia far valere quella mia
affermazione [di stare prestando più di quanto fosse
richiesto] a mio discapito è una dimostrazione del suo
imbarazzo, il quale la spinge ad aggrapparsi a ogni pretesto pur di
opporre qualcosa al mio lavoro. Oltretutto era del tutto naturale
che quelle considerazioni metafisiche venissero fatte alla
conclusione del trattato. Infatti, se fossero state fatte
all’inizio, il fondamento della morale avrebbe dovuto venir dedotto
sinteticamente.
Ma questo sarebbe stato possibile solo se l’Accademia avesse
specificato da quale dei moltissimi e diversissimi sistemi
metafisici lei desiderava che venisse dedotto il fondamento della
morale. In questo caso la validità di un tale fondamento
dipenderebbe dalla validità della metafisica assunta in
partenza, quindi sarebbe una validità problematica. Per
questo la natura del quesito rendeva necessaria una deduzione
analitica a posteriori del fondamento ultimo della morale, ossia una
deduzione tratta dalla realtà delle cose, senza la premessa
di una qualsiasi metafisica.
Proprio perché nell’epoca moderna questo metodo è
stato universalmente riconosciuto come il solo e sicuro cammino,
Kant - come già i moralisti inglesi prima di lui - si
è impegnato a individuare il principio dell’etica secondo il
metodo analitico, indipendentemente da qualsiasi premessa
metafisica. Abbandonare questo cammino equivarrebbe evidentemente a
tornare indietro. In ogni caso, se l’Accademia avesse preteso
proprio questo, avrebbe perlomeno dovuto dirlo nella maniera
più esplicita. Ma nel suo quesito non si trova neppure il
minimo accenno al riguardo.
Dal momento che l’Accademia Danese con grande magnanimità ha
voluto tacere riguardo al difetto fondamentale del mio lavoro, mi
guarderò bene dal rivelarlo io. Temo però che questa
precauzione sarà inutile, poiché prevedo che il buon
fiuto del lettore di questo trattato lo porterà sulle tracce
della maleodorante macchia. Tuttavia il lettore potrebbe venire
ingannato dal fatto che anche il mio trattato norvegese è
affetto - per lo meno in ugual misura - dallo stesso difetto
fondamentale. Ciò nonostante la Reale Società di
Norvegia non si è certamente astenuta dal premiare il mio
lavoro.
Essere membro di questa Accademia è un onore di cui ogni
giorno mi rendo conto sempre più chiaramente e che apprezzo
sempre più compiutamente. Essa infatti, come accademia, non
conosce altro interesse che quello della verità, della luce,
e di promuovere la comprensione e la conoscenza umana.
Un’accademia non è un tribunale della fede. Ogni accademia,
prima di formulare quesiti così elevati, seri e impegnativi -
come questi due, per i quali è stato bandito un concorso a
premi - dovrebbe innanzitutto far luce su sé stessa per
stabilire se realmente si sente pronta a sostenere apertamente la
verità comunque questa possa suonare (cosa impossibile da
sapere in anticipo). Più tardi, infatti, dopo che a un serio
quesito è arrivata un altrettanto seria risposta, non ci
sarà più tempo per ritirarlo. E una volta che il
convitato di pietra si presenta sulla soglia, perfino Don Giovanni
sarebbe troppo gentleman per negare di averlo invitato.7
Questo delicato problema è senza dubbio il motivo per cui le
accademie europee di solito si guardano bene dal porre quesiti di
questo tipo. I due presenti quesiti sono, in realtà, i primi
che io ricordo di aver mai incontrato. Proprio per questo, pour la
rareté du fait [per la rarità del fatto], mi sono
assunto l’impegno di dar loro una risposta. Da molto tempo mi sono
reso perfettamente conto che per me la filosofia è una cosa
troppo seria per [permettermi di] diventare un professore di
filosofia. Tuttavia non avrei mai pensato di imbattermi in un simile
errore di valutazione da parte di una accademia.
La seconda nota di biasimo della Reale Società di Danimarca
suona così: scriptor neque ipsa disserendi forma nobis
satisfecit [lo scrittore ci risulta insoddisfacente anche sul piano
formale]. Su questo non ho nulla da ridire: si tratta del giudizio
soggettivo della Reale Società di Danimarca.8
Per chiarire questo aspetto rendo pubblico il mio lavoro e aggiungo
il testo del giudizio finale dell’Accademia, affinché esso
non vada perso, bensì ci ricordi sempre che:
«Finché l’acqua scorrerà e gli alberi punteranno
in alto,
e il sole sorgerà nel cielo e la luna
splenderà,
e i fiumi si gonfieranno e il mare si
incresperà,
annuncerò ai passanti che Mida qui
è sepolto»9.
Faccio semplicemente notare che in questa occasione il trattato
viene pubblicato esattamente come era stato spedito all’Accademia di
Danimarca. Non ho tolto né aggiunto nulla. Le poche, brevi e
non essenziali, integrazioni che ho aggiunto dopo la spedizione
vengono, in questa prima edizione, contrassegnate con una crocetta
all’inizio e alla fine di ogni aggiunta, al fine di prevenire
qualsiasi gratuita polemica.10
Il giudizio della Regia Società aggiunge inoltre: neque
reapse, hoc fundamentum sufficere, evicit [l’autore non ha neppure
nella sostanza dimostrato che tale fondamento sia sufficiente].
Contro questa affermazione faccio appello al fatto di aver
dimostrato il mio fondamento della morale, realmente e seriamente,
con un rigore quasi matematico.
Una simile dimostrazione non ha precedenti nel campo dell’etica, ed
è stata possibile perché io sono penetrato nella
natura della volontà dell’uomo più in
profondità di quanto sia stato fatto finora, ho messo in luce
e ho mostrato, nude e crude, le tre fondamentali molle di spinta che
agiscono sull’animo umano, dalle quali scaturiscono poi tutte le sue
azioni.
Nel giudizio si aggiunge addirittura: quin ipse contra esse
confiteri coactus est [come egli stesso è costretto a
riconoscere]. Se questa frase volesse dire che io stesso avrei
riconosciuto l’insufficienza del mio fondamento della morale, allora
il lettore potrà constatare che di ciò non si trova
alcuna traccia nel mio trattato, né che un simile pensiero mi
sia mai passato per la testa. Ma se con questa frase si volesse
giocare sul fatto che, in un determinato passo, io ho affermato che
il ribrezzo verso i peccati di libidine contro natura non può
venir dedotto dallo stesso principio dal quale derivano le
virtù della giustizia e dell’amore verso il prossimo,
significherebbe che si vuole di proposito gonfiare le affermazioni e
sarebbe un’ulteriore dimostrazione che ci si vuol aggrappare a
qualsiasi cosa, pur di bocciare il mio lavoro.
In coda al giudizio - come commiato - la Reale Società di
Danimarca mi muove un severo rimprovero del quale non capisco il
motivo, anche nel caso che il contenuto del rimprovero fosse
fondato. A questo proposito li voglio servire. Il rimprovero suona
così: plures recentioris aetatis summos philosophos tam
indecenter commemorari, ut justam et gravem offensionem habeant
[molti sommi filosofi della nostra epoca sono trattati con un
disprezzo che si traduce in offesa aperta e grave].
Questi summi philosophi sarebbero in pratica ... Fichte e Hegel!
Solo di questi due, infatti, ho parlato con toni tanto forti e
aspri, che la frase usata dell’Accademia Danese potrebbe
eventualmente essere appropriata. Anzi, il rimprovero - manifestato
in quella frase - potrebbe addirittura essere giustificato se questi
due signori fossero effettivamente summi philosophi. Ma proprio
questo è il punto.
Per quanto riguarda Fichte, nel presente trattato si trova il
giudizio, ripetuto e circostanziato, che ho già dato su di
lui ventidue anni fa nella mia opera principale. Nel presente
trattato ho motivato il mio giudizio con un esauriente paragrafo
dedicato esclusivamente a Fichte, dal quale risulta chiaramente
quanto egli sia ben lontano dall’essere un summus philosophus.
Tuttavia, siccome lo ritengo un uomo di talento, l’ho posto in
graduatoria al di sopra di Hegel.
Solo riguardo a Hegel ho proclamato - senza alcun commento - la mia
perentoria condanna nei toni più decisi. A mio parere,
infatti, Hegel non solo non ha alcun merito nel campo della
filosofia, ma ha piuttosto esercitato sulla filosofia stessa, e
sulla letteratura tedesca in generale, un influsso putrefacente, o
meglio rincretinente, si potrebbe anche dire pestilenziale.
Pertanto, chiunque è in grado di pensare e di giudicare con
la propria testa, ha il dovere in ogni occasione di opporsi nella
maniera più energica a quell’influsso malefico. Altrimenti,
se stiamo zitti noi, chi mai dovrebbe parlare?
Dunque, oltre a Fichte, è a Hegel a cui fa riferimento il
rimprovero che mi viene mosso in coda al giudizio. Si allude
soprattutto a lui - che ne è uscito così malconcio -
quando la Reale Società di Danimarca parla di un recentioris
aetatis summus philosophus [sommo filosofo della nostra epoca] nei
confronti del quale io avrei indecentemente mancato il dovuto
rispetto. Così l’Accademia di Danimarca, dall’alto dello
stesso scranno del tribunale che ha bocciato il mio lavoro con una
nota di biasimo non motivata, proclama pubblicamente che questo
Hegel è un summus philosophus.
Quando un bando di scribacchini di riviste, che complottano in
segreto per propagandare cose di cattivo gusto, prezzolati
professori di hegelianeria e languidi aspiranti alla libera docenza,
strillano ai quattro venti, insistentemente e con inaudita
spudoratezza, che quel cranio piuttosto mediocre, ma eccezionale
ciarlatano, è il più grande filosofo che sia mai
apparso al mondo, allora non bisogna prendere la cosa sul serio.
Tanto più che il goffo intento di questa miserabile
operazione deve balzare all’occhio anche delle persone meno esperte.
Ma quando si arriva al punto che un’accademia straniera prende le
difese di quel filosofastro come se fosse un summus philosophus, e
addirittura si permette di denigrare una persona che, onestamente e
senza paura, si ribella a quella falsa gloria carpita, comprata e
raffazzonata con la menzogna, una persona che oppone una resistenza
adeguata agli spudorati elogi, alla esaltazione del falso, del
cattivo e di tutto ciò che deteriora il cervello, allora la
cosa si fa seria. Il giudizio accreditato di una Accademia, infatti,
potrebbe indurre delle persone ignare a compiere un grossolano e
deleterio errore.
Bisogna quindi neutralizzare quel giudizio ma, siccome io non ho
l’autorevolezza di un’Accademia, bisogna farlo in maniera motivata e
adducendo delle prove. Ed è proprio questo che voglio ora
fare, in modo chiaro e comprensibile, che spero possa servire per
indurre l’Accademia Danese a seguire in futuro il consiglio di
Orazio:
«Se raccomandi qualcuno, cerca prima di capire che uomo
è,
per non dover poi arrossire di colpe non tue»11.
Se, a questo scopo, io dicessi che la cosiddetta filosofia di questo
Hegel è una colossale mistificazione che consegnerà
nelle mani dei posteri un tema inesauribile di scherno riguardo alla
nostra epoca; se dicessi che è una pseudofilosofia che
paralizza tutte le forze dello spirito e che soffoca il pensiero
reale, per mettere al loro posto, tramite l’abuso più
oltraggioso del linguaggio, la più vuota, insensata,
inconsistente e - come testimonia il successo ottenuto -
rincretinente verbosità; se dicessi che questa
pseudofilosofia ha come nucleo un’idea assurda, campata per aria,
priva di fondamento e di conseguenze (ossia che non è
dimostrata da nulla e che, a sua volta, non dimostra e non chiarisce
nulla), la quale, mancando di originalità, è solo una
parodia allo stesso tempo del realismo scolastico e dello
spinozismo, un mostro «... davanti leone, dietro serpente, nel
mezzo capra»12 che dovrebbe rappresentare il cristianesimo
visto dal di dietro, allora avrei perfettamente ragione.
Se dicessi, inoltre, che questo summus philosophus dell’Accademia
Danese ha scribacchiato cose senza senso, come nessun altro mortale
ha fatto mai prima di lui, tanto che chi riuscisse a leggere la sua
opera più esaltata, la cosiddetta Fenomenologia dello
spirito13 senza aver l’impressione di trovarsi in un manicomio,
dovrebbe subito venirvi internato, allora continuerei ad avere non
meno ragione.
Ma così facendo lascerei all’Accademia Danese la scappatoia
di dire che la somma dottrina di quel saggio non può essere
compresa dagli intelletti mediocri come il mio, e che, ciò
che a me sembra non aver senso, ha invece un profondissimo
significato. Meglio allora cercare un appiglio più sicuro,
dal quale sia impossibile perdere la presa, e spingere l’avversario
in un vicolo cieco, senza alcuna via d’uscita.
Mi accingo quindi a dimostrare inconfutabilmente che a questo summus
philosophus dell’Accademia Danese manca addirittura un minimo di
comune buon senso. Che poi si possa essere un summus philosophus
anche senza possedere il comune buon senso, è una tesi che
l’Accademia Danese non potrà certo sostenere. Darò la
prova della sua mancanza di buon senso con tre diversi esempi,
tratti dal libro stesso dove Hegel avrebbe dovuto concentrarsi e
riflettere al massimo su quanto stava scrivendo. Sto parlando del
suo compendio per gli studenti, intitolato Enciclopedia delle
scienze filosofiche in compendio, il libro che un hegeliano ha
definito ‘la Bibbia degli hegeliani’.
In questo libro, nella sezione Fisica (paragrafo § 293, ii Ed.,
1827), Hegel tratta del peso specifico - che lui chiama ‘pesantezza
specifica’ - e contesta l’affermazione che il peso specifico dipenda
dalla diversità di porosità, con le seguenti
argomentazioni: «Un esempio di specificazione esistente della
pesantezza è fornito dal fenomeno che una sbarra di ferro, in
equilibrio sul suo punto d’appoggio, appena viene magnetizzata perde
il suo equilibrio e si mostra più pesante in un polo che
nell’altro. In questo caso una parte della sbarra viene inficiata in
modo tale da diventare più pesante senza modificare il suo
volume. La materia, la cui massa non è stata aumentata,
è diventata quindi specificamente più pesante».
In questo passo il summus philosophus dell’Accademia Danese fa il
seguente ragionamento: «Se una sbarra, in equilibrio sul suo
punto d’appoggio, diventa in seguito più pesante ad una
estremità, essa si piega da questo lato. Ma una sbarra di
ferro, quando viene magnetizzata, si piega da un lato, quindi, in
quel lato, la sbarra è diventata più pesante».
Un ragionamento analogo, degno di questa logica, è il
seguente: «Tutte le oche hanno due gambe; tu hai due gambe,
quindi tu sei un’oca».
Trasposto in forma categorica, il sillogismo Hegeliano suona
così: «Tutto ciò che diventa pesante da un lato
si piega da quel lato; questa sbarra magnetizzata si piega da un
lato; quindi questa sbarra è diventata più pesante da
quel lato». Questa è la sillogistica di quel summus
philosophus riformatore della logica, al quale tuttavia si sono
dimenticati di spiegare che in un sillogismo categorico e meris
affirmativis in secunda figura nihil sequitur [da semplici
affermazioni nella seconda figura non si può dedurre
nulla].14
Ma - parlando seriamente - è la logica innata che rende
impossibile, per un intelletto sano e retto, trarre conclusioni di
questo tipo. Orbene, l’assenza della logica innata è, per
definizione, mancanza di intelletto.
A questo punto non è necessario discutere su quanto un libro
di testo che contiene argomentazioni di questo tipo, e che parla di
aumento del peso senza aumento della massa, sia adatto per piegare e
contorcere l’intelletto retto di un giovane studente. E questo era
il primo esempio.
Il secondo esempio di mancanza di buon senso del summus philosophus
dell’Accademia Danese è documentato nel paragrafo § 269
dello stesso libro di testo, tramite l’affermazione: «La
gravitazione contraddice direttamente la legge d’inerzia,
poiché mediante la gravitazione una materia tende ad un’altra
a partire da sè stessa».
Ma dove sta la contraddizione? Non si riesce assolutamente a capire
perché il fatto che un corpo venga attratto - oppure respinto
- da un altro debba contraddire la legge d’inerzia. In entrambi i
casi, infatti, è il subentrare di una causa esterna
ciò che pone fine allo stato di quiete - o che modifica lo
stato di moto - che vigeva fino a quel momento. Ed una simile
idiozia viene scritta con la sfrontatezza di chi non capisce nulla!
Questo succede in un libro di testo per studenti, i quali vengono
così confusi - forse per sempre - riguardo ai primi concetti
fondamentali della fisica, che non dovrebbero essere estranei ad
alcun docente. Senza dubbio, quanto più immeritata è
la fama, tanto maggiore diventa la sfrontatezza!
Per chi sa pensare (ma questo non è il caso del nostro summus
philosophus, il quale regolarmente portava il pensiero solo in
bocca, come le osterie portano sulla loro insegna l’immagine di un
re che non vi ha mai messo piede) il fenomeno di un corpo che
respinge, o che attrae, un altro corpo è inspiegabile. In
entrambi i casi, infatti, alla base del fenomeno stanno delle
inesplicabili forze della natura, le quali - in quanto tali -
vengono date come presupposte in ogni spiegazione causale.
Quindi, quando un corpo viene attratto per gravitazione da un altro,
se uno dicesse invece che quel corpo ‘di per sè stesso’ tende
verso l’altro, dovrebbe anche dire, in occasione di un urto, che il
corpo che è stato urtato ‘di per sè stesso’ si
allontana dal corpo che lo ha urtato. Dovrebbe pertanto constatare
in entrambi i casi che la legge d’inerzia non è più
valida.
Ma la legge d’inerzia deriva direttamente dalla legge di
causalità, anzi, ne è esattamente la formulazione
reciproca. “Ogni cambiamento è l’effetto di una causa”, dice
la legge di causalità. “Dove nessuna causa agisce, non
subentra alcun cambiamento”, dice la legge d’inerzia.
Cosicché, se un evento contraddicesse la legge d’inerzia,
contraddirebbe anche la legge di causalità, quindi
contraddirebbe addirittura la coscienza a priori, poiché ci
mostrerebbe un effetto senza causa. Ammettere la possibilità
di un simile evento è la quintessenza della mancanza di
intelletto. E questo era il secondo esempio.
Il terzo campione della sua facoltà intellettiva innata viene
depositato dal summus philosophus dell’Accademia Danese nel
paragrafo § 298 del medesimo capolavoro, dove, polemizzando
contro la tesi della elasticità dei corpi tramite la
porosità, dice: «Anche se si ammette, in astratto, che
la materia è transitoria, non assoluta, nella pratica
però si rigetta tale ipotesi ... cosicché la materia
in effetti viene ammessa ... come ‘assolutamente indipendente,
eterna’. Questo errore viene introdotto mediante l’errore generale
dell’intelletto, secondo il quale …”.
Ma quale imbecille ha mai sostenuto che la materia15 è
transitoria? E chi definisce errore sostenere il contrario? Che la
materia persista - ossia che non sorga e che non sparisca, come
invece fa tutto il resto, ma che rimanga perennemente
indistruttibile, come pure non è mai stata creata,
cosicché il suo quantum [quantità] non può
né accrescere né diminuire - è una conoscenza a
priori tanto solida e sicura, quanto ogni conoscenza matematica.16
Anche solo immaginare il sorgere o lo scomparire della materia
è semplicemente impossibile, poiché una forma del
nostro intelletto [la legge di causalità] non lo consente.
Negare questo e dichiararlo un errore, significa addirittura
rinunciare all’uso dell’intelletto. E questo era il terzo esempio.
Proprio il predicato ‘assoluto’ può a buon diritto essere
attribuito alla materia, poiché esso indica che la sua
esistenza sta completamente al di fuori dell’ambito della
causalità. La materia infatti non rientra nella catena
infinita di cause e di effetti, dato che questa riguarda, e connette
tra di loro, solo i suoi accidenti, ossia gli stati e le
configurazioni della materia stessa.
Per questi, ossia per le modificazioni che la materia subisce, vale
la legge di causalità nel loro comparire e scomparire, non
per la materia stessa. Addirittura, solo per la materia il predicato
‘assoluto’ trova la propria legittimazione, grazie alla quale esso
diventa reale e ammissibile. Altrimenti sarebbe un predicato per il
quale sarebbe impossibile trovare alcun soggetto, sarebbe un
concetto campato in aria e irrealizzabile in nessun modo, non
sarebbe altro che un pallone gonfiato con cui giocano i filosofi
burloni.
Per inciso, la precedente affermazione di questo Hegel rivela
candidamente a quale filosofia da vecchie pettegole un così
sublime, ipertrascendente, acrobatico e profondissimo filosofo sia
puerilmente affezionato nel suo cuore, e quali leggi egli non abbia
mai tralasciato di porre in discussione.
In conclusione, il summus philosophus dell’Accademia Danese insegna
a chiare lettere che un corpo può diventare più
pesante senza l’aumento della sua massa e che questo sarebbe proprio
il caso di una sbarra di ferro quando viene magnetizzata. Inoltre,
che la gravitazione contraddice il principio d’inerzia, e infine che
la materia è transitoria.
Questi tre esempi bastano e avanzano per mostrare che cosa fa
bellamente capolino appena si apre un piccolo squarcio attraverso la
fitta coltre dell’insulsa gallimatia [chiacchiericcio insensato e
vano]17 che fa oltraggio alla ragione umana, nella quale il summus
philosophus è solito avvolgersi e presentarsi, per destare
impressione sul popolino degli intellettuali.
Si suol dire: ex ungue leonem [il leone si riconosce dall’unghia].
Ma io devo dire, decenter o indecenter [con o senza decenza]: ex
aure asinum [l’asino si riconosce dalle orecchie].
Tramite questi tre specimina philosophiae Hegelianae [saggi della
filosofia hegeliana] ogni persona giusta e imparziale potrà
ora stabilire chi indecenter commemoravit [ha commemorato in maniera
indecente]: colui che senza riserve ha definito ciarlatano un simile
docente di assurdità, oppure coloro che ex cathedra academica
[da una cattedra accademica] lo hanno definito summus philosophus?
Debbo inoltre aggiungere che, in un campionario così ricco di
assurdità di ogni tipo, come quello che le opere del summus
philosophus offrono, ho dato la precedenza a questi tre esempi
poiché, da un lato il loro oggetto non costituisce affatto un
difficile o insolubile problema filosofico (che proprio per questo
potrebbe lasciare adito ad una varietà di opinioni) e
dall’altro non si tratta neppure di verità fisiche speciali
(tali da presupporre ben precise conoscenze empiriche).
L’ho fatto solo perché in questi tre casi si tratta di
conoscenze a priori, ossia casi che chiunque può risolvere
semplicemente con un minimo di riflessione. Esprimere un giudizio
distorto su cose di questo tipo è un chiaro e inequivocabile
segno di una mancanza di intelletto del tutto insolita.
L’inserire spudoratamente dottrine insensate di questo tipo in libri
di testo per studenti ci mostra tuttavia quanta insolenza possa
impossessarsi di un cranio mediocre quando lo si proclama ‘grande
spirito’. Una esaltazione di questo tipo è un mezzo che
nessun fine può giustificare.
Assieme ai tre specimina in physicis [saggi di fisica] sopra
esposti, si prenda anche in considerazione il passo al paragrafo
§ 39 del medesimo capolavoro, che comincia con la frase:
«Inoltre, mentre alla forza repulsiva...», e si osservi
con quale infinita supponenza questo misero peccatore guarda
dall’alto la legge di gravitazione universale di Newton e i Principi
metafisici della scienza della natura di Kant. Chi ha pazienza legga
anche dal paragrafo § 40 al paragrafo § 62, dove il summus
philosophus espone in maniera stravolta la filosofia di Kant.
Incapace di apprezzare la grandezza dei meriti di Kant, e posto
dalla natura troppo in basso per poter gioire della comparsa
indicibilmente rara di uno spirito veramente grande, Hegel,
dall’alto della propria infinita supponenza, getta con disprezzo lo
sguardo su quel grandissimo uomo come su uno che lui surclassa cento
volte, e con freddo disprezzo, alternando ironia e compassione,
mette in evidenza - ad edificazione dei propri studenti - gli errori
e le inesattezze di alcuni deboli e scolareschi tentativi fatti da
Kant. Anche il paragrafo § 254 procede sullo stesso tono.
Questo atteggiamento - di trattare con supponenza chi, invece,
possiede veramente dei meriti - è una ben nota tattica di
tutti i ciarlatani, a piedi e a cavallo, che difficilmente manca di
fare colpo sui deboli di intelletto. Oltre a pastrocchiare cose
senza senso anche la supponenza è, infatti, il trucco
preferito di questo ciarlatano.
In ogni occasione, manifestando supponenza, fastidio, insolenza e
scherno, Hegel guarda dall’alto del suo castello di parole, non solo
le sottigliezze filosofiche degli altri, ma anche ogni altra scienza
e relativo metodo, ossia tutto quanto lo spirito umano nel corso dei
secoli è riuscito a conquistare con acutezza d’ingegno, con
fatica e con dedizione.
Con questa tattica egli è davvero riuscito ad infondere
un’alta opinione della propria sapienza, racchiusa in un
abrakadabra, presso il pubblico tedesco, il quale purtroppo pensa
proprio in questi termini: «Penso che siano nobili,
giacché hanno l’aria di scontenti e superbi».18
Giudicare con i propri mezzi è privilegio di pochi. La
maggior parte della gente si lascia invece guidare dall’esempio e
dall’autorità, vede con gli occhi e ascolta con le orecchie
degli altri. Per questo è facilissimo pensare ciò che
la gente pensa in questo momento. Ma pensare come la gente
penserà tra trenta anni non è cosa da tutti.
Chi, abituato alla estime sur parole [stima sulla parola], dopo aver
dato incautamente credito all’eccellenza di un determinato scrittore
e in seguito volesse far valere questa sua opinione anche ad altri,
potrebbe facilmente incappare nella medesima situazione di chi, dopo
aver accettato e girato una cattiva cambiale, nell’attesa di vederla
onorata, se la vede invece ritornare in protesto. Oltretutto
dovrà anche ingoiare la lezione di informarsi meglio, la
prossima volta, riguardo alla attività di chi l’ha emessa e
al nome di coloro che l’hanno girata.
Sinceramente penso che l’Accademia di Danimarca nel conferire il
titolo onorifico di summus philosophus a quell’imbrattatore di
carta, perditempo e guastatore di cervelli, sia stata pesantemente
influenzata dalle alte grida di elogio su di lui artatamente levate
in Germania e dal grande numero dei suoi partigiani. Per questo mi
sembra opportuno ricordare alla Regia Società di Danimarca un
bel passo tratto dall’opera principale di Locke (questo sì,
un vero summus philosophus) al cui onore va ascritto il fatto di
essere stato definito da Fichte come il peggiore di tutti i
filosofi:
«Nonostante il gran chiasso che vien fatto al mondo riguardo
agli errori e alle false opinioni, debbo rendere giustizia
all’umanità dicendo che non sono poi così tanti, come
si crede comunemente, coloro che sono preda di queste cose. Non
perché io pensi che loro conoscano la verità,
bensì perché rispetto a quelle dottrine per cui loro
stessi, e gli altri, si danno così tanto da fare di fatto non
hanno alcuna opinione e non pensano nulla.
Se, infatti, uno cercasse di discutere un po’ con la maggior parte
dei partigiani delle numerosissime sette al mondo riguardo al loro
credo scoprirebbe che, rispetto alle cose per le quali si battono
con tanto fervore, gli stessi partigiani non nutrono alcuna
opinione. Tanto meno avrebbe motivo per credere che essi abbiano
abbracciato quel credo in seguito a una verifica personale dei
motivi o ad una parvenza di verità. Loro, piuttosto, sono
decisi a rimaner aggrappati saldamente all’istituzione che li ha
reclutati per educazione o per interesse, esattamente come un
soldato semplice nell’esercito mostra coraggio ed entusiasmo
riguardo alle direttive del suo comandante, senza verificare mai la
causa per la quale combatte o, addirittura, senza neppure
conoscerla.
Se il modo di vivere di un uomo mostrasse che lui non tiene
seriamente conto della religione, perché dovremmo pensare che
lui si rompa la testa riguardo ai precetti della sua Chiesa e che si
sforzi di verificare il fondamento di questa o di quella dottrina? A
lui basta obbedire a chi lo guida e avere la mano e la lingua pronte
per sostenere la causa comune. In tal modo darà buona prova
di sé a coloro che gli possono dare credito, preferenza e
protezione nella società a cui appartiene.
In questo modo gli uomini finiscono con il professare e difendere
opinioni di cui non sono mai stati né convinti né
proseliti, anzi che a loro mai sarebbero passate per la testa.
Quindi, sebbene non si possa dire che il numero delle opinioni
inverosimili o errate al mondo sia minore di quanto risulta,
è tuttavia certo che il numero di coloro che vi aderiscono
realmente, e che erroneamente le ritengono per vere, è minore
di quanto comunemente si immagina».19
Locke ha ragione. Chi dà una buona paga trova immediatamente
un esercito, anche se la sua causa fosse la peggiore al mondo.
Elargendo sussidi adeguati si può sostenere (per un certo
tempo) non solo uno scadente candidato ma anche uno scadente
filosofo. Tuttavia Locke non ha tenuto conto, a questo proposito, di
un’intera classe di seguaci di idee sbagliate e di spacciatori di
falsa fama, quella che in realtà costituisce il truppone, il
gros de l’armée [grosso dell’esercito].
Mi riferisco alla moltitudine di coloro che non pretendono, ad
esempio, di diventare professori di hegelianeria né di godere
di particolari benefici ma, da semplici babbei e avvertendo la
completa impotenza della propria capacità di giudizio,
rifanno il verso di quelli che si sanno imporre su di loro,
accorrono ad ogni assembramento per marciare insieme e schiamazzano
all’unisono dovunque sentono gridare.
Pertanto, per completare anche sotto questo aspetto la descrizione
fatta da Locke di un fenomeno che si ripete in ogni epoca, voglio
riportare qui un passo del mio autore spagnolo preferito, che di
sicuro piacerà anche al lettore. È un saggio molto
divertente, tratto da un libro tanto eccellente quanto sconosciuto
in Germania. Questo passo dovrebbe in particolare servire da
specchio a molti giovani e vecchi bellimbusti in Germania che
tacitamente, ma profondamente, consapevoli della propria
inettitudine intellettuale fanno il coro ai furbacchioni nel lodare
Hegel fingendo di trovare profonda e meravigliosa saggezza nelle
esternazioni vuote o addirittura senza senso di quel filosofo
ciarlatano.
Dato che exempla sunt odiosa [gli esempi sono odiosi] dedico a tutti
quelli come loro la seguente lezione: nulla scredita dal punto di
vista intellettuale tanto, quanto ammirare e lodare le cose cattive.
Helvetius, infatti, osserva giustamente che «il livello di
spirito che gli altri devono avere per piacere a noi, è la
misura esatta del livello di spirito che noi stessi
abbiamo».20
Per un certo tempo si può anche tollerare il mancato
riconoscimento delle cose buone. Infatti, ciò che vi è
di eccellente in ogni disciplina, a causa della sua
originalità, ci giunge spesso così nuovo ed estraneo
che per essere colto al primo sguardo non basta solo l’intelletto,
ma ci vuole anche una grande educazione in quella disciplina. Per
questo, di solito, il riconoscimento del buono avviene tanto
più tardi quanto più esso è di natura elevata,
cosicché i veri fari dell’umanità condividono la
stessa sorte delle stelle fisse, la cui luce impiega molti anni
prima di arrivare quaggiù ed essere vista dall’occhio umano.
Non si può scusare, invece, l’ammirazione per le cose
cattive, false, prive di spirito o addirittura assurde e senza
senso, poiché in questo modo uno dimostra inconfutabilmente
di essere un imbecille e che tale rimarrà fino alla fine dei
suoi giorni. L’intelletto, infatti, non si apprende.
D’altro canto se una volta tanto, rispondendo ad una provocazione,
io tratto come si merita la hegelianeria (questa peste della
letteratura tedesca) sono sicuro che le persone oneste e
intelligenti che ancora si possono incontrare mi saranno grate.
Queste persone, infatti, saranno d’accordo con Voltaire e con Goethe
quando in sorprendente sintonia affermano che «il favore
concesso ai malvagi è tanto contrario al progresso dello
spirito, quanto la persecuzione dei buoni»21 e «il vero
oscurantismo non consiste nell’ostacolare la divulgazione del vero,
del chiaro e dell’utile, bensì nel mettere in circolazione il
falso».22
Quale epoca ha mai sperimentato una messa in circolazione di roba
cattiva, così programmata e violenta, come negli ultimi
vent’anni in Germania? Quale altra potrebbe mostrare un’analoga
apoteosi dell’insensato e del folle? A quale epoca i versi di
Schiller: «Ho visto il sacro alloro della gloria profanato su
una fronte volgare»23 sembrano essere destinati in maniera
così profetica?
La rapsodia [raccolta di passi] spagnola, che voglio qui allegare
per chiudere serenamente questa prefazione, è in sintonia con
la nostra epoca in maniera tanto sorprendente da destare il sospetto
che sia stata scritta nel 1840 invece che nel 1640. Devo quindi
precisare che è la fedele traduzione di un brano tratto da Il
Critico di Baltazar Gracian.
- Il comandante e commentatore dei nostri due viaggiatori24 ritenne
che, tra tutti, solo gli scalatori fossero da lodare, poiché
sono i soli che vanno nella direzione opposta a quella in cui tutti
gli altri vanno.
Erano appena arrivati quando la loro attenzione fu attratta da
alcuni suoni. Dopo essersi girati da ogni parte, scorsero su un
rozzo palcoscenico fatto di di tavole di legno un esperto
caposquadra circondato, come da una ruota da mulino, di gente che
stava proprio per essere ben lavorata e macinata. Egli li teneva
saldamente in pugno come prigionieri incatenati per le orecchie, ma
non con la catena d’oro del Tebano25 bensì con una briglia di
ferro.
Questo tizio dalla potentissima lingua lunga (una dote
indispensabile in questi casi) prometteva al pubblico cose
meravigliose: «Ed ora, signori miei voglio mostrarvi una
meraviglia alata, che allo stesso tempo è anche una
meraviglia di intelletto. Sono contento di aver a che fare con
persone intelligenti e dabbene. Tuttavia debbo far presente che se
fra di voi ci fosse per caso qualcuno sprovvisto di un intelletto
assolutamente straordinario, costui potrebbe anche andarsene via
subito, poiché le cose elevate e raffinate che stanno per
succedere qui saranno per lui incomprensibili.
Quindi attenzione, signori miei dotati di intelligenza e di
cervello. Sta ora per arrivare l’aquila di Giove, che sa parlare e
argomentare come le si addice, che scherza come uno Zoilo e
punzecchia come un Aristarco. Dalla sua bocca non uscirà una
sola parola che non racchiuda dentro di sè un mistero o un
pensiero acuto, con centinaia di riferimenti a centinaia di cose.
Tutto quanto lei dirà, saranno sentenze di una sublime
profondità26».
«Senza dubbio», disse Critilo «deve essere una
persona ricca o potente. Se fosse un povero, tutto ciò’ che
direbbe non servirebbe a nulla. Con una voce argentea si canta bene,
ma con un becco d’oro si parla ancora meglio».
«Orbene!», continuò il ciarlatano «a
partire da questo momento le persone che non sono proprio delle
aquile di intelligenza possono pure accomiatarsi. Qui, infatti, non
c’è più nulla che fa per loro».
Ma ... cosa succede? Nessuno se ne va? Nessuno si muove? Il fatto
è che nessuno pensava di essere debole d’intelletto.
Tutt’altro. Tutti si ritenevano intelligenti, avevano grande stima
del proprio intelletto e nutrivano di sé un’altissima
opinione. A quel punto il ciarlatano tirò una rozza briglia e
apparve il più stupido degli animali, il cui nome, solo a
pronunciarlo, sarebbe un oltraggio. «Ecco», gridò
l’imbroglione «ammirate quest’aquila dotata di tutti i
più brillanti attributi delle facoltà di pensiero e di
parola! Che a nessuno venga in mente di sostenere il contrario
altrimenti farebbe un oltraggio alla propria intelligenza».
«Santo cielo», gridò uno, «io vedo le sue
ali. Come sono splendide!». «Ed io», disse un
altro, «riesco addirittura a contare le sue penne. Come sono
raffinate!». «Ma voi, non le vedete?», chiese un
terzo ad un suo vicino. «Come no?», esclamò
quest’ultimo, «le vedo chiaramente!».
Ma un uomo onesto e intelligente disse al suo vicino:
«Onestamente io non vedo né aquila né piume.
Vedo piuttosto quattro zampe storte e una coda notevole».
«Stai zitto!» replicò il suo amico «Non
dirlo! Non ti svilire, altrimenti tutti penseranno che sei un grande
eccetera. Non senti cosa gli altri dicono? Non vedi come si
comportano? E allora segui la corrente!».
«Giuro su tutti i santi», disse un altro onest’uomo
«che quello non solo non è un’aquila, ma è
esattamente il suo contrario. Io dico che è un grande
eccetera». «Stai zitto!», disse il suo amico
dandogli una gomitata. «Vuoi che tutti ridano di te? Devi dire
solo che si tratta di un’aquila, anche se pensi il contrario.
Così facciamo tutti».
«Ma non avvertite», disse il ciarlatano «le
sottigliezze che pronuncia? Chi non le coglie e non le percepisce
deve proprio essere sprovvisto di genio».
In quell’istante saltò su un baccalaureato esclamando:
«Splendido! Che pensieri profondi! Le cose più perfette
al mondo! E che sentenze! Permettetemi di prenderne nota! Sarebbe un
peccato imperdonabile perdere una sola sillaba (e dopo la sua morte
pubblicherò i miei appunti)».27
Proprio in quel momento il meraviglioso animale lanciò quel
suo tipico verso capace di lacerare le orecchie e di far perdere
l’intendimento ad un’intera assemblea di consiglieri, e lo
accompagnò con una tale discarica di cose indecenti che tutti
rimasero sbigottiti e si guardarono l’un l’altro. «Ammirate,
ammirate, voi che siete persone gescheut [intelligenti]28»,
esclamò l’astuto imbroglione. «Ammirate e alzatevi in
punta di piedi! Questo è quello che si dice parlare! Esiste
forse un altro Apollo come questo? Cosa pensate della delicatezza
dei suoi pensieri e dell’eloquenza del suo linguaggio? Esiste forse
al mondo un intelletto più grande di questo?».
Gli astanti si guardarono allibiti. Nessuno pero’ osava fiatare
né esprimere cosa egli pensava veramente per non essere
scambiato per uno stupido. Anzi, tutti scoppiarono all’unisono in un
applauso e in un coro di elogi. «Ah, questo becco»,
esclamò una ridicola pettegola. «Questo becco mi
seduce. Starei ad ascoltarlo il giorno intero». «Che il
diavolo mi porti via con sé», disse sottovoce una
persona intelligente ma impaurita «se questo non è un
asino, e asino in ogni caso rimane. Tuttavia mi guarderò bene
dal dire apertamente una simile cosa».
«In fede mia», esclamò un altro, «quello
non era proprio un discorso, bensì un raglio, ma guai a chi
lo volesse affermare! Così va ora il mondo: la talpa viene
spacciata per una lince, il rospo per un canarino, la gallina per un
leone, e l’asino per un’aquila. Ma cosa m’importa del contrario? I
miei pensieri li tengo per me, dico quello che dicono gli altri e
lasciatemi vivere! Questo, dopo tutto, è ciò che
conta».
Critilo, di fronte a tanta bassezza da un lato e furberia
dall’altro, era fuori di sé: «È mai possibile
che la pazzia si impadronisca delle teste fino a questo
punto?», pensò. Ma il furfante, re degli spacconi, rise
sotto l’ombra del suo grosso naso e bisbigliò a lato, come un
commediante gioendo dentro sé: «Non li ho forse presi
in giro tutti? Potrebbe una ruffiana fare di meglio?». Di
nuovo diede loro da ingoiare centinaia di cose disgustose e ogni
volta esclamava: «Che nessuno mi venga a dire che non è
così, altrimenti si qualificherà come un
imbecille». A queste parole quel vile applauso si faceva
ancora più forte e anche Andrenio fece come tutti gli altri.
Critilo invece non ce la faceva più e voleva scoppiare. Si
rivolse al suo commentatore ammutolito, dicendo: «Per quanto
tempo costui dovrà approfittare della nostra pazienza, e fino
a quando rimarrai zitto? La sfrontatezza e la volgarità
stanno oltrepassando ogni limite». Quello allora rispose:
«Abbi pazienza. Fino a quando lo dirà il tempo.
Sarà il tempo. come è sempre successo, a ristabilire
la verità. Aspetta solo che il mostro volga il lato della
coda e vedrai che allora proprio coloro che adesso lo ammirano lo
malediranno».
E proprio questo successe quando l’imbroglione ritirò il suo
binomio aquila-asino (tanto falso il primo, quanto vero il secondo).
In quel medesimo istante, quà e là, si cominciava di
nuovo ad alzare la voce: «In fede mia», disse uno,
«quello non era affatto un genio, bensì un
asino». «Che stupidi siamo stati!», esclamò
un altro. E così si rincuoravano a vicenda, fino a quando
sbottarono: «Si è mai visto un imbroglio del genere?
Quello, in realtà, non ha detto una sola parola che avesse
significato e noi lo abbiamo applaudito. Insomma, si trattava di un
asino, ma la bardatura dovrebbero metterla a noi».
Subito dopo però riapparve il ciarlatano promettendo una
meraviglia ancora più grande: «Ed ora», disse,
«vi mostrerò niente di meno che un gigante famoso in
tutto il mondo, al cui fianco Encelado e Tifeo29 farebbero meglio a
non comparire.
Allo stesso tempo vorrei rammentare che chi gli griderà
«gigante!» farà la propria fortuna. Il gigante
infatti lo aiuterà ad ottenere grande stima, riverserà
su di lui un mucchio di ricchezze, un reddito di migliaia, anzi
decine di migliaia di piastre, inoltre onori, potere e un posto di
prestigio. Guai invece a chi non riconoscerà in lui un
gigante. Costui non solo non riceverà alcun beneficio, ma
addirittura cadranno su di lui fulmini e punizioni. Guardate tutti!
Ora arriva, ora si mostra: oh, come si staglia in alto!».
Una tendina si alzò e apparve un omuncolo che, anche se fosse
stato sollevato con una gru, non sarebbe risultato più
visibile. Alto come dal gomito alla mano, un nulla, un pigmeo da
ogni punto di vista, nel modo di essere e di fare. «Ed ora
cosa fate? Perché non esultate? Perché non applaudite?
Levate la vostra voce, oratori! Cantate, poeti! Scrivete, genii! Il
vostro coro sia: il famoso, lo straordinario, il grande
uomo!».
Tutti rimasero paralizzati e si domandarono vicendevolmente con gli
occhi: «Ma cosa ha di gigantesco? Quale tratto eroico vedete
in lui?». Tuttavia ben presto il gruppo di adulatori
cominciò a gridare sempre più alto: «Si, si! Il
gigante! Il primo uomo al mondo! Che grande principe era quello! Che
coraggioso maresciallo questo! Che eccellente ministro questo e
quello!». Immediatamente piovvero dobloni d’oro su di loro.
Gli autori si misero a scrivere, non più poesie, bensì
panegirici. I poeti, compreso Pedro Mateo30, si mangiavano le unghie
per l’impazienza di arraffare il pane.
E non c’era nessuno che osasse dire il contrario. Tutt’altro! Tutti
facevano a gara nel gridare: «Il gigante! Il grande, il
più grande gigante!». Ognuno, infatti, sperava di
ricevere un posto o una prebenda, e dentro di sè pensava:
«Come sono bravo a mentire! Quello non è ancora
cresciuto, anzi è proprio un nano. Ma che ci posso fare? Dite
voi cosa pensate e vedrete cosa ne ricaverete. Io invece, facendo a
mio modo, ho da mangiare, bere e vestire, posso brillare e diventare
una persona importante. Quindi sia pure come gli pare! Anche a
dispetto del mondo intero quello deve essere un gigante!».
Anche Andrenio seguendo la corrente cominciò a gridare:
«Il gigante! Il gigante, il colossale gigante!», e
subito piovvero su di lui regali e dobloni. Allora esclamò:
«Questa sì che è saggezza di vivere!».
Critilo guardava e stava per scoppiare: «Se non dico qualcosa,
esplodo», disse. «Non dire nulla», disse il
commentatore, «non correre incontro alla tua stessa rovina.
Aspetta solo che questo gigante volti le spalle e vedrai come la
situazione cambierà».
E così successe. Appena quello terminò la sua commedia
nel ruolo di gigante e si ritirò dietro la tenda, tutti
alzarono la voce: «Che stupidi siamo stati! Quello non era
affatto un gigante, bensì un pigmeo, insignificante e buono a
nulla», e si domandavano come sia potuto accadere. Allora
Critilo osservò: «Che differenza quando si parla di
qualcuno ancora in vita oppure dopo che è morto! Come il
discorso cambia quando uno è assente. Quanto grande è
la distanza tra lo stare sopra la testa oppure sotto i piedi della
gente». Ma gli imbrogli di quel moderno Sinone31 non erano
ancora finiti.
A questo punto si mise a fare il contrario: scelse degli uomini
eccellenti, dei veri giganti, e li spacciò per nani inetti e
buoni a nulla. E di nuovo tutti a dire di si, che quelli dovevano
proprio essere dei nani, senza che la gente osasse esprimere un
giudizio o una critica. Addirittura mostrò una fenice ed
affermò che era uno scarafaggio. E tutti dissero che era
esattamente così, che doveva essere proprio uno scarafaggio.
Qui termina la citazione di Gracian.
Questo è quanto basta per il summus philosophus, per il quale
l’Accademia di Danimarca crede seriamente di poter chiedere
rispetto, dandomi così l’opportunità, di fronte alla
lezione impartitami, di servirla con una contro lezione.
A questo punto debbo far notare che questi miei due trattati
avrebbero potuto essere pubblicati sei mesi in anticipo se non
avessi mantenuto il fermo proposito di attendere che la Regia
Accademia di Danimarca (come è giusto che sia e come tutte le
accademie sono solite fare) rendesse pubblico il suo giudizio finale
sullo stesso foglio sul quale è solita bandire all’estero i
suoi concorsi a premi (in questo caso, il Giornale letterario di
Halle). Ma l’Accademia non lo fa. Anzi bisogna addirittura farsi
mandare il giudizio finale da Copenhagen (cosa ancora più
difficoltosa, poiché la data della pubblicazione del giudizio
finale non è stata indicata nel bando del concorso). Ho
quindi deciso di procedere alla pubblicazione dei due trattati con
sei mesi di ritardo.32
Francoforte sul Meno, Settembre 1840.
Prefazione alla seconda edizione
In questa seconda edizione entrambi i trattati hanno ricevuto
considerevoli aggiunte, di solito brevi ma inserite in numerosi
passi, per migliorare la comprensione del contesto. A causa del
maggiore formato della presente edizione, la quantità di
aggiunte non può essere avvertita tramite il conteggio delle
pagine. Le aggiunte avrebbero anche potuto essere più
numerose se l’incertezza di non riuscire ad arrivare a vedere questa
seconda edizione non mi avesse indotto a inserire progressivamente
alcune considerazioni, pertinenti a questi due trattati, là
dove mi era possibile, in parte ne Il mondo come volontà e
rappresentazione (II, 47) e in parte nei Parerga e Paralipomena (II,
§ 8).
Qui dunque riappare in seconda edizione, dopo vent’anni, il Trattato
sul fondamento della morale che l’Accademia di Danimarca ha
rigettato e ricompensato solo con un pubblico rimprovero.
Al giudizio espresso dall’Accademia di Danimarca ho già
replicato come si doveva nella prima edizione. Nella sua prefazione
ho dimostrato innanzitutto che nel suo giudizio finale l’Accademia
nega di aver chiesto ciò che essa stessa aveva chiesto, e
afferma invece di aver chiesto ciò che non aveva affatto
chiesto. L’ho dimostrato in maniera talmente chiara, esauriente e
fondata che nessun sofista al mondo potrebbe obiettare qualcosa al
riguardo. Non è necessario sottolineare quanto ciò sia
importante. Ora pero’, dopo la più pacata riflessione
maturata in vent’anni, riguardo al comportamento dell’Accademia di
Danimarca in generale ho ancora da aggiungere quanto segue.
Se lo scopo di un’Accademia fosse quello di nascondere il più
possibile la verità, di soffocare con tutte le forze lo
spirito e il talento, di sostenere spavaldamente la fama di palloni
gonfiati e di ciarlatani, in quell’occasione l’Accademia Danese
avrebbe svolto egregiamente il proprio compito. Dato che non posso
soddisfare la richiesta che essa mi ha fatto (quella di mostrare
rispetto nei confronti di palloni gonfiati e di ciarlatani, elevati
al rango di grandi pensatori da prezzolati tessitori di lodi e da
babbei infatuati) vorrei piuttosto dare io all’Accademia di
Danimarca un utile consiglio.
Quando lor signori desiderano bandire un pubblico concorso a premi,
dovrebbero innanzitutto procurarsi una dose di capacità di
giudizio, giusto quanto basta per l’ordinaria amministrazione, per
essere in grado, all’occasione, di distinguere il frumento dal
loglio. Tra l’altro, se già in partenza si dispone piuttosto
male in secunda Petri [facoltà di giudizio]33 si rischia poi
di fare una brutta figura.
Infatti, al giudizio di Mida segue inesorabilmente il destino di
Mida. Nulla può evitarlo, né un muso lungo, né
una smorfia altezzosa possono essere d’aiuto. Prima o poi la
verità viene sempre a galla. Per quanto folta sia la parrucca
che ci si ficca sul capo, non mancano certo barbieri e cespugli di
canne indiscreti. Oltretutto, al giorno d’oggi non ci si prende
neppure la briga di scavare preventivamente una buca.34
A tutto questo va inoltre aggiunta la fanciullesca sfacciataggine di
impartirmi pubblicamente un rimprovero e di farlo stampare su
riviste letterarie tedesche. Il rimprovero di non essere stato io
tanto stupido da farmi suggestionare dal coro di lodi, intonato da
compiacenti creature ministeriali e cantato a lungo da una plebaglia
di letterati senza cervello, né da considerare summi
philosophi - come li definisce l’Accademia di Danimarca - alcuni
semplici ciarlatani che non hanno mai avuto a cuore la
verità, bensì solo il proprio interesse.
Ma questi accademici, non hanno mai pensato di porsi innanzitutto la
domanda, se mai avessero loro anche solo un’ombra del diritto di
impartirmi un pubblico rimprovero riguardo alle mie opinioni? Sono
stati forse abbandonati da tutti gli dèi a tal punto da non
pensare ad una cosa del genere?
Ma ora arrivano le conseguenze. La Nemesi [la dèa della
giustizia compensatrice] è arrivata e il cespuglio di canne
sta già mormorando. Nonostante l’opposizione pluriennale e
compatta di tutti i professori di filosofia, io finalmente ce l’ho
fatta e il pubblico istruito sta aprendo sempre di più gli
occhi riguardo ai summi philosophi dell’Accademia di Danimarca.
Anche se tenuti ancora un poco in piedi a stento da miserabili
professori di filosofia che si sono da lungo tempo compromessi con
loro e che hanno ancora bisogno di loro come materia di lezione, i
summi philosophi hanno perso molti punti nella pubblica stima.
In particolare, Hegel si sta avviando a grandi passi verso quel
disprezzo da parte dei posteri che spetta ai pari suoi. Negli ultimi
vent’anni l’opinione su di lui si è già avvicinata,
per tre quarti del cammino, a quella conclusione preannunciata
nell’allegoria di Gracian (riportata nella Prefazione alla prima
edizione). Tra pochi anni vi arriverà definitivamente, in
pieno accordo con quel mio giudizio che vent’anni prima aveva
procurato all’Accademia di Danimarca tam justam et gravem
offensionen [obiettivamente una grave offesa].
In cambio del rimprovero che essa mi ha somministrato, voglio
rendere omaggio all’Accademia di Danimarca con una poesia di Goethe,
da conservare nel loro album: «Puoi sempre lodare ciò
che vi è di cattivo. Addirittura ne riceverai un compenso!
Così rimarrai a galla nel tuo pantano e sarai il patrono dei
ciarlatani. Vuoi disprezzare ciò che vi è di buono? Ci
puoi provare! Funziona, se sei abile e insolente. Tuttavia, quando
la gente se ne accorgerà, ti ridurrà in poltiglia,
come ti meriti».35
Che i professori di filosofia tedeschi non abbiano ritenuto il
contenuto di questi miei due trattati degno di alcuna attenzione, e
tantomeno di considerazione, è una cosa del tutto ovvia (come
ho già spiegato nella mia dissertazione sul Principio di
ragione sufficiente, ii Ed.). Perché mai dei grandi spiriti
di questa specie dovrebbero prestare attenzione alle domande che
della gentucola come me si pone? Gentucola sulla quale loro gettano
nei loro scritti, al massimo di passaggio e dall’alto verso il
basso, uno sguardo di disprezzo e di disapprovazione.
Ciò di cui io parlo a loro semplicemente non interessa. Loro
continuerebbero ad affermare l’esistenza della libertà di
volere e della legge morale anche se le prove contrarie fossero
numerose come le more. Queste due tesi rientrano nel loro repertorio
d’obbligo. Loro infatti sanno benissimo per quale motivo occupano il
posto che occupano, in majorem Dei gloriam [per la somma gloria di
Dio]. Meriterebbero proprio di diventare, tutti quanti, membri della
Regia Accademia di Danimarca.
Francoforte sul Meno, Agosto 1860.
Trattato su
La libertà di volere
premiato dalla Regia Società Norvegese delle Scienze
Drontheim, 26 Gennaio 1839
La liberté est un mystère
(la libertà è
un mistero)
[Malebranche, La ricerca della verità]
Il quesito posto dalla Regia Società Norvegese delle Scienze
dice: «È possibile dimostrare l’esistenza del libero
arbitrio a partire dalla coscienza che l’uomo ha di sé
stesso?».36
i - Definizione dei concetti
Nell’affrontare un quesito così importante, serio e
difficile, che essenzialmente coincide con uno dei principali
problemi della filosofia medioevale e moderna, bisogna essere
estremamente precisi. È quindi opportuno analizzare
innanzitutto i concetti principali che compaiono nel quesito.
Cosa è la libertà?
Il concetto di libertà - se lo si analizza accuratamente - ha
un significato passivo. Con esso, infatti, noi pensiamo all’assenza
di qualcosa che impedisce o ostacola. Il concetto di impedimento o
di ostacolo, invece, ha un significato attivo poiché
manifesta la presenza una forza. A seconda della diversa natura di
ciò che può essere d’ostacolo, il concetto di
libertà si suddivide in tre differenti categorie:
libertà fisica, libertà della mente e libertà
di volere.
a) La libertà fisica consiste nell’assenza di qualsiasi
ostacolo materiale. Pertanto diciamo: cielo libero, vista libera,
aria libera, campo libero, posto libero, calore libero (non fissato
sulle molecole), elettricità libera [cariche mobili], flusso
libero di un ruscello (quando il suo corso non è più
ostacolato da monti o da chiuse), ecc. Anche le espressioni: vitto e
alloggio liberi, libera stampa e posta libera da affrancatura,
indicano l’assenza di quelle condizioni fastidiose che di solito
gravano su tali cose e che ne ostacolano il godimento.
Ma il più delle volte, nel nostro pensiero, il concetto di
libertà è il predicato degli esseri animali, la cui
peculiarità consiste nel fatto che i loro movimenti procedono
dalla loro volontà, sono volontari, e vengono definiti liberi
quando nessun ostacolo materiale li rende impossibili. Gli ostacoli
possono essere di vario tipo, tuttavia ciò che viene
ostacolata è sempre la volontà.
Per semplificare le cose, il concetto di libertà viene di
preferenza inteso in senso attivo e tramite questo concetto si
caratterizza tutto ciò che si muove solo per propria
volontà o che agisce solo in base ad essa. In ogni caso,
questa inversione del significato del concetto di libertà [da
passivo in attivo] non cambia sostanzialmente nulla. In questo
senso, gli animali e gli uomini vengono detti liberi quando le loro
azioni non sono ostacolate da lacci, sbarre, menomazioni degli arti,
ossia da nessun ostacolo materiale fisico in generale, bensì
procedono conformemente alla propria volontà.
Questo significato fisico del concetto di libertà - in
particolare, come predicato degli esseri animali - è
originario, immediato, quindi il più frequente. In questo
senso il concetto di libertà non è passibile di alcun
dubbio o controversia, anzi può sempre provare la propria
realtà tramite l’esperienza.
Appena un animale agisce secondo la propria volontà, esso
è per definizione fisicamente libero, senza prestare
attenzione a cosa abbia potuto influenzare in qualche modo la sua
volontà. Infatti, il concetto di libertà in questo
significato originario, immediato e popolare, fa riferimento solo al
suo poter agire, alla mancanza di ostacoli fisici all’azione.
Perciò si dice: libero è l’uccello nell’aria, libera
è la selvaggina nel bosco, libero è l’uomo per natura,
solo chi è libero è felice. Anche un popolo viene
detto libero, nel senso che esso è certamente governato da
leggi, ma leggi che lui stesso si è dato, cosicché in
questo modo il popolo può assecondare esclusivamente la
propria volontà. Anche la libertà di una
società va dunque annoverata tra le libertà fisiche.
Tuttavia appena ci scostiamo da questa libertà fisica e
prendiamo in considerazione gli altri due tipi di libertà,
non abbiamo più a che fare con il significato popolare,
bensì con il significato filosofico del concetto di
libertà. Questo evidentemente apre la strada a molte
difficoltà. [Tramite questo ampliamento] il concetto di
libertà si scinde in due classi nettamente distinte: la
libertà intellettuale e la libertà morale.
b) La libertà mentale - ciò che si vuole o che si
rifiuta secondo ragione (tÕ ˜koÚsion kaˆ tÕ
¢koÚsion kat¦ di£noian), secondo Aristotele
- verrà qui presa in considerazione solo per completare la
classificazione del concetto di libertà. Mi permetto quindi
di rinviarne la spiegazione alla fine di questo trattato, quando i
concetti necessari per la spiegazione saranno già stati
chiariti in precedenza, cosicché il concetto di
libertà mentale potrà essere chiarito in breve.
Tuttavia, in questa classificazione, il concetto di libertà
della mente, essendo strettamente imparentato con quello di
libertà del corpo, doveva trovare il suo posto accanto a
quello.
c) Prendo quindi subito in considerazione il terzo tipo di concetto
di libertà, quello morale, che è proprio il liberum
arbitrium [libero arbitrio] di cui si parla nel quesito posto dalla
Regia Società.
Sotto un certo aspetto questo concetto si riallaccia a quello di
libertà fisica, cosicché da questo punto di vista si
può anche comprendere il sorgere - necessariamente molto
più tardi - del concetto di libero arbitrio. Infatti, la
libertà fisica fa riferimento solo agli ostacoli materiali e
sussiste immediatamente quando questi vengono rimossi. Tuttavia in
parecchi casi si è osservato che l’uomo, anche quando non
è impedito da ostacoli materiali, viene trattenuto dal
compiere una determinata azione, che altrimenti sarebbe
perfettamente conforme alla sua volontà, da semplici motivi
come, ad esempio, una minaccia, una promessa, un pericolo e simili.
Ci si è posti, quindi, la domanda se l’uomo in simili
circostanze potesse ancora essere considerato libero, oppure se un
forte motivo contrario potesse realmente - analogamente ad un
impedimento fisico - ostacolare e rendere impossibile un’azione
conforme alla sua volontà.
Per il comune buon senso la risposta a questa domanda è che
un motivo non equivale mai ad un ostacolo fisico. Questo, infatti,
può facilmente sovrastare le forze del corpo mentre un motivo
non ha mai una forza illimitata, quindi non è in generale
irresistibile. Un motivo può’ essere superato da un motivo
contrario ancora più forte, quando tale contro-motivo si
presenta ed è in grado di determinare la volontà.
Spesso, infatti, vediamo che addirittura quello che è
comunemente ritenuto il più forte di tutti i motivi, ossia la
conservazione della vita, viene sopraffatto da altri motivi (ad
esempio, in caso di suicidio oppure del sacrificio personale in
favore degli altri, per le proprie idee o per altre ragioni).
Viceversa, si è anche constatato che tutti i gradi del
più atroce martirio sono stati talvolta superati sul banco di
tortura al solo pensiero di perdere la vita [nel caso si decidesse
di cedere alla tortura e confessare].
Anche se da queste considerazioni risulta lampante che i motivi non
esercitano di per sé una costrizione oggettiva, tuttavia
potrebbero esercitarne una soggettiva, valida solo per una
determinata persona. Rimane quindi aperta la domanda: «La
volontà dell’uomo è libera di decidere di fare una
cosa o l’altra?». In questo modo il concetto di
libertà, posto finora in relazione al potere, viene posto
anche in relazione al volere. Da qui sorge il problema della
libertà del volere.
Il concetto di libertà originario, empirico e popolare (la
libertà come mancanza di ostacoli), è incapace di
cogliere il problema della libertà del volere. Infatti,
secondo il concetto popolare “libero” significa semplicemente
“conforme alla propria volontà”, cosicché la domanda:
«La volontà dell’uomo è libera?»,
equivarrebbe alla retorica domanda: «La volontà
è conforme a sé stessa?».
In conformità al concetto popolare di libertà si suol
dire: «Io sono libero se posso fare ciò che
voglio» e già con questo “ciò che voglio” viene
sancita la libertà. Tuttavia, poiché ci stiamo
interrogando riguardo alla libertà del volere, la domanda
dovrebbe essere posta adeguatamente in questi termini: «Puoi
tu anche volere ciò che vuoi?». Con questa domanda
sembra che il volere dipenda da un altro volere a monte. Se la
risposta fosse affermativa, subito sorgerebbe una seconda domanda:
«Puoi tu anche volere, ciò che vuoi volere?».
La domanda iniziale verrebbe quindi rinviata indefinitamente ad uno
stadio successivo, dove ogni volere verrebbe supposto dipendere da
un altro volere precedente o più profondo. Per questa strada
si tenterebbe invano di raggiungere un volere indipendente ed
autonomo. Ma anche se si ammettesse l’esistenza di un simile volere,
tanto varrebbe allora assumere il primo come termine ultimo della
serie, cosicché la domanda verrebbe ridotta al secco:
«Puoi tu volere?».
Se la semplice risposta affermativa a questa domanda sia in grado di
sancire l’esistenza della libertà del volere è proprio
ciò che vorremmo sapere. Di conseguenza anche in caso di
risposta affermativa il problema dell’esistenza della libertà
del volere rimarrebbe aperto.
Il concetto empirico di libertà, tratto dallo agire, non
è in grado di prendere in considerazione il problema della
libertà del volere, poiché identifica “libero” con
“conforme alla volontà”.
Per estendere il concetto di libertà anche al volere lo si
deve modificare in modo da venir inteso in astratto. Questa
operazione è possibile se si intende la libertà come
assenza di qualsiasi necessità [ossia, libero è
ciò che non deve essere necessariamente in un determinato
modo, ma che potrebbe essere anche in un altro modo].
Bisogna innanzitutto chiarire il concetto di necessario. Cosa
significa necessario? La spiegazione consueta: «Necessario
è ciò, il cui contrario è impossibile, oppure
che non può essere altrimenti», è solo un gioco
di parole, una riformulazione del concetto di necessario che non
contribuisce minimamente al suo chiarimento. La reale spiegazione
è invece (a mio parere): «Necessario è
ciò che deriva da una ragione sufficiente»37. Questa
proposizione, come ogni definizione esatta, può anche essere
rovesciata.
A seconda che la ragione sufficiente sia logica, matematica o fisica
(quest’ultima è comunemente detta ‘causa’), la
necessità associata sarà logica (ad esempio, una
conclusione in seguito a determinate premesse), matematica (a. e.,
l’uguaglianza dei lati di un triangolo quando gli angoli sono
uguali) o realmente fisica (a. e., il subentrare dell’effetto non
appena si presenta la causa). In ogni caso, una volta che la ragione
sufficiente è data, la necessità è sempre
associata alla conseguenza con il medesimo rigore.
Solo fintanto che intendiamo qualcosa come conseguenza di una
determinata ragione sufficiente, riconosciamo quella cosa come
necessaria. E viceversa: appena scopriamo che qualcosa è la
conseguenza di una ragione sufficiente, comprendiamo che quella cosa
è necessaria, poiché ogni ragione sufficiente è
vincolante.
Questa spiegazione reale è talmente adeguata ed esauriente,
che ‘necessità’ e ‘conseguenza di una determinata ragione
sufficiente’ sono addirittura due concetti intercambiabili. Ognuno
dei due, infatti, può essere usato in ogni occasione al posto
dell’altro.38
Assenza di necessità equivale quindi ad assenza di una
determinante ragione sufficiente. Come contrario di ‘necessario’ si
considera giustamente il ‘casuale’ [contingente]. Questa definizione
non crea alcuna contraddizione [ogni fenomeno deve pur sempre avere
una causa!], poiché ciò che è casuale lo
è solo relativamente ad una determinata ragione sufficiente.
Infatti, nel mondo reale (dove effettivamente si incontra il
casuale) ogni fenomeno [di una determinata classe] è
necessario in riferimento alla ragione sufficiente [di quella
classe], mentre è casuale in riferimento a tutti gli altri
fenomeni [delle altre classi], con i quali condivide solo lo spazio
e il tempo.
Ciò che è libero - la cui peculiare caratteristica
è l’assenza di ogni necessità - non dovrebbe dipendere
assolutamente da alcuna causa e dovrebbe essere quindi definito come
ciò che è assolutamente casuale. Questo è un
concetto estremamente problematico - che non credo si possa neppure
pensare - ma che tuttavia, sorprendentemente, coincide con il
concetto di libertà. In ogni caso, libero è ciò
che non è necessario rispetto a nulla, che non dipende quindi
da alcuna ragione sufficiente.
In definitiva il concetto di libertà, se applicato alla
volontà dell’uomo, dovrebbe significare che una
volontà individuale nelle sue manifestazioni (atti della
volontà) non sarebbe assolutamente determinata da alcuna
ragione sufficiente, ossia da nessuna causa. Altrimenti,
poiché la conseguenza di una determinata ragione sufficiente
(di qualunque tipo essa sia) è in ogni caso necessaria, gli
atti della volontà dell’uomo non sarebbero liberi,
bensì necessari.
Proprio su questo si basa la definizione data da Kant, secondo la
quale la libertà è la facoltà di dare inizio
‘da sé’ ad una serie di cambiamenti. Questo ‘da sé’ -
se lo riconduciamo al suo vero significato originario - significa
‘senza una precedente causa’. Ma questa espressione equivale a
‘senza alcuna necessità’. Pertanto, sebbene la definizione
data da Kant conferisca al concetto di libertà l’impressione
di essere un concetto attivo (positivo), ad un esame più
accurato balza fuori la sua natura passiva (negativa).
Una volontà libera sarebbe una volontà che non
è determinata da alcuna ragione, ossia una volontà che
non è determinata assolutamente da nulla, poiché ogni
cosa che determina un’altra cosa deve essere una ragione sufficiente
(per le cose reali deve essere una ragione reale, una causa). Ogni
singola manifestazione di una simile volontà dovrebbe
procedere assolutamente, fin dal primissimo istante, dalla
volontà stessa, senza essere la necessaria conseguenza di
precedenti condizioni. Quindi, ogni atto di una simile
volontà dovrebbe essere determinato da nulla e secondo
nessuna regola.
Di fronte ad un simile concetto la nostra lucidità di
pensiero si offusca, poiché in questo caso dovremmo
rinunciare, in tutte le sue espressioni, al principio di ragione
sufficiente, il quale è la forma39 essenziale di tutta la
nostra facoltà conoscitiva. Per un simile concetto non manca
neppure il terminus technicus [termine tecnico], il cosiddetto:
liberum arbitrium indifferentiae [libero arbitrio di indifferenza
(nella scelta, a parità di condizioni)].
Questo concetto è il solo chiaramente definito, saldo e
deciso, di ciò che comunemente si intende per ‘libertà
di volere’. Da questo concetto non ci si può allontanare
senza incappare in spiegazioni fumose e capaci solo di confondere,
dietro le quali si nasconde una titubante indeterminatezza, come
quando si parla di una ragione sufficiente che non comporta
necessariamente la relativa conseguenza. Ogni conseguenza di una
ragione sufficiente è necessaria, e ogni cosa che avviene
necessariamente è la conseguenza di una ragione sufficiente.
Se si ammettesse l’esistenza di un simile liberum arbitrium
indifferentiae, la conseguenza immediata - che caratterizza questo
concetto e che deve quindi essere vista come la sua
peculiarità - sarebbe questa: per un individuo dotato di
libero arbitrio, nelle medesime circostanze interne (personali) ed
esterne, sono indifferentemente possibili due azioni diametralmente
opposte.
Cosa è la autocoscienza?
Risposta: l’autocoscienza è la coscienza di sé stesso,
in contrapposizione alla coscienza delle altre cose, la quale
è la facoltà di conoscere.
La coscienza delle altre cose, ancora prima che esse vi compaiano,
contiene determinate forme della conoscenza, riguardo al tipo e al
modo secondo cui le cose stesse vi possono comparire. Queste forme -
lo spazio, il tempo e la causalità - sono le condizioni della
possibilità dell’esistenza oggettiva delle cose, ossia della
loro esistenza come oggetti per noi.
Sebbene le forme della conoscenza si trovino dentro di noi, esse
servono solo per permetterci di avere coscienza delle altre cose
come tali e di stare in costante rapporto con esse. Queste forme,
nonostante stiano dentro di noi, non appartengono all’autocoscienza,
bensì alla coscienza delle altre cose, e devono essere intese
come ciò che rende possibile la conoscenza oggettiva.
Non mi lascerò sviare dal doppio significato del termine
latino conscientia che compare nel quesito, così da includere
nell'autocoscienza anche i famosi impulsi morali dell’uomo, meglio
noti con il nome di ‘coscienza morale’ o ‘ragione pratica’, insieme
al presunto imperativo categorico di Kant.
Innanzitutto perché gli impulsi morali subentrano solo in
seguito all’esperienza e alla riflessione, quindi in seguito alla
coscienza delle altre cose. In secondo luogo perché non
è affatto definita, nettamente e inconfutabilmente, la linea
di separazione tra ciò che di proprio e originale della
natura umana appartiene agli impulsi morali, e quanto l’educazione
morale e religiosa aggiunge loro.
Oltretutto il proposito della Reale Società non è
certamente quello di vedersi rinviare la sua domanda [è
possibile dimostrare il libero arbitrio a partire
dall’autocoscienza?] nel campo della morale, con il tirare la
coscienza morale dentro l’autocoscienza, e di vedersi così
ripetere la dimostrazione, o meglio, il postulato morale kantiano
della libertà a partire dalla legge morale - che secondo Kant
sarebbe nota a priori - tramite la conclusione: “Tu puoi,
perché tu devi!”.
Da quanto abbiamo detto risulta chiaramente che, di tutta la nostra
coscienza, la maggior parte non è costituita dalla coscienza
di sé, bensì dalla coscienza delle altre cose, ossia
dalla facoltà conoscitiva. Questa è, con tutte le sue
forze, rivolta verso l’esterno ed è il teatro - addirittura
la condizione, se indaghiamo più a fondo - del mondo esterno
reale. Essa, infatti, dapprima si limita ad afferrare intuitivamente
il mondo e poi - quasi ruminandoci sopra - elabora ciò che ha
così acquisito in concetti, dalla cui infinita combinazione,
perfezionata con l’uso della parola, sorge il pensiero.
L’autocoscienza sarebbe ciò che rimane dopo aver sottratto la
coscienza delle altre cose - di gran lunga, la componente maggiore -
dalla nostra coscienza complessiva. Con questo possiamo già
intuire che il patrimonio dell’autocoscienza non può essere
ampio.
Pertanto, se gli elementi che cerchiamo, per dimostrare l’esistenza
della libertà di volere, dovessero realmente giacere
nell’autocoscienza, potremmo confidare che non ci sfuggiranno. Come
organo dell’autocoscienza si è anche ipotizzato un senso
interno40, il quale comunque deve essere inteso più in senso
figurato che in senso proprio, poiché l’autocoscienza
è qualcosa di immediato.
In ogni caso la nostra prossima domanda è: “Cosa contiene
l’autocoscienza?”. Oppure: “Come l’uomo diventa immediatamente
cosciente di sé stesso?”. Risposta: “Come un essere che
vuole”.
Ognuno, nell’esaminare la propria autocoscienza, si rende
immediatamente conto che il suo oggetto è incessantemente il
proprio volere. Con questo termine non si devono intendere solo gli
atti della volontà che si traducono immediatamente in
movimenti del corpo e le risoluzioni formali a cui seguono le
azioni.
Chi è in grado di afferrare in qualche modo l’essenziale,
anche in mezzo alle varie modificazioni di grado e di tipo, non
avrà alcuna esitazione nell’annoverare tra le manifestazioni
del volere ogni bramare, sforzarsi, desiderare, pretendere,
sospirare, sperare, amare, felicitarsi, gioire, e simili. E anche,
nel senso opposto di non volere, ogni respingere, aborrire, fuggire,
temere, sdegnare, odiare, lamentare e soffrire.
In breve, tutti gli affetti e tutte le passioni possono essere
considerati come manifestazioni della volontà. Infatti, gli
affetti e le passioni sono semplicemente dei moti - più o
meno deboli o forti, talvolta violenti e tempestosi, talvolta blandi
e tenui - della propria volontà, libera od ostacolata,
soddisfatta o insoddisfatta. Essi si riferiscono tutti, in
molteplici espressioni, al conseguimento o al mancato conseguimento
di ciò che si vuole, e all'oppressione o alla liberazione da
ciò che si aborrisce. Essi sono, quindi, marcate affezioni
della volontà stessa, la quale diventa attiva nelle decisioni
e nelle azioni.41
Ai moti della volontà appartengono anche i cosiddetti
sentimenti di piacere o dispiacere. Questi si presentano in una
grande varietà di grado e di tipo, ma possono in ogni caso
essere ricondotti a sentimenti di desiderio o di avversione, ossia
alla volontà soddisfatta o insoddisfatta, ostacolata o libera
di procedere, la quale diventa cosciente di sé stessa. I moti
della volontà si estendono fino alle sensazioni corporee,
piacevoli o dolorose, e alle innumerevoli sensazioni che cadono
entro questi due estremi. L’essenza di tutti questi sentimenti,
infatti, consiste nell’entrare immediatamente nell’autocoscienza
come qualcosa di conforme o di contrario alla volontà.
Addirittura noi siamo immediatamente coscienti del nostro corpo - se
lo consideriamo con attenzione - solo come di un organo della
volontà che agisce verso l’esterno e come sede della
facoltà di provare sensazioni, piacevoli o dolorose, le quali
tuttavia fanno riferimento ad affezioni immediate della
volontà, ad essa favorevoli o contrarie.
Anche tenendo più o meno conto di queste semplici sensazioni
di piacere o di dolore, vediamo in ogni caso che tutti quei moti
della volontà - quell’alternanza di volere e non volere, la
quale nel suo continuo fluire e rifluire costituisce il solo oggetto
dell’autocoscienza (o se si preferisce, del senso interno) - stanno
in un rapporto continuo e universalmente riconosciuto con tutto
quanto viene percepito e conosciuto nel mondo esterno.
Il mondo esterno, invece, non rientra nell’ambito dell’autocoscienza
immediata, ai cui confini, dove essa si imbatte nel campo della
coscienza delle altre cose, si arriva non appena si tocca il mondo
esterno. Tuttavia, gli oggetti percepiti nel mondo esterno sono la
materia e lo spunto di tutti i moti e di tutti gli atti della
volontà. Questa affermazione non è affatto una petitio
principii [petizione di principio (pretendere di dimostrare qualcosa
che, invece, si dà già per scontato in partenza)].
Infatti, nessuno può mettere in dubbio che l’oggetto del
nostro volere siano sempre le cose esterne, verso le quali esso
è indirizzato, attorno alle quali esso gravita, e che, come
motivi, perlomeno lo sollecitano. Altrimenti rimarrebbe solo una
volontà completamente separata dal mondo esterno e
imprigionata nell’oscuro intimo dell’autocoscienza. L’unica cosa che
ci risulta per il momento problematica è la necessità
con cui le cose che si trovano nel mondo esterno determinano gli
atti della volontà.
Vediamo dunque che l’autocoscienza è fortemente, anzi quasi
esclusivamente, indaffarata con la volontà. Ma in questa sua
unica attività l’autocoscienza è davvero in grado di
trovare i data [gli elementi], dai quali derivi la libertà di
volere nel senso di libero arbitrio (l’unico senso chiaro e ben
definito)? Questo è problema sul quale vogliamo ora
concentrare la nostra attenzione e verso il quale ci vogliamo subito
dirigere, dopo averci finora solo girato attorno, seppure
avvicinandoci notevolmente.
ii - La volontà di fronte alla autocoscienza
Quando un uomo vuole, vuole qualcosa. Ogni atto della sua
volontà è sempre indirizzato verso un oggetto e
può essere pensato solo in relazione ad un oggetto. Ma cosa
significa ‘volere qualcosa’? Significa che un atto della
volontà - il quale, innanzitutto, è qualcosa che
appartiene solo all’autocoscienza - sorge in occasione di qualcosa
che appartiene alla coscienza delle altre cose, ossia, di un oggetto
della facoltà conoscitiva.
In questo rapporto con la volontà, questo oggetto della
facoltà conoscitiva viene denominato ‘motivo’ e costituisce,
allo stesso tempo, la materia dell’atto della volontà. A
esso, infatti, l’atto della volontà tende, si propone di
mutare qualcosa al riguardo e nei suoi confronti reagisce. In questa
reazione consiste tutta l’essenza dell’atto della volontà.
Già da questo risulta chiaramente che un atto della
volontà non potrebbe subentrare senza alcun motivo,
altrimenti gli verrebbero a mancare la materia e l’occasione. A
questo punto sorgono le seguenti domande:
“Quando il motivo si presenta alla facoltà conoscitiva,
l’atto della volontà deve necessariamente subentrare oppure
no? Potrebbe l’atto della volontà non subentrare affatto, o
essere completamente diverso, oppure addirittura l’esatto contrario?
Potrebbe quella reazione non aver luogo, oppure, nelle medesime
circostanze, essere diversa, addirittura di segno opposto?”
In breve:
“L’atto della volontà viene necessariamente provocato dal
motivo, oppure, anche quando il motivo è entrato nella
coscienza, la volontà dispone della piena libertà di
volere o di non volere [quell'atto]?”
In quest’ultima domanda il concetto di libertà viene inteso
in quel senso astratto precedentemente illustrato, il solo
utilizzabile nel caso si volesse applicare alla volontà il
concetto di libertà come semplice negazione della
necessità.
Detto questo, il nostro problema risulta perfettamente definito.
È nell’immediata autocoscienza che dobbiamo cercare i data
[gli elementi] per risolvere questo problema; a questo scopo
verificheremo accuratamente fino in fondo la loro esposizione da
parte dell’autocoscienza. Non lo faremo certo con una sommaria
decisione, tagliando il nodo, come fa Cartesio quando afferma
perentoriamente:
“Noi siamo talmente consapevoli della libertà e
dell’indifferenza nella scelta, a parità di condizioni, che
sta dentro di noi, che non esiste nulla che riusciamo a comprendere
con maggior evidenza e perfezione”.42
L’inammissibilità di questa affermazione è già
stata evidenziata da Leibniz43, il quale tuttavia, su questo preciso
argomento, è come una canna al vento. Infatti, dopo una serie
di affermazioni molto contraddittorie, Leibniz giunge alla
conclusione che la volontà viene sì inclinata dai
motivi, ma non necessariamente:
“Ogni azione è determinata e mai indifferente, poiché
sempre è data una ragione che induce - pur non obbligando
necessariamente - ad agire preferibilmente in un certo modo,
piuttosto che in un altro”.44
Questo mi offre l’opportunità di mettere in evidenza che una
simile via di mezzo, tra le alternative sopra citate, non è
sostenibile. Non si può - per una specie di amore della
indeterminatezza - sostenere che i motivi determinano la
volontà solo fino a un certo punto e che la volontà
risente sì della loro influenza, ma solo fino a un certo
grado, oltre il quale la volontà potrebbe sottrarsi al
motivo.
Infatti, non appena si riconosce la causalità di una
determinata forza, ossia che essa è efficace nei confronti di
una determinata resistenza, quella forza ha bisogno solo di
aumentare opportunamente la propria intensità - a seconda
della resistenza incontrata - per portare a compimento il proprio
effetto. Chi non si lascia corrompere con dieci ducati, ma esita, si
lascerà corrompere con cento, e così via.
Rivolgiamoci ora all’autocoscienza immediata con il nostro problema,
nel senso che abbiamo precedentemente stabilito. Quale risposta
fornisce l’autocoscienza a quella domanda astratta, circa
l’applicabilità - o meno - del concetto di necessità
al subentrare di un atto della volontà in seguito a un
determinato motivo, ossia dopo che un motivo è stato
presentato dalla ragione alla volontà? Oppure, quale
chiarimento ci fornisce riguardo alla possibilità - o meno -
che un atto della volontà avvenga anche senza un determinato
motivo?
Andremmo incontro a una grossa delusione se ci aspettassimo di
ricevere da parte dell’autocoscienza spiegazioni fondamentali e
profonde sulla causalità in generale, e sulla motivazione in
particolare, come pure sull’eventuale necessità che entrambe
comportano. L’autocoscienza infatti, così come è
radicata in ogni uomo, è troppo semplice e limitata per poter
affermare qualcosa al riguardo. I concetti di causalità e di
necessità derivano piuttosto dal puro intelletto, il quale
è indirizzato verso l’esterno, e possono essere dibattuti
esclusivamente di fronte al tribunale della ragione. L’autocoscienza
naturale, semplice e addirittura ingenua, non è neppure in
grado di intendere la domanda, tantomeno di dare una risposta.
La sua affermazione riguardo agli atti della volontà, che
ognuno può origliare nel proprio intimo, se la si spoglia di
tutto quanto c’è di estraneo e di non essenziale e la si
riduce al suo nudo contenuto, potrebbe essere sintetizzata in questo
modo:
“Io posso volere e, quando vorrò compiere un’azione, le
membra mobili del mio corpo subito la compiranno, non appena io lo
voglio, in modo del tutto inevitabile”.
Questo, in breve, significa:
“Io posso fare ciò che voglio”.
La risposta dell’autocoscienza immediata non va oltre, qualunque sia
il modo in cui la domanda viene posta e rigirata. La sua
affermazione, dunque, si riferisce sempre al poter fare
conformemente alla volontà. Ma questo è il concetto di
libertà empirico, originario e popolare (presentato nel
paragrafo I), secondo il quale ‘libero’ significa ‘conforme alla
volontà’. Questa è la libertà che
l’autocoscienza afferma incondizionatamente di possedere.
Ma non è questa la libertà di cui vogliamo sapere.
L’autocoscienza afferma la libertà di agire, dando per
scontato che esista già la volontà di farlo. Ma la
libertà di cui vogliamo sapere è la libertà di
volere. Noi ora stiamo indagando sul rapporto che intercorre tra il
volere stesso e il motivo. Riguardo a questo rapporto
l’affermazione: “Io posso fare ciò che voglio” non dice
nulla.
La dipendenza delle nostre azioni, ossia dei movimenti del nostro
corpo, dalla nostra volontà, che l’autocoscienza afferma
assolutamente, è qualcosa di completamente diverso
dall’indipendenza degli atti della nostra volontà dalle
circostanze esterne. Solo questa indipendenza sarebbe effettivamente
la libertà di volere. Ma sull’esistenza di questa
libertà di volere l’autocoscienza non può affermare
nulla, poiché essa cade al di fuori della sua sfera. La
libertà di volere, infatti, riguarda il rapporto causale tra
il mondo esterno - che ci è dato come coscienza delle cose
esterne - e le nostre decisioni.
L’autocoscienza non può esprimere alcun giudizio sulla
relazione tra ciò che sta completamente fuori e ciò
che sta dentro il proprio campo di competenza. Nessuna
facoltà conoscitiva, infatti, può stabilire alcun
nesso tra due termini, quando uno dei due le sfugge completamente.
È evidente che gli oggetti del volere - i quali determinano
l’atto della volontà - stanno oltre i confini
dell’autocoscienza, e precisamente dentro la coscienza delle altre
cose.
L’atto della volontà sta all’interno di questo secondo campo,
e noi vogliamo sapere della [eventuale] esistenza di un rapporto
causale tra l’atto della volontà e gli oggetti del volere.
L’autocoscienza, invece, si occupa solo dell’atto della
volontà e della sua assoluta padronanza sulle membra del
corpo. Quello: ‘Ciò che voglio’ sta a significare proprio
questa padronanza, ed è solo l’esercizio di questa padronanza
- ossia l’azione - che lo etichetta agli occhi dell’autocoscienza
come ‘atto della volontà’.
Infatti, fintanto che l’atto della volontà viene inteso nella
sua fase di maturazione, si chiama ‘desiderio’ e una volta
completata questa fase ‘decisione’. Ma che sia un vero e proprio
[deliberato] atto della volontà lo dimostra all’autocoscienza
stessa solo l’azione, poiché fino al momento della decisione
esso rimane qualcosa di mutevole.
Esattamente in questo punto ci troviamo di fronte alla sorgente
principale di quell’illusione - impossibile da negare - a causa
della quale l’uomo comune, ma filosoficamente rozzo, crede che a
lui, in una determinata circostanza, siano possibili atti della
volontà addirittura contrapposti, e si vanta della propria
autocoscienza, la quale - secondo lui - lo affermerebbe. Lo
sprovveduto infatti confonde il desiderare con il volere. Lui
può certo desiderare due cose opposte; ma volere, può
solo una delle due.45 E quale delle due sia la cosa voluta lo
dimostra anche all’autocoscienza solo e soprattutto l’azione.
Ma riguardo alla ferrea necessità associata alla legge di
causalità - in virtù della quale di due desideri
contrapposti solo uno, e non l’altro, diventa atto della
volontà e viene tradotto in azione - l’autocoscienza non
può chiarire nulla, poiché essa viene a conoscenza del
risultato solo a posteriori: a priori l’autocoscienza non lo sa.
Davanti a lei, infatti, i desideri di segno opposto, assieme ai loro
motivi, ondeggiano su e giù, in alternanza e ripetizione. Di
ciascuno dei desideri l’autocoscienza afferma che esso si
tradurrà in azione non appena diventerà un atto della
volontà. L’affermazione ‘Io posso fare ciò che voglio’
sta proprio a significare questa possibilità puramente
soggettiva, che ognuno ha ben presente.
Tuttavia questa possibilità soggettiva è solo
ipotetica. Essa dice solo: “Se io voglio questo, allora lo posso
fare”. Ma la determinazione necessaria per il volere non risiede
nell’autocoscienza, poiché essa contiene solo il volere, non
i motivi per determinare il volere stesso. I motivi risiedono invece
nella coscienza delle altre cose, nella facoltà conoscitiva.
È la possibilità oggettiva che dà il colpo
decisivo. Ma questa sta al di fuori dell’autocoscienza, nel mondo
degli oggetti, al quale appartengono sia il motivo e sia l’uomo
stesso in quanto oggetto. Essa è quindi estranea
all’autocoscienza e appartiene alla coscienza delle altre cose.
Quella possibilità soggettiva è simile alla
possibilità di una pietra di emettere scintille quando viene
colpita da una lama di acciaio. Essa è tuttavia condizionata
dall’acciaio, al quale spetta la possibilità oggettiva.
Arriveremo di nuovo a questa medesima conclusione lungo un altro
cammino nel prossimo paragrafo, dove prenderemo in considerazione la
volontà, non più dall’interno, bensì
dall’esterno, e dove indagheremo la possibilità oggettiva
degli atti della volontà. [Con quel supplemento di indagine]
questo punto, illuminato da due diversi lati, potrà essere
chiarito perfettamente e illustrato con esempi.
Il sentimento ‘Io posso fare ciò che voglio’, che sorge
nell’autocoscienza e che ci accompagna costantemente, afferma
semplicemente che le decisioni - ossia, gli atti deliberati della
nostra volontà - sebbene scaturiscano dall’oscura
profondità del nostro intimo, emergono sempre e
immediatamente nel mondo reale, poiché ad esso il nostro
corpo, come tutte le altre cose, appartiene.
Questa consapevolezza costituisce quindi il ponte tra il nostro
mondo interno e quello esterno, i quali, altrimenti, rimarrebbero
separati da un abisso incolmabile. Nel mondo esterno, infatti,
rimarrebbero, come oggetti, semplici intuizioni che non dipendono in
alcun modo da noi, mentre nel mondo interno rimarrebbero solo moti
della volontà del tutto sterili e semplicemente sentiti.
Se chiedessimo a un uomo comune delucidazioni riguardo a questa
consapevolezza immediata - che così spesso viene confusa con
la consapevolezza di una presunta libertà di volere - questa
sarebbe la sua risposta:
“Io posso fare ciò che voglio. Se voglio andare a sinistra,
vado a sinistra. Se voglio andare a destra, vado a destra. Questo
dipende esclusivamente dalla mia volontà, quindi io sono
libero”.
Questa affermazione è assolutamente vera e giusta. Tuttavia
essa dà per scontato che esista già la volontà
di fare una determinata cosa. Essa presuppone, infatti, che il
soggetto abbia già deciso. Pertanto, da questa affermazione
non si può concludere nulla riguardo al vero e proprio essere
liberi di volere. Questa affermazione, infatti, non dice
assolutamente nulla riguardo alla dipendenza, o alla indipendenza,
del sorgere di un atto della volontà. Essa dice solo qualcosa
riguardo alle conseguenze di un atto della volontà non appena
esso è sorto, o meglio, della sua ineluttabile manifestazione
come azione del corpo.
La consapevolezza, che sta alla base di quella affermazione,
è proprio ed esclusivamente ciò che spinge un uomo non
prevenuto [senza preconcetti], ma filosoficamente rozzo - il quale
tuttavia potrebbe essere anche un grande esperto in altri campi - a
ritenere che la libertà di volere sia qualcosa di così
immediatamente certo, da poterla proclamare come una verità
al di sopra di ogni sospetto. Un simile uomo non può
assolutamente credere che i filosofi abbiano avanzato seri dubbi
riguardo all’esistenza della libertà di volere. Dentro di
sé è convinto che tutte le discussioni al riguardo
siano solo una schermaglia verbale della dialettica accademica, ma
che in fondo si tratti solo di una burla.
È difficile far comprendere a una persona filosoficamente
rozza il vero senso del nostro problema e farle capire che la
domanda non concerne la conseguenza, bensì il presupposto di
ogni suo volere. Lui, infatti, ha sempre a portata di mano
quell’importantissima certezza che l’autocoscienza gli fornisce.
Inoltre lui - che è innanzitutto ed essenzialmente un essere
pratico, non teorico - è chiaramente consapevole dell’aspetto
attivo degli atti della sua volontà, della loro efficacia,
molto più che dell’aspetto passivo, ossia della loro
dipendenza dai motivi.
È vero che il suo agire dipende esclusivamente dal suo
volere, tuttavia noi ora vogliamo sapere da cosa dipende il suo
volere: non dipende assolutamente da nulla oppure dipende da
qualcosa? Lui può senza dubbio fare una determinata cosa, se
la vuole, oppure fare indifferentemente un’altra cosa, se è
quest’altra che lui vuole. Ora dovrebbe meditare sulla
possibilità di volere contemporaneamente tanto la prima
quanto la seconda cosa.
A questo proposito, poniamogli la domanda in questo modo:
“Quando dentro di te sorgono due opposti desideri, puoi tu realmente
dar seguito indifferentemente tanto a uno quanto all’altro? Ad
esempio, dovendo scegliere tra il possesso di due oggetti
incompatibili l’uno con l’altro, puoi tu indifferentemente preferire
tanto l’uno quanto l’altro?”.
Lui risponderà:
“Forse sarebbe difficile fare una scelta. Tuttavia, se io volessi
scegliere l’una o l’altra cosa dipenderebbe esclusivamente da me, e
da nessun’altra forza. Io ho piena libertà di scegliere
ciò che voglio, e a questo proposito asseconderò
sempre ed esclusivamente la mia volontà”.
Se a questo punto gli domandassimo:
“Ma, riguardo al tuo stesso volere, da cosa esso dipende?”,
egli, facendo riferimento alla propria autocoscienza,
risponderà:
“Da nient’altro che da me! Io posso volere ciò che voglio:
ciò che voglio, lo voglio io”.
Lui pronuncia quest’ultima frase non con il proposito di dire una
tautologia [proposizione nella quale il predicato non aggiunge nulla
a quanto già contenuto nel soggetto] e neppure poggiandosi
nell’intimo della propria coscienza sul principio logico di
identità, solo grazie al quale questa frase [ciò che
voglio, lo voglio io] è vera.
Tuttavia, messo alle corde su questo punto, egli parla del suo
volere il proprio volere, come se parlasse di un Io del suo Io. Lo
abbiamo così sospinto fin dentro al nucleo della sua
autocoscienza, dove lui trova il suo Io inscindibilmente connesso
con la sua volontà, ma dove non ha a disposizione nulla per
esprimere un giudizio su entrambi.
Ma in quella scelta - date la persona che sceglie e le due cose da
scegliere - potrebbe il suo stesso volere una cosa, e non l’altra,
eventualmente risultare diverso da come poi alla fine risulta?
Oppure, date quelle determinate premesse [stessa persona e stesse
cose], il suo volere si pronuncerebbe necessariamente a favore di
una delle due cose con la stessa necessità con la quale in un
triangolo il lato maggiore è opposto all’angolo maggiore?
Questa è una domanda talmente estranea alla naturale
autocoscienza, che non si può neppure pretendere che essa la
intenda e tantomeno che abbia una risposta pronta - anche solo come
un germoglio ancora da sviluppare - e possa darla spontaneamente,
seppur ingenuamente.
Probabilmente l’uomo non prevenuto, ma filosoficamente rozzo, di
fronte alla perplessità che quella domanda comporterebbe
qualora venisse realmente intesa, cercherà di nascondersi
ancora dietro quella certezza immediata:
“Io posso fare ciò che voglio, e io voglio ciò che
voglio io”,
di cui abbiamo precedentemente detto. Egli cercherà di farlo
continuamente, innumerevoli volte, tanto che sarà difficile
inchiodarlo di fronte alla vera domanda, alla quale lui cerca sempre
di sottrarsi. E non possiamo neppure prendercela con lui,
poiché la domanda è davvero imbarazzante.
Questa domanda, infatti, fruga con la mano nella più intima
essenza dell’uomo. Essa vuol sapere se l’uomo costituisce una
eccezione al mondo, oppure se è un essere come tutti gli
altri, determinato una volta per tutte dalla propria natura, il
quale ha determinate e persistenti proprietà, dalle quali
procedono poi necessariamente le sue reazioni al presentarsi delle
occasioni esterne. Da parte della natura personale le reazioni di un
determinato uomo hanno un carattere immutabile. Di conseguenza le
sue reazioni, per quanto riguarda ciò che in esse ci
può essere di modificabile, rimangono completamente in balia
della determinazione provocata delle occasioni esterne.
Anche se alla fine si riuscisse ad inchiodarlo di fronte a questa
domanda così difficile e a fargli capire che qui si vuol
indagare sull’origine stessa degli atti della sua volontà,
sull’esistenza di una qualsiasi regola oppure sulla totale mancanza
di regole nel loro sorgere, si scoprirebbe che l’autocoscienza
immediata non contiene alcuna informazione riguardo all’oggetto
della domanda.
L’uomo comune, infatti, si sottrae a questa indagine e dimostra di
non sapere cosa rispondere tramite ripensamenti e tentativi di
spiegazione di ogni tipo, le cui ragioni egli cerca di prelevare sia
dall’esperienza personale e degli altri, sia dalle comuni regole del
buon senso. Ma in questo modo, l’incertezza e la titubanza delle sue
spiegazioni mostrano a sufficienza che l’autocoscienza immediata, di
fronte a quella domanda ora chiaramente intesa, non gli fornisce una
risposta altrettanto pronta quanto prima, di fronte alla stessa
domanda malamente intesa.
Questo è dovuto, in ultima analisi, al fatto che la
volontà dell’uomo è il suo vero e proprio Io, il vero
nucleo della sua essenza. La volontà costituisce il
fondamento della sua coscienza come qualcosa di semplicemente dato e
presente, oltre il quale l’uomo non può andare. L’uomo
infatti è come lui vuole, e vuole come lui è. Chiedere
a un uomo: “Potresti volere altrimenti da come vuoi?”, è come
chiedergli: “Potresti essere un altro, diverso da quello che sei?”.
E questo lui non lo sa.
Quindi anche il filosofo - che si distingue dall’uomo comune solo
grazie all’esercizio [della filosofia] - se vuole fare chiarezza su
questo difficile problema deve rivolgersi, come ultima e unica
istanza competente, innanzitutto al proprio intelletto che gli
fornisce conoscenze a priori, poi alla ragione che sopraintende a
queste conoscenze, e infine all’esperienza che gli mostra il proprio
e l’altrui comportamento per spiegare e verificare queste
conoscenze.
Una decisione tramite queste facoltà non è cosa
facile, immediata e semplice come tramite l’autocoscienza, tuttavia
essa sarà sufficiente per dare una risposta alla nostra
domanda. È stata la testa a formularla ed è la stessa
testa che deve darle una risposta.
D’altro canto non desta sorpresa che l’autocoscienza immediata non
sia in grado di rispondere a una domanda così astrusa,
speculativa, difficile e profonda. L’autocoscienza è infatti
solo una parte limitata della nostra intera coscienza, la quale,
oscurata nella direzione del proprio intimo, è orientata
verso l’esterno con tutte le sue forze oggettive di conoscenza.
Tutte le conoscenze perfettamente sicure, quindi a priori,
riguardano esclusivamente il mondo esterno, dove essa può
decidere con sicurezza - secondo leggi certe e universali, che
affondano le loro radici dentro la coscienza stessa - cosa è
possibile, o impossibile, e necessario. Attraverso questa via essa
porta alla luce a priori la matematica pura, la logica pura, e
addirittura i fondamenti della fisica pura.
L’applicazione delle forme spazio, tempo e causalità (di cui
l’intelletto è consapevole a priori) ai dati forniti dalla
percezione sensoriale dà origine all’intuizione del mondo
reale, quindi all’esperienza. In seguito, l’applicazione della
logica e della facoltà di pensare (che sta alla base della
logica stessa) a quel mondo esterno produce i concetti e il mondo
dei pensieri, tramite i quali sorgono - a loro volta - le scienze,
le loro applicazioni, ecc.
Là fuori, dunque, di fronte allo sguardo della coscienza
c’è molta luce e chiarezza. Dentro, invece, regna il buio,
come in un cannocchiale tappato. Nessuna legge a priori illumina la
notte del proprio intimo, poiché i fari illuminanti della
coscienza sono orientati solo verso l’esterno. Davanti al cosiddetto
senso interiore non si trova altro che la propria volontà, ai
moti della quale vanno attribuiti anche tutti i cosiddetti
sentimenti interiori.
Tutto ciò che questa percezione intima della volontà
produce si riduce al volere o al non volere, oltre alla tanto
celebrata certezza:
“Io posso fare ciò che io voglio”.
Questa in realtà dice solo:
“Io vedo ogni atto della mia volontà tradursi subito - in un
modo per me del tutto inspiegabile - in un movimento del mio corpo”.
Per il soggetto che conosce questa affermazione è - a rigore
- solo una legge empirica. Oltre a questa, nell’autocoscienza non
troviamo più nulla. Pertanto, riguardo alla domanda che
è stata posta, il tribunale al quale ci siamo rivolti
è incompetente. Anzi, questa domanda, nel suo vero
significato, non può neppure essere posta all’autocoscienza,
poiché questa non è in grado di intenderla.
Riassumiamo brevemente e semplicemente il risultato della ricerca
che abbiamo condotto sull’autocoscienza.
L’autocoscienza afferma chiarissimamente che l’uomo può fare
ciò che vuole. Siccome l’uomo può supporre di volere
anche due azioni diametralmente opposte, ne deduce che lui potrebbe
anche compierle, se lo volesse. Così un intelletto
filosoficamente rozzo confonde questa supposizione con la
possibilità di volere in una determinata circostanza anche
due cose opposte, e la chiama ‘libertà di volere’.
Tuttavia l’affermazione “Io posso fare ciò che voglio” non
implica necessariamente che io, in una determinata circostanza,
possa volere contemporaneamente due cose opposte. Essa dice soltanto
che, tra due azioni diametralmente opposte, se volessi la prima,
potrei compiere la prima, mentre se volessi la seconda, potrei
compiere la seconda. Quindi il problema che in una determinata
circostanza io possa volere una cosa oppure un’altra, rimane
completamente aperto e necessita di una ricerca più
approfondita, poiché la semplice autocoscienza non è
in grado di risolverlo.
Il modo più conciso - seppure scolastico - di esprimere
questo risultato è il seguente: le affermazioni
dell’autocoscienza riguardano la volontà semplicemente a
parte post [a posteriori], mentre l’interrogativo sulla
libertà di volere riguarda la volontà a parte ante [a
priori].
La inconfutabile affermazione dell’autocoscienza: “Io posso fare
ciò che voglio”, non contiene e non afferma nulla riguardo
alla libertà di volere . Questa, infatti, consisterebbe nel
fatto che ogni atto della volontà in ogni singolo caso -
quindi per il particolare carattere di un uomo - non viene
determinato necessariamente dalle circostanze esterne in cui
quell’uomo si trova. Essa afferma soltanto che l’uomo potrebbe
compiere un’azione oppure un’altra. Ma riguardo alla decisione [di
compiere l’una o l’altra] l’autocoscienza rimane completamente muta,
poiché la questione cade completamente al di fuori della sua
competenza, andando a toccare il rapporto causale tra il mondo
esterno e l’uomo.
Se domandassimo a un uomo dotato di buon senso, ma senza alcuna
educazione filosofica, in cosa consiste la libertà di volere
(così risolutamente sostenuta da quella affermazione della
sua autocoscienza), questa sarebbe la sua risposta:
“Nel fatto che io potrei fare ciò che voglio, se nessun
ostacolo me lo impedisse fisicamente”.
Egli continuerebbe, quindi, a parlare del nesso tra le sue azioni e
la sua volontà. Ma questa (come abbiamo detto nel paragrafo
I) è semplicemente la libertà fisica.
Se gli chiedessimo poi se lui, in un determinato caso, potrebbe
volere contemporaneamente una cosa e l’opposto di quella stessa
cosa, di primo acchito risponderebbe affermativamente. Tuttavia
appena lui comincia ad afferrare il senso della domanda, ecco che
diventa pensieroso, per poi mostrare insicurezza e confusione, delle
quali riesce a sbarazzarsi ritornando al solito ritornello “Io posso
fare ciò che voglio” e trincerandosi dietro questo,
nonostante ogni argomento e ragionamento contrario.
Invece, la risposta corretta (come spero di dimostrare oltre ogni
dubbio nel prossimo paragrafo) è:
“Tu puoi fare ciò che vuoi, ma in ogni determinata
circostanza della tua vita tu puoi volere solo una determinata cosa
e nessun’altra che quella”.
In base alle considerazioni fatte in questo paragrafo, possiamo
già rispondere alla domanda posta dalla Regia Società
(“È possibile dimostrare il libero arbitrio a partire dalla
coscienza che l’uomo ha di sé stesso?”). Si tratta di una
risposta negativa, anche se solo nella sostanza. Nel paragrafo
seguente l’illustrazione dello stato di fatto all’interno
dell’autocoscienza verrà ulteriormente perfezionata.
Di questa nostra risposta negativa - seppure temporanea - si
potrebbe anche avere un’ulteriore verifica. Infatti, se girassimo
questa domanda alle uniche autorità competenti, alle quali
siamo stati precedentemente rinviati - innanzitutto all’intelletto,
poi alla ragione che riflette sui dati forniti dall’intelletto, e
infine all’esperienza che deriva dall’opera di entrambi - e se
questi ci rispondessero che non esiste assolutamente alcun libero
arbitrio, bensì che l’agire umano, come ogni cosa in natura,
in ogni determinato caso è un effetto che avviene
necessariamente, avremmo la certezza che l’autocoscienza immediata
non contiene alcun dato tramite il quale si possa dimostrare
l’esistenza del libero arbitrio.
Quindi, in base al principio a non posse ad non esse [se una cosa
non è possibile, non può neppure esistere] - il solo
valido per negare a priori l'esistenza di qualcosa - la risposta
negativa che abbiamo dato guadagnerebbe anche un fondamento
razionale, oltre a quello empirico precedentemente illustrato, e
diverrebbe così doppiamente sicura. Infatti, una così
netta contraddizione tra le affermazioni immediate
dell’autocoscienza ed i risultati che derivano dai principi del puro
intelletto e dalla loro applicazione all’esperienza, non è
ammissibile. Così ingannatrice non può essere la
nostra autocoscienza.
A questo proposito bisogna notare che la presunta antinomia kantiana
riguardo alla libertà, anche secondo lo stesso Kant non
dovrebbe scaturire dal fatto che tesi e antitesi procedono da due
diverse fonti di conoscenza, come se, ad esempio, la tesi procedesse
dalle affermazioni dell’autocoscienza, mentre l’antitesi dalle
affermazioni della ragione e dell’esperienza. Tesi e antitesi,
invece, vengono entrambe dedotte con sottili ragionamenti da due
presunte ragioni oggettive. Solo che la tesi pioggia sulla pigrizia
della ragione - ossia sulla necessità di porre fine in
qualche modo ad una regressione infinita - mentre l’antitesi ha
dalla sua parte ragioni realmente oggettive.46
La ricerca indiretta che dobbiamo quindi svolgere nel campo della
facoltà conoscitiva e del mondo esterno che le sta di fronte,
getterà allo stesso tempo molta luce sulla ricerca diretta
che abbiamo finora condotto [sull’autocoscienza] e la
completerà. Essa, infatti, ci consentirà di scoprire
le numerose illusioni che sorgono dall’errata interpretazione di
quell’affermazione estremamente riduttiva dell’autocoscienza (“Io
posso fare ciò che voglio”), quando essa entra in conflitto
con la coscienza delle altre cose, ossia con la facoltà
conoscitiva, la quale affonda le sue radici nel medesimo soggetto
dotato di autocoscienza.
Solo alla conclusione di questa ricerca indiretta si farà
luce sul vero senso e sul vero contenuto di quello “Io voglio” che
accompagna ogni nostra azione, e sulla consapevolezza
dell’originalità e dell’autonomia, grazie alle quali siamo
noi i responsabili delle azioni che compiamo. Così la ricerca
diretta fin qui condotta sarà finalmente completata.
iii - La volontà di fronte alla coscienza delle altre cose
Se ora, con il nostro problema, ci rivolgiamo alla facoltà
conoscitiva, sappiamo già in partenza che, essendo questa
facoltà essenzialmente indirizzata verso l’esterno, per essa
la volontà non può essere oggetto di immediata
percezione come lo era per l’autocoscienza (la quale tuttavia si
è dimostrata incompetente riguardo al nostro problema).
Sappiamo anche che - per quanto concerne il nostro problema - la
facoltà conoscitiva può prendere in considerazione
solo gli esseri dotati di volontà come oggettivi fenomeni
esterni, ossia come oggetti dell’esperienza. Come tali, essi vanno
esaminati e giudicati, in parte secondo le regole universali [le
forme della conoscenza, in particolare la causalità], certe a
priori, che rendono possibile l’esperienza in generale, e in parte
secondo i dati di fatto che l’esperienza, compiuta e reale,
fornisce.
Ora abbiamo a che fare non più - come prima - con la
volontà stessa, così come essa si manifesta solo al
senso interno, bensì con gli esseri che vogliono, i quali
sono mossi dalla volontà e sono oggetto dei nostri sensi
rivolti verso l’esterno.
Anche se ora abbiamo lo svantaggio di dover esaminare l’oggetto
della nostra ricerca solo indirettamente e da una maggiore distanza,
tuttavia esso verrà ampiamente compensato dal vantaggio di
disporre, per la nostra ricerca, di un organo ben più
perfetto dell’oscura, cupa, unilaterale e immediata autocoscienza
(il cosiddetto senso interno).
Ora, infatti, disponiamo dell’intelletto armato di tutti i sensi
esterni e di tutte le forze per la conoscenza oggettiva. Come forma
generale e fondamentale dell’intelletto troviamo la legge di
causalità, poiché solo tramite essa sorge l’intuizione
del mondo reale esterno
In virtù di questa legge noi possiamo subito e direttamente
avvertire come ‘effetti’ le affezioni e i mutamenti percepiti dai
nostri organi di senso e passare istantaneamente - senza istruzione,
apprendimento ed esperienza - alle loro ‘cause’, le quali, a partire
da questo momento e proprio grazie a questo processo intellettivo,
si configurano come oggetti nello spazio.47
Questo [procedimento ad opera dell’intelletto] dimostra chiaramente
e inconfutabilmente che la legge di causalità deve
necessariamente essere nota a priori, affinché sia possibile
in generale l’esperienza. Non abbiamo quindi bisogno della
dimostrazione indiretta - difficile e addirittura insufficiente -
che Kant ha dato di questa importante verità. La legge di
causalità vige a priori, come regola generale alla quale
tutti gli oggetti reali del mondo esterno sono sottoposti, senza
eccezione alcuna. La inammissibilità di eccezioni è
dovuta proprio alla sua apriorità.
Questa legge si riferisce essenzialmente ed esclusivamente ai
mutamenti, e afferma che, laddove e quando, nel mondo oggettivo
reale e materiale, qualche cosa - grande o piccola, molto o poco -
muta il proprio stato, immediatamente prima di questo cambiamento
un’altra cosa deve aver necessariamente mutato il proprio stato.
Analogamente, prima del mutamento di questa seconda cosa, una terza
deve aver necessariamente mutato il proprio stato, e così via
all’infinito, senza poter mai scorgere o anche solo pensare come
possibile, né tantomeno presupporre, un punto d’inizio
qualsiasi di questa sequenza regressiva di mutamenti, la quale
riempie il tempo come la materia riempie lo spazio.
Instancabilmente, infatti, si pone di nuovo la domanda: “Cosa ha
prodotto a sua volta questo mutamento?”, la quale non concede mai
più alcuna tregua all’intelletto, per quanto stanco esso
possa essere in questa corsa a ritroso. L’esistenza di una causa
prima è quindi altrettanto impensabile quanto l’esistenza di
un inizio del tempo o di un limite dello spazio.
La legge di causalità, inoltre, afferma che quando il
precedente cambiamento (la causa) è subentrato, il mutamento
successivamente provocato (l’effetto) deve avvenire inevitabilmente,
ossia deve succedere necessariamente.
Tramite questo carattere di necessità la legge di
causalità dimostra di essere un’espressione del principio di
ragione sufficiente, il quale è la forma più generale
di tutta la nostra facoltà conoscitiva
Il principio di ragione sufficiente si manifesta nel mondo reale
come legge di causalità (ragione del divenire), e nel mondo
del pensiero come legge logica (ragione del conoscere). Nello spazio
vuoto, intuito a priori, il principio di ragione sufficiente si
manifesta come legge della necessaria interdipendenza di tutte le
parti dello spazio (ragione dell'essere). Compito esclusivo della
geometria è - appunto - dimostrare dettagliatamente ed
esaurientemente questa necessaria interdipendenza.
In virtù del principio di ragione sufficiente ‘essere
necessario’ ed ‘essere conseguenza di una determinata ragione
sufficiente’ sono due concetti equivalenti.
Tutti i mutamenti che avvengono negli oggetti del reale mondo
esterno sono quindi sottoposti alla legge di causalità.
Laddove e quando i mutamenti avvengono, avvengono ogni volta
necessariamente e inevitabilmente. In questo campo non ci può
essere alcuna eccezione, poiché la regola deve valere a
priori, affinché l’esperienza stessa sia possibile.
Dal punto di vista della sua applicazione in un determinato caso, ci
si può solo domandare se si tratta del mutamento di un
oggetto reale dato nell’esperienza esterna. Se così è,
ogni suo cambiamento è sottoposto alla legge di
causalità, deve essere stato provocato da una causa, e deve
essere avvenuto necessariamente.
A questo punto, armati della nostra regola universale (la legge di
causalità), certa a priori e valida per ogni possibile
esperienza senza eccezione alcuna, esaminiamo più da vicino
l’esperienza stessa e osserviamo gli oggetti reali, ai mutamenti dei
quali la nostra regola si riferisce. Tra questi oggetti possiamo
subito notare una profonda differenza, che da sempre è stata
utilizzata per la loro classificazione. Essi infatti possono essere
inorganici (privi di vita) oppure organici (dotati di vita),
suddivisi a loro volta in piante e animali.
Gli animali, nonostante siano essenzialmente e concettualmente
simili tra loro, presentano una scala di perfezione molto
differenziata e finemente sfumata, che va dagli animali quasi
imparentati con le piante - tanto da essere difficilmente
distinguibili dai vegetali - fino ai più perfezionati, che
corrispondono perfettamente al concetto di animale. Sulla cima di
questa scala troviamo l’uomo (noi stessi).
Ora, senza lasciarci confondere da quella molteplicità,
prendiamo in considerazione tutti questi esseri, nel loro complesso,
come oggetti reali e obiettivi dell’esperienza, e procediamo
all’applicazione della legge di causalità (che è
valida a priori e, come tale, rende possibile l’esperienza) agli
eventuali mutamenti che avvengono in simili esseri.
Potremo allora constatare che effettivamente l’esperienza si
realizza ovunque in conformità a questa legge, certa a
priori. Tuttavia, alla suddetta grande diversità nella natura
di tutti quegli oggetti dell’esperienza corrisponde anche una
adeguata differenza nel modo in cui, su di essi, la causalità
fa valere la sua legge. In particolare si osserva che alla triplice
diversità tra corpi inorganici, piante e animali,
corrispondono tre diversi modi con cui la causalità
sovrintende a tutti i loro cambiamenti: come causalità nel
senso stretto della parola, come stimolo e come motivazione. Ma in
ognuna di queste tre varianti, la validità a priori della
legge e la necessità dell’effetto che essa impone non vengono
minimamente compromesse.
La causalità nel senso stretto della parola, è quella
che sovrintende a tutti i cambiamenti meccanici, fisici e chimici,
degli oggetti dell’esperienza. Essa si contraddistingue sempre per
due particolari caratteristiche. Innanzitutto, in essa trova piena
applicazione la terza legge di Newton:
“Ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria”.
Questo significa che lo stato che precede (causa) subisce una
modificazione analoga, ma di segno opposto, a quella subita dallo
stato che segue (effetto). Inoltre, in conformità alla
seconda legge di Newton [forza = massa per accelerazione],
l’intensità dell’effetto corrisponde adeguatamente
all’intensità della causa, cosicché una maggiore
intensità della causa provoca, in maniera proporzionale, una
maggiore intensità dell’effetto. Quindi, una volta che
è stato identificato il tipo di interazione, tramite
l’intensità della causa è possibile conoscere,
misurare e calcolare anche l’intensità dell’effetto, e vice
versa.
Tuttavia, nell’applicazione sperimentale di questi due aspetti
caratteristici, non bisogna confondere l’effetto vero e proprio con
la sua parvenza esteriore. Ad esempio, non ci si deve aspettare che
nel comprimere un corpo, l’ampiezza della contrazione, che questo
subisce, sia sempre proporzionale all’intensità della forza
che lo comprime. Infatti, il volume in cui il corpo viene compresso
si fa sempre più ristretto e, di conseguenza, la resistenza
che il corpo oppone si fa sempre più grande. Pertanto, anche
se il vero e proprio effetto (l’addensamento interno) aumenta
realmente in proporzione alla causa (secondo la legge di Mariotte),
questo effetto non corrisponde alla parvenza esteriore.48
In molti casi poi, ad un ben determinato grado di interazione, il
tipo di effetto può mutare di colpo poiché il tipo di
reazione si è modificato, essendo venuto a cessare, in un
corpo di determinate dimensioni, il tipo di reazione iniziale. Ad
esempio, il calore ceduto a una determinata quantità di
acqua, ne aumenta la temperatura fino a un certo punto, oltre il
quale subentra rapidamente l’evaporazione. Tuttavia anche in questo
secondo stadio viene mantenuto il rapporto tra intensità
della causa e intensità dell’effetto. E così via, in
molti altri casi.
Sono proprio queste cause nel senso stretto della parola che
provocano i cambiamenti nei corpi inorganici. La conoscenza e la
supposizione di simili cause permettono di descrivere tutti quei
cambiamenti di stato che sono oggetto della meccanica, della
idrodinamica, della fisica e della chimica. L’essere determinato
esclusivamente da cause di questo tipo è la caratteristica
peculiare ed essenziale di un corpo inorganico.
Il secondo tipo di cause è lo stimolo, un particolare tipo di
causa che, innanzitutto, non provoca una reazione [qualitativamente]
paragonabile all’azione, inoltre non vi è
proporzionalità tra l’intensità della causa e
l’intensità dell’effetto. In questo caso, quindi, l’ammontare
dell’effetto non può essere determinato né calcolato
in base all’intensità della causa. Tutt’altro. Un lieve
incremento dello stimolo può dar luogo a un enorme incremento
dell’effetto oppure addirittura al contrario, ossia sospendere
l’effetto iniziale e provocare l’effetto opposto.
Ad esempio, è risaputo che, tramite il calore e mischiando la
calce [spenta, ricca di calcare] con il terreno [argilloso], in una
pianta [non acidofila] si può indurre uno sviluppo
straordinariamente rapido, poiché queste due cause [calore e
composto] stimolano le sue forze vitali. Tuttavia, se il giusto
ammontare dello stimolo viene anche di poco oltrepassato, invece
della crescita accelerata, l’esito sarà la morte della
pianta. Analogamente, con il vino oppure con l’oppio possiamo
stimolare e incrementare notevolmente le nostre forze psichiche.
Tuttavia, se la giusta misura dello stimolo viene oltrepassata, il
risultato è esattamente l’opposto.
Questo tipo di cause (gli stimoli) sono ciò che determina
tutti i cambiamenti negli organismi [viventi] in quanto tali. La
crescita e tutti i mutamenti delle piante, ogni sviluppo e le
funzioni semplicemente organici e vegetativi dei corpi animali,
procedono tramite stimoli. In questo modo su di essi agiscono la
luce, il calore, l’aria, il cibo, ogni farmaco, ogni contatto, la
fecondazione, ecc. Mentre nell’ambito della causalità la vita
animale possiede una ulteriore sfera di tutt’altro tipo, di cui
parleremo tra poco, la vita intera delle piante procede
esclusivamente in base agli stimoli.
Ogni loro assimilare, crescere, tendere la corona verso la luce e le
radici verso un terreno più ricco, la loro impollinazione,
germogliazione, ecc. è una mutazione in seguito a uno
stimolo. Alcune particolari specie, inoltre, manifestano una
peculiare e rapida reazione, la quale avviene comunque solo in
seguito a uno stimolo, e sono quindi denominate ‘piante sensitive’.
Esse sono principalmente - come è noto - la mimosa pudica, lo
hedysarum girans e la dionacea muscipula.
La caratteristica di un vegetale è l’essere determinato
esclusivamente e senza alcuna eccezione da stimoli. Pertanto,
vegetale è ogni corpo i cui cambiamenti e movimenti,
peculiari e conformi alla propria natura, avvengono sempre ed
esclusivamente in seguito a stimoli.
Il terzo tipo di cause, che agiscono esclusivamente sugli animali e
li mettono in movimento, è la motivazione: la
causalità mediata dalla conoscenza. Nella scala evolutiva
degli esseri naturali questo tipo di causalità è
subentrato nel momento in cui l’animale, diventato strutturalmente
più complesso e quindi con esigenze più differenziate,
non poteva più soddisfare le proprie esigenze semplicemente
stando ad aspettare il sopraggiungere di uno stimolo adeguato,
bensì doveva essere in grado di scegliere, cogliere e
addirittura ricercare i mezzi adatti per soddisfarle.
Così, al posto della semplice suscettibilità agli
stimoli e del movimento in seguito ad essi , negli esseri più
evoluti è subentrata la suscettibilità ai motivi, che
si traduce nella facoltà di rappresentare il mondo esterno
tramite un intelletto, in una innumerevole scala di livelli di
perfezione, la quale materialmente si configura in sistema nervoso e
cervello. E con questo è subentrata la coscienza.
È chiaro che alla base della vita animale c’è una vita
simile a quella vegetale, la quale, in quanto tale, procede solo in
seguito a stimoli. Tuttavia tutti i movimenti che un animale - come
tale- compie (i quali dipendono da funzioni che la fisiologia chiama
‘funzioni animali’) avvengono in seguito alla conoscenza di un
oggetto, ossia per un motivo. Quindi, un animale è ogni
essere dotato di coscienza, i cui movimenti e mutamenti esterni,
peculiari e commisurati alla propria natura, avvengono ogni volta in
seguito a motivi, ossia a rappresentazioni del mondo esterno che si
presentano alla sua coscienza.
Sebbene nell’innumerevole serie degli animali la capacità di
rappresentare il mondo esterno (la coscienza) abbia una
infinità di gradi, ogni animale ne possiede quanto basta
affinché il motivo si presenti a lui e lo induca ad agire. In
questo modo la forza motrice interna, le cui manifestazioni sono
tutte provocate da motivi, si annuncia alla coscienza di sé
stesso (presente in ogni animale) come ciò che noi chiamiamo
‘volontà’.
Anche per un osservatore esterno (il nostro punto di vista) non
può sussistere alcun dubbio riguardo al fatto che un
determinato corpo si stia muovendo in seguito a uno stimolo oppure a
un motivo, tanto diversi ed evidenti sono gli effetti causati dai
due. Lo stimolo, infatti, agisce sempre per contatto diretto o
addirittura per intususcezione [assimilazione].
Quando lo stimolo non è visibile - come nel caso dell’aria,
della luce e del calore - esso si rivela comunque nell’evidente
rapporto tra l’effetto da una parte, e la durata e intensità
dello stimolo dall’altra, anche se questo rapporto varia al variare
dell’intensità dello stimolo. Quando invece il movimento
è causato da un motivo, tutte queste differenze scompaiono.
In questo caso infatti il medium peculiare e immediato dell’influsso
non è la ‘atmosfera’, bensì esclusivamente la
conoscenza.
L’oggetto che funge da motivo ha bisogno solo di essere percepito e
conosciuto. Non è affatto importante quanto a lungo, quanto
lontano o vicino, e quanto chiaramente esso sia giunto alla
percezione. Tutte queste differenze non modificano per nulla il
grado dell’effetto. Infatti, appena l’oggetto che funge da motivo
è stato appreso, esso diventa parimenti efficace, ammesso che
si tratti di un motivo assolutamente determinante per la
volontà da eccitare in quel determinato soggetto.
Dopotutto anche le cause fisiche e chimiche, come pure gli stimoli,
hanno effetto fintanto che il corpo su cui agiscono è
suscettibile nei loro confronti. Proprio per questo ho specificato:
‘per la volontà da eccitare in quel determinato soggetto’.
Infatti, ciò che la parola ‘volontà’ significa, si
manifesta al soggetto stesso internamente e immediatamente come
ciò che in effetti conferisce al motivo la forza di agire,
ossia come la segreta molla di spinta per compiere il movimento
sollecitato dal motivo stesso.
Questa tenace condizione interiore per i corpi che si muovono
esclusivamente in seguito a stimoli (le piante) è detta
‘forza vitale’, mentre per i corpi mossi solo da cause - nel senso
stretto della parola - è detta ‘forza naturale’ o
‘qualità’. Nelle spiegazioni (delle scienze naturali) ogni
forza vitale o naturale è data come un presupposto
inesplicabile, poiché dentro questi corpi non vi è
alcuna autocoscienza in grado di percepirla immediatamente.
Se ora, a partire dal fenomeno49 in generale, volessimo indagare su
ciò che Kant chiama la ‘cosa in sé’, e ci domandassimo
se, nei corpi privi di conoscenza e persino in quelli privi di vita,
questa condizione interiore della loro reazione a cause esterne sia
identica (conformemente alla natura di quei corpi) a ciò che
noi nel nostro intimo chiamiamo ‘volontà’ (come un filosofo
contemporaneo ci vuole realmente dimostrare) è una domanda
che lascio aperta, senza tuttavia volermi esprimere contro.50
Non mi asterrò, invece, dall’illustrare la differenza che,
nel processo di motivazione, contraddistingue la coscienza dell’uomo
da quella di ogni animale. Ciò che propriamente indica la
parola ‘ragione’ è non solo la facoltà che l’uomo ha -
come pure l’animale - di intuire il mondo esterno, ma anche la
facoltà di astrarre da questa intuizione i concetti
universali, le cosiddette notiones universales. Per poterli fissare
e tenere ben saldi dentro la propria coscienza, l’uomo
contraddistingue i concetti con parole, arrangiandole poi in
infinite combinazioni.
Anche se queste combinazioni di parole, e i concetti da cui
scaturiscono, fanno sempre riferimento al mondo conosciuto
intuitivamente, esse costituiscono propriamente ciò che viene
detto ‘pensiero’. È il pensiero che rende possibili i grandi
vantaggi che l’uomo ha rispetto a tutti gli altri esseri viventi: il
linguaggio, la meditazione, la reminiscenza del passato, la
previsione del futuro, il proposito, l’intenzione, la collaborazione
pianificata e comune di più persone, lo Stato, le scienze, le
arti, ecc.
Tutto questo deriva esclusivamente dalla facoltà di elaborare
rappresentazioni non-intuitive, astratte e generali: i concetti . Il
concetto [la rappresentazione di una rappresentazione] è la
quintessenza di un determinato oggetto [fenomeno], poiché
raccoglie dentro sé i molteplici singoli aspetti di
quell’oggetto.
Della facoltà di ragionare, invece, sono privi gli animali,
anche i più intelligenti. Gli animali, quindi, non hanno
altro che rappresentazioni intuitive, conoscono solo ciò che
si presenta loro al momento e vivono solo nel presente. I motivi che
eccitano la loro volontà, devono essere ogni volta intuitivi
e presenti al momento. Di conseguenza gli animali dispongono di una
scelta estremamente ridotta, semplicemente tra ciò che si
presenta intuitivamente nel loro limitato campo di visuale e alla
loro facoltà conoscitiva, ossia tra le cose che sono loro
presenti nello spazio e nel tempo. Solo il motivo più forte
determina immediatamente la loro volontà, rendendo
così palese la causalità del motivo.
Una apparente eccezione è costituita dall’addestramento, il
quale, in realtà, è la paura che agisce tramite il
medium dell’abitudine (ossia, è l’abitudine che nasce dalla
paura). Un’eccezione - in un certo modo reale - è costituita
dall’istinto, nella misura in cui grazie ad esso l’animale, nel
complesso del suo modo di agire, viene messo in azione non
propriamente da motivi, bensì da una molla di spinta o
impulso interiore. In ogni caso l’istinto, nei dettagli della
singola azione, riceve di volta in volta la sua immediata
determinazione ancora da stimoli esterni, quindi da motivi,
cosicché rientra anch’esso nella regola [della
motivazione].51
L’uomo, invece, grazie alla sua facoltà di elaborare
rappresentazioni non intuitive - con le quali sorgono il pensiero e
la riflessione - dispone di un campo di visuale infinitamente
più ampio, che comprende anche ciò che non è
immediatamente presente, ossia il passato e il futuro. In questo
modo l’uomo dispone di una sfera di influenza dei motivi - quindi
anche di scelta - molto più ampia di quella dell’animale,
limitato allo stretto presente.
Di norma le azioni dell’uomo non sono determinate dalla sua
momentanea intuizione sensoriale, da ciò che è a lui
presente nello spazio e nel tempo. Le sue azioni sono piuttosto
determinate da semplici pensieri, che egli porta sempre in testa con
sé e che lo rendono indipendente dall’impressione del
momento. Quando i pensieri non riescono a guidarlo, il suo
comportamento viene definito irrazionale. È invece lodato
come razionale, quando le sue azioni vengono intraprese
esclusivamente dopo aver ben ponderato, indipendentemente
dall’impressione destata dall’intuizione del presente.
Il fatto che l’uomo viene messo in azione tramite una sua
particolare classe di rappresentazioni (concetti astratti e
pensieri, di cui l’animale non dispone) è di per sè
appariscente, poiché conferisce alle azioni dell’uomo, anche
nei dettagli più insignificanti e addirittura nei suoi gesti
e nei suoi passi, un carattere di intenzionalità e di
premeditazione.
Il comportamento dell’uomo è così palesemente
differente da quello dell’animale, che è addirittura
possibile vedere quasi i suoi fili impalpabili (i motivi, composti
solo da pensieri) pilotare i suoi movimenti, mentre quelli degli
animali sembrano tirati dalle grezze e macroscopiche corde
dell’intuizione del presente. Ma la differenza non va oltre. Il
pensiero diventa un motivo, esattamente come l’intuizione del
presente diventa un motivo appena riesce ad agire sulla
volontà che le sta di fronte. In ogni caso il motivo è
una causa e - come tale - comporta la necessità.
Grazie alla propria capacità di pensare, l’uomo può
richiamare alla memoria - nell’ordine che meglio gli pare,
scambiandoli e ripetendoli - i motivi dei quali avverte l’influsso
sulla propria volontà e porli di fronte alla volontà
stessa. Questo significa meditare. Egli è in grado di
deliberare e questa facoltà gli consente una scelta molto
più ampia di quella a disposizione dell’animale.
Certo, da questo punto di vista l’uomo è relativamente
libero, ossia libero dalla costrizione immediata che gli oggetti del
presente intuitivo esercitano - come motivi - sulla sua
volontà (costrizione alla quale l’animale è in ogni
caso soggetto). L’uomo, infatti, può determinare sé
stesso indipendentemente dalle cose del presente tramite i pensieri,
che sono i suoi motivi.
Questa relativa libertà è, in fondo, ciò che le
persone istruite, ma prive di profondità di pensiero,
intendono per libertà di volere, la quale sarebbe (secondo
loro) una evidente prerogativa dell’uomo rispetto all’animale. La
libertà dell’uomo, invece, è solo relativa riguardo
all’intuizione del presente e comparativa riguardo agli animali.
Grazie ad essa cambia solo il tipo di motivazione, mentre la
necessità dell’effetto esercitato dal motivo non viene
minimamente sospesa e neppure diminuita.
Un motivo astratto, costituito da un solo pensiero, è una
causa esterna che determina la volontà, esattamente come un
motivo intuitivo [concreto], costituito da un oggetto reale [nello
spazio] e presente [nel tempo]. Di conseguenza un motivo astratto
è una causa come tutte le altre ed è sempre anche
qualcosa di reale e di materiale tanto quanto un motivo concreto,
poiché ogni pensiero, in fin dei conti, poggia sempre su
un’impressione esterna [una intuizione] ricevuta in qualche tempo e
in qualche luogo.
La sua unica prerogativa è la lunghezza del filo con cui
sollecita la volontà, poiché il motivo astratto (a
differenza del motivo semplicemente intuitivo) non è
vincolato a un determinata vicinanza nello spazio e nel tempo. Esso
può, invece, esercitare la propria influenza sulla
volontà partendo da una grandissima distanza e dopo un
lunghissimo tempo, tramite una complessa concatenazione di concetti
e di pensieri.
Questo è possibile grazie alla natura e all’eminente
ricettività di quell’organo - il cervello umano - il quale
innanzitutto avverte l’influenza di un motivo e poi lo acquisisce.
In breve: grazie alla ragione. Questo tuttavia non altera
minimamente la causalità del motivo, né la
necessità ad essa associata. Solo uno sguardo molto
superficiale può confondere quella libertà, relativa e
comparativa, con il liberum arbitrium indifferentiae.
La conseguente facoltà di deliberare dà luogo, di
fatto, solo ad un conflitto di motivi, dominato dall’indecisione e
spesso sofferto, il cui campo di battaglia si trova nell’animo e
nella coscienza dell’uomo. Questo conflitto consente ai motivi di
esercitare, uno contro l’altro, la propria forza di attrazione nei
confronti della volontà. Così questa si trova nella
stessa situazione di un corpo sul quale agiscono diverse forze in
direzioni opposte, finché alla fine il motivo più
forte sgombra il campo dagli altri e determina la volontà.
Questo esito si chiama ‘decisione’ e subentra con piena
necessità, come il risultato finale del conflitto tra i
motivi.
Gettiamo ora di nuovo lo sguardo sull’intera serie di manifestazioni
della causalità in cui si distinguono, nettamente uno
dall’altro, le cause nel senso più stretto della parola, poi
gli stimoli, e infine i motivi (i quali a loro volta si suddividono
in intuitivi e astratti).
Da questo punto di vista, nello scorrere dal basso verso l’alto la
scala degli esseri naturali (inanimati, vegetali, animali e uomo) si
può notare che le cause e i corrispondenti effetti si
differenziano sempre più, si separano nettamente e diventano
eterogenei. La causa, infatti, diventa sempre meno materiale e
tangibile, tanto che l’effetto sembra acquisire sempre maggiore
importanza e la causa, invece, sempre meno. In questo modo, alla
fine il rapporto tra causa ed effetto diventa sempre meno evidente e
comprensibile.
In effetti questa osservazione non si addice alla causalità
meccanica, la quale rimane la più comprensibile di tutte. Da
qui è scaturito, nel secolo scorso in Francia (dove tuttora
persiste) e recentemente anche in Germania, l’errato tentativo di
ridurre ogni tipo di causalità alla causalità
meccanica, ossia di spiegare tramite le cause meccaniche ogni
processo fisico e chimico, e tramite questi ultimi anche la vita
stessa.
Il corpo che urta mette in moto il corpo che era in quiete e gli
trasmette tanto momento cinetico [massa moltiplicata per la
velocità] quanto esso stesso ne perde. In questo evento
vediamo la causa quasi migrare nell’effetto. La causa e l’effetto
sono completamente omogenei, perfettamente commensurabili, quindi
tangibili. Questa è una caratteristica specifica di tutte le
interazioni meccaniche.
In realtà vediamo che questa omogeneità diventa sempre
minore, anzi, che avviene una sempre maggiore differenziazione
quanto più in alto saliamo lungo la scala degli esseri
naturali e osserviamo su ogni gradino il rapporto tra causa ed
effetto. Ad esempio, quando osserviamo il rapporto tra il calore
come causa e i suoi diversi effetti: la dilatazione,
l’incandescenza, la fusione, l’evaporazione, la combustione,
l’effetto termo-elettrico, ecc. Oppure tra l’evaporazione come causa
e il raffreddamento o la cristallizzazione, come effetto; tra lo
strofinamento del vetro, come causa, e il caricamento elettrico (con
tutte le sue curiose manifestazioni), come effetto; tra la lenta
ossidazione delle armature di una cellula elettrochimica, come
causa, e il galvanismo con tutti i suoi fenomeni elettrici, chimici
e magnetici, come effetto.
Causa ed effetto, quindi, si differenziano sempre di più,
diventano eterogenei, il loro rapporto diventa sempre meno
comprensibile, mentre l’effetto sembra contenere molto più di
quanto la causa possa offrirgli, poiché essa diventa sempre
meno materiale e tangibile. Tutto questo si manifesta sempre
più chiaramente se passiamo ai corpi organici, dove le cause
sono costituite da semplici stimoli, in parte esterni (la luce, il
calore, l’aria, il terreno, il cibo) e in parte interni (la linfa e
l’influenza reciproca tra le membra del corpo), mentre come effetto
si configura la vita, in tutta la sua infinita complessità e
in una innumerevole differenza di forme, nelle molteplici strutture
degli organismi vegetali ed animali.52
Ma assieme a questa eterogeneità, incommensurabilità e
incomprensibilità del rapporto tra causa ed effetto, che
subentrano in maniera sempre più crescente, viene forse meno
anche la necessità dell’effetto che la causalità
impone? Assolutamente no, neppure in minima parte.
Come la biglia che rotola mette necessariamente in movimento la
biglia che urta, altrettanto necessariamente anche la bottiglia di
Leyda deve scaricarsi quando viene toccata con l’altra mano,
l’arsenico deve uccidere un essere vivente, e il chicco di semente -
che conservato all’asciutto non ha subito alcun cambiamento per
millenni - appena viene interrato in un terreno adatto ed esposto
all’influsso dell’aria, della luce, del calore e
dell’umidità, deve germogliare, crescere e svilupparsi in una
pianta. La causa è più complessa, l’effetto è
più eterogeneo, ma la necessità con cui l’effetto
subentra è esattamente la stessa.
Nella vita delle piante e nella vita vegetativa degli animali lo
stimolo è, sotto ogni punto di vista, estremamente diverso
dalla funzione organica da esso provocata. Entrambi si differenziano
nettamente, ma non sono completamente separati, poiché tra di
loro deve avvenire un contatto, seppur tenue e invisibile. La
separazione completa subentra solo nella vita animale, nella quale
le azioni sono provocate dai motivi.
In questo caso la causa, che finora (nei gradini inferiori della
scala evolutiva) era materialmente collegata con l’effetto, si
scioglie completamente da esso, è di tutt’altra natura,
qualcosa di immateriale, una semplice rappresentazione. Proprio nel
motivo che induce l’animale al movimento, la eterogeneità tra
causa ed effetto, la differenziazione e l’incommensurabilità
di entrambe, e l’immaterialità della causa (tanto da sembrare
così povera di contenuto rispetto all’effetto) raggiungono il
loro massimo grado.
L’incomprensibilità del rapporto tra le due diverrebbe
assoluta, se noi le conoscessimo solo dall’esterno, come gli altri
rapporti causali. A questo punto, invece, subentra una conoscenza di
tutt’altro tipo, una conoscenza interiore, a completare quella
esteriore. Il processo che in questo caso ha luogo, come effetto del
subentrare di un motivo, ci è intimamente noto e può
essere definito con un terminus ad hoc [termine appropriato]:
‘volontà’.
Tuttavia, appena lo riconosciamo come rapporto di causalità
(questa forma di conoscenza fondamentale del nostro intelletto),
possiamo affermare che anche in questo caso, come in quello
precedente dello stimolo, il rapporto di causalità non viene
minimamente penalizzato in termini di necessità. Troviamo,
inoltre, che la motivazione è perfettamente analoga ai due
altri tipi di rapporto causale. Si tratta solo del gradino
più alto, verso il quale gli altri due tendono attraverso una
graduale transizione.
Ai livelli più bassi della vita animale il motivo è
ancora molto simile allo stimolo. Gli zoofiti, i radiolari in
genere, i molluschi acefali, hanno solo un debole barlume di
coscienza, esattamente quanto basta per percepire la presenza del
cibo o della preda, da attirare verso di sé appena si
presenta, oppure per cambiare eventualmente il posto momentaneamente
occupato con uno più favorevole. A questi livelli meno
evoluti l’effetto provocato dal motivo risulta ancora ben evidente,
immediato, deciso e inconfondibile, come quello di uno stimolo. I
minuscoli insetti vengono deviati dal bagliore della luce fino
dentro la fiamma. Le mosche si posano con indifferenza sulla testa
della lucertola che ha appena ingoiato una di loro di fronte ai loro
occhi. Chi potrebbe fantasticare sulla libertà in questi
casi?
Negli animali superiori più intelligenti l’effetto del motivo
diventa sempre meno immediato. Il motivo, infatti si separa sempre
più nettamente dall’azione che provoca, cosicché la
distanza che intercorre tra motivo e azione potrebbe essere
addirittura utilizzata come parametro di misura dell’intelligenza
stessa di un animale. Nell’uomo la distanza tra motivo e azione
è incommensurabile. Tuttavia anche per gli animali più
intelligenti la rappresentazione che diventa il motivo dell’azione
deve in ogni caso essere intuitiva. Anche quando esiste una
possibilità di scelta, questa può aver luogo solo tra
cose che appartengono all’intuizione del presente.
Il cane sta fermo ed esita, tra il richiamo del suo padrone e la
vista di una femmina: il motivo più forte determinerà
dove andare. Ma nel momento in cui questo motivo subentrerà,
il corrispondente movimento verrà compiuto necessariamente,
come se fosse un movimento meccanico. Anche in questo esempio
vediamo un corpo che, posto fuori dal proprio punto di equilibrio,
oscilla temporaneamente da un lato e dall’altro, fin quando esso
avverte definitivamente da quale parte sta il proprio baricentro, e
in quella direzione cade.
Fin quando la motivazione rimane nell’ambito delle rappresentazioni
intuitive, la sua somiglianza con lo stimolo e con la causa in
generale è ancora evidente, soprattutto per il fatto che il
motivo, come causa efficiente, deve essere qualcosa di reale e di
presente, anzi, deve intervenire fisicamente sui sensi, anche se
indirettamente, tramite la luce, il suono, l’odore, ecc. In questo
caso per l’osservatore esterno la causa è tanto evidente
quanto l’effetto. Egli vede subentrare il motivo e seguire
inesorabilmente il movimento dell’animale, fintanto che non entra in
gioco un altro motivo contrario altrettanto evidente, oppure
l’addestramento. È impossibile dubitare della interdipendenza
fra i due. A nessuno verrà quindi in mente di riconoscere
agli animali un liberum arbitrium indifferentiae, ossia la
possibilità di compiere un’azione senza alcuna causa.
Invece, là dove la coscienza è capace di conoscenza
razionale - fatta non solo di intuizioni, ma anche di concetti e di
pensieri - i motivi perdono completamente la dipendenza dal presente
e dall’ambiente concreto, e rimangono quindi invisibili
all’osservatore. In questo caso, infatti, i motivi possono essere
semplicemente dei pensieri che l’uomo porta con sé dentro la
testa, la cui origine sta all’esterno di essa, spesso addirittura
molto lontano nel tempo. I pensieri possono provenire sia
dall’esperienza personale avvenuta negli anni passati, sia da
qualcosa tramandato da estranei, tramite parole o scritti,
addirittura in un tempo remotissimo.
In ogni caso la loro origine è sempre reale e oggettiva,
sebbene, a causa della difficile combinazione di complicate
circostanze esterne, tra i motivi stessi si trovino spesso anche
molti errori, molti equivoci di trasmissione, quindi molte cose
insensate. Oltretutto l’uomo nasconde spesso i motivi delle proprie
azioni a tutti gli altri e talvolta anche a sé stesso, in
particolare quando teme di scoprire cosa è che realmente lo
spinge a compiere una determinata azione. Nel frattempo vediamo le
sue azioni succedere e facciamo congetture per scoprirne i motivi.
Diamo sempre per scontato, con la massima e assoluta certezza, che
un motivo debba esistere, come esiste una causa di ogni movimento di
un corpo inanimato. Siamo, infatti, assolutamente convinti che ogni
azione di un uomo e ogni movimento di un corpo inanimato siano
impossibili senza una causa.
Analogamente, ma in senso inverso, nei nostri progetti e imprese
calcoleremmo l’effetto dei motivi su un determinato uomo, con una
sicurezza assolutamente pari a quella con cui si calcolano i
movimenti meccanici negli ingranaggi, se solo conoscessimo il
carattere di quel determinato uomo, esattamente come in meccanica si
conosce la lunghezza e lo spessore di una sbarra, il diametro di una
ruota, il peso di un carico, ecc.
Ognuno si attiene a questo presupposto, fintanto che dirige il
proprio sguardo verso l’esterno e ha a che fare con gli altri nel
perseguimento di fini pratici. A questo, infatti, l’intelletto umano
è propriamente destinato. Quando, invece, l’uomo prova a
valutare la questione dal punto di vista teorico e filosofico (verso
il quale l’intelligenza umana non è propriamente destinata
per natura), ponendo sé stesso come oggetto dell’indagine,
allora si lascia facilmente confondere dalla natura immateriale,
fatta solo di pensieri e astratta, dei motivi, poiché questi
non sono legati al presente né all’ambiente, e oltretutto
ciò che si oppone ai motivi - ossia i contromotivi - sono
anch’essi solo pensieri.
Questa confusione è tale che l’uomo mette allora in dubbio
l’esistenza e la necessità dell’effetto provocato dal motivo,
pensando che ciò che lui fa potrebbe altrettanto facilmente
non farlo, che la volontà decide da sola senza essere
soggetta a cause, e che ogni suo gesto è l’inizio primo di
una infinita serie di futuri cambiamenti da esso indotti. Questo
errore poggia soprattutto sulla falsa interpretazione di
quell’affermazione dell’autocoscienza (abbondantemente discussa nel
paragrafo I): ‘Io posso fare ciò che voglio’. Tanto
più che questa affermazione - come sempre succede - si fa
avanti spalleggiata da parecchi motivi che si escludono a vicenda e
che semplicemente sollecitano temporaneamente la volontà.
L’insieme di questi fattori è la fonte di quella naturale
illusione, dalla quale poi sorge l’errore di credere che nella
nostra autocoscienza risieda la certezza della libertà di
volere, ossia, che la volontà umana - contrariamente a tutte
le leggi del puro intelletto e della natura - sia capace di prendere
una decisione senza una ragione sufficiente e che una decisione
presa dalla stessa persona nelle stesse circostanze, vien presa
sì in un certo modo, ma potrebbe anche essere presa nel modo
diametralmente opposto.
Vorrei ora, con un esempio, chiarire meglio questo errore
così importante per il nostro problema e completare
così l’indagine condotta nel precedente paragrafo
sull’autocoscienza. Supponiamo che un uomo, per strada, dica a
sé stesso:
“Sono le sei di sera e ho finito di lavorare. Ora potrei fare una
passeggiata, o andare al club, oppure salire sulla torre per
ammirare il tramonto. Potrei andare a teatro, visitare questo o
quell’amico. Potrei addirittura infilare la porta della
città, perdermi nel vasto mondo e non tornare più
indietro. Tutto questo dipende solo da me: ho la piena
libertà di farlo. Tuttavia non ne farò nulla, e me ne
vado altrettanto liberamente a casa da mia moglie”.
È esattamente come se l’acqua dicesse:
“Potrei montare delle onde enormi (certo, in mare durante la
tempesta), potrei scorrere velocemente e impetuosamente a valle
(certo, nel letto di un torrente), potrei precipitare in mezzo a
schiuma e spruzzi (certo, in una cascata), potrei zampillare verso
l’alto (certo, in una fontana), potrei infine evaporare e svanire
(certo, alla temperatura di 80 gradi). Tuttavia ora non ne faccio
nulla: me ne rimango liberamente qui, tranquilla e limpida, nello
stagno a specchio”.
Come l’acqua potrebbe fare tutte quelle cose solo se subentrassero
le corrispondenti cause, per l’una o per l’altra, così pure
quell’uomo potrebbe fare tutte quelle cose, che lui crede di poter
fare, in nessun altro modo se non al subentrare delle corrispondenti
cause.
Ma finché questo non succede, ognuna di quelle cose
sarà per lui impossibile. Eppure una volta subentrata la
corrispondente causa, egli deve fare quella determinata cosa,
esattamente come deve farla l’acqua, quando si trova nella
corrispondente circostanza. L’errore dell’uomo, e in generale
l’illusione che nasce dalla falsa interpretazione dell’autocoscienza
di poter fare al medesimo istante tutte quelle cose, poggia - a
guardar bene - sul fatto che nella sua fantasia si può
presentare solo un’immagine alla volta, la quale in quell’istante
esclude tutto le altre.
Quando lui si immagina il motivo di una di quelle azioni
teoricamente possibili, subito ne avverte l’influenza sulla propria
volontà, la quale in tal modo viene sollecitata. In
linguaggio tecnico questa è una velleitas [velleità].
Eppure, in quel momento, lui crede davvero di poter promuovere la
velleitas a voluntas [volontà], di poter effettivamente
compiere l’azione teoricamente possibile. Ma questa è solo
un’illusione. Infatti, se solo subentrasse la riflessione a
rammentargli i motivi che spingono in altre direzioni o nella
direzione opposta, egli avrebbe modo di constatare che a quella
velleitaria fantasia non viene dato seguito.
Durante questa rassegna sequenziale dei diversi motivi che si
escludono tra di loro, costantemente accompagnata dall’intimo: ‘Io
posso fare ciò che voglio’, la volontà gira
prontamente - come, nel vento instabile, una banderuola segnavento
attorno al proprio cardine ben lubrificato - nella direzione di ogni
motivo che la fantasia le presenta e, immediatamente dopo, nella
direzione di ogni altro motivo che le viene prospettato come
possibile. In corrispondenza di ogni motivo l’uomo crede di poter
volere la corrispondente cosa e di poter fissare la banderuola in
quella determinata direzione. Ma è solo una illusione. In
realtà la sua affermazione: ‘Io posso volere questa cosa’,
è ipotetica e andrebbe integrata con la proposizione
condizionale: ‘Se io non preferissi quell’altra cosa’, la quale
però cancella tutto quel suo ‘poter volere’.
Ma torniamo all’esempio di quell’uomo che alle sei di sera sta
decidendo cosa fare. Supponiamo che egli ora si accorga della mia
presenza alle sue spalle, e del fatto che io stia filosofando su di
lui e contestando la sua libertà di compiere tutte quelle
azioni, a suo parere possibili. Potrebbe allora succedere che egli,
pur di contraddirmi, compia proprio una di quelle azioni. In questo
caso il motivo che lo spinge a compierla sarebbe proprio la mia
contestazione e l’effetto che essa ha esercitato sul suo spirito di
contraddizione. Tuttavia questo motivo potrebbe spingerlo a compiere
una delle azioni meno impegnative sopra indicate - ad esempio,
quella di andare a teatro - ma certamente non quella di abbandonare
tutto e di perdersi nel vasto mondo, poiché il motivo da me
rappresentato sarebbe troppo debole per un simile gesto.
In maniera altrettanto errata qualcuno, semplicemente impugnando una
pistola carica, potrebbe credere di potere con essa togliersi la
vita. In realtà, per compiere un simile gesto, la cosa che
meno conta è proprio l’attrezzo meccanico. La cosa
principale, invece, è un motivo straordinariamente forte -
quindi insolito - che abbia l’enorme forza necessaria per sopraffare
la voglia di vivere, o meglio, la paura di morire. Solo dopo che un
simile motivo si sarà presentato, quella persona potrà
davvero spararsi. Anzi, in quel momento dovrà spararsi, a
meno che un contromotivo ancora più forte - ammesso che possa
esistere - gli impedisca di farlo.
Io posso fare ciò che voglio. Posso, se voglio, dare tutto
quello che ho ai poveri e diventare così uno di loro, se
voglio! Ma non riesco a volerlo, poiché i motivi opposti
esercitano su di me una forza troppo grande per poterlo fare. Se
invece avessi un altro carattere, a tal punto da essere un santo,
allora sì che potrei volerlo. Anzi, allora non potrei fare a
meno di volerlo, e dovrei necessariamente farlo.
Tutto questo è perfettamente compatibile con
quell’affermazione dell’autocoscienza: “Io posso fare ciò che
voglio”[qualora venisse integrata con la proposizione condizionale:
“Se nessun contromotivo mi impedisse di farlo”], nella quale, ancora
al giorno d’oggi, alcuni filosofastri senza cervello presumono di
vedere la libertà di volere e che quindi attestano come un
dato di fatto dell’autocoscienza.
Tra questi spicca il signor Cousin, che si guadagna quindi una
mention honorable [menzione d’onore], poiché nel suo Corso di
storia della filosofia insegna che la libertà di volere
è il dato di fatto più affidabile
dell’autocoscienza.53 Egli biasima poi Kant di averlo dimostrato ed
eretto a postulato solo tramite la legge morale, mentre la
libertà di volere sarebbe un dato di fatto:
“Perché dimostrare ciò che basta constatare? ... La
libertà è un fatto, non un’opinione”.54
Nel frattempo anche in Germania non mancano gli ignoranti che
gettano al vento ciò che i grandi pensatori hanno detto al
riguardo negli ultimi due secoli, e insistendo su quel supposto dato
di fatto dell’autocoscienza - erroneamente interpretato da loro,
come pure dalla grande massa - proclamano solennemente la
libertà di volere come un dato di fatto. Ma forse sto facendo
loro un torto. Forse, infatti, non sono poi così ignoranti
come sembrano, ma hanno solo fame e sono quindi disposti, per un
tozzo di pane raffermo, a insegnare tutto ciò che potrebbe
piacere al loro sommo Ministero.
Non è assolutamente né una metafora né
un’iperbole, ma semplice verità, che come una palla di
biliardo non può mettersi in moto prima di subire un urto,
così pure un uomo non può alzarsi dalla sedia prima
che un motivo lo attiri o lo sospinga. Ma appena subentra il motivo,
allora il suo alzarsi diventa necessario e inevitabile, come il
rotolare della palla dopo l’urto.
Aspettarsi che uno faccia qualcosa verso cui nessun interesse lo
spinge, è come aspettarsi che un pezzo di legno si muova
verso di me, senza una corda che lo tiri. Chi afferma questo in
mezzo a della gente che testardamente rifiuta di crederlo, potrebbe
immediatamente venir a capo della faccenda dando l’incarico a un
terzo di gridare all’improvviso: “Il soffitto sta crollando!”. In
questo modo i suoi contraddittori avranno modo di constatare che
anche un motivo è così potente da buttare la gente
fuori casa, esattamente come la più palpabile causa
meccanica.
L’uomo infatti, come ogni altro oggetto dell’esperienza, è un
fenomeno nello spazio e nel tempo. Dato che la legge di
causalità vale a priori (quindi senza alcuna eccezione) per
ogni oggetto dell’esperienza, anche l’uomo è soggetto a
questa legge. Così dice il puro intelletto a priori,
così conferma l’analogia estesa a tutta quanta la natura, e
così dimostra l’esperienza ad ogni istante, se non ci si
lascia ingannare dall’apparenza.
Questo inganno nasce dal fatto che, risalendo lungo la scala
dell’evoluzione, mentre gli esseri naturali diventano sempre
più complicati - cosicché la loro sensibilità,
da semplicemente meccanica, si eleva e si perfeziona in chimica,
elettrica, suscettibile agli stimoli, sensoriale, intellettuale e
infine razionale - anche la natura delle cause efficienti procede di
pari passo. A ogni gradino la causa deve corrispondere adeguatamente
all’essere sul quale deve agire. Pertanto anche le cause diventano
meno tangibili e materiali, cosicché alla fine non sono
più visibili ad occhio nudo. Esse rimangono tuttavia a
portata dell’intelletto il quale, in ogni singolo caso, con
incrollabile certezza presuppone la loro esistenza e, tramite una
adeguata ricerca, è anche in grado di scoprirle.
Nel caso dell’uomo le cause efficienti si sono elevate a semplici
pensieri, i quali lottano fra di loro, finché il più
forte dà il colpo determinante [alla volontà] e mette
l’uomo in azione. Tutto questo avviene con il rigore tipico del
rapporto causale, come quando cause meccaniche, in una complicata
combinazione, agiscono una contro l’altra e infallibilmente subentra
il risultato matematicamente calcolato.
Poiché le cause non sono visibili, anche le minuscole palline
di sughero elettricamente cariche, che si muovono caoticamente
dentro un vaso di vetro, destano l’illusione ottica di mancanza di
causalità, esattamente come quella destata dai movimenti
dell’uomo. Ma ogni giudizio al riguardo non spetta all’occhio,
bensì all’intelletto.
Se esistesse la libertà di volere, ogni azione umana sarebbe
un miracolo inspiegabile: un effetto senza causa. Se tentassimo di
immaginare un simile liberum arbitrium indifferentiae, subito ci
renderemmo conto che di fronte a un simile tentativo l’intelletto
rimane bloccato, poiché non dispone di alcuna forma intuitiva
per procedere alla rappresentazione di una cosa del genere.
Infatti il principio di ragione sufficiente (il principio della
determinazione e dipendenza reciproca dei fenomeni) è la
forma generale del nostro conoscere e, a seconda delle diverse
classi di fenomeni [oggetti, concetti, spazio-tempo e soggetto della
conoscenza] si traduce a sua volta in espressioni diverse. Ma nel
caso del liberum arbitrium indifferentiae dovremmo pensare a
qualcosa che determina senza essere determinato, che non dipende da
nulla, mentre tutto il resto dipende da lui. Qualcosa che, senza
alcuna necessità - ossia senza alcuna ragione - ora produce
l’effetto A, mentre potrebbe indifferentemente produrre l’effetto B,
o C, o D. E potrebbe tranquillamente farlo - a parità di
circostanze esterne - senza che ci sia in A qualcosa che gli
conferisca alcuna preferenza rispetto a B, C e D, altrimenti sarebbe
motivazione, quindi causalità.
In questo caso veniamo rinviati al concetto della pura
casualità, che all’inizio di questo trattato abbiamo
presentato come problematico. Lo ripeto: di fronte a questo concetto
l’intelletto rimane completamente bloccato (ammesso che si riesca a
presentarglielo).
Voglio ora ricordare che cosa è, in generale, una causa: il
cambiamento precedente che provoca necessariamente il cambiamento
successivo. Nessuna causa al mondo provoca semplicemente il proprio
effetto o lo realizza dal nulla, bensì ogni volta esiste
qualcosa su cui essa agisce. Essa dà luogo ad un mutamento
solo in un determinato istante, luogo ed essere.
Il cambiamento indotto è sempre conforme alla natura di quel
determinato essere, quindi esso deve già possedere una forza
adeguata alla causa. L’effetto scaturisce quindi da due fattori: uno
interno e uno esterno. Quello interno è la forza originaria
dell’essere sul quale la causa agisce, mentre quello esterno
è la causa determinante, la quale costringe necessariamente
quella forza a manifestarsi in quel determinato istante e luogo.
Ogni causalità, e ogni spiegazione del mutamento a cui essa
dà luogo, presuppone l’esistenza di una forza originaria. La
spiegazione quindi non chiarisce mai tutto, ma lascia sempre
qualcosa di inspiegabile dietro sè.
Questo è ciò che si osserva ovunque nella fisica e
nella chimica. Nelle loro spiegazioni si presuppone sempre la
presenza di forze naturali, le quali si manifestano nell’evento e
alle quali ogni spiegazione viene ricondotta. Ma la forza naturale
stessa non si presta ad alcuna spiegazione, bensì è
essa stessa il principio di ogni spiegazione. Proprio per questo la
forza naturale non è soggetta ad alcuna causalità, ma
è lei stessa ciò che conferisce a ogni causa la
causalità, la facoltà di provocare un cambiamento.
Una forza naturale è quindi il substrato comune di tutti gli
effetti di un certo tipo ed è presente in ciascuno di essi.
Così i fenomeni del magnetismo vengono ricondotti a una forza
originaria, chiamata elettricità [cariche elettriche in
movimento]. Ma riguardo all’essenza di questa forza non c’è
nulla da spiegare. Essa detta solo le condizioni secondo le quali
essa stessa si manifesta, ossia le cause che provocano la sua
attività.
Le spiegazioni della meccanica celeste presuppongono la forza
gravitazionale, in virtù della quale le singole cause, che
determinano il movimento dei pianeti, agiscono. Le spiegazioni della
chimica danno come presupposto le occulte forze che si manifestano
come affinità elettive, secondo determinati rapporti
stechiometrici. Su queste forze si basano tutti gli effetti che
puntualmente subentrano, quando vengono richiamati da determinate
cause.
Così pure le spiegazioni della fisiologia presuppongono la
forza vitale che reagisce prontamente a specifici stimoli, interni
ed esterni. E così avviene sempre e dappertutto. Perfino le
cause di cui si occupa la meccanica elementare, come l’urto e la
pressione, presuppongono la impenetrabilità, la coesione, la
rigidità, l’inerzia, il peso, la elasticità, le quali
non sono altro che inesplicabili forze naturali, esattamente come
quelle sopra citate.
In ogni evento le cause non determinano altro che il luogo e il
momento in cui le inspiegabili forze originarie si manifestano.
Queste forze sono quindi il presupposto indispensabile
affinché le cause possano sussistere, affinché possano
provocare necessariamente determinati effetti.
Quello che vale per le cause nel senso stretto della parola e per
gli stimoli vale anche per i motivi. La motivazione, infatti, non
è essenzialmente diversa dalla causalità, anzi,
è solo un tipo di causalità, e precisamente: la
causalità che procede tramite il medium della conoscenza.
Anche in questo caso la causa provoca la manifestazione di una forza
non riconducibile ad altre cause, che non è quindi passibile
di ulteriori spiegazioni. Questa forza, che in questo caso si chiama
volontà, ci è nota non solo dall’esterno - come le
altre forze naturali - ma anche direttamente dall’interno, grazie
all’autocoscienza. Solo presupponendo che una tale forza (la
volontà) esista e che nel soggetto in questione essa sia di
una determinata natura, le cause (i motivi) indirizzate verso la
volontà del soggetto avranno effetto.
La natura della volontà, determinata in modo particolare e
individuale, in virtù della quale la reazione di fronte ai
medesimi motivi è differente a seconda di ogni singolo
individuo, è il cosiddetto ‘carattere’, anzi il suo
‘carattere empirico’, poiché esso non è conoscibile a
priori, ma solo tramite l’esperienza. Esso determina innanzitutto il
tipo di effetto che i diversi motivi provocano su quel determinato
individuo. Il carattere individuale, infatti, sta alla base di ogni
effetto che i motivi provocano, esattamente come le forze naturali
stanno alla base degli effetti provocati dalle cause in senso
stretto, e come la forza vitale sta alla base degli effetti
provocati dagli stimoli.
Come le forze naturali, anche il carattere è originario,
immutabile e inspiegabile. Negli animali è diverso in ogni
specie; negli uomini in ogni individuo. Solo negli animali
più evoluti e intelligenti si può notare un carattere
individuale più marcato, anche se quello della specie rimane
predominante.
Il carattere dell’uomo è:
1. Individuale. In ognuno il carattere è diverso. È
vero che per tutti alla base c’è il carattere della specie,
cosicché in ogni uomo si possono ritrovare le caratteristiche
principali della specie uomo. Tuttavia nell’uomo esiste una
sfumatura di grado così significativa, una tale
varietà di combinazioni e di modificazioni delle
caratteristiche peculiari, da supporre che la differenza morale dei
caratteri degli individui sia pari alla differenza delle loro
facoltà intellettuali (il che è tutto dire) e che
entrambe siano incomparabilmente maggiori della differenza corporea
tra un gigante e un nano, tra Apollo e Tersite.55
Per questo l’effetto dello stesso motivo su individui diversi
è del tutto diverso, come la luce solare, che sbianca la cera
ma colora di nero il cloruro d’argento, e come il calore, che
ammorbidisce la cera ma indurisce l’argilla. Quindi, nel caso di un
determinato uomo, conoscendo solo i motivi non è possibile
prevedere le sue azioni, poiché bisognerebbe anche conoscere
esattamente il suo carattere.
2. Empirico. Solo tramite l’esperienza si impara a conoscere non
solo il carattere degli altri, ma anche il proprio. Per questo
spesso si rimane delusi non solo degli altri, ma anche di sé
stessi, quando si scopre di non possedere questa o quella
virtù (ad esempio, la giustizia, l’altruismo e il coraggio)
nella misura che, con molta indulgenza verso noi stessi, ci
accreditavamo. Ed è sempre per questo che, nell’imminenza di
una difficile scelta, la nostra decisione personale rimane a lungo
un mistero per noi stessi, come se fosse quella di un estraneo,
finché non viene presa.
Nel frattempo noi pensiamo che essa debba cadere ora da questo e ora
da quel lato, a seconda che questo o quel motivo venga meglio
presentato dalla ragione alla volontà, per esercitare su di
essa il proprio influsso. È in questo frangente che quella
sensazione: ‘Io posso fare ciò che voglio’, fa sorgere
l’illusione della libertà di volere. Ma alla fine il motivo
più forte si impone sulla volontà, e la scelta finisce
spesso in un modo diverso da quello inizialmente supposto. Nessuno
quindi può sapere come agirà un altro, e neppure come
agirà lui stesso, in una determinata situazione finché
non ci sarà stato.
Solo dopo aver superato la prova egli avrà la certezza del
comportamento dell’altro e anche del proprio. Solo allora
sarà certo. Gli amici sperimentati, i servitori provati sono
persone sicure. In generale noi trattiamo una persona che conosciamo
bene esattamente come ogni altra cosa le cui caratteristiche ci sono
ben note, e prevediamo con sicurezza ciò che possiamo, o non
possiamo, aspettarci da lui.
Chi una volta ha fatto una determinata cosa, sia nel bene che nel
male, la rifarà di nuovo quando si ritroverà nelle
medesime circostanze. Pertanto chi ha bisogno di un grande aiuto
straordinario, si rivolgerà a chi ha già dato prova di
possedere un animo nobile, mentre chi vuole assoldare un sicario, lo
cercherà tra la gente che si è già sporcata le
mani di sangue.
Secondo quanto racconta Erodoto,56 Gelone di Siracusa si
trovò nella necessità di affidare un’ingente somma di
denaro a una persona che avrebbe dovuto trasferirla all’estero e
disporne con piena facoltà. Scelse per questo incarico Cadmo,
il quale aveva già dato prova di una rara, addirittura
inaudita, onestà e scrupolosità. E la sua fiducia
venne pienamente confermata.
Nello stesso modo la conoscenza di noi stessi, sulla quale poggia la
personale sicurezza o insicurezza, sorge solo dall’esperienza e
quando si presenta l’occasione opportuna. A seconda che in una
determinata circostanza abbiamo dato prova di senno, coraggio,
onestà, discrezione, gentilezza o di qualsiasi altra
virtù che il caso richiedeva, oppure abbiamo mostrato la
nostra mancanza di tali virtù, in seguito alla conoscenza
sperimentalmente acquisita rimarremo soddisfatti, o insoddisfatti,
di noi stessi.
Solo l’esatta conoscenza del proprio carattere empirico conferisce a
un uomo il cosiddetto ‘carattere acquisito’. Questo lo possiede chi
conosce esattamente le proprie qualità, sia quelle buone che
quelle cattive, e sa quindi esattamente, con certezza, cosa
può aspettarsi e pretendere da sé stesso. A quel punto
un simile uomo può giocare il proprio ruolo con
abilità e con metodo, con fermezza e con dignità,
mentre prima poteva farlo solo con naturalezza, grazie al suo
carattere empirico. D’ora in poi lui non potrà più -
come si suol dire - ‘uscire dai binari’, dando così prova
che, in un determinato caso, si stava sbagliando riguardo a
sé stesso.
3. Costante. Il carattere rimane lo stesso per tutta la vita. Sotto
il mutevole involucro dei suoi anni, delle sue condizioni, e perfino
delle sue conoscenze e opinioni, si cela - come il paguro dentro la
occasionale conchiglia - il medesimo uomo, assolutamente immutabile
e sempre lo stesso. Il suo carattere subisce apparenti modificazioni
solo nell’indirizzo e nell’oggetto dei propri interessi, a causa del
variare dell’età e dei propri bisogni. Ma l’uomo non cambia
mai: come si è comportato in un determinato caso, così
si comporterà ogni volta che si ritroverà nelle
medesime circostanze (tra le quali bisogna annoverare anche la
medesima conoscenza di quelle circostanze).
La conferma di questa verità viene fornita dall’esperienza
quotidiana. La più sorprendente è quando incontriamo
di nuovo, dopo venti o trenta anni, una persona conosciuta e la
cogliamo a fare le stesse cose di una volta. Certo, qualcuno a
parole negherà questa verità. Tuttavia nel proprio
comportamento anche lui la dà in ogni caso per scontata,
poiché lui stesso non ha più fiducia di chi in
precedenza si è dimostrato disonesto anche una sola volta,
mentre confida in chi già in precedenza ha dato prova di
onestà.
Su questa verità poggia la possibilità di conoscere
gli altri e di avere piena fiducia nelle persone sperimentate,
provate e convalidate. Quando rimaniamo anche una sola volta delusi
della fiducia riposta in qualcuno, non diciamo mai: “Il suo
carattere è cambiato”, bensì: “Mi sono sbagliato io
nei suoi riguardi”. Su di essa poggia il fatto che, quando vogliamo
giudicare il valore morale di un’azione, cerchiamo innanzitutto di
capirne il motivo, ma poi la nostra lode - o il nostro biasimo - non
riguarda il motivo, bensì il carattere che si è
lasciato determinare da quel motivo. Il carattere, infatti, è
certamente uno dei due fattori della decisione di compiere
un’azione, ma è anche l’unico inerente all’autore.
Sempre su questa verità poggia il fatto che il vero onore
(non quello cavalleresco, l’onore dei pazzi) una volta perso, non lo
si può più recuperare. La macchia, anche di una sola
azione indegna, rimane incollata per sempre all’autore e - come si
suol dire - lo marchia a fuoco. Da qui il proverbio: “Chi ruba una
volta è ladro per sempre”.
Su di essa si basa il fatto che, in occasione di importanti
questioni politiche, quando si arriva ad auspicare il tradimento di
qualcuno, si cerca una spia, la si utilizza e la si ricompensa.
Tuttavia, una volta raggiunto lo scopo, la prudenza impone di
sbarazzarsi di questa persona, poiché le circostanze possono
cambiare, ma non il suo carattere.
Su questa verità poggia il fatto che il più grande
errore di uno scrittore drammatico è quello di non preservare
il carattere dei propri personaggi, di non rappresentarli con la
costanza e con la rigorosa coerenza di una forza naturale, come
invece fanno i grandi scrittori. A questo proposito ho già
dato altrove un esempio dettagliato riguardo a Shakespeare.57
Su questa verità si basa perfino la possibilità della
coscienza, poiché questa fino a tarda età ci rinfaccia
i misfatti compiuti in gioventù. Come, ad esempio, la
vergogna provata, ancora quarant’anni dopo, da J. J. Rousseau per
aver accusato la domestica Marion di un furto che lui stesso aveva
compiuto. Infatti, la vergogna di sé stessi è
possibile solo se si assume che il proprio carattere non cambi, ma
rimanga sempre il medesimo. Al contrario, nella vecchiaia non ci
vergogniamo degli errori stupidi, della crassa ignoranza e delle
più sorprendenti pazzie nella nostra gioventù. Quelle
cose, infatti, erano dovute alla nostra difettosa conoscenza. Ora la
situazione è cambiata, ne siamo usciti e le abbiamo da molto
tempo abbandonate, come i nostri vestiti di gioventù.
Su questa verità si basa il fatto che talvolta un uomo,
nonostante abbia la più chiara consapevolezza dei propri
errori e difetti morali, nonostante li detesti e nutra il sincero
proposito di comportarsi meglio, non riesce proprio a migliorare se
stesso. Nonostante i seri propositi e le sincere promesse, appena si
ripresenta l’occasione si lascia cogliere di nuovo - con propria
sorpresa - sulla medesima strada di prima.
Solo la conoscenza può migliorare. Tramite essa l’uomo
può rendersi conto che questo o quel mezzo, che prima aveva
utilizzato, non conduce al traguardo auspicato, oppure che esso
causa più perdite che guadagni. Allora egli cambierà
il mezzo, ma non il fine. Su questa verità si basa il sistema
penitenziario americano, il quale non si propone di migliorare il
carattere, ossia il cuore dell’uomo, bensì di mettergli la
testa a posto. Il proposito è di mostrargli che quei fini,
che lui tenacemente persegue a causa del proprio carattere,
potrebbero essere raggiunti attraverso il cammino della
disonestà finora seguito con maggiori difficoltà, con
sforzi e con pericoli ben più grandi, che attraverso il
cammino dell’onestà, del lavoro e della moderazione. In
generale, l’ambito di ogni miglioramento e perfezionamento sta solo
nella conoscenza.
Certo, il carattere è immutabile e i motivi [che determinano
la volontà] agiscono sempre con necessità. Tuttavia i
motivi devono essere vagliati dalla conoscenza, poiché questa
è il loro medium. Ma la conoscenza è in grado di
ampliarsi nel modo più vario e migliorarsi costantemente in
infiniti gradi. A questo mira ogni tipo di educazione.
Il perfezionamento della ragione tramite conoscenze esatte e
approfondite di ogni tipo è moralmente importante,
poiché apre l’accesso a quei motivi, dai quali l’uomo
rimarrebbe altrimenti escluso. Fintanto che lui non li poteva
comprendere, essi non erano disponibili per la sua volontà.
Per questo, nelle medesime circostanze esterne, il comportamento di
un uomo la seconda volta può essere completamente diverso
dalla prima, se nel frattempo egli è diventato capace di
comprendere correttamente e compiutamente quelle medesime
circostanze. In quel momento su di lui possono aver effetto motivi
che in precedenza gli erano inaccessibili.
In questo senso gli scolastici dicevano giustamente:
“Causa finalis movet non secundum suum esse reale, sed secundum esse
cognitum” [la causa finale (il motivo) spinge ad agire non per come
essa è in realtà, ma per come essa viene percepita].
Ma, oltre al perfezionamento della conoscenza, nient’altro esercita
alcuna influenza sul comportamento morale. Il proposito di estirpare
i difetti caratteriali di un determinato individuo tramite prediche
moraleggianti, di voler quindi modificare il suo stesso carattere e
la sua particolare moralità, è analogo al proposito di
commutare tramite alchimie il piombo in oro, oppure di stimolare una
quercia tramite particolari trattamenti a produrre albicocche.
La convinzione dell’immutabilità del carattere viene
proclamata al di sopra di ogni dubbio già da Apuleio quando,
difendendosi dall’accusa di arti magiche, fa appello al proprio ben
noto carattere e dice:
“Per ciascuno di noi il miglior testimone è il cuore,
poiché si inclina sempre, con scelta costante, o alla
virtù o al vizio, e fornisce la prova più sicura per
accogliere un’accusa o respingerla”.58
4. Innato. Il carattere non è opera artificiale o delle
circostanze esterne soggette al caso, bensì è opera
della natura stessa.
Esso si manifesta già nel bambino, quando mostra nel piccolo
cosa sarà in futuro nel grande. Per questo due bambini,
educati nello stesso modo e cresciuti nel medesimo ambiente, possono
mostrare chiaramente due caratteri fondamentalmente diversi, gli
stessi che avranno da vecchi. Nei suoi tratti principali il
carattere è addirittura ereditario, ma solo da parte del
padre, mentre l’intelligenza proviene dalla madre.59
Da questa esposizione dell’essenza del carattere individuale risulta
chiaramente che le virtù e i vizi sono innati. Questa
verità potrebbe risultare scomoda a parecchie persone piene
di pregiudizi e a parecchi filosofi all’acqua di rose, con i loro
cosiddetti ‘interessi pratici’, con i loro piccoli e ristretti
concetti, e con le loro limitate opinioni da scolaretti.
Ma di questa verità era convinto già Socrate, il padre
della morale, il quale - a quanto riferisce Aristotele - sosteneva
che:
“Non dipende da noi essere buoni o malvagi”.60
Ciò che Aristotele ricorda, per replicare a Socrate su questo
punto, è palesemente errato. Oltretutto anche lui condivide
la stessa opinione di Socrate, e lo dice a chiare lettere:
“Sembra infatti che in ciascuno di noi ogni aspetto del carattere
sia in qualche modo connaturato: la giustizia, la temperanza, il
coraggio, e tutte le altre virtù, le abbiamo già dalla
nascita”.61
Esaminando l’insieme delle virtù e dei vizi nel De virtutibus
et vitiis di Aristotele (dove vengono raccolti in breve rassegna),
troviamo che essi complessivamente possono essere pensati, riguardo
all’uomo reale, solo come proprietà innate e solo come tali
sarebbero genuine. Se, invece, le virtù derivassero dalla
riflessione e venissero esercitate di proposito, risulterebbero in
realtà quasi una simulazione, non sarebbero genuine e,
nell’urgenza delle circostanze, non si potrebbe affatto contare
sulla loro continuità e perseveranza. Anche se si volesse
includere la virtù cristiana dell’amore verso il prossimo, la
caritas - che Aristotele, come tutti gli antichi, non prende in
considerazione - le cose non andrebbero diversamente neppure per
questa virtù.
Come potrebbero l’instancabile bontà di un uomo e
l’incorreggibile malvagità profondamente radicata di un altro
- il carattere degli Antonini, di Adriano e Tito, da una parte, e
quello di Caligola, Nerone e Domiziano, dall’altra - essere
sopraggiunti dal di fuori, essere l’opera di circostanze fortuite o
essere il frutto della conoscenza e dell’educazione? Ma proprio
Nerone ha avuto Seneca come tutore! È vero, invece, il
contrario: il germe di ogni vizio e di ogni virtù sta nel
carattere innato, il vero e proprio nucleo dell’intera persona.
Questo convincimento - del tutto naturale per chi non è
prevenuto - ha guidato anche la mano di Velleio Patercolo, quando a
proposito di Catone scrive:
“... un uomo che è l’immagine stessa della virtù, e
per carattere più vicino agli dei che agli umani, in tutto:
mai ha agito bene per far vedere che agiva bene, ma perché
non poteva fare altrimenti”.62
Se invece si supponesse l’esistenza della libertà di volere,
non si riuscirebbe assolutamente a capire da dove scaturiscono la
virtù e il vizio, e soprattutto il fatto che due persone
cresciute nello stesso modo, in circostanze e con opportunità
perfettamente identiche, possano comportarsi in maniera diversa,
addirittura diametralmente opposta.
L’effettiva e originaria differenza fondamentale di carattere non
è compatibile con l’ipotesi della libertà di volere.
Questa infatti consisterebbe nel fatto che lo stesso uomo, in
qualunque situazione, possa compiere indifferentemente delle azioni
diametralmente opposte. Ma se così fosse, il carattere
dell’uomo dovrebbe essere originariamente una tabula rasa (come
secondo Locke dovrebbe succedere all’intelletto)63 e non ci potrebbe
essere alcuna tendenza innata in un senso o nell’altro, altrimenti
questa spazzerebbe via la perfetta indifferenza che si attribuisce
al liberum arbitrium indifferentiae.
Ma se il carattere fosse originariamente una tabula rasa, le ragioni
della differenza di comportamento di persone differenti non
potrebbero risiedere nel loro ambito soggettivo. E tanto meno in
quello oggettivo, altrimenti sarebbe l’oggetto a determinare il loro
comportamento, e la supposta libertà di volere andrebbe
completamente persa.
A questo punto rimarrebbe solo la scappatoia di spostare l’origine
della grande diversità dei comportamenti (sperimentalmente
verificata) in un punto intermedio tra soggetto e oggetto, e farla
scaturire dal differente modo in cui il soggetto apprende l’oggetto
- in altre parole - nel differente modo in cui lo stesso oggetto
viene conosciuto da persone diverse. Ma allora tutto andrebbe
attribuito alla conoscenza vera o falsa delle circostanze al momento
dell’azione, cosicché la differenza morale dei comportamenti
si configurerebbe solo come differenza nella correttezza dei
giudizi, quindi la morale verrebbe ridotta alla logica.
Se i sostenitori della libertà di volere cercassero di
salvarsi in extremis da questo grave dilemma [morale o logica]
sostenendo che la differenza del carattere non è innata,
bensì sorge dall’esterno tramite le circostanze, impressioni,
esperienze, esempi, insegnamenti, ecc. e che, una volta che il
carattere si è formato in questo modo, si può spiegare
la differenza del comportamento che ne consegue, allora si potrebbe
obiettare quanto segue.
Innanzitutto, secondo questa teoria, il carattere si verrebbe a
formare solo tardivamente - mentre di fatto è chiaramente
riconoscibile già nel bambino - e che la maggior parte degli
uomini farebbe in tempo a morire prima di conseguire definitivamente
il proprio carattere.
In secondo luogo, tutte quelle circostanze esterne, che
plasmerebbero il carattere, stanno completamente al di fuori della
nostra portata e verrebbero messe in campo, in un modo o nell’altro,
dal caso (o - se si vuole - dalla provvidenza). Ma se il carattere,
e con esso la diversità di comportamento, scaturisse dalle
circostanze esterne, ogni responsabilità morale della
diversità di comportamento dell’uomo verrebbe completamente a
cadere, poiché, in fin dei conti, questa diversità
sarebbe opera del caso (o della provvidenza).
Vediamo dunque che, se si ammettesse la libertà di volere,
l’origine della diversità di comportamento - e con essa della
virtù e del vizio - e l’origine della responsabilità
morale fluttuerebbero senza alcun contenuto nell’aria, senza trovare
mai un posticino dove affondare le radici.
Possiamo quindi concludere che l’ipotesi della libertà di
volere - a prima vista così allettante per un intelletto
filosoficamente rozzo - contraddice fondamentalmente il nostro
convincimento morale [della responsabilità delle nostre
azioni] e anche (come abbiamo a sufficienza mostrato in precedenza)
il principio supremo del nostro intelletto, ossia la legge di
causalità. La necessità con cui i motivi - e tutte le
altre cause in generale - hanno effetto non è quindi priva di
alcun presupposto. Adesso sappiamo quale è questo
presupposto, il solido terreno sul quale poggiano: il carattere
individuale innato.
Come nella natura inanimata ogni effetto è il necessario
prodotto di due fattori - la forza naturale che si manifesta in quel
determinato effetto e la causa specifica che ha indotto questa forza
a manifestarsi - così pure ogni azione dell’uomo è il
necessario prodotto del proprio carattere e del motivo che è
sopraggiunto. Dati questi due fattori segue inesorabilmente
l’azione.
Affinché avvenga un’azione diversa sarebbe necessario o un
altro motivo o un altro carattere. Ogni azione potrebbe anche essere
prevista con sicurezza, anzi, potrebbe addirittura essere calcolata,
se il carattere di una determinata persona non fosse così
difficile da individuare e se il motivo non fosse spesso nascosto,
continuamente soggetto all’effetto contrario di altri motivi, i
quali risiedono esclusivamente nella sfera del pensiero di quella
determinata persona e rimangono inaccessibili agli altri.
In generale, i fini ai quali un uomo tende costantemente sono
determinati dal suo carattere innato. I mezzi, ai quali egli ricorre
per perseguire i propri fini, vengono determinati sia dalle
circostanze esterne, sia dal modo in cui queste vengono da lui
comprese, più o meno correttamente, a seconda dalla sua
intelligenza e istruzione. Il risultato finale di tutto questo sono
le sue singole azioni e, con esse, tutto il ruolo che quell’uomo ha
da svolgere nel mondo.
La sintesi di questa dottrina del carattere individuale si trova
esattamente e poeticamente esposta in uno dei più bei versi
di Goethe:
“Come nel giorno che ti ha dato al mondo
stava il sole al saluto dei pianeti,
hai cominciato e continuato a crescere
in conformità alla legge che vigeva al tuo ingresso.
Così devi essere, non puoi sfuggire a te stesso.
Così hanno sentenziato le sibille e i profeti.
Nessun tempo e nessuna potenza può spezzare
la forma impressa che, vivendo, si sviluppa”.64
L’intima essenza di ogni cosa è il presupposto sul quale
poggia la necessità dell’effetto di tutte le cause in
generale, indipendentemente dal fatto che ciò che in quella
cosa si manifesta sia semplicemente una forza naturale qualsiasi, la
forza vitale, oppure la volontà. Ogni singolo essere, di
qualsiasi tipo, al subentrare di una causa efficiente reagisce
sempre in conformità alla propria peculiare natura.
Questa legge, alla quale tutte le cose del mondo sono soggette senza
alcuna eccezione, è stata sintetizzata dagli scolastici nella
formula:
“Operari sequitur esse” [l’operare è conseguenza
dell’essere].
In conformità a questa legge il chimico identifica una
determinata sostanza tramite i reagenti, mentre l’uomo verifica un
altro uomo tramite le prove a cui lo sottopone. In entrambi i casi
le cause esterne attivano, con assoluta necessità, ciò
che sta dentro un determinato essere, poiché questo non
può reagire altrimenti da quello che è.
A questo proposito bisogna ricordare che ogni existentia [esistenza]
presuppone una essentia [essenza], ossia che ogni cosa che esiste
deve anche essere qualcosa, deve possedere una determinata essenza.
Nessuna cosa può esistere senza essere qualcosa. Nulla
può essere un ens metaphysicum [ente metafisico], un ente che
esiste e niente più, senza alcuna determinazione e
proprietà, quindi senza un determinato modo di agire in
conformità alla propria essenza.
Come una essentia senza existentia non implica alcunché di
reale (secondo il famoso esempio dei cento talleri illustrato da
Kant),65 così pure una existentia senza essentia non
può essere qualcosa di reale. Ogni cosa che esiste, infatti,
deve possedere una propria natura, essenziale e peculiare, grazie
alla quale essa è ciò che è. Una natura che
questa cosa afferma costantemente e le cui manifestazioni vengono
provocate con necessità assoluta dalle cause, ma che tuttavia
non è opera delle cause, né può da queste
essere modificata.
Tutto questo vale per l’uomo e per la sua volontà esattamente
come per ogni altro essere in natura. Anche l’uomo oltre alla
existentia possiede una essentia, ossia possiede delle
proprietà essenziali e fondamentali che costituiscono il suo
carattere, e che necessitano solo di un’opportunità esterna
per manifestarsi. Quindi, aspettarsi che un determinato uomo si
comporti, nella medesima occasione, una volta in un certo modo e
un’altra volta in un modo completamente diverso, equivale ad
aspettarsi che la medesima pianta, che l’estate scorsa ha prodotto
ciliegie, l’estate prossima produca pere.
A rigore, libertà di volere significa una existentia senza
essentia: una cosa esiste e allo stesso tempo è nulla. Ma se
è nulla, quella cosa non esiste, quindi una existentia senza
essentia è una contraddizione.
Sulla comprensione di tutto questo, come pure della validità
- certa a priori, quindi senza eccezioni - della legge di
causalità, poggia il fatto che tutti i pensatori veramente
profondi di tutti i tempi, indipendentemente da quanto diverse
possano essere le loro opinioni su altri temi, si sono trovati
d’accordo nell’affermare la necessità degli atti della
volontà al subentrare dei motivi e nel negare l’esistenza del
libero arbitrio.
Proprio perché l’incommensurabilmente grande maggioranza
degli incapaci di pensare e la moltitudine di succubi dell’apparenza
e del pregiudizio si è sempre testardamente opposta a questa
verità, i grandi pensatori l’hanno addirittura posta in bella
evidenza e l’hanno affermata con le più decise e audaci
perifrasi. La più nota è quella dell’asino di
Buridano, della quale tuttavia, da oltre un secolo, si cerca invano
traccia negli scritti che ci sono rimasti di Buridano.
Io stesso possiedo una edizione del suo Trattato sui sofismi
(apparentemente stampata nel secolo XV, senza indicazione della
stamperia e dell’anno di stampa, e senza numerazione delle pagine)
nella quale ho spesso cercato il famoso paradosso di Buridano, senza
mai trovarlo, nonostante quasi in ogni pagina compaia un asino come
esempio.
Pierre Bayle - il cui articolo su Buridano costituisce la base di
tutto quanto è stato scritto a questo proposito da allora -
sostiene che si ha conoscenza di un solo sofisma di Buridano. A
torto però, poiché io possiedo un intero volume in
quarto del Trattato sui sofismi di Buridano. Tuttavia Bayle, il
quale ha trattato esaurientemente questo tema, avrebbe dovuto sapere
una cosa che fin da allora sembra sia rimasta inosservata, ossia,
che l’esempio dell’asino di Buridano (il quale è diventato
quasi il simbolo o il prototipo della grande verità qui
sostenuta) è ben più antico di Buridano stesso.
Esso, infatti, si trova già in Dante, il quale conosceva
perfettamente tutto il sapere del suo tempo e visse prima di
Buridano. Dante non parla di asini, bensì di uomini, nei
seguenti versi che aprono il quarto canto del Paradiso:
Intra duo cibi, distanti e moventi
D’un modo, prima si morria di fame
Che liber’ uomo l’un recasse ai denti.66
Addirittura si trova già in Aristotele, con queste parole:
“La storiella dell’uomo che ha molta fame e molta sete, in eguale
misura, e che si trova alla stessa distanza dal cibo e dalla
bevanda: è inevitabile che anche costui rimanga immobile”.67
Buridano, che da queste fonti aveva prelevato l’esempio, ha
scambiato l’uomo con un asino semplicemente perché - questo
mediocre scolastico - aveva l’abitudine di usare per i suoi esempi
Socrate, Platone, oppure un asinus.
Il problema della libertà di volere è, in effetti, la
pietra di paragone con la quale si possono distinguere gli spiriti
dotati di pensiero profondo, da quelli di pensiero superficiale. Ma
è anche una pietra miliare, a partire dalla quale i due
gruppi divergono, poiché i primi sostengono
all’unanimità che, dato il carattere e il motivo, l’azione
deve avvenire necessariamente, mentre i secondi - assieme alla
grande massa - parteggiano per la libertà di volere.
Ma esiste anche un partito intermedio, il quale, non sentendosi a
proprio agio su questo tema, si barcamena di qua e di là,
sposta davanti a sé e agli altri il traguardo, si nasconde
dietro parole e frasi fatte, oppure gira e rigira la questione
finché non si capisce più dove vada a parare.
Così ha fatto Leibniz, il quale era più un matematico
e un polyhistor [genius universalis, erudito], che un filosofo.68
Per ricondurre al tema una controparte così irresoluta,
bisogna porle con fermezza la questione nel seguente modo:
1. “Può un determinato uomo, in determinate circostanze,
compiere due azioni differenti, oppure una sola”?
Risposta di tutti i profondi pensatori: “Una sola”.
2. “Il corso della vita di un uomo (tenendo conto che il suo
carattere rimane saldamente immutabile e che, d’altro canto, le
circostanze - la cui influenza lui deve subire - vengono
necessariamente determinate, continuamente e fin nei minimi
particolari, da cause esterne, le quali, a loro volta, subentrano
sempre con rigorosa necessità, in una sequenza concatenata e
altrettanto necessaria che si estende a ritroso all’infinito)
avrebbe potuto avvenire diversamente - anche solo in qualche
dettaglio, seppur minimo, in qualche avvenimento o in qualche scena
- da come è avvenuto”?
“No” è la risposta logica ed esatta.
La conclusione di queste due affermazioni è: tutto ciò
che succede, dalla cosa più grande alla più piccola,
avviene necessariamente.
“Quidquid fit, necessario fit”
[qualsiasi cosa succede, succede necessariamente].
Chi si spaventa di fronte a questa conclusione ha ancora qualcosa da
apprendere e altre cose da dimenticare. Dopo di che scoprirà
che questa conclusione è la più ricca fonte di
consolazione e di tranquillità d’animo. Le nostre azioni non
costituiscono affatto alcun primo inizio, quindi da esse non
scaturisce nulla di realmente nuovo per l’esistenza. Da ciò
che facciamo possiamo semplicemente apprendere chi noi siamo.
Sul convincimento - perlomeno avvertito, anche se non chiaramente
riconosciuto - della rigorosa necessità di tutto ciò
che succede poggia anche l’opinione, così fermamente
condivisa dagli antichi, del fatum [fato], della e„marmšnh
[eimarméne: destino], come pure il fatalismo dei maomettani e
perfino la diffusissima e intramontabile credenza negli omina
[presagi divinatori]. Anche il minimo evento accidentale accade
necessariamente e tutti gli avvenimenti - per così dire -
mantengono reciprocamente il ritmo, cosicché tutto è
in sintonia con tutto.
A questo si riallaccia persino il fatto che, chi ha mutilato o
ucciso un altro, del tutto casualmente e senza la minima intenzione,
piange la vita intera questo piaculum [sacrilegio] quasi con un
sentimento di colpa e, come persona piacularis [persona impura],
dovrà sperimentare anche da parte degli altri una specie di
discredito.
Il profondo convincimento dell’immutabilità del carattere e
della necessità delle sue manifestazioni, potrebbe
addirittura aver esercitato qualche influsso sulla dottrina
cristiana della predestinazione.
Vorrei infine fare un’osservazione del tutto secondaria, che
ciascuno - a seconda di credere, o meno, a determinate cose -
può, a piacere, raccogliere o lasciar perdere.
Se non ammettessimo la rigorosa necessità di tutto ciò
che accade, tramite una catena di cause che collega tra loro tutti
gli avvenimenti senza eccezione alcuna, ma supponessimo che questa
catena possa essere interrotta in innumerevoli punti dalla
libertà assoluta, ogni tipo di previsione del futuro - il
sogno, il sonnambulismo chiaroveggente, la second sight [seconda
vista], ecc. - diverrebbe oggettivamente e assolutamente
impossibile, quindi impensabile. In questo caso, infatti, non
esisterebbe alcun futuro oggettivamente reale che possa, anche solo
in via teorica, essere previsto. Noi invece, con la nostra tesi
della necessità di tutto quanto succede, poniamo in dubbio
solo l’esistenza delle condizioni soggettive, ossia la
possibilità del singolo individuo di fare simili previsioni.
Tuttavia, al giorno d’oggi le persone ben informate non possono
più avere dubbi di questo tipo, dopo che innumerevoli
testimonianze da parte di fonti attendibili hanno confermato
l’esistenza di simili anticipazioni del futuro.
Aggiungo ancora un paio di corollari alla ben collaudata dottrina
della necessità di tutto ciò che succede.
Innanzitutto, cosa sarebbe di questo mondo, se la necessità
non attraversasse e collegasse tra di loro tutte le cose, e
soprattutto se non sovraintendesse alla generazione degli individui?
Un mostro, un mucchio di macerie, una smorfia senza senso e
significato, effettivamente l’opera del vero e proprio caso.
Inoltre, desiderare che un determinato avvenimento non sia accaduto
è una tortura pazzesca di sè stessi. È come
desiderare qualcosa di assolutamente impossibile, un desiderio
insensato come quello che il sole sorga a ovest. Proprio
perché tutto ciò che succede, grande o piccolo,
avviene in maniera rigorosamente necessaria, è inutile
ripensare a quanto insignificanti e fortuite siano state le cause
che hanno provocato un determinato evento e a come avrebbero potuto
facilmente essere diverse.
Questa è una illusione, poiché tutte quelle cause sono
subentrate con altrettanta rigorosa necessità e hanno
esercitato il loro effetto con la stessa forza di quelle che fanno
sorgere il sole a est. Dovremmo piuttosto osservare un avvenimento,
così come è accaduto, con lo stesso sguardo con cui
osserviamo la carta stampata che stiamo leggendo, ben sapendo che
essa era così com’è, ancora prima che noi la
leggessimo.
iv - Predecessori
Per giustificare quanto detto nel precedente paragrafo riguardo ai
pensatori veramente profondi di tutti i tempi, che si sono trovati
d’accordo nell’affermare la necessità degli atti della
volontà al subentrare dei motivi e nel rigettare il liberum
arbitrium, voglio ricordare alcuni dei grandi uomini che si sono
pronunciati in questo senso.
Innanzitutto, per tranquillizzare chi teme che motivi religiosi si
oppongano alla verità da me sostenuta, vorrei ricordare che
già [nell’Antico Testamento] Geremia (10.23) dice:
“L’uomo non è padrone della sua vita; non è in potere
di chi cammina indirizzare i propri passi”.
Ma soprattutto faccio riferimento a Lutero, il quale in Il servo
arbitrio - un libro scritto esclusivamente a questo proposito -
contesta con tutta la sua tipica veemenza la libertà di
volere. Un paio di citazioni bastano per caratterizzare la sua
opinione, che naturalmente Lutero sostiene non con argomenti
filosofici, bensì teologici:
“Sta quasi scritto nel cuore dell’uomo che il libero arbitrio non
esiste, sebbene questa affermazione sia oscurata da così
tante dispute contrarie e dall’autorità di così tanti
uomini ... E vorrei anche ammonire qui gli avvocati del libero
arbitrio, che essi stanno negando Cristo, quando affermano
l’esistenza del libero arbitrio ... Le testimonianze delle
Scritture, ogni qualvolta parlano di Cristo, respingono il libero
arbitrio. Ed esse sono numerose, anzi, sono tutte le Scritture.
Pertanto, se la causa dovesse venir decisa tramite le Scritture, io
vincerei su tutti i fronti, poiché non c’è una
sillaba, o un titolo, nelle Scritture che non condanni la dottrina
del libero arbitrio”.69
Ed ora passiamo ai filosofi. Gli antichi, a questo proposito, non
sono da prendere seriamente in considerazione, poiché la loro
filosofia, quasi in uno stato di innocenza, non aveva ancora avuto
chiara consapevolezza dei due più profondi e complessi
problemi della filosofia moderna: la libertà di volere e la
realtà del mondo esterno (il rapporto tra l’ideale e il
reale).
Quanto [poco] avvertito dagli antichi sia stato il problema della
libertà di volere, si può ben vedere dalla Etica
nicomachea di Aristotele, dove il suo pensiero si limita
semplicemente alla libertà fisica e intellettuale. Aristotele
parla solo di ˜koÚsion kaˆ ¢koÚsion
[ekùsion kài akùsion: voluto e non voluto],
dando per scontato che libero e volontario siano la stessa cosa.70
Aristotele non si è neppure posto il problema - ben
più difficile - della libertà morale, anche se
talvolta arriva a sfiorarlo nei suoi pensieri, in particolare nei
paragrafi (II, 2) e (III, 7) della Etica nicomachea, dove comunque
cade nell’errore di far dipendere il carattere dalle azioni (invece
di fare il contrario). Così pure - in maniera del tutto
errata - Aristotele critica l’opinione di Socrate [“Non dipende da
noi essere buoni o malvagi”] citata nel precedente paragrafo. Eppure
in altri passi Aristotele la fa sua:
“Le qualità naturali, ovviamente, non dipendono da noi, ma
per qualche disegno divino toccano ai più fortunati”
e poco più avanti:
“Bisogna dunque che preesista una inclinazione del carattere alla
virtù, amante del bene e nemica del male”.71
Questo è in accordo con il passo di Socrate precedentemente
citato, e anche con quanto vien detto nella Etica grande (I, 11):
“Chi si è proposto di diventare il migliore, lo
diventerà solo se le doti naturali lo soccorrono; in ogni
caso, però, progredirà”.72
Nel medesimo senso Aristotele affronta il problema della
libertà di volere nella Etica grande (I, 9-18) e nella Etica
eudemia (II, 6-10), dove si avvicina ancora di più alla
soluzione, nonostante il tutto rimanga vago e superficiale. È
il modo consueto di Aristotele di non affrontare direttamente il
problema per via analitica [induttiva], ma di procedere per via
sintetica [deduttiva] traendo conclusioni da aspetti esteriori del
problema.
Invece di darsi da fare per arrivare al nocciolo della questione,
Aristotele si sofferma su caratteristiche esterne, talvolta
addirittura su semplici parole. Questo metodo genera facilmente
confusione e non porta mai al traguardo, quando il problema è
abbastanza complesso. Di fronte alla supposta contraddizione tra
‘ciò che è necessario’ e ‘ciò che è
voluto’73, Aristotele si ferma come di fronte a un muro.
Per andare oltre bisogna innanzitutto capire che ciò che
è voluto, proprio come tale, è necessario a causa del
motivo. Senza il motivo un atto di volontà è tanto
impossibile quanto senza il soggetto che vuole. Il motivo è
una causa efficiente così come una qualsiasi causa meccanica,
dalla quale si differenzia solo per qualcosa di non essenziale.
Aristotele stesso nella Etica eudemia lo afferma:
“Infatti, il ‘ciò per cui’ è una delle cause”.74
Quindi quella contrapposizione tra volontario e necessario è
sostanzialmente falsa, anche se ancora oggi alcuni presunti filosofi
si barcamenano come Aristotele su questo punto.
Cicerone, invece, ne Il fato (x e xvii), imposta abbastanza
chiaramente il problema della libertà di volere, al quale
l’oggetto del suo trattato lo conduce in maniera facile e naturale.
Personalmente Cicerone parteggia per la libertà di volere;
tuttavia vediamo che già [i protagonisti del dibattito]
Crisippo e Diodoro dovrebbero aver preso coscienza, più o
meno chiaramente, del problema.
Notevole è anche il trentesimo dei Dialoghi dei morti di
Luciano, tra Minosse e Sostrato, il quale nega l’esistenza della
libertà di volere e, con essa, della responsabilità
[morale].
Il quarto libro dei Maccabei della Bibbia Septuaginta (assente nella
Bibbia di Lutero) è già, in una certa misura, un
trattato sulla libertà di volere, fintanto che si propone di
dimostrare che il logismÒj [loghismòs: ragione]
è in grado di superare tutte le passioni e gli affetti, e lo
dimostra nel secondo libro tramite i martiri ebrei.
Il più antico - a quanto mi risulta - e chiaro riconoscimento
del nostro problema lo troviamo in Clemente Alessandrino, quando
dice:
“Se l’anima non fosse libera di assecondare un desiderio o di
resistergli, e se le azioni malvagie fossero involontarie, la lode e
il rimprovero, l’onore e la punizione sarebbero ingiustificati”.
Dopo un riferimento a cose precedentemente dette, Clemente
Alessandrino aggiunge:
“Quindi, da nessun punto di vista Dio è per noi responsabile
del male”.75
Quest’ultima conclusione (davvero notevole) mostra in quale senso la
Chiesa abbia immediatamente inquadrato il problema e quale decisione
si sia affrettata a prendere nel proprio interesse.
Circa 200 anni più tardi troviamo la dottrina della libera
volontà ampiamente trattata da Nemesio, nel Sulla natura
dell’uomo (c. 35 e 39-41). In questo libro la libertà di
volere viene identificata senza esitazione con l’arbitrio o il
potere decisionale, quindi sollecitamente affermata e dimostrata.
Ciò nonostante, si tratta pur sempre di un accenno al
problema.
Una matura e piena coscienza di questo problema, e di tutto quanto
vi è connesso, la troviamo innanzitutto in Agostino, il padre
della Chiesa, che prenderemo qui in considerazione, anche se egli
tratta questo argomento più come teologo che come filosofo.
Tuttavia vediamo che su questo tema Agostino manifesta una notevole
perplessità e titubanti oscillazioni, che lo portano
addirittura a incongruenze e contraddizioni nei suoi tre libri de Il
libero arbitrio.
Da un lato Agostino non vuole concedere troppo alla libertà
di volere - come invece fa Pelagio, cosicché l’uomo, grazie
ad essa potrebbe con le proprie forze diventare giusto e degno di
beatitudine - per non compromettere in tal modo le dottrine
cristiane del peccato originale, della necessità della
redenzione e della grazia divina.
Nelle Ritrattazioni (i, 9) Agostino lascia addirittura intendere che
su questi tre temi della controversia con Pelagio - temi che Lutero,
in seguito, difenderà con la sua tipica veemenza - egli
avrebbe potuto dire ancora di più se i libri de Il libero
arbitrio non fossero stati scritti prima della comparsa di Pelagio.
Proprio per combattere l’opinione di Pelagio, Agostino ha poi
scritto La natura e la grazia. Nel frattempo, nei libri de Il libero
arbitrio Agostino dice:
“Ma l’uomo non è buono, e non ha neppure il potere di
esserlo, sia perché non vede come dovrebbe essere, e sia
perché, anche se lo vedesse, non potrebbe essere come vede
che dovrebbe essere ... (Non c’è da meravigliarsi che l’uomo)
o per ignoranza non abbia il libero arbitrio con cui scegliere il da
farsi secondo ragione, oppure che, per la resistenza della
consuetudine carnale - sviluppatasi in un certo senso come un’altra
natura, a causa dell’impellente necessità di conservare la
specie - egli conosca il da farsi e lo voglia, ma non possa
compierlo”.76
E nelle Ritrattazioni:
“Se non intervenisse la grazia divina a liberare la stessa
volontà dalla condizione servile che la fa schiava del
peccato, e non l’aiutasse a superare i suoi difetti, non sarebbe
possibile ai mortali vivere secondo pietà e giustizia”.77
D’altro canto, invece, tre sono le ragioni che lo spingono a
difendere la libertà di volere:
1. La sua opposizione ai Manichei, contro i quali i libri de Il
libero arbitrio sono espressamente indirizzati. I Manichei, infatti,
negano la libertà di volere e sostengono l’esistenza di
un’altra sorgente primordiale della malvagità e del male. A
loro Agostino allude nell’ultimo capitolo del libro La grandezza
dell’anima:
“All’anima è stato dato il libero arbitrio. Vi sono alcuni
che con futili dimostrazioni tentano di demolirlo. Sono ciechi al
punto di non capire che non potrebbero neanche sostenere tale tesi,
inconsistente e sacrilega, senza una volontà autonoma.
Tuttavia il libero arbitrio non è stato dato all’anima
affinché ecc.”.78
2. Il naturale equivoco - da me evidenziato - secondo il quale
l’affermazione ‘io posso fare ciò che voglio’ viene
interpretata come libertà di volere, identificando
così il concetto di volontario con il concetto di libero.
“Che cosa infatti è così immediato alla
volontà, quanto la volontà stessa?”.79
3. La necessità di conciliare la responsabilità morale
dell’uomo con la giustizia di Dio. All’acuto intelletto di Agostino
non è infatti sfuggita una difficoltà estremamente
seria, tanto difficile da risolvere che (a quanto mi risulta) tutti
i filosofi successivi - ad eccezione di tre, di cui parleremo tra
poco - hanno preferito aggirarla in sordina, come se non esistesse.
Agostino invece ne parla apertamente e onestamente proprio
nell’introduzione ai libri de Il libero arbitrio:
“Dimmi, ti prego, se Dio non è l’autore del male”.
E di seguito, più diffusamente:
“Una difficoltà però turba il pensiero, e cioè:
perché non si debbano quasi immediatamente attribuire a Dio i
peccati, se i peccati derivano dalle anime create da Dio e le anime
da Dio”.
Al che l’interlocutore replica:
“Hai espresso con chiarezza ciò che turba assai il mio
pensiero”.80
Questa considerazione, estremamente problematica, è stata
ripresa da Lutero ed evidenziata con la veemenza tipica della sua
eloquenza ne Il servo arbitrio:
“ ... ma la stessa ragione naturale è costretta a confessare
che Dio, in virtù della sua libertà, deve essere tale
da imporre a noi la necessità ... Se si ammette l’onniscienza
e l’onnipotenza di Dio, segue naturalmente, come irrefragabile
conseguenza, che noi non siamo stati fatti, non viviamo e non
facciamo alcunché in virtù di noi stessi, bensì
in virtù della sua onnipotenza ... L’onniscienza e
l’onnipotenza di Dio cozzano, in maniera diametralmente opposta, con
il nostro libero arbitrio ... Come inevitabile conseguenza, tutti
gli uomini sono costretti ad ammettere che noi siamo stati fatti non
per nostra stessa volontà, ma per necessità, e inoltre
che noi non facciamo ciò che a noi piace - grazie al libero
arbitrio - bensì ciò che Dio ha previsto e fa, in
accordo con il suo infallibile e immutabile giudizio e con la sua
potenza”.81
Del tutto pervaso da questa stessa convinzione troviamo, all’inizio
del xvii secolo, il Vanini. Essa è il cuore e l’anima della
sua ostinata ribellione contro il teismo, anche se astutamente
occultata il più possibile, a causa della repressione in quel
tempo. In ogni occasione il Vanini ritorna su questo tema, non
stancandosi mai di illustrarlo dai più diversi punti di
vista. Ad esempio, nel suo Anfiteatro dell’eterna provvidenza dice:
“Se Dio vuole il peccato, allora ne è responsabile. Infatti
sta scritto: ‘Egli ha fatto tutto ciò che ha voluto’. Se non
lo vuole e tuttavia viene commesso, allora si dovrebbe definire
improvvido, o impotente, o crudele, poiché o non sa, o non
può, oppure trascura di mantenere la padronanza dei propri
desideri … I filosofi, infatti, dicono che se Dio non volesse che si
diffondano nel mondo azioni pessime e delittuose, senza dubbio, con
un sol cenno, annienterebbe, e bandirebbe ogni infamia fuori dai
confini dell’universo. Chi di noi infatti potrebbe resistere alla
volontà di Dio? E in che modo si potrebbe commettere un
delitto contro la volontà divina, ammesso che nell’atto del
peccare Dio fornisca al reo la forza per farlo? E ancora, dicono, se
l’uomo cadesse nel peccato contro la volontà di Dio, Dio
sarebbe inferiore all’uomo che riesce ad opporsi a Lui e a prevalere
su di Lui. Da ciò deducono che Dio desidera questo mondo
così come è”.
E più avanti:
“Lo strumento si muove così come è diretto dal suo
agente principale. Ora la nostra volontà è, nelle sue
azioni, come uno strumento di cui Dio è l’agente principale.
Dunque, se essa agisce male, bisogna addossare la
responsabilità a Dio ... La volontà umana dipende
interamente da Dio, non solo per quanto riguarda il movimento, ma
anche per quanto riguarda la sostanza. Dunque non v’è nulla
che possa veramente imputarsi ad essa, né a proposito della
sostanza, né a proposito dell’agire. Ogni
responsabilità ricade su Dio, che ha formato e muove la
volontà in questo senso determinato … Poiché l’essenza
e il moto della volontà vengono da Dio, a Lui si devono
attribuire sia le buone, che le cattive azioni della volontà,
se essa è, rispetto a Dio, uno strumento”.82
Nel leggere lo Anfiteatro dell’eterna provvidenza, bisogna tuttavia
tener presente che il Vanini adotta costantemente lo stratagemma di
esporre, in maniera convincente ed esauriente, il proprio vero
pensiero - che lui poi fingerà di aborrire e confutare -
tramite un interlocutore avversario. In seguito, parlando a titolo
personale, il Vanini replica a quel pensiero (che in realtà
è il suo) con delle ragioni superficiali e argomentazioni
zoppicanti. Fatto questo, se ne va trionfante tamquam re bene gesta
[come se avesse fatto una gran cosa], confidando nella perspicacia
del lettore.
Con questa astuzia il Vanini è riuscito a ingannare perfino i
sommi dottori della Sorbonne, i quali, prendendo questa simulazione
per oro colato, hanno concesso di buon cuore l’imprimatur
[autorizzazione di dare alle stampe] ai suoi scritti più
atei. Tuttavia tre anni dopo aver concesso l’imprimatur, i dottori
della Sorbonne, con una gioia ancor più cordiale, lo hanno
visto bruciare vivo sul rogo, non prima che la sua lingua blasfema
fosse stata mozzata. Il rogo, in effetti, è l’argomento
più convincente a disposizione dei teologi. Purtroppo, da
quando è stato loro tolto, le loro quotazioni stanno cadendo
sempre più in basso.
Tra i filosofi nel senso stretto della parola, Hume è stato -
se non sbaglio - il primo che non abbia glissato sul profondo dubbio
sollevato per la prima volta da Agostino. Hume lo espone
apertamente, senza menzionare Agostino, Lutero e tantomeno il
Vanini, nel suo saggio Sulla libertà e necessità,
dove, verso la conclusione, dice:
“Il responsabile finale di tutti i nostri atti di volontà
è il creatore del mondo, il quale per primo ha messo in moto
questa immensa macchina, e ha posto tutti gli esseri in quella
particolare situazione, a causa della quale ogni evento successivo
deve avvenire con ferrea necessità. Le azioni umane, quindi,
o non sono affatto riprovevoli, poiché procedono da una causa
assolutamente giusta, oppure, se hanno qualcosa di sbagliato,
coinvolgono nella stessa colpa il nostro Creatore, poiché
egli è manifestamente il loro autore e la loro causa prima.
Infatti, come chi ha dato fuoco a una miniera è responsabile
di tutte le conseguenze che ne derivano - non importa quanto lunga o
corta sia stata la miccia utilizzata - così pure, in un
concatenamento ininterrotto di cause necessarie, l’Essere - finito o
infinito - che innesca la causa prima è anche l’autore di
tutto il resto”.83
Hume tenta poi di risolvere questo problema, ma alla fine ammette di
ritenerlo insolubile.
Anche Kant, nella Critica della ragion pratica, indipendentemente
dai suoi predecessori inciampa in questa vera e propria pietra dello
scandalo:
“Sembra proprio che, se si assumesse che Dio, come Essere primario
universale, sia anche la causa dell’esistenza della sostanza, si
dovrebbe anche ammettere che le azioni dell’uomo hanno in
quell’Essere supremo la loro ragione determinante. Questa ragione -
che sta completamente al di sopra del potere umano - consiste nella
causalità proveniente da un Essere supremo, ben distinto
dall’uomo, dal quale dipende completamente l’esistenza dell’uomo
stesso e l’intera determinazione della causalità, a cui
l’uomo è soggetto.
L’uomo sarebbe un automa di Vaucançon, costruito e caricato
dal sommo orefice. È vero che l’autocoscienza lo farebbe
assomigliare a un automa pensante, tuttavia la coscienza della
propria spontaneità, nel caso venisse scambiata per
libertà, sarebbe una semplice illusione. Essa merita
piuttosto di essere definita come libertà relativa,
poiché le cause immediate che determinano il movimento,
assieme alla lunga serie di movimenti e di cause determinanti
precedenti, giacciono certamente al proprio interno, ma la causa
prima, all’inizio della serie, sta completamente fuori, nelle mani
di un altro”.84
Kant tenta poi di rimuovere questa difficoltà tramite la
distinzione tra ‘cosa in sé’ e ‘fenomeno’. Tuttavia, anche
con questa distinzione il problema rimane sostanzialmente immutato
[se si ammette che tutto sia stato creato da Dio], cosicché
sono convinto che Kant non abbia seriamente creduto in questo suo
tentativo di soluzione. Anzi, Kant stesso ammette l’insufficienza
della propria soluzione, quando aggiunge che:
“Esiste forse un’altra soluzione, più facile e comprensibile,
che qualcun altro abbia proposto o voglia proporre? Si dovrebbe
piuttosto dire che i maestri dogmatici di metafisica hanno mostrato
più la loro furbizia, che la loro correttezza, con il
distogliere il proprio sguardo il più possibile da questo
difficile problema, sperando nel fatto che, non parlandone,
probabilmente nessuno ci avrebbe pensato”.
Dopo questa raccolta, degna della massima attenzione, delle voci
più eterogenee che unanimemente affermano la medesima cosa,
ritorniamo al nostro padre della Chiesa.
Le argomentazioni con cui Agostino spera di liquidare quel dubbio
tormentoso [“Dimmi, ti prego, se Dio non è l’autore del
male”] da lui percepito in tutta la sua gravità, sono
teologiche, non filosofiche. La loro validità, quindi,
è condizionata [dalla fede]. Sostenere queste argomentazioni
è il terzo dei motivi, precedentemente ricordati, che
spingono Agostino a cercare di difendere la tesi del libero
arbitrio, il quale sarebbe stato donato da Dio all’uomo.
Infatti, un libero arbitrio che si collocasse tra il Creatore e i
peccati della propria creatura, separando uno dall’altro, sarebbe
più che sufficiente per liquidare quel dubbio. Tuttavia lo
sarebbe solo se il concetto di libero arbitrio - dopo un serio e
approfondito esame - fosse perlomeno pensabile, così come
è facile da esprimere a parole e per quanto possa soddisfare
un cervello che non va oltre le semplici parole.
Ma è mai possibile immaginare un essere, la cui intera
existentia ed essentia è opera di un altro, il quale
ciò nonostante è in grado, fin dal primo momento, di
determinare radicalmente sè stesso, diventando quindi
responsabile delle proprie azioni?
Il principio operari sequitur esse [l’operare è conseguenza
dell’essere] afferma che le azioni di ogni essere derivano dalla sua
natura. È un principio inattaccabile, che butta a gambe
all’aria il concetto di libero arbitrio, poichè se un uomo
è malvagio si comporterà male.
Da questo principio deriva il corollario: ergo unde esse, inde
operari [dunque, da dove proviene l’essere, da lì proviene
anche l’operare]. Che cosa dovremmo dire di un orologiaio il quale
se la prende con l’orologio che lui stesso ha costruito
perché non funziona bene?
Anche se si volesse paragonare il volere a una tabula rasa, non si
potrebbe fare a meno di ammettere che, ad esempio, quando una
persona si comporta dal punto di vista morale in maniera
diametralmente opposta ad un’altra, questa differenza - che deve
pure aver una qualche origine - deve essere attribuita o alle
circostanze esterne (ed in questo caso, evidentemente, l’uomo non
sarebbe colpevole) oppure a una originale diversità della
loro volontà. Ma in questo secondo caso alla persona non
spetterebbe né la colpa né il merito, se il proprio
intero essere fosse l’opera di un altro Essere supremo.
Dopo che i suddetti grandi uomini si sono sforzati invano di trovare
un’uscita da questo labirinto, non esito ad ammettere che, anche per
me, la responsabilità morale della volontà umana senza
aseità [la condizione di un essere che ha in sé stesso
la propria ragione di esistere] è un concetto che va ben
oltre la mia capacità di intendere. Senza dubbio è
stata questa mia stessa incapacità a dettare la settima delle
otto definizioni, con le quali Spinoza apre la sua Etica:
“Libero è quell’ente, che esiste solamente per propria
naturale necessità e che autonomamente determina le proprie
azioni. Necessario, o meglio coatto, è quell’ente la cui
esistenza, e le cui azioni, sono determinate da un altro ente,
secondo un criterio rigido e ben definito”.85
In effetti, se una cattiva azione scaturisse dalla natura dell’uomo
- ossia dalla sua innata costituzione - la colpa ricadrebbe
evidentemente sul Creatore di quella natura. Di conseguenza si
è provveduto a inventare il libero arbitrio.
Ma anche se si ammettesse l’esistenza del libero arbitrio, non si
riuscirebbe semplicemente a capire da dove debba scaturire l’azione.
Il libero arbitrio, infatti, è solo una proprietà
passiva, poiché esso afferma semplicemente che nulla
costringe, od ostacola, l’uomo ad agire in un determinato modo
invece che in un altro. Quindi continuerebbe a non essere chiaro da
dove, in fin dei conti, dovrebbe scaturire l’azione. Questa infatti
non potrebbe scaturire dalla natura innata o acquisita dell’uomo,
altrimenti finirebbe a carico del Creatore. Ma non potrebbe neppure
dipendere dalle circostanze esterne, altrimenti andrebbe attribuita
al caso. In entrambi i casi l’uomo non avrebbe alcuna colpa, eppure
lo si dichiara responsabile.
L’immagine appropriata di una libera volontà è quella
di una bilancia vuota, che se ne sta tranquillamente nella posizione
di equilibrio finché non viene posto un peso su uno dei
piatti. Esattamente come una simile bilancia non entrerà mai
spontaneamente in moto, così pure la libera volontà
non produrrà mai spontaneamente alcuna azione, poiché
dal nulla non deriva che il nulla.
Se la bilancia si abbassa da un lato, deve essere stato posto sopra
quel piatto un corpo estraneo, il quale è la causa del
movimento. Analogamente un’azione umana deve essere provocata da
qualcosa che agisce attivamente, qualcosa di più che una
libertà semplicemente passiva.
Questo può succedere solo in due casi. Nel primo, l’azione
è provocata dai motivi stessi, ossia dalle circostanze
esterne. In questo caso l’uomo non sarebbe evidentemente
responsabile dell’azione, e inoltre tutti gli uomini, nelle medesime
circostanze, dovrebbero agire esattamente nello stesso modo.
Nel secondo caso, l’azione scaturisce dalla suscettibilità
personale nei confronti dei motivi, quindi dal carattere innato,
ossia dalle inclinazioni personali che l’uomo possiede dalla
nascita, le quali possono essere diverse in individui diversi e
grazie alle quali i motivi hanno effetto. Ma in questo secondo caso
la volontà non sarebbe più libera, poiché le
inclinazioni personali sarebbero il peso posto sul piatto della
bilancia. La responsabilità ricadrebbe allora su colui che ve
le ha poste, su chi ha creato quell’uomo con quelle inclinazioni.
In definitiva, l’uomo sarebbe responsabile delle proprie azioni solo
nel caso in cui egli fosse opera di sè stesso, ossia se fosse
dotato di aseità.
Se inquadriamo il problema da questo punto di vista possiamo ben
comprendere quale è il ruolo fondamentale della
libertà di volere: aprire un opportuno abisso tra il Creatore
e i peccati della sua creatura. Possiamo quindi capire perché
i teologi vi si aggrappano con tanta ostinazione e perché i
loro scudieri (i professori di filosofia), ligi al proprio dovere,
la sostengono con tanto zelo, da rimanere ciechi e sordi di fronte
alle azzeccatissime controprove presentate dai grandi pensatori.
Loro invece insistono sulla libera volontà e per essa
combattono come pro ara et focis [per la casa e il focolare].
Per concludere definitivamente il discorso lasciato in sospeso su
Agostino, la sua opinione è che l’uomo abbia effettivamente
goduto di una volontà assolutamente libera solo prima di
commettere il peccato originale. In seguito, vittima di questo
peccato, l’uomo può sperare nella salvezza solo tramite la
redenzione e la grazia divina. Una affermazione come si conviene a
un padre della Chiesa.
Nel frattempo, grazie ad Agostino e alle sue polemiche con i
manichei e i pelagiani, la filosofia si è destata e ha preso
coscienza di questo problema. Da Agostino in poi, grazie agli
scolastici, questa consapevolezza divenne sempre più chiara,
come testimoniano il paradosso di Buridano e il sopra citato passo
di Dante.
A quanto risulta, il primo ad andare al fondo del problema della
libertà di volere è stato Hobbes, del quale nel 1656
è apparso il libro (ora piuttosto raro) Le questioni
concernenti la libertà, la necessità e il caso,
espressamente dedicato a questo tema, dal quale riporto alcuni passi
principali:
“Nulla ha inizio di per sé, ma per l’azione di qualche altro
agente immediato e autonomo. Di conseguenza, se ora un uomo desidera
o vuole qualcosa che un momento prima non desiderava né
voleva, la causa del suo volere non è la volontà
stessa, bensì qualcos’altro, che non dipende da lui.
Poiché la volontà è, senza dubbio, la causa
necessaria delle azioni volontarie, e poiché la
volontà viene necessariamente determinata da altre cose che
non dipendono da lei, ne risulta che ogni azione volontaria ha una
causa necessaria, quindi avviene per necessità.
Una causa è sufficiente quando non le manca nulla di
ciò che è indispensabile per produrre l’effetto. Una
causa sufficiente è anche necessaria [ossia, non può
che produrre l’effetto poichè non può essere
altrimenti]. Infatti, se una causa sufficiente non avesse effetto le
mancherebbe qualcosa di indispensabile per produrlo ed essa non
sarebbe sufficiente. Poiché è impossibile che una
causa sufficiente non abbia effetto, una causa sufficiente è
anche necessaria. È quindi evidente che qualunque cosa viene
prodotta, viene prodotta necessariamente. Infatti qualunque cosa
viene prodotta ha avuto una causa sufficiente che l’ha prodotta,
altrimenti non lo sarebbe stata. Pertanto anche le azioni volontarie
avvengono necessariamente.
La definizione consueta di agente libero - secondo la quale esso
potrebbe non produrre alcun effetto nonostante abbia tutti i
requisiti necessari per farlo - implica una contraddizione ed
è un nonsenso. Essa equivale, infatti, a dire che una causa
può essere sufficiente, ossia necessaria, senza tuttavia
essere seguita da alcun effetto.
Ogni accidente, per quanto contingente possa sembrare o per quanto
volontario sia, avviene necessariamente”.86
Nel suo famoso libro Il cittadino Hobbes dice:
“Ogni uomo è portato a desiderare ciò che per lui
è bene e a fuggire ciò che per lui è male. In
particolare, il massimo dei mali naturali: la morte. E questo egli
lo fa con una necessità non minore di quella con cui una
pietra è attratta verso il basso”.87
Subito dopo Hobbes troviamo Spinoza pervaso dalla medesima
convinzione. Per riassumere il pensiero di Spinoza su questo tema
citerò alcuni passi:
“Non si può dire che la volontà sia una causa libera,
ma solo che è una causa necessaria. Infatti la
volontà, come tutto il resto, ha bisogno di una causa che la
determini in modo univoco per esistere e operare.
Riguardo alla quarta obiezione (l’asino di Buridano) non esito ad
affermare che un uomo, posto in quello stato di equilibrio (nella
condizione appunto di non percepire altro che la sete e la fame, e
quel cibo e quella bevanda posti alla stessa distanza da lui)
morirebbe di fame e di sete.
Le decisioni della mente sorgono nella mente stessa con la medesima
necessità con cui sorgono le idee delle cose che esistono di
fatto. Pertanto coloro che credono di parlare, o di tacere, o di
fare qualcosa in seguito a una libera determinazione della propria
mente, stanno sognando ad occhi aperti.
Qualsiasi cosa è necessariamente determinata, nella propria
esistenza e nelle proprie azioni, da qualche causa esterna. Ad
esempio, immaginate una pietra che, per l’impulso esercitato da una
causa esterna, riceve una certa quantità di moto, grazie alla
quale essa continua necessariamente a muoversi, anche dopo che
l’impulso della forza esterna è cessato. Immaginate poi che
la pietra, mentre continua a muoversi, sia capace di pensare e sia
consapevole di stare tentando, il più possibile, di
continuare a muoversi. Questa pietra, essendo consapevole solo del
proprio sforzo ma non del resto, crederà di essere
assolutamente libera e di continuare nel movimento non per effetto
di un’altra causa, ma perché è lei stessa che lo
vuole.
Proprio questa è quella libertà dell’uomo che tutti si
vantano di possedere. Essa consiste solo nel fatto che l’uomo
è consapevole dei propri desideri, ma ignaro delle cause che
li determinano. Questa è l’esposizione esauriente della mia
opinione riguardo alla necessità libera e coatta, e anche
riguardo alla cosiddetta libertà dell’uomo”.88
È notevole il fatto che Spinoza sia giunto a comprendere
questa verità solo nei suoi ultimi anni (ossia, dopo i
quaranta), mentre prima, quando era ancora un cartesiano, aveva
decisamente e animosamente difeso la tesi opposta, addirittura in
contraddizione con il sopra citato passo riguardo al sofisma di
Buridano. Infatti, nel 1665 aveva scritto:
“Se in tale condizione di equilibrio ponessimo un uomo al posto
dell’asino, quell’uomo, nel caso morisse di fame e di sete, dovrebbe
essere considerato non un essere pensante bensì il più
turpe degli asini”.89
In seguito avrò modo di riportare un analogo cambiamento di
opinione e di insegnamento da parte di due altri grandi uomini.
Questo dimostra quanto difficile e profonda sia l’esatta
comprensione del nostro problema.
Nel saggio Sulla libertà e necessità - del quale ho
già citato un passo - Hume afferma, con il più limpido
convincimento, la necessità del singolo atto di
volontà in seguito a un determinato motivo e la illustra con
il massimo della chiarezza nel suo stile comprensibile a tutti. Hume
dice:
“La connessione tra motivi e azioni volontarie sembra essere
altrettanto regolare e uniforme quanto quella tra causa ed effetto
in qualsiasi evento naturale”.
E un poco più avanti:
“Sembra quindi impossibile occuparsi di cose scientifiche, o di
azioni di qualunque tipo, senza riconoscere il principio della
necessità e la inferenza dai motivi alle azioni volontarie,
dal carattere al comportamento”.90
Ma nessun scrittore ha dimostrato in maniera così esauriente
e convincente la necessità degli atti di volontà come
Priestley nel suo La dottrina della necessità filosofica, un
libro esclusivamente dedicato a questo tema. Chi non viene convinto
da questo libro, scritto in maniera estremamente chiara e
comprensibile, deve avere davvero un intelletto paralizzato dai
pregiudizi. Per riassumere i suoi risultati citerò alcuni
passi:
“Mi sembra che non esista un’assurdità più evidente
del concetto di libertà filosofica. Senza un miracolo o
l’intervento di qualche causa esterna, nessun atto di volontà
e nessuna azione di qualsiasi uomo avrebbe potuto essere diversa da
come è stata.
Nonostante un’inclinazione dell’animo o una emozione psichica non
rientrino nel campo della gravità, tuttavia esse mi
influenzano e agiscono su di me in una maniera così certa e
necessaria, come la gravità su una pietra.
L’affermazione che la volontà si determina da sola, è
priva di significato, o meglio, contiene la contraddizione: ‘una
determinazione (ossia un effetto) avviene senza alcuna causa’.
Infatti, se escludiamo tutto ciò che si intende per motivo,
non rimane proprio nulla per produrre quella determinazione.
Usate pure le parole che preferite, ma il concetto che un uomo possa
essere determinato talvolta da motivi e talvolta no, non potrete mai
descriverlo diversamente dal fatto che il piatto di una bilancia
possa essere spinto verso il basso talvolta da un peso e talvolta,
invece, da una fantomatica sostanza senza peso, la quale, qualunque
cosa possa essere, per la bilancia deve essere proprio nulla.
In un linguaggio filosofico appropriato, il motivo dovrebbe essere
denominato ‘causa propria dell’azione’. Esso ha le stesse
proprietà di qualunque cosa che in natura è la causa
di un’altra.
Non avremo mai la possibilità di fare due differenti scelte
quando tutte le condizioni al contorno sono esattamente le stesse.
Certo, quando un uomo rimprovera a sé stesso un’azione
compiuta nel passato, potrebbe pensare che trovandosi di nuovo nella
medesima situazione agirebbe diversamente. Ma è una pura
illusione. Infatti, se egli esaminasse rigorosamente sé
stesso e prendesse in considerazione tutte le circostanze, potrebbe
rendersi conto che - nella medesima disposizione d’animo e con la
stessa visione delle cose che aveva allora, escludendo tutte le
altre che ha acquisito in seguito tramite la riflessione - non
avrebbe potuto agire diversamente da come ha agito.
Insomma, in questo campo non c’è alternativa: o la dottrina
della necessità oppure l’assoluto nonsenso”.91
Bisogna notare che a Priestley è andata esattamente come a
Spinoza e a un altro grand’uomo di cui parleremo più avanti.
Infatti, nella prefazione alla prima edizione, Priestley dice:
“Non mi sono facilmente convertito alla teoria della
necessità. Come il Dr Hartley anch’io ho rinunciato con
grande riluttanza alla mia libertà. In una lunga
corrispondenza, che ho avuto tempo fa su questo tema, ho difeso
strenuamente la teoria della libertà e non mi sono affatto
arreso agli argomenti che allora mi venivano opposti”.92
Il terzo grande uomo a cui è andata nel medesimo modo
è Voltaire, il quale racconta questa vicissitudine con la sua
tipica amabilità e spontanea sincerità. In effetti,
nel suo Trattato di metafisica (1734) aveva diffusamente e
animatamente difeso la cosiddetta libertà di volere. Solo nel
libro Il filosofo ignorante, scritto trent’anni più tardi
(1766), Voltaire sostiene la ferrea necessità degli atti di
volontà:
“Archimede resta necessariamente nella sua stanza, sia quando lo si
chiude dentro, sia quando è talmente preso da un problema da
non pensare neppure ad uscire. Ducunt fata volentem, nolentem
trahunt [il fato conduce chi lo vuole e trascina chi non lo vuole
assecondare]. L’uomo ignaro, che arriva a convincersi di questa
cosa, non ha sempre pensato in questo modo, ma alla fine è
costretto ad arrendersi”.93
E nel libro successivo Il principio di azione Voltaire ribadisce:
“La boccia che urta e mette in moto un’altra, il cane da caccia che
insegue un cervo perché lo deve e perché lo vuole
inseguire, e il cervo che con altrettanta volontà e
necessità salta un largo fossato. Tutto questo non è
più inesorabilmente determinato di quanto lo siamo noi in
tutto ciò che facciamo”.94
Questo identico cambiamento di opinione di tre eminenti pensatori, a
favore della nostra tesi, deve certamente stupire chiunque si
accinga a confutare una verità ben fondata con
quell’affermazione - del tutto fuori luogo - della sua autocoscienza
ingenua: “Io posso fare ciò che voglio”.
Dati questi suoi immediati predecessori, non dobbiamo meravigliarci
che Kant abbia considerato la necessità, con la quale il
carattere empirico viene determinato all’azione dai motivi, come un
dato di fatto per sé e per gli altri, e non abbia perso tempo
per dimostrarla di nuovo. Kant inizia il suo saggio Idea di una
storia universale dal punto di vista cosmopolitico (1784) con questa
frase:
“Qualunque possa essere, anche dal punto di vista metafisico, il
proprio concetto di libertà di volere, rimane il fatto che i
suoi fenomeni - le azioni umane - sono determinate da leggi
universali naturali esattamente come qualsiasi altro fenomeno
naturale”.
Nella Critica della ragion pura (p. 548, i Ed.; p. 577, v Ed.) Kant
dice:
“Il carattere empirico stesso deve essere dedotto, come effetto, dai
fenomeni e dalla loro regola che l’esperienza ci offre,
poiché tutte le azioni dell’uomo, in quanto fenomeni, sono
determinate, in conformità all’ordine naturale, dal suo
carattere empirico e dalle altre cause concomitanti.
Se potessimo indagare fino in fondo tutte le manifestazioni del suo
arbitrio, troveremmo che ogni azione dell’uomo potrebbe essere
prevista con certezza e riconosciuta come necessariamente
determinata dalle condizioni che la precedono.
Quindi, dal punto di vista del carattere empirico non esiste alcuna
libertà, e se volessimo semplicemente osservare e ricercare -
come fa l’antropologia - le cause che muovono l’uomo partendo dalle
sue azioni, potremmo considerare l’uomo proprio in base al suo
carattere empirico”.
E più avanti (p. 798, i Ed.) e (p. 826, v Ed.):
“La volontà può anche essere libera, ma questo
riguarda solo il carattere intelligibile95 del nostro volere.
Invece, per quanto concerne i fenomeni in cui la volontà si
manifesta (le azioni), noi non possiamo mai spiegarli in maniera
diversa da come spieghiamo qualunque altro fenomeno della natura,
ossia in base alle immutabili leggi della natura stessa, secondo un
principio fondamentale inviolabile, senza il quale non potremmo
esercitare alcun uso pratico della ragione”.
Rincarando la dose, nella Critica della ragion pratica (p. 177, iv
ed.; p. 230, ed. Rosenkranz) Kant dice:
“Se potessimo conoscere il modo di pensare [il carattere empirico]
di un determinato uomo - così come esso si manifesta nelle
sue azioni interne ed esterne - tanto in profondità da
scoprire anche le più minuscole molle di spinta, e se, allo
stesso tempo, potessimo anche conoscere tutte le circostanze esterne
che su di lui influiscono, potremmo calcolare il comportamento
futuro di quel determinato uomo con la stessa certezza con cui
calcoliamo le eclissi del sole e della luna”.
Kant giustifica queste sue affermazioni con dottrina della
coesistenza della libertà e della necessità, tramite
la distinzione tra il carattere intelligibile e il carattere
empirico. In seguito ritornerò su questa concezione, che io
condivido pienamente. Kant ha esposto due volte questa dottrina
nella Critica della ragion pura (p. 532-554, i Ed.; p. 560-582, iv
Ed.; p. 224-231, Ed. Rosenkranz). Chi volesse comprendere a fondo la
compatibilità tra la libertà e la necessità
delle azioni umane dovrebbe leggere questi passi, che sono il frutto
di un pensiero estremamente profondo.
Fino a questo punto il mio metodo di affrontare il problema [della
libertà di volere] si differenzia da quello di tutti questi
nobili e degnissimi predecessori soprattutto per due aspetti.
Il primo, nell’aver nettamente separato - come indicato nel quesito
del concorso - la consapevole percezione interiore della
volontà (autocoscienza) da quella esteriore (coscienza delle
altre cose) e di averle trattate separatamente. In questo modo
è stato possibile smascherare (per la prima volta) la
sorgente di quell’illusione [io posso fare ciò che voglio =
libertà di volere] così incredibilmente tenace per la
maggior parte degli uomini.
Il secondo, nell’aver considerato la volontà umana in
rapporto con tutto il resto della natura (cosa che nessun altro ha
fatto prima di me). Questo approccio ha consentito di dibattere il
problema con tutta la profondità, comprensione metodica ed
esaustività che gli compete.
Ed ora due parole su alcuni scrittori, successivi a Kant, che hanno
pubblicato qualcosa al riguardo, ma che io non considero miei
predecessori.
Riguardo alla sopra lodata ed estremamente importante dottrina
kantiana del carattere intelligibile ed empirico, Schelling ha
fornito una parafrasi esplicativa [spiegazione con parole più
semplici] nel trattato Ricerche filosofiche sull’essenza della
libertà umana (p. 465-471). Grazie al suo stile vivace e
colorito, la parafrasi scritta da Schelling può servire, per
rendere questa dottrina comprensibile a parecchie persone,
più di quanto riesca a fare la secca esposizione fatta da
Kant.
Ma contemporaneamente non posso ricordarla senza rimproverare a
Schelling - a onore della verità e di Kant - di non dire
esplicitamente che la dottrina esposta (una delle più
importanti e degne di ammirazione, anzi, secondo me, la dottrina di
Kant dal significato più profondo) appartiene esclusivamente
a Kant. Rimprovero anche a Schelling di esprimersi in maniera tale
da indurre la maggior parte dei suoi lettori, che non ha ben
presente il contenuto della vasta e difficile opera di quel grande
uomo, a credere di stare leggendo un pensiero originale di
Schelling.
Voglio ora mostrare, con una testimonianza tra le tante, quanto
successo abbia corrisposto a questo suo proposito. Ancora oggi un
giovane professore di filosofia di Halle, il signor Johann Erdmann,
nel suo libro Corpo e anima, (1837 ) dice:
“Se anche Leibniz, analogamente a quanto fa Schelling nel suo
trattato sulla libertà, ammette che l’anima sia determinata
fin dall’inizio, ecc.”.
Su questo tema Schelling sta rispetto a Kant come Amerigo sta a
Colombo, ossia la scoperta che l’altro ha fatto viene etichettata
con il proprio nome. Ma Schelling deve ringraziare la propria
astuzia, non il caso. Infatti, nel suo trattato (p. 465) Schelling
così esordisce:
“È stato l’idealismo il primo ad innalzare la dottrina della
libertà in quell’ambito, ecc.”
e di seguito viene direttamente riportato il pensiero di Kant.
In questo passo, invece di citare onestamente il nome di Kant,
Schelling astutamente parla di idealismo, una termine con più
significati, con il quale comunemente si intende la prima filosofia
fichtiana di Schelling e quella di Fichte stesso, non certo la
dottrina di Kant. Kant, infatti, ha protestato contro la
denominazione di idealismo affibbiata alla sua filosofia - ad
esempio, nei Prolegomeni (p. 51) e nella Critica della ragion pura
(Ed. Rosenkranz, p. 155) - e ha addirittura inserito, nella seconda
edizione della Critica della ragion pura (p. 274) un paragrafo
dedicato alla confutazione dell’idealismo.
Nella pagina successiva, in una frase secondaria e con molta
accortezza, Schelling fa un accenno al ‘concetto kantiano’, proprio
per placare quei lettori che ben sanno, che ciò che Schelling
sta pomposamente spacciando come merce propria appartiene, in
realtà, a Kant. Ma poi (p. 472) - alla faccia della
verità e della giustizia - Schelling afferma che Kant non si
sarebbe spinto fino a quella visione della teoria. Invece, in quei
due passi immortali che io ho raccomandato di leggere, ognuno
può chiaramente constatare che questa visione della dottrina
spetta originalmente ed esclusivamente a Kant, senza il quale
neppure un altro migliaio di teste, come quelle dei signori Fichte e
Schelling, sarebbero mai riuscite a concepirla.
Avendo dovuto parlare del trattato di Schelling, non ho potuto
tacere su questo punto, per adempiere così il mio dovere nei
confronti di quel grande maestro dell’umanità, il quale -
unico insieme a Goethe - costituisce giustamente l’orgoglio della
nazione tedesca, e per rivendicare a Kant ciò che
indiscutibilmente a lui solo appartiene. Questa è una
precisazione oltremodo opportuna, soprattutto in un’epoca dove vige
davvero il detto di Goethe:
“Le bande di monelli sono i padroni della strada”.
Oltretutto Schelling, nel suo trattato, ha anche avuto la
sfrontatezza di fare propri i pensieri, anzi, le parole di Jakob
Böhme senza citare la fonte originale.
Oltre alla parafrasi del pensiero di Kant, in questo trattato di
Schelling non c’è altro che possa essere utilizzato per
acquisire nuovi o fondamentali chiarimenti riguardo alla
libertà. Questo vuoto si annuncia già all’inizio del
suo trattato dove compare la definizione della libertà come
‘facoltà di distinguere il bene dal male’.
Per il catechismo una simile definizione potrebbe anche andar bene,
ma in filosofia essa non dice nulla, poiché partendo da una
simile definizione non si può fare alcun passo in avanti. Il
bene e il male, infatti, sono ben lontani dall’essere notiones
semplices [concetti semplici] che di per sé non hanno bisogno
di alcun chiarimento, precisazione e fondamento.
Solo una piccola parte di quel trattato affronta il problema della
libertà. Il contenuto principale è piuttosto un
dettagliato racconto riguardo a un Dio, che il signor autore lascia
intendere di conoscere intimamente, dal momento che ci descrive
addirittura come Dio è sorto. Peccato però che
Schelling non dica una sola parola su come egli abbia potuto
acquisire una simile conoscenza. L’inizio del trattato è poi
un intreccio di sofismi, la cui superficialità risulta
evidente a chiunque non si lasci intimorire dalla baldanza del tono
della voce.
Grazie a questa e ad analoghe produzioni, da allora nella filosofia
tedesca sono subentrati, al posto dei concetti chiari e di una
ricerca onesta, la ‘intuizione intellettuale’ e il ‘pensiero
assoluto’. Impressionare, sorprendere, mistificare, gettare sabbia
negli occhi del lettore con concetti artificiosi di ogni tipo:
questa è diventata la prassi. Al posto della comprensione
è regolarmente l’intenzione a condurre il discorso.
Con tutto questo la filosofia (se così ancora vogliamo
chiamarla) ha dovuto cadere sempre più in basso fino a
raggiungere l’infimo gradino nella creatura ministeriale Hegel.
Questi, per soffocare di nuovo la libertà di pensiero
conquistata grazie a Kant, ha ridotto la filosofia - la figlia della
ragione e la futura madre della verità - a strumento dei fini
dello Stato, dell’oscurantismo e del gesuitismo protestante.
Per nascondere una simile vergogna e per conseguire allo stesso
tempo il maggior ottenebramento possibile delle teste, Hegel vi ha
gettato sopra il mantello di un ciarpame di parole vuote e della
più insulsa gallimatia [chiacchiericcio insensato e vano]96
che siano mai state udite, perlomeno al di fuori di un manicomio.
In Inghilterra e in Francia la filosofia, nel complesso, è
rimasta ancora al punto dove Locke e Condillac l’hanno lasciata.
Maine de Biran (definito dal suo editore, il signor Victor Cousin:
«il primo metafisico francese dei miei tempi») nel suo
trattato Nuove considerazioni sui rapporti tra l’aspetto fisico e
morale dell’uomo (1834) mostra di essere un fanatico sostenitore del
liberum arbitrium indifferentiae, che lui considera come una cosa
che si capisce perfettamente da sé.
Non la pensano diversamente parecchi scribacchini di filosofia
tedeschi degli ultimi tempi. Per loro il liberum arbitrium
indifferentiae, sotto il nome di ‘libertà morale’, è
cosa fatta, come se tutti quei grandi uomini, precedentemente
citati, non fossero mai esistiti. Questi scribacchini proclamano che
la libertà di volere è immediatamente data
nell’autocoscienza ed è così incrollabilmente salda,
che ogni argomento contro di essa non può essere altro che un
sofisma. Questa loro sublime certezza scaturisce semplicemente dal
fatto che questa buona gente non sa assolutamente cosa significhi
‘libertà di volere’.
Nella loro innocenza, per libertà di volere non intendono
altro che il dominio della volontà sulle membra del corpo
(come si è visto nel paragrafo ii). Ma di questo tipo di
libertà - la cui espressione è proprio quello: Io
posso fare ciò che voglio - nessuna persona ragionevole ha
mai dubitato. Ciò nonostante loro sostengono sinceramente che
questa sarebbe la libertà di volere e ribadiscono che essa
sta al di sopra di qualsiasi dubbio.
Si trovano proprio in quello stato di innocenza in cui, dopo
così tanti e grandi predecessori, la filosofia di Hegel ha
retrocesso lo spirito del pensiero tedesco. Gente di questa pasta si
potrebbe giustamente così apostrofare:
“Siete forse come quelle donnicciole che ritornano sempre alla loro
prima affermazione anche dopo che per ore si è ragionato con
loro?”.97
Per parecchi di loro i motivi teologici, a cui abbiamo accennato in
precedenza, potrebbero esercitare inconsciamente qualche effetto.
Anche gli scrittori di medicina, zoologia, storia, politica e
belletristica [letteratura amena] dei nostri giorni, con quanto
piacere colgono ogni occasione per menzionare la ‘libertà
dell’uomo’ e la ‘libertà morale’!
Così facendo credono di dire gran cosa, ma si guardano bene
dal dare una spiegazione di quei concetti. Eppure, se potessimo
indagare su di loro, scopriremmo che queste persone riguardo alla
libertà di volere non pensano proprio nulla, oppure che
pensano ancora al vecchio, onesto e arcinoto liberum arbitrium
indifferentiae, qualunque possano essere le eccellenti perifrasi con
cui tentano di camuffarlo. Questo è un concetto della cui
inammissibilità non si riuscirà mai a convincere la
grande massa; tuttavia le persone istruite dovrebbero ben guardarsi
dal parlarne con tanta ingenuità.
Tra loro ci sono poi anche dei codardi molto divertenti i quali, non
avendo il coraggio di parlare di ‘libertà di volere’, per
fare bella figura parlano di ‘libertà dello spirito’,
sperando così di aver aggirato l’ostacolo. Cosa loro
intendano per ‘libertà dello spirito’ posso, per fortuna,
spiegarlo io al lettore che, con uno sguardo perplesso, mi rivolge
una simile domanda. Nulla, loro non ne pensano assolutamente nulla!
Ma secondo le buone consuetudini tedesche, proprio un’espressione
del tutto indeterminata, anzi, un’espressione che non dice
assolutamente nulla, è ciò che fornisce alla loro
vacuità e viltà l’agognato pretesto per svignarsela.
La parola ‘spirito’ è in realtà un’espressione tropica
[dal significato mutevole] la quale indica in generale le
facoltà intellettuali che si differenziano dalla
volontà. Tuttavia queste facoltà non sono affatto
libere nella loro attuazione, ma devono innanzitutto adeguarsi,
conformarsi e sottomettersi alle regole della logica, e poi, di
volta in volta, all’oggetto del loro conoscere, per poterlo
comprendere puramente, quindi oggettivamente, cosicché non si
dica mai: stat pro ratione voluntas [la volontà è
assurta a ragione].
In generale questo Geist [spirito], che al giorno d’oggi gironzola
dappertutto nella letteratura tedesca, è una figura molto
sospetta, ed è quindi opportuno, ogni volta che lo si
incontra, chiedere il suo salvacondotto. La sua più frequente
attività, infatti, è servire da maschera alla
povertà di pensiero in combutta con la viltà.
Oltretutto la parola Geist [spirito] è notoriamente
imparentata con la parola Gas, che trae origine dall’arabo e
dall’alchimia, e che significa vapore o aria, ma anche spiritus,
pneuma [pneuma: spirito] e animus (a sua volta imparentato con
anemoj [anemos: vento]).
Per quanto riguarda il nostro tema le cose stanno come abbiamo
precedentemente detto, sia nel mondo filosofico e sia in quello
culturale più ampio, dopo tutto quello che i suddetti grandi
pensatori ci hanno insegnato al riguardo. Questa è
un’ulteriore conferma che non solo la natura in tutti i tempi ha
prodotto - come rare eccezioni - pochissime persone che sanno
veramente pensare, ma anche che, in ogni tempo, questi pochissimi
sono esistiti solo per pochi altri. Proprio per questo l’illusione e
l’errore continuano a dominare.
Nel campo morale è molto importante anche la testimonianza
dei grandi poeti. Questi non parlano in seguito a una ricerca
sistematica, eppure per il loro sguardo penetrante la natura umana
è un libro aperto. Per questo ciò che loro dicono
coglie direttamente la verità.
Nella tragedia Misura per misura di Shakespeare, Isabella chiede al
supplente del re, Angelo, la grazia per il fratello condannato a
morte:
Angelo: Non lo farò.
Isabella: Ma potreste farlo, se lo voleste?
Angelo: Guardate, non posso fare ciò che non voglio.98
Nella Dodicesima notte si dice:
“Fato, mostra la tua forza. Noi non siamo padroni di noi stessi.
Ciò che è stato decretato deve accadere, e così
sia”.99
Anche Walter Scott, grande conoscitore e pittore del cuore umano e
dei suoi moti più segreti, ha messo chiaramente in luce
quella verità così profondamente radicata. Nel suo Il
pozzo di San Ronan, Scott ci presenta una peccatrice pentita e
moribonda, che sul letto di morte cerca, confessandosi, di alleviare
la propria coscienza angosciata e nel bel mezzo di questa
confessione le fa dire:
“Andate, abbandonatemi al mio destino. Io sono la persona più
miserabile e detestabile che sia mai esistita, e quel che è
peggio, detestabile a me stessa. Anche nella mia attuale penitenza,
infatti, una voce segreta mi dice che, se ora io fossi come ero,
rifarei di nuovo tutte le malvagità che ho commesso in
passato, anzi ne farei di peggio. Che il cielo mi aiuti a soffocare
questo pensiero perverso!”.100
Una conferma di questa verità descritta poeticamente da Scott
ce la fornisce la seguente analoga vicenda, la quale conferma anche
al massimo grado la dottrina della costanza del carattere. La
notizia è rimbalzata dal giornale francese La Presse al Times
del 2 luglio 1845 , dal quale la traduco.
Titolo: Esecuzione militare a Oran. «Il 24 marzo lo spagnolo
Aguilar, alias Gomez, è stato condannato a morte. Il giorno
dell’esecuzione, parlando con il capo delle guardie, disse: “Io non
sono così colpevole come mi hanno descritto. Sono stato
accusato di trenta omicidi, mentre in realtà ne ho compiuti
ventisei. Fin da piccolo ero assetato di sangue. A sette anni e
mezzo ho accoltellato un bambino. Ho ucciso una donna gravida e
più tardi un ufficiale spagnolo. Per questo sono stato
costretto a lasciare la Spagna. Sono fuggito in Francia, dove ho
commesso altri due delitti, prima di entrare nella legione
straniera. Tra tutti i miei delitti provo rimorso soprattutto del
seguente. Nel 1841, al comando della mia compagnia, ho fatto
prigioniero un deputato commissario generale, scortato da un
sergente, un caporale e sette uomini. Li ho fatti tutti decapitare.
La morte di queste persone mi pesa sulla coscienza. Le rivedo nei
miei sogni e domani le vedrò guardarmi attraverso gli occhi
dei soldati del plotone di esecuzione. Nonostante tutto ciò,
se dovessi riacquistare la libertà, ucciderei ancora altre
persone”».
Anche il seguente passo, tratto dalla Ifigenia di Goethe, è
pertinente a questo tema:
“Arcade: Così hai disatteso il mio sincero consiglio.
Ifigenia: Ho fatto volentieri, ciò che ho potuto fare.
Arcade: Potresti cambiare opinione all’ultimo momento.
Ifigenia: Questo non sta affatto nel nostro potere”.101
Infine un famoso passo del Wallenstein di Schiller ribadisce questa
verità fondamentale:
“Gli atti e i pensieri dell’uomo - sappiatelo - non sono
come le onde del mare mosse ciecamente dal vento.
Il mondo interiore, il microcosmo, è il pozzo
profondo da cui eterni scaturiscono.
Essi sono necessari come i frutti dell’albero
e il caso non può mutarli per gioco.
Una volta scrutata l’intima essenza dell’uomo,
anche il suo volere e le sue azioni conosco”.102
v - Conclusione e visione più elevata
Ho voluto ricordare con piacere tutti quei gloriosi predecessori -
poeti e filosofi - che hanno affermato la verità da me qui
sostenuta. Ma le vere armi del filosofo non sono le autorità,
bensì le ragioni. Per questo, solo con le ragioni ho
sostenuto la mia tesi e spero di aver fornito un’evidenza tale, da
sentirmi ora autorizzato a trarre la conseguenza: a non posse ad non
esse [se una cosa non è possibile, non può neppure
esistere].
Tramite questa conseguenza viene ora giustificata anche
indirettamente, quindi a priori, la ben fondata risposta negativa al
quesito della Reale Società. Questa risposta era stata data
in precedenza direttamente e di fatto, quindi a posteriori, in
seguito all’indagine sull’autocoscienza. In effetti, ciò che
assolutamente non esiste, non può neppure avere alcun dato
all’interno dell’autocoscienza grazie al quale possa dimostrare la
propria esistenza.
Anche se la verità da me qui sostenuta fosse una di quelle
che possono andare contro le opinioni preconcette della maggioranza
miope delle persone, e addirittura scandalizzare le persone
intellettualmente deboli e ignoranti, ciò non ha potuto
trattenermi dall’esporla senza esitazioni e senza riserve.
Qui, infatti, stiamo parlando non alla massa, ma ad una illuminata
Accademia, la quale ha formulato il suo quesito di vivissima
attualità, non per consolidare il pregiudizio, ma per onorare
la verità. Inoltre un onesto ricercatore, fintanto che si
tratta di stabilire e di giustificare una determinata verità,
presterà costantemente attenzione alle ragioni di quella
verità, non alle sue conseguenze, per le quali verrà
il tempo opportuno, quando quella verità si sarà
imposta.
Non preoccuparsi delle conseguenze, verificare solo le ragioni e non
domandarsi se una verità riconosciuta stia, o non stia, in
sintonia con il sistema delle nostre precedenti convinzioni: questo
è ciò che Kant stesso consiglia, con parole che io qui
non posso fare a meno di ripetere.
“Questo rafforza la massima, lodata e riconosciuta già da
altri, di portare avanti ogni ricerca scientifica con tutta
l’accuratezza e la franchezza possibile, senza prestare attenzione a
ciò contro cui essa potrebbe eventualmente cozzare fuori dal
suo campo, bensì di eseguire la ricerca per sè stessa,
con la massima verità e nella maniera più completa
possibile.
Ho avuto spesso modo di osservare, e di convincermi, che quando si
è condotta a termine una simile impresa, quelle cose che, nel
bel mezzo della ricerca, mi sembravano talvolta problematiche
tenendo conto di altre dottrine collaterali, se io mettevo da parte
queste perplessità, semplicemente accantonandole e dedicando
la massima attenzione alla mia ricerca fin quando essa non fosse
ultimata, alla fine - sorprendentemente - combaciavano perfettamente
con ciò che era stato scoperto di per sè, senza tener
minimamente conto di quelle altre dottrine, senza parzialità
o pregiudizi.
Lo scrittore potrebbe risparmiarsi parecchi errori e parecchie
fatiche sprecate, poiché poggiate sulla illusione, se solo
decidesse di mettere mano alle proprie opere con maggiore
franchezza”.103
Le nostre conoscenze metafisiche in generale sono ancora distanti
anni luce dall’avere una certezza tale, da dover respingere una
verità accuratamente provata per il semplice fatto che le sue
conseguenze non si accordano con quelle conoscenze. È vero
piuttosto che ogni verità faticosamente perseguita e
stabilita costituisce un pezzetto di terreno conquistato nel campo
della conoscenza in generale, e un punto fermo, sul quale poggiare
le leve che solleveranno altri carichi, anzi dal quale, nei casi
più favorevoli, ci si può di colpo proiettare verso
nuove visioni più elevate del tutto.
Il concatenamento delle verità in ogni campo del sapere,
infatti, è talmente grande, che chi è entrato in
sicuro possesso di una sola verità può eventualmente
sperare, partendo da quella, di conquistare tutte le rimanenti.
Come in un difficile problema algebrico una sola grandezza
positivamente data è di inestimabile valore, poiché
consente di procedere alla soluzione, così nel più
difficile di tutti i problemi umani - la metafisica - la conoscenza
certa e dimostrata a priori e a posteriori della ferrea
necessità con cui le azioni procedono da un determinato
carattere e da determinati motivi, costituisce un dato di valore
talmente grande, che partendo semplicemente da esso si può
giungere alla soluzione dell’intero problema. Perciò tutto
ciò che non può vantare una solida
attendibilità scientifica, di fronte a una simile e ben
fondata verità deve farsi da parte quando si trova sul suo
cammino, e non viceversa. In nessun caso questa verità deve
accettare accomodamenti e limitazioni per entrare in accordo con
altre affermazioni infondate e probabilmente errate.
A questo punto mi si consenta un’osservazione di carattere generale.
Uno sguardo retrospettivo sul nostro risultato ci permette di
constatare che riguardo a quelli che in precedenza abbiamo indicato
come i più profondi problemi filosofici del nuovo tempo: la
libertà di volere e il rapporto tra l’ideale e il reale (dei
quali, invece, gli antichi non erano chiaramente consapevoli), il
rozzo buon senso non solo è incompetente, ma addirittura
manifesta una naturale e marcata tendenza all’errore, per correggere
il quale è necessario ricorrere a una filosofia ben evoluta.
In effetti per l’intelletto è del tutto naturale,
relativamente al conoscere, attribuire fin troppo all’oggetto.
Proprio a causa di questa naturale inclinazione ci sono voluti Locke
e Kant per dimostrare quanto grande sia il contributo alla
conoscenza da parte del soggetto.
Invece, relativamente al volere, l’intelletto manifesta la tendenza
opposta, di attribuire poco all’oggetto e molto al soggetto, a tal
punto da far dipendere il volere stesso completamente dal soggetto,
senza tenere in dovuta considerazione il fattore insito
nell’oggetto: il motivo.
Eppure è proprio il motivo a determinare nel complesso la
natura individuale dell’azione, mentre la generalità e
l’essenza dell’azione - la sua caratteristica fondamentale dal punto
di vista morale - deriva dal soggetto. Ma non dobbiamo stupirci di
questa naturale stortura dell’intelletto nel corso di una indagine
puramente teorica. L’intelletto, infatti, è originariamente
destinato a fini pratici, non speculativi.
Se, in seguito a tutto quanto precedentemente esposto, siamo giunti
a negare completamente la libertà delle azioni umane e ad
assoggettarla alla più rigorosa necessità, ci troviamo
ora nella situazione di poter comprendere la vera libertà
morale, la quale è di natura ancora più elevata.
In effetti, esiste un altro dato di fatto della coscienza, che
abbiamo finora completamente trascurato per non intralciare il corso
dell’indagine. Questo dato di fatto è il sentimento
perfettamente certo e chiaro della responsabilità che abbiamo
di ciò che facciamo e della nostra imputabilità per le
nostre azioni. Questo sentimento poggia sull’incrollabile certezza
che noi stessi siamo gli autori delle nostre azioni.
In virtù di questa consapevolezza, a nessuno - neppure a chi
è assolutamente convinto della necessità con cui le
nostre azioni avvengono - verrà mai in mente di discolparsi
di una cattiva azione tramite questa necessità e di scaricare
la colpa dalle proprie spalle sui motivi, proprio perché il
loro sopraggiungere ha reso inevitabile l’azione.
Ogni uomo, infatti, capisce perfettamente che questa
necessità ha una condizione soggettiva e che oggettivamente -
ossia, in quelle determinate circostanze e sotto l’influsso dei
motivi che lo hanno personalmente determinato - un’azione ben
diversa, anzi addirittura l’azione diametralmente opposta, sarebbe
stata possibile e avrebbe potuto avvenire, semplicemente se lui
fosse stato un altro. Tutto è dipeso solo da questo.
Certo, per lui non era possibile compiere un’altra azione, sia
perché lui è quello che è e non un altro, e sia
perché lui ha il carattere che ha. Ma per quanto riguarda
un’altra azione, di per sé, quindi oggettivamente, essa
sarebbe stata possibile. La sua responsabilità - di cui lui
è consapevole - riguarda innanzitutto e apparentemente
l’azione, ma essenzialmente riguarda il suo carattere. Di questo suo
carattere lui si sente responsabile.
Anche per gli altri lui è responsabile del suo carattere. Il
loro verdetto, infatti, mette subito in secondo piano l’azione per
definire la natura dell’autore: ‘È un uomo cattivo, un
furfante’, ‘È una canaglia’, oppure: ‘È un’anima
meschina, falsa e vile’. Così suona il loro verdetto: il loro
rimprovero ricade sul suo carattere. L’azione, insieme al motivo,
viene presa in considerazione semplicemente come testimonianza del
carattere dell’autore, e vale come sintomo certo di quel carattere,
con il quale l’autore viene per sempre e irrevocabilmente bollato.
Giustamente Aristotele dice:
“Elogiamo coloro che hanno compiuto opere. D’altra parte, le azioni
compiute sono il segno di una disposizione morale: infatti loderemmo
anche uno che non ha realizzato nulla, se fossimo certi che ne
sarebbe capace”.104
L’odio, l’avversione e il disprezzo non si abbattono quindi
sull’azione transitoria, bensì sull’indelebile natura
dell’autore, quindi sul suo carattere, dal quale l’azione è
scaturita. Per questo in tutte le lingue gli epiteti di bassezza
morale e le ingiurie che la contraddistinguono, sono predicati che
vengono attribuiti più all’autore che all’azione. Essi
bollano il suo carattere, poiché è questo il colpevole
di ciò che è stato attribuito all'autore in seguito
all’azione compiuta.
La responsabilità deve stare là dove sta la colpa.
Siccome la responsabilità è l’unico dato che autorizza
a sancire la libertà morale, anche la libertà deve
stare nello stesso posto, ossia nel carattere dell’uomo. Questo
è tanto più plausibile dopo che ci siamo
abbondantemente convinti che la responsabilità non va
ricercata immediatamente nella singola azione, poiché
l’azione avviene con assoluta necessità una volta che il
carattere è dato. Ma il carattere (come abbiamo visto nel
paragrafo iii) è innato e immutabile.
Esaminiamo ora più da vicino la libertà in questo
senso - il solo di cui si hanno dati - per poterla capire il
più possibile dal punto di vista filosofico, dopo che
l’abbiamo dedotta da un dato di fatto della coscienza e ben
localizzata.
Nel paragrafo iii abbiamo visto che ogni azione di un uomo è
il prodotto di due fattori: il suo carattere e il motivo. Ma questo
non significa che l’azione sia qualcosa di mezzo, quasi un
compromesso tra il motivo e il carattere. In realtà l’azione
soddisfa pienamente sia il carattere che il motivo, poiché
poggia in lungo ed in largo contemporaneamente su entrambi, nel
senso che il motivo agisce su un determinato carattere e questo
carattere è potenzialmente influenzabile da questo motivo.
Il carattere è la natura costante, immutabile ed
empiricamente conosciuta di una volontà individuale. Il fatto
che il carattere sia un fattore necessario per ogni azione, tanto
quanto lo è il motivo, spiega l’origine della sensazione che
le nostre azioni procedono da noi stessi, o quello ‘Io voglio’ che
accompagna tutte le nostre azioni, in forza del quale ognuno deve
riconoscerle come azioni sue, delle quali si sente quindi moralmente
responsabile.
Questo è esattamente quello: ‘Io voglio, e voglio sempre
soltanto ciò che io voglio’, in cui ci siamo precedentemente
imbattuti durante l’indagine dell’autocoscienza, e che induce il
rozzo intelletto ad affermare testardamente l’esistenza di una
libertà assoluta di fare e di non fare, il liberum arbitrium
indifferentiae.
Questa testarda affermazione non esprime altro che la consapevolezza
del secondo fattore dell’azione - il carattere - il quale da solo
non è capace di provocarla, tanto quanto è incapace di
evitarla una volta che è subentrato il motivo. Solo in questo
modo, ossia quando viene messo in azione, il carattere manifesta la
propria natura alla facoltà conoscitiva, la quale -
principalmente orientata verso l’esterno - può arrivare a
conoscere la natura della propria volontà solo
sperimentalmente tramite le sue azioni.
Questa conoscenza di sé, che si perfeziona sempre più
e che diventa sempre più intima, è ciò che
propriamente si chiama ‘coscienza morale’. Proprio a causa di questo
[riconoscimento empirico a posteriori] la coscienza morale si fa
sentire direttamente soltanto dopo l’azione. Prima, invece, si fa
sentire solo indirettamente - tramite il ripensare e il rammentare
casi analoghi [precedentemente vissuti], in occasione dei quali essa
ha già avuto modo di conoscere sé stessa - nel momento
in cui un nuovo caso [che si sta prospettando in] futuro diventa
oggetto di riflessione.
A questo punto è opportuno ricordare la spiegazione
(accennata nel precedente paragrafo) che Kant ha dato del rapporto
tra il carattere empirico e il carattere intelligibile, e grazie ad
esso della compatibilità tra libertà e
necessità. Questa è una delle più belle e
più profonde dottrine che questo grande spirito - anzi, che
l’umanità intera - abbia mai prodotto. In questa sede posso
fare solo un breve accenno, poiché sarebbe inutile e prolisso
ripetere la spiegazione data da Kant.
Solo tramite questa dottrina è possibile comprendere - fin
dove le forze umane lo consentono - come la ferrea necessità
delle nostre azioni possa coesistere con quella libertà che
il sentimento di responsabilità sta a testimoniare, in forza
della quale noi siamo gli autori delle nostre azioni, che moralmente
devono essere addebitate a noi.
Il rapporto - illustrato da Kant - tra il carattere empirico e il
carattere intelligibile poggia completamente sul punto fondamentale
della sua filosofia: la distinzione tra ‘fenomeno’ e ‘cosa in
sé’. Come - secondo Kant - la realtà empirica del
mondo dell’esperienza coesiste con l’idealità
trascendentale105 del mondo stesso, così pure la
necessità empirica dell’agire umano coesiste con la
libertà trascendentale dell’agire stesso.
Il carattere empirico - come pure l’uomo - in quanto oggetto
dell’esperienza è un semplice fenomeno legato alle forme
della conoscenza (spazio, tempo e causalità), sottoposto
quindi alle loro leggi. La ‘cosa in sé’, invece, essendo
indipendente da queste forme, non è sottoposta ad alcuna
differenziazione temporale. La condizione e il fondamento stabile e
immutabile del fenomeno ‘carattere empirico’ è quindi il suo
‘carattere intelligibile’, ossia la volontà [dell’uomo] come
‘cosa in sé’. Al carattere intelligibile (in quanto ‘cosa in
sé’) spetta anche l’assoluta libertà, ossia
l’indipendenza dalla legge di causalità (la quale è
solo una forma del fenomeno).
Ma questa libertà è trascendentale, ossia non si
manifesta nel fenomeno ed è presente solo fin tanto che noi
astraiamo dal fenomeno stesso e da tutte le sue forme, per giungere
a ciò che si deve pensare come la costante (fuori dal tempo)
intima essenza dell’uomo. Grazie a questa libertà, tutte le
azioni dell’uomo sono opera sua, indipendentemente dal fatto che
queste azioni derivino necessariamente dal suo carattere empirico
quando questo si imbatte nei motivi.
Per la nostra facoltà conoscitiva (vincolata al tempo, allo
spazio e alla causalità) il nostro carattere empirico
è semplicemente il fenomeno del nostro carattere
intelligibile, ossia il modo specifico in cui la ‘cosa in sé’
del nostro Io le appare. Quindi, è vero che la volontà
è libera, ma solo in sé stessa, al di fuori del
fenomeno. Dentro il fenomeno, invece, la volontà si manifesta
con un carattere ben preciso, cosicché tutte le sue azioni
devono essere conformi a quel carattere e, quando la volontà
viene immediatamente determinata da un motivo, devono anche avvenire
necessariamente in un certo modo e non in un altro.
È evidente che questo cammino ci porta a identificare
l’esercizio della libertà non più - come secondo il
comune punto di vista - nelle singole azioni, bensì nella
complessiva existentia et essentia [esistenza ed essenza] dell’uomo
stesso. È questa che deve essere pensata come il suo libero
atto, il quale si manifesta alla facoltà conoscitiva nella
rappresentazione del mondo reale in una molteplicità e
varietà di azioni. Le azioni, a causa dell’unità
originaria di ciò che in esse appare, devono avere tutte il
medesimo carattere, cosicché sembrano derivare rigorosamente
e necessariamente dai motivi che, di volta in volta, le suscitano e,
ad una ad una, le determinano.
Nel mondo dell’esperienza vale il principio: operari sequitur esse,
senza alcuna eccezione. Ogni cosa agisce secondo la propria natura e
l’effetto da essa prodotto al subentrare della causa manifesta
questa sua natura. Ogni uomo agisce secondo ciò che lui
è e l’azione, che ogni volta avviene necessariamente,
è determinata nel suo personale caso solo dal motivo. La
libertà che non si riscontra nello operari, deve quindi
risiedere nello esse.
È stato un grande errore [filosofico] di tutti i tempi, un
Ûsteron prÒteron [ùsteron pròteron:
capovolgimento totale (letteralmente: dopo prima)] attribuire la
necessità allo esse e la libertà allo operari. Al
contrario: la libertà sta solo nello esse e da questo esse
insieme al motivo segue necessariamente lo operari. Così,
solo tramite ciò che facciamo noi scopriamo ciò che
siamo.
Sullo esse - non sul presunto liberum arbitrium indifferentiae -
poggiano la consapevolezza della responsabilità e la tendenza
morale della vita. Tutto dipende da cosa uno è. Da questo
segue automaticamente, come un corollario necessario, ciò che
uno fa.
Quindi, la consapevolezza che indubbiamente accompagna tutte le
nostre azioni - nonostante la loro dipendenza dai motivi -
dell’autonomia [del fatto che abbiamo noi il potere sulle nostre
azioni] e dell’originalità [del fatto che esse traggono
origine da noi], in virtù delle quali quelle azioni sono le
nostre, non mente affatto.
Ma il vero contenuto di questa consapevolezza va ben oltre le azioni
e comincia molto più in alto, poiché tocca il nostro
vero essere, la nostra vera essenza, dalla quale poi tutte le azioni
derivano necessariamente al subentrare dei motivi. In questo senso
si potrebbe paragonare la consapevolezza dell’autonomia,
dell’originalità e della responsabilità che accompagna
il nostro agire, a una freccia che indica un oggetto più
distante di quello che, pur nella medesima direzione, giace
più vicino, al quale a prima vista sembra che la freccia stia
puntando.
In breve: l’uomo fa sempre solo ciò che vuole, eppure lo fa
necessariamente. Questo dipende dal fatto che l’uomo è
già ciò che vuole, poiché da ciò che lui
è deriva necessariamente tutto ciò che lui ogni volta
compie.
Osservando il suo comportamento oggettivamente - ossia, dall’esterno
- si riconosce con certezza apodittica che esso, come
l’attività di ogni essere in natura, deve essere sottoposto
alla legge di causalità con tutto il rigore che questa
comporta. Soggettivamente, invece, ognuno ha la sensazione di fare
solo ciò che lui stesso vuole. Ma questo significa soltanto
che il suo comportamento è la pura manifestazione della sua
vera e propria essenza. Anche l’essere più infimo nella scala
naturale avrebbe la medesima sensazione, se solo avesse coscienza di
sè stesso.
Nella mia esposizione, quindi, la libertà di volere non viene
cancellata, bensì viene semplicemente rinviata dal campo
delle singole azioni - dove certamente non può essere
incontrata - verso l’alto, in un ambito più elevato, dove
purtroppo la nostra conoscenza non può facilmente accedere.
Questo significa che la libertà di volere è
trascendentale.
Questo è anche il senso in cui vorrei che venisse inteso
quell’aforisma di Malebranche:
“La libertà è un mistero”,106
sotto la cui egida, con il presente trattato, ho tentato di
risolvere il compito posto dalla Reale Società Norvegese
delle Scienze.
vi - Appendice a integrazione del primo paragrafo
In seguito alla suddivisione (fatta nel paragrafo i) della
libertà in fisica, intellettuale e morale, ora, dopo aver
trattato della fisica e della morale, non mi rimane che discutere
della libertà intellettuale. Lo farò solo per
completezza e brevemente.
L’intelletto (la facoltà di conoscere) è il medium dei
motivi, tramite il quale essi influiscono sulla volontà, la
quale è il nucleo vero e proprio dell’uomo. La volontà
può decidere secondo la propria natura, ossia in
conformità al carattere individuale dell’uomo, e manifestarsi
liberamente secondo la propria essenza, solo fin tanto che questo
medium dei motivi si trova in uno stato normale. Infatti, solo in
uno stato normale l’intelletto può esercitare regolarmente le
proprie funzioni, e presentare quindi senza alcuna distorsione i
motivi - così come essi si trovano nel mondo reale esterno -
alla volontà, affinché questa possa procedere alla
propria scelta.
In questo caso l’uomo è intellettualmente libero, ossia le
sue azioni sono il puro risultato della reazione della sua
volontà di fronte ai motivi che si trovano nel mondo esterno,
per lui come pure per tutti gli altri uomini. Queste azioni vanno
quindi a suo carico, moralmente e giuridicamente.
La libertà intellettuale viene, invece, persa sia quando il
medium dei motivi (la facoltà di conoscere) viene menomato
temporaneamente oppure definitivamente, sia quando le circostanze
esterne riescono, in situazioni particolari, a falsare la
comprensione dei motivi.
Il primo caso è quello della pazzia, del delirio, del
parossismo e dell’alterazione mentale per effetto di sostanze
chimiche. Il secondo caso è quello dell’errore assolutamente
involontario, ad esempio, quando si versa un veleno al posto di una
medicina, oppure quando si scambia il servitore che rientra di notte
in casa per un ladro e gli si spara, e situazioni simili.
In entrambi i casi, infatti, i motivi sono falsati, cosicché
la volontà non può decidere come quando l’intelletto
glieli presenta correttamente. I crimini compiuti in simili
circostanze non sono neppure giuridicamente perseguibili. La legge
infatti parte dal giusto presupposto che la volontà sia
libera, non pilotata esternamente, bensì condizionata solo
dai motivi.
La legge, quindi, si propone di contrastare tutti gli eventuali
motivi per compiere un crimine tramite contromotivi ancora
più forti rappresentati dalla minaccia di una pena,
cosicché il codice penale non è altro che un elenco di
contromotivi del crimine. Ma in quelle particolari circostanze
l’intelletto, tramite il quale i contromotivi avrebbero dovuto
esercitare la loro influenza, non è stato capace di
raccoglierli e di presentarli alla volontà. Così il
loro effetto non è stato possibile, poiché non erano
presenti alla volontà. Come quando si scopre che uno degli
ingranaggi, che avrebbero dovuto mettere in moto una macchina, si
è spezzato.
In simili casi la colpa passa dalla volontà all’intelletto.
Ma l’intelletto non è passibile di alcuna punizione,
poiché la legge - come la morale - ha a che fare solo con la
volontà. Solo la volontà è la vera essenza
dell’uomo; l’intelletto è semplicemente un suo organo, la sua
antenna rivolta verso l’esterno, il medium tramite il quale i motivi
esercitano un effetto su di essa.
Tanto meno simili azioni hanno alcun valore morale, poiché
non rappresentano alcun tratto del carattere di chi le compie.
Questi, infatti, ha fatto qualcosa di diverso da ciò che
credeva di fare, oppure non era in grado di pensare a ciò che
avrebbe dovuto trattenerlo dal compiere quella determinata azione,
ossia dare via libera ai contromotivi.
Come quando una sostanza chimica da analizzare viene fatta reagire
con più elementi, per vedere con quale essa ha maggiore
affinità. Ma se alla fine si scopre che, a causa di un
impedimento casuale, uno degli elementi non ha potuto reagire,
l’esperimento non è valido.
La libertà intellettuale, che in questi casi abbiamo
considerato come completamente interdetta, potrebbe anche essere
semplicemente menomata oppure temporaneamente sospesa. Questo
succede in particolare in seguito a una forte emozione oppure in uno
stato di ebbrezza.
La forte emozione è un’eccitazione improvvisa e intensa della
volontà, causata da una rappresentazione che irrompe
dall’esterno e che diventa un motivo dotato di una esuberanza tale,
da mettere in ombra tutte le altre rappresentazioni che potrebbero
agire come contromotivo, non consentendo loro di giungere
chiaramente alla coscienza.
In una simile occasione i contromotivi - che di solito sono semplici
pensieri di natura astratta, mentre una forte emozione è
qualcosa di intuitivo e di immediato - non possono, per così
dire, giocare le loro carte, quindi non beneficiano di ciò
che in inglese si chiama fair play [gioco onesto]: l’azione è
già avvenuta ancora prima che essi possano impedirla. Come se
in un duello uno aprisse il fuoco prima del segnale convenuto.
Anche in questo caso la responsabilità sia giuridica che
morale, a seconda delle circostanze, viene più o meno (ma
sempre in qualche misura) cancellata. In Inghilterra un omicidio
compiuto sui due piedi, senza premeditazione, durante un violento e
improvviso scatto d’ira, viene denominato manslaughter [omicidio
colposo] e punito con una pena mite, anzi, talvolta non viene
neppure punito.
L’ebbrezza è uno stato che predispone a intense emozioni,
poiché incrementa la vivacità delle rappresentazioni
intuitive mentre attenua il pensiero in abstracto. Oltretutto, in un
simile stato, la volontà diventa più energica. In
questo caso, al posto della responsabilità per le azioni
compiute, subentra la responsabilità per l’ebbrezza stessa.
Questa, quindi, non viene giuridicamente assolta, anche se la
libertà intellettuale era parzialmente sospesa.
Della libertà intellettuale:
“Ciò che si vuole o che si rifiuta secondo ragione”107
parla già Aristotele, anche se in maniera breve e
insufficiente, nella Etica eudemia (ii, 7-9) e in maniera un poco
più completa nella Etica nicomachea (iii, 2). Di essa ci si
occupa, quando la medicina forensis [medicina legale] e la
magistratura vogliono appurare se l’imputato al momento del delitto
disponeva della propria facoltà di intendere ed era quindi
responsabile.
In generale sono da catalogare come delitti compiuti in assenza di
libertà intellettuale tutti quelli nei quali l’autore o non
sapeva cosa stava facendo, oppure non era assolutamente in grado di
pensare a ciò che avrebbe dovuto dissuaderlo, ossia alle
conseguenze della sua azione. In simili casi l’imputato non è
passibile di pena.
Chi invece sostiene che, siccome la libertà morale non
esiste, tutte le azioni di una determinata persona sono
ineluttabili, cosicché nessun delinquente dovrebbe essere
punito, parte da una falsa concezione della pena, secondo la quale
la pena sarebbe la persecuzione del delitto. Come tale, la pena
sarebbe la vendetta di un male tramite un altro male, per ragioni
morali.
Ma una simile concezione della pena - nonostante sia stata sostenuta
anche da Kant - sarebbe assurda, inutile e completamente
ingiustificata. Infatti, come potrebbe un uomo essere autorizzato ad
erigersi, dal punto di vista morale, a giudice assoluto di un altro
uomo e, in questa veste, punirlo per i suoi errori?
Piuttosto il fine di una legge, tramite la minaccia di una
punizione, è di essere il contromotivo per il delitto ancora
in fase di progettazione. Se in un determinato caso questo obiettivo
fallisce, la legge deve essere fatta valere, altrimenti lo
fallirà anche in tutti i casi successivi. Quando la legge
viene applicata il delinquente sconta la giusta pena a causa della
sua natura morale, poiché è stata questa che - in
concomitanza delle circostanze esterne (i motivi) e del proprio
intelletto, il quale gli ha prospettato la speranza di sfuggire alla
punizione - lo ha spinto necessariamente a compiere quel delitto. La
punizione sarebbe un’ingiustizia solo se il carattere morale
dell’uomo non fosse opera sua (la sua ‘opera intelligibile’),
bensì l’opera di un altro.
Lo stesso [giusto] rapporto tra azione e conseguenza (delitto e
pena) si avrebbe se le conseguenze del suo delitto non derivassero
da leggi umane, bensì da leggi di natura. Ad esempio, se
eccessi sfrenati gli provocassero una terribile malattia, oppure se
durante un tentativo di furto si ferisse accidentalmente (ad
esempio, se nel porcile in cui irrompe di notte per portar via
l’animale che di solito vi è rinchiuso, invece di un maiale
si trova di fronte un orso (il cui padrone ha preso alloggio proprio
quella notte in quell’albergo) il quale gli va incontro a braccia
aperte).
Trattato su
Il fondamento della morale
non premiato dalla Regia Società Danese delle Scienze
Copenhagen, 30 Gennaio 1840
Predicare la morale è facile;
fondare la morale,
difficile.
[Schopenhauer, La volontà nella natura]
Il quesito posto dalla Regia Società Danese delle Scienze,
accanto a una premessa introduttiva, dice:
“Quum primitiva moralitatis idea, sive de summa lege morali
principalis notio, sua quadam propria eaque minime logica
necessitate, tum in ea disciplina appareat, cui propositum est
cognitionem tîn ™qikîn explicare, tum in vita, partim in
conscientiae judicio de nostris actionibus, partim in censura morali
de actionibus aliorum hominum; quumque complures, quae ab illa idea
inseparabiles sunt, eamque tamquam originem respiciunt, notiones
principales ad tÕ ™qikÒn spectantes, velut officii
notio et imputationis, eadem necessitate eodemque ambitu vim suam
exserant, et tamen inter eos cursus viasque, quas nostrae aetatis
meditatio philosophica persequitur, magni momenti esse videatur, hoc
argumentum ad disputationem revocare, cupit Societas, ut accurate
haec quaestio perpendatur et pertractetur: philosophiae moralis fons
et fundamentum utrum in idea moralitatis, quae immediate conscientia
contineatur, et ceteris notionibus fundamentalibus, quae ex illa
prodeant, explicandis quaerenda sunt, an alio cognoscendi
principio?”.
Traduzione:
“Un’idea primordiale di moralità, ovvero una nozione
elementare della norma morale universale - fondata su un’intima
necessità, non già su una deduzione razionale - non
solo è riconosciuta da quella branca della filosofia che si
propone di spiegare il significato tîn ™qikîn [ton
etikon: di ciò che è morale] ma traspare anche dalla
vita stessa, nel giudizio della coscienza sulle nostre azioni e
nella censura morale sulle azioni degli altri uomini. Inoltre, molti
principi concernenti tÕ ™qikÒn [to etikon: ciò
che è morale] che sono inseparabili da quell’idea e guardano
ad essa come al loro fondamento (per esempio, il concetto di dovere
e di responsabilità) traggono la loro forza dalla stessa
necessità e dallo stesso ambito. Nondimeno, pur tra le molte
direzioni di ricerca che la riflessione filosofica contemporanea
persegue, sembra assai opportuno riproporre il dibattito su questo
problema. In considerazione di tutto ciò, la Reale
Società desidera che si proceda ad un’accurata trattazione
del seguente tema: l’origine e il fondamento della filosofia morale
devono essere ricercati in un’idea di moralità che sia
naturalmente radicata nella coscienza, e negli altri principi
fondamentali che derivano da questa idea, oppure in un diverso
elemento di conoscenza?”.
I - Introduzione
§ 1 Il problema
Il quesito posto dalla Reale Società Olandese di Harlem nel
1810 (risolto da J. Meister):
“Perché i filosofi divergono così tanto riguardo ai
fondamenti primi della morale, mentre concordano sulle conseguenze e
sui doveri che derivano da quei principi?”
era un compito davvero facile, se paragonato al presente. Infatti:
1. Il presente quesito della Reale Società riguarda
nientemeno che il fondamento oggettivamente vero della morale e, di
conseguenza, anche della moralità [tutto quanto nella pratica
è correlato alla morale]. È un’accademia universitaria
che pone il quesito. Come tale, essa non si può contentare -
come suol fare la gente comune - di una semplice esortazione con
fini pratici verso la giustizia e la virtù, basata su motivi
dei quali si mette in evidenza la plausibilità ma si
nascondono i punti deboli.
Un’accademia ha interessi esclusivamente teorici, non pratici.
Quindi, riguardo al fondamento ultimo di un comportamento moralmente
valido, essa esige una obiettiva, chiara e nuda spiegazione
puramente filosofica, ossia indipendente da ogni statuto positivo
[che detta o impone qualcosa] da ogni premessa infondata, e da ogni
presupposto metafisico o mitologico.
Si tratta di un problema la cui esorbitante difficoltà
è dimostrata dal fatto che, non solo i filosofi di tutti i
tempi e paesi hanno perso la voce a furia di parlarne, ma anche che
tutte le divinità dell’oriente e dell’occidente devono a esso
la loro ragione di esistere. Se si riuscisse ora a risolvere questo
problema, la Reale Società non avrebbe certo investito male i
suoi denari.
2. La ricerca teorica del fondamento della morale è soggetta
al particolare svantaggio di venire facilmente scambiata per un
tentativo di buttare tutto sottosopra, una operazione che potrebbe
provocare il crollo dell’intero edificio della morale corrente. In
questo campo, infatti, l’interesse pratico è talmente
prossimo a quello teorico, che lo zelo - anche se ben intenzionato -
di tradurre la teoria in pratica, difficilmente riuscirebbe a
trattenersi dall’intervenire prematuramente.
Non tutti, infatti, sono in grado di distinguere la ricerca
puramente teorica della verità - obiettiva e libera da ogni
interesse, compreso quello di una applicazione pratica della morale
- da una oltraggiosa aggressione dei sacri convincimenti radicati
nel cuore. Pertanto, chi si accinge a una simile ricerca deve sempre
tener ben presente - per farsi coraggio - che nulla è
più distante dalle triviali faccende umane, dal tumulto e dal
rumore della piazza, che il tempio di una accademia, immerso nel
profondo silenzio, dove nessun grido esterno può penetrare e
dove non si trova esposta la statua di alcuna divinità,
tranne quella della venerabile e nuda verità.
Date queste premesse, mi sia concessa quindi una completa parresia
[libertà di parola] e il diritto di dubitare di tutto. Mi si
conceda inoltre che, se riuscissi realmente a portare anche solo un
piccolo contributo alla soluzione di questo problema, sarebbe
già una gran cosa.
Ma c’è un’altra difficoltà da affrontare. La Reale
Società esige che il fondamento della morale venga esposto -
compiutamente e separatamente - in una breve monografia a
prescindere da qualsiasi sistema filosofico, ossia senza tener conto
della corrispondente metafisica. Questa richiesta non solo
renderà più difficile il compito, ma addirittura
mutilerà inevitabilmente il risultato.
Già secondo Christian Wolff:
“Le tenebre nella filosofia pratica non possono essere disperse, se
non vengono rischiarate dalla luce della metafisica”.108
e secondo Kant:
“La metafisica deve precedere ogni cosa, poiché senza di essa
non può esistere alcuna filosofia morale”.109
Ogni religione al mondo, nel prescrivere un codice morale, non
lascia che la morale poggi su sé stessa, bensì le
fornisce un supporto fatto di dogmi, il cui scopo principale
è di sostenerla. Così, anche in filosofia il
fondamento della morale - qualunque possa essere - necessita di un
punto di appiglio o di appoggio in una qualche metafisica, ossia in
una determinata spiegazione del mondo e dell’esistenza in genere. Il
significato etico dell’agire umano deve essere necessariamente e
strettamente collegato alla spiegazione ultima e vera dell’essenza
di tutte le cose.
In ogni caso ciò che viene posto a fondamento della morale -
se non si vuole che sia semplicemente un’affermazione astratta,
campata in aria e senza alcun aggancio con la realtà - deve
essere un dato di fatto che si trova nel mondo oggettivo o nella
coscienza dell’uomo. Come tale può solamente essere un
fenomeno, il quale - come tutti gli altri fenomeni - necessita di
un’ulteriore spiegazione che solo la metafisica può dare.
In generale la filosofia è un tutto talmente interconnesso,
che è impossibile spiegare esaurientemente una sua parte,
senza spiegare contemporaneamente anche tutto il resto.
Come giustamente dice Platone:
“Credi che sia possibile comprendere minimamente la natura
dell’anima, senza riflettere sulla natura del tutto?”.110
La metafisica della natura, dei costumi e del bello si presuppongono
vicendevolmente, e solo tramite i loro vari nessi perfezionano la
spiegazione dell’essenza delle cose e dell’esistenza in generale.
Quindi, chi riuscisse ad esaminare a fondo una di queste tre
discipline fino al suo ultimo fondamento, contribuirebbe allo stesso
tempo al chiarimento delle altre due, esattamente come chi riuscisse
ad avere una chiara ed esauriente comprensione, fino in fondo, di
una qualsiasi cosa al mondo, riuscirebbe anche a comprendere
perfettamente tutto il resto del mondo.
Partendo da una data metafisica e assumendola come vera, si
riuscirebbe a fondare l’etica per via sintetica [deduttiva]. In
questo modo l’etica verrebbe costruita dal basso e poggerebbe su un
saldo fondamento. Dovendo, invece, astrarre l’etica da ogni
metafisica (come si richiede nel quesito) non rimane altra
possibilità che procedere per via analitica [induttiva],
partendo dai dati di fatto dell’esperienza esterna o dell’esperienza
interna (la coscienza).
La coscienza può ricondurre quei dati di fatto alla loro
più profonda radice dentro l’animo dell’uomo, cosicché
questa radice diverrebbe il fatto fondamentale, il fenomeno
originario, senza alcuna possibilità di essere rinviato
ulteriormente ad altro. La spiegazione che si otterrebbe sarebbe,
quindi, semplicemente di natura psicologica.
Al massimo si potrebbe poi accennare - come compendio - al nesso tra
questo fatto interno alla coscienza e un determinata visione
metafisica. In realtà questo fatto, questo fenomeno
originario, potrebbe a sua volta essere giustificato se si potesse
dedurre l’etica per via sintetica, partendo dalla metafisica. Ma
questo significherebbe erigere un sistema filosofico completo e
andare ben oltre quanto richiesto dal presente quesito.
Sono quindi costretto a rispondere al quesito entro i limiti imposti
e a mantenere l’etica separata dalla metafisica. Alla fine vedremo
che il fondamento, sul quale intendo erigere l’etica, è molto
ristretto. Così, delle molte azioni umane degne di
approvazione e di elogio, solo una piccola parte scaturisce da un
impulso morale, mentre la maggior parte è da attribuire a
impulsi d’altra natura.
Il fondamento della morale da me individuato sarà meno
soddisfacente e brillante di un imperativo categorico (sempre pronto
a stare agli ordini, per poi ordinare a sua volta cosa si deve o non
si deve fare), per non parlare poi di altri fondamenti
materialistici della morale.
Così non mi rimane che ricordare un versetto di Qoelet (4,
6):
“Meglio una manciata con riposo che due manciate con fatica”.
In ogni coscienza c’è sempre ben poco di genuino, di
affidabile e di indistruttibile, come in una vena metallifera si
nascondono poche once di oro in una tonnellata di pietra.
Mostrerò, infatti, che le azioni umane lodevoli e legalmente
giuste spesso non hanno affatto - oppure solo ben poco - valore
morale, poiché in generale nascono da motivi riconducibili
all’egoismo.
Se poi si vorrà in realtà - come faccio io - preferire
un possesso sicuro a uno grosso, il poco oro che rimane nel crogiolo
all’enorme massa di materiale da cui è stato separato, oppure
se si preferirà incolparmi di aver tolto, piuttosto che di
aver dato, il fondamento della morale, è una cosa che debbo
accettare con tranquillità, anzi con rassegnazione. Da sempre
concordo con lo Zimmermann quando dice:
“Sii fermamente convinto, fino alla morte, che al mondo non
c’è nulla di più raro di un buon giudice”.111
Già vedo la mia spiegazione (che attribuisce un fondamento
così minuscolo a ogni azione giusta, genuina e spontanea, a
ogni filantropia e ad ogni nobile comportamento, dovunque si possano
incontrare) levarsi povera ed esile accanto a quelle dei concorrenti
(che senza esitazione erigono ampie fondamenta della morale da
inculcare nella coscienza, capaci di sostenere qualunque peso, e
gettano un’occhiata di disprezzo sulla moralità di chiunque
osi dubitarne) come Cordelia, davanti al Re Lear, dare assicurazione
con semplici parole delle proprie corrette intenzioni, in mezzo alle
ridondanti declamazioni delle sue più eloquenti sorelle.
C’è proprio bisogno del conforto di un saggio motto come:
“La forza della verità è grande, e
prevarrà”.112
Purtroppo questo non è molto incoraggiante per chi ha
già vissuto e dato. Nel frattempo mi cimenterò con la
verità. Ciò che toccherà a me, toccherà
anche a lei.
§ 2 Retrospettiva generale
Per il popolo il fondamento della morale è dato dalla
teleologia, come volontà di Dio rivelata. Vediamo invece che
i filosofi - tranne alcune eccezioni - si preoccupano molto di
escludere questo tipo di fondamento e che, pur di evitarlo,
preferiscono ricorrere ad argomenti sofistici. A cosa è
dovuto questo diverso comportamento?
Senza dubbio non è possibile immaginare un fondamento della
morale più efficace di quello teologico. Chi sarebbe,
infatti, cosi temerario da opporsi al volere dell’onnipotente e
onnisciente? Certamente nessuno, se il volere divino fosse
annunciato in un modo autentico, che non lascia spazio ad alcun
dubbio, ossia - per così dire - in maniera ufficiale. Ma
proprio questa è la condizione che manca.
I teologi cercano quindi di avallare la legge morale promulgata come
volontà di Dio, mostrando che la volontà divina
sarebbe in sintonia con alcune nostre convinzioni morali di altra
origine - dunque naturali - e facendo poi appello a queste ultime,
essendo esse il dato più immediato e certo.
A questo proposito è facile riconoscere che un comportamento
morale messo in atto solo in seguito alla minaccia di una punizione,
o alla promessa di una ricompensa, sarebbe morale solo in apparenza
ma non nella sostanza, poiché poggerebbe sull’egoismo.
Oltretutto, il fattore determinante sarebbe la maggiore o minore
facilità con cui uno avrebbe più fede di un altro, pur
basandosi su motivi insufficienti.
Lo stesso Kant, dopo aver distrutto il fondamento della morale
basato sulla teologia speculativa - che fino ad allora era ritenuto
indiscutibilmente valido - ha voluto, invertendo quel rapporto [di
subordinazione dell’etica alla teologia], dare alla teologia, che
fino ad allora era stata la depositaria della morale, un sostegno
basato sull’etica, per garantire alla teologia, anche se solo
idealmente, un’esistenza.
Ma anche in questo modo è più che mai difficile
pensare a un fondamento dell’etica basato sulla teologia,
poiché non si riesce più a capire, tra etica e
teologia, chi è di sostegno e chi sta a carico, finendo
così in un circulus vitiosus [circolo vizioso].
Durante gli ultimi cinquanta anni i fondamentali convincimenti
filosofici della colta Europa hanno subito un cambiamento che
probabilmente parecchi ammettono a malincuore, ma che non può
essere negato. Innanzitutto per l’influsso della filosofia di Kant e
poi per effetto degli innumerevoli progressi in tutte le scienze,
grazie ai quali ogni secolo precedente, in confronto al nostro,
sembra essere il periodo dell’infanzia.
Inoltre si ha avuto modo di conoscere la letteratura sanscrita, il
Brahmanesimo e il Buddismo, le religioni più antiche e
diffuse, che sono, dal punto di vista dei luoghi e dei tempi di
diffusione, le più eminenti religioni dell’umanità.
Queste furono anche le prime religioni della nostra stirpe,
notoriamente di origine asiatica, che ora torna a conoscerle nella
patria a loro estranea.
In seguito a questo cambiamento i vecchi sostegni dell’etica sono
marciti. Eppure persiste la fiducia che l’etica non potrà mai
crollare. Da questa fiducia è nato il convincimento che
debbano pur esistere dei sostegni diversi dai precedenti, più
consoni ai progressi del pensiero di questa epoca. Senza dubbio
è stato il riconoscimento di questa esigenza - sempre
più sentita - che ha spinto la Reale Società a bandire
il presente significativo concorso.
In tutti i tempi non si è fatto che predicare la buona
morale. Tuttavia fondare la morale è un’attività che
è rimasta costantemente ferma a un punto morto.
Evidente è stato lo sforzo, in generale, di individuare una
verità oggettiva, dalla quale fosse possibile dedurre
logicamente i precetti morali. La si è cercata nella natura
delle cose e in quella dell’uomo, ma invano. Si è sempre
dovuto constatare che la volontà dell’uomo è orientata
solo verso il proprio benessere, ossia verso ciò che si
riassume nel concetto di felicità d’animo. Ma questa
inclinazione porta l’uomo sempre su un cammino ben diverso da quello
che la morale vorrebbe indicargli.
Si è tentato di identificare la felicità con la
virtù o con qualche suo effetto collaterale. Ma entrambi i
tentativi sono regolarmente falliti, nonostante un grande sfoggio di
sofismi.
Si è poi tentato anche con sostegni puramente oggettivi o
astratti - di origine sia a priori che a posteriori - dai quali
poter dedurre il corretto comportamento morale. Ma a questi sostegni
mancava un punto di aggancio nella natura dell’uomo, grazie al quale
poter indirizzare le aspirazioni dell’uomo nella direzione opposta
alla sua tendenza egoistica.
Mi sembra fuori luogo insistere in questa sede nell’elenco e nella
critica di tutte le fondazioni della morale che sono apparse fino ad
oggi. Come Agostino, sono del parere che:
“Non bisogna dare importanza a ciò che gli uomini pensano,
bensì alla verità delle cose”.113
Oltretutto sarebbe come glaàkaj e„j 'Aq»naj kom…zein
[glàukas éis Athénas komìzein: portare
civette ad Atene],114 poiché la Regia Società conosce
bene i precedenti tentativi di fondare l’etica e, con il bandire il
presente concorso, dimostra di essere convinta della loro
insufficienza. Il lettore meno esperto può trovare un
compendio - non completo, ma in sostanza sufficiente - dei tentativi
apparsi finora nel libro Panoramica dei più eminenti principi
della dottrina morale di Christian Garve, nel libro Storia della
filosofia morale di Karl Stäudlin, e in altri simili.
È deprimente constatare che all’etica, una scienza che tocca
direttamente la vita, non sia andata meglio che all’astrusa
metafisica. Da quando Socrate l’ha fondata, l’etica è stata
sempre messa in pratica, ma ciò nonostante essa è
ancora alla ricerca del suo fondamento.
Nell’etica, più che in qualsiasi altra scienza, l’essenziale
è contenuto nel fondamento, dal quale si possono poi fare
deduzioni, talmente facili che quasi si presentano da sé.
Tutti, infatti, sono capaci di trarre una conclusione, ma pochi di
formulare un giudizio. Proprio per questo, da sempre, i libri
maestri e i trattati sulla morale sono tanto superflui quanto
noiosi. Per me è un grande sollievo dare per scontato che il
lettore sia già a conoscenza delle precedenti fondazioni
della morale.
Mentre ai filosofi del medioevo bastava la fede nella Chiesa, sia
gli antichi che i moderni si sono aggrappati ai più
diversi, talvolta i più sorprendenti, argomenti per dare un
fondamento plausibile alle prescrizioni universalmente riconosciute
della morale. Ciò nonostante i risultati sono stati
indubbiamente pessimi. Se si tien conto di questo fatto si
potrà apprezzare la difficoltà del problema e, in base
a questa, giudicare il mio contributo alla sua soluzione.
Chi ha preso atto che tutte le vie fino ad ora seguite non hanno
condotto alla meta, sarà maggiormente disposto a percorrere
con me una via molto diversa, che nessuno ha finora intravisto
oppure che ha scartato con disprezzo, forse perché era la
più naturale. In effetti la mia soluzione del problema
potrà sembrare ad alcuni come l’uovo di Colombo.
“Io dir non vi saprei per qual sventura,
o piuttosto per qual fatalità,
da noi credito ottien più l’impostura,
che la semplice e nuda verità”.115
Solo del più recente tentativo di fondare l’etica - quello di
Kant - farò una analisi critica piuttosto esaustiva per due
motivi. Innanzitutto, perché la grande riforma morale ad
opera di Kant ha conferito a questa scienza un fondamento dotato di
reali pregi rispetto ai precedenti. In secondo luogo perché
il fondamento che Kant le ha dato rappresenta quanto di più
significativo sia finora apparso nel campo dell’etica.
Il fondamento dato da Kant all'etica è ancor oggi
generalmente ritenuto valido e viene regolarmente insegnato, anche
se riaggiustato con alcune varianti nella descrizione e nella
formulazione. Esso costituisce l’etica degli ultimi sessant’anni,
della quale però ci dobbiamo liberare prima di battere
un’altra via. Tuttavia la critica dell’etica di Kant offrirà
l’occasione per analizzare e discutere i principali concetti
basilari dell’etica.
Questo ci permetterà di gettare le premesse del risultato
della nostra futura ricerca in questo campo. Poiché gli
estremi contrapposti si chiariscono a vicenda, la critica del
fondamento della morale di Kant costituirà la migliore
premessa e introduzione, anzi, il cammino più diretto per
procedere verso il mio fondamento della morale, il quale nella sua
essenza si contrappone diametralmente a quello di Kant. Per questo
motivo, il modo di cominciare più controproducente per il
lettore sarebbe quello di saltare la critica dell’etica di Kant e
passare direttamente alla parte propositiva della mia presentazione.
Così facendo, questa risulterebbe comprensibile solo a
metà.
È proprio giunto il momento di sottoporre l’etica, una volta
per tutte, a un rigoroso esame. Da oltre mezzo secolo, infatti, essa
riposa sul comodo cuscino che Kant le ha spianato sotto:
l’imperativo categorico della ragione pratica.
Oggi l’imperativo categorico viene presentato in forma meno pomposa,
con il titolo più smussato e facile di ‘legge morale’. Con
queste credenziali, dopo un piccolo inchino in omaggio alla ragione
e all’esperienza, esso si insinua inosservato. Ma una volta entrato
in casa non cessa più di comandare e di dare ordini, senza
rendere conto nessuno.
Il fatto che Kant - il suo inventore - dopo aver corretto alcuni
errori grossolani se ne fosse contentato, è cosa giusta e
necessaria. Ma è duro dover vedere come su quel cuscino,
posto inizialmente da Kant e diventato poi sempre più ampio,
ora si rotolano anche gli asini.
Mi riferisco ai moderni scrittori di compendi, i quali, con la
tranquilla sicurezza di chi non ha capito nulla, pensano di aver
fondato l’etica semplicemente facendo appello a quella ‘legge
morale’, che si suppone risieda dentro la nostra ragione. Confidando
in quella legge, essi poi intessono un vagabondo e confuso intreccio
di frasi, con il quale riescono a rendere incomprensibili anche i
più chiari e semplici rapporti della vita. Nel corso di
queste belle imprese non si sono mai seriamente posti la domanda se
mai una simile ‘legge morale’ - il comodo codice della morale - stia
scritta nella nostra testa, nel petto o nel cuore.
È quindi con particolare piacere che mi accingo a sfilare via
quel comodo cuscino sul quale la morale ancora riposa. Dichiaro
apertamente il mio proposito di dimostrare che la ragione pratica e
l’imperativo categorico sono solo supposizioni fasulle, senza alcuna
giustificazione e senza alcun fondamento, e che anche l’etica di
Kant è priva di un solido fondamento.
Voglio rimandare la morale alla sua totale e antica mancanza di
certezze, nella quale è giusto che ritorni prima di
accingermi a dimostrare il vero fondamento morale della natura
umana, il quale affonda le radici nell'essenza dell'uomo ed è
efficace senza ombra di dubbio.
Questo fondamento non offre certo un appoggio così ampio come
quel cuscino. Perciò coloro che sono abituati a prendersela
con comodo, esiteranno ad abbandonare il loro vecchio cuscino, fino
a quando si renderanno conto di quanto profondo sia il baratro sul
quale esso si trova.
ii - Critica del fondamento dell’etica di Kant
§ 3 Panoramica
Kant ha il grande merito di aver spazzato via dall’etica ogni forma
di eudemonismo [ricerca della felicità]. L’etica per gli
antichi era eudemonistica, mentre per i moderni è
principalmente la dottrina della salvezza. Gli antichi volevano
dimostrare che la felicità si identifica con la virtù,
ma queste due figure non si sovrappongono mai, comunque le si voglia
disporre.
I moderni, invece, hanno posto felicità e virtù in
correlazione fra loro, non in base al criterio di identità ma
a quello di motivazione, presupponendo che la felicità sia
una conseguenza della virtù. Tuttavia, per fare questa
operazione, hanno dovuto ricorrere all’aiuto di un altro mondo,
diverso da quello di ogni possibile conoscenza, oppure a dei
sofismi.
L’unica eccezione tra gli antichi è Platone, la cui etica non
è eudemonistica bensì mistica. Perfino l’etica dei
cinici e degli stoici è un particolare tipo di eudemonismo.
Non mi mancano certo argomenti e prove per dimostrarlo. Mi manca
solo lo spazio nell’ambito di quanto mi propongo di fare ora.116
Quindi, sia per gli antichi - ad eccezione di Platone - che per i
moderni la virtù è solo il mezzo per un fine. Senza
dubbio, a rigore, anche Kant ha bandito apparentemente, più
che realmente, l’eudemonismo dall’etica. Kant, infatti, in un oscuro
e isolato capitolo della sua dottrina del ‘sommo bene’, mantiene un
tacito legame tra virtù e felicità. L’esperienza,
invece, dimostra che la virtù agisce in maniera del tutto
indipendente dalla felicità.
Ma, a prescindere dalla dottrina del sommo bene, secondo Kant il
fondamento dell'etica è qualcosa di trascendentale117 o
metafisico, completamente staccato da quanto l’esperienza ci
insegna.
Kant, infatti, attribuisce al comportamento dell’uomo un significato
che va oltre ogni possibile esperienza e che, quindi, costituisce un
vero ponte con quello che lui chiama il mondo intelligibile, il
mundus noumenon [il mondo del pensiero, in contrapposizione al mondo
fenomenico], ossia il mondo della ‘cosa in sé’.
Oltre a questi pregi, l’etica di Kant deve la fama che ha
conquistato anche alla sublime limpidezza morale dei suoi risultati.
Su questa limpidezza si concentrò l’attenzione della maggior
parte dei suoi estimatori, senza occuparsi specificatamente del
fondamento dell’etica kantiana, esposto in una forma molto
complessa, astratta ed estremamente artificiosa. Kant stesso ha
dovuto ricorrere a tutto il suo acuto ingegno e alla sua
capacità di articolazione del pensiero, per conferire al
fondamento della sua etica una parvenza plausibile.
Per fortuna Kant ha dedicato all’esposizione del fondamento della
sua etica una opera a parte, la Fondazione della metafisica dei
costumi, il cui tema è esattamente lo stesso del presente
concorso. A pagina xiii del prologo Kant dice:
“La presente fondazione non è altro che la visione e la
determinazione del principio supremo della moralità. Da sola
essa costituisce un’impresa completa nel suo intento, che va
distinta da ogni altra ricerca nel campo della morale”.
In questo suo libro, come in nessun altro, viene presentato il
fondamento, la cosa essenziale della sua etica, in maniera
assolutamente sistematica, concludente e acuta. Questo libro
possiede inoltre il notevole pregio di essere il più maturo
dei suoi scritti sull’etica. Esso risale a solo quattro anni dopo
[1785] la prima edizione della Critica della ragione pura [1781], al
tempo in cui, nonostante Kant avesse già 61 anni, gli
influssi deleteri della vecchiaia non si erano ancora manifestati
sul suo spirito.
Questi influssi, purtroppo, possono essere chiaramente percepiti
nella Critica della ragione pratica [1788], ossia solo un anno dopo
l’infelice rielaborazione della seconda edizione della Critica della
ragione pura [1787], con la quale Kant ha palesemente rovinato il
suo immortale capolavoro. A questo proposito troviamo nella
prefazione della nuova edizione di Rosenkranz della Critica della
ragione pura un confronto critico [tra la prima e la seconda
edizione] che io, dopo aver verificato personalmente la cosa, non
posso fare a meno di approvare.118
Il contenuto della Critica della ragione pratica è
sostanzialmente le stesso della Fondazione della metafisica dei
costumi. Solo che la Fondazione lo riporta in maniera più
concisa e rigorosa, mentre la Critica lo riporta tramite
un’esposizione più ampia, interrotta da digressioni e
sorretta da esclamazioni morali, per suscitare impressione. Al tempo
in cui scriveva queste cose Kant aveva finalmente conquistato -
anche se in ritardo - la sua meritatissima fama, cosicché,
sicuro di disporre già dell’attenzione del lettore, diede
maggior corda alla loquacità tipica dell’età avanzata.
Alla Critica della ragion pratica bisogna tuttavia riconoscere
alcuni particolari pregi. Innanzitutto, la dottrina - oltremodo
sublime - del nesso tra libertà e necessità (p.
169-I79, iv Ed.) e (p. 224-231, Ed. Rosenkranz). Questa dottrina
è stata certamente concepita in tempi precedenti,
poiché coincide esattamente con quanto riportato nella
Critica della ragione pura (p. 560, iv Ed.; p. 438, Ed. Rosenkranz).
In secondo luogo, l’esposizione della ‘teologia morale’, grazie alla
quale si riesce a capire meglio che cosa Kant intendesse realmente
al riguardo. Più tardi, nei Principi metafisici della
dottrina della virtù - una parte collaterale della sua
deplorevole Dottrina del diritto, redatta nel 1797 - l’influsso dei
disturbi senili si fece preponderante.
Per tutti questi motivi nella presente critica dell’etica di Kant
seguirò, come principale filo conduttore, la Fondazione della
metafisica dei costumi. A quest’opera farà espressamente
riferimento la numerazione delle pagine. Le altre due opere [Critica
della ragion pratica e Principi metafisici della dottrina della
virtù] verranno prese in considerazione solo in maniera
accessoria e secondaria.
Per comprendere la presente critica, che andrà a rivoltare
fino in fondo l’etica di Kant, sarebbe opportuno che il lettore
rileggesse con attenzione la Fondazione della metafisica dei costumi
per rinfrescare nella memoria il suo contenuto. Dopotutto questo
libro consiste solo di 128 più xiv pagine (cento, in tutto,
nell’edizione Rosenkranz). Le citazioni, tramite il numero della
corrispondente pagina, faranno riferimento alla terza edizione
(1792). Il numero della pagina delle citazioni tratte dalla nuova
edizione completa di Rosenkranz sarà preceduto dalla lettera
‘R’.
§ 4 La forma imperativa dell’etica di Kant
Il prîton yeàdoj [pròton pséudos: primo
errore] di Kant sta già nel suo concetto di etica, come viene
a chiare lettere enunciato (62, R 54):
“Nell’ambito di una filosofia pratica, non si tratta di dare ragione
di ciò che succede, bensì di dare le leggi di
ciò che dovrebbe accadere, anche se fosse una cosa che non
accade mai”.
Questa è chiaramente una petitio principii [petizione di
principio]. Infatti, chi vi dice che esistano leggi alle quali il
comportamento dell'uomo deve sottomettersi? Chi vi dice che una
cosa, che non accade mai, dovrebbe invece accadere? Cosa vi
autorizza a fare una simile premessa, per poi imporre un’etica
legislativa e imperativa, come se fosse l’unica etica possibile?
Al contrario di ciò che dice Kant, io sostengo che lo
studioso di etica - come il filosofo in generale - dovrebbe
contentarsi di chiarire e di dare un significato a ciò che
è dato - ossia, a ciò che esiste realmente e che
succede - per poterlo comprendere. Per questo c’è ancora
molto da fare, molto più di quanto sia stato fatto in
migliaia di anni fino ad oggi.
Tramite questa petitio principii, quindi, Kant dà per
scontato già nel preambolo del problema, prima ancora di
qualunque approfondimento, che esista di fatto una legge morale.
Questo presupposto verrà poi fermamente mantenuto e
andrà a costituire il fondamento ultimo di tutto il suo
sistema.
Andiamo allora, innanzitutto, ad analizzare il concetto di legge. Il
significato specifico e originale di legge si riduce alla legge
civile, lex, nÒmoj [nòmos], ossia un ordinamento che
è stato creato dall’uomo e che poggia sull’arbitrio
dell’uomo.
Il concetto di legge possiede poi un secondo significato, dedotto,
traslato e metaforico, in riferimento alla natura, il cui modo
costante di procedere - in parte noto a priori e in parte
determinato empiricamente - viene metaforicamente denominato ‘legge
naturale’. Solo una piccolissima parte delle leggi naturali è
di origine a priori. Essa costituisce ciò che Kant -
acutamente e giustamente - ha separato e raccolto sotto il nome di
‘metafisica della natura’.
Infine, dal momento che l’uomo appartiene alla natura, anche per il
suo volere esiste una legge rigorosamente provata, inviolabile, che
non ammette eccezioni, stabile come una roccia, che racchiude in
sé una reale necessità (non come la vel quasi
[approssimativa] necessità dell’imperativo categorico).
È la legge di motivazione, ossia, della causalità che
procede dalla conoscenza, la quale è una delle radici del
principio di ragione sufficiente.119 Questa è la sola legge,
di cui si può dimostrare l’esistenza, alla quale il volere
dell’uomo è sottomesso. Questa legge afferma che ogni azione
umana avviene solo in seguito a un motivo sufficiente. Si tratta di
una legge naturale, come la legge di causalità nella fisica.
In aggiunta a questi tre tipi di leggi non si può ammettere,
senza una adeguata prova, l’esistenza di altre leggi morali oltre a
quelle che provengono da uno statuto redatto dagli uomini, da una
istituzione statale o da una dottrina religiosa.
Pertanto, con quella sua premessa, Kant compie una petitio
principii. È oltretutto un presupposto osato, poiché
Kant sostiene (p. vi del prologo) che una legge morale deve
comportare la ‘necessità assoluta’. Ma la necessità
assoluta è contraddistinta dalla ineluttabilità del
risultato. Quindi, come si può parlare di necessità
assoluta per le presunte leggi morali, come quella che Kant cita ad
esempio: «Tu hai l’obbligo di non mentire!», quando
notoriamente - come lui stesso ammette - queste leggi vengono
regolarmente disattese?
Se ci si preoccupasse non solo di consigliare l’onestà, ma
anche di praticarla, prima di ammettere nella scienza dell’etica,
oltre alla legge di motivazione, l’esistenza di altre leggi per la
volontà dell’uomo originarie e indipendenti da ogni statuto
umano, bisognerebbe innanzitutto provarne l’esistenza e solo poi
dedurle. Ma finché una simile prova non verrà esibita
io continuerò ad attribuire all’introduzione nell’etica del
concetto di legge, norma e obbligo, nessun’altra origine se non
quella - estranea alla filosofia - del Decalogo di Mosè [i
dieci comandamenti].
Questa origine traspare ingenuamente anche dall’ortografia «Tu
hai l’obbligo!» nel sopra citato esempio di legge morale fatto
da Kant. Ma un concetto, che non possiede altra origine se non
quella del Decalogo, non può impunemente intrufolarsi nella
morale filosofica [l’etica]. Un simile concetto deve venir espulso,
fino a quando non verrà giustificato e ammesso sulla base di
prove adeguate. Pertanto, riguardo all’esistenza di una legge morale
per la volontà dell’uomo, dobbiamo prendere atto della prima
macroscopica petitio principii di Kant.
Esattamente come nel prologo - dove si assume che il concetto di
legge morale sia dato ed esistente senza ombra di dubbio -
così pure (8, R 16) Kant si comporta con il concetto di
dovere, strettamente imparentato a quello di legge, il quale viene
ammesso senza altra giustificazione, se non quella di essere
pertinente all’etica. E ancora una volta sono costretto a sollevare
obiezione.
Un simile concetto di dovere inteso nel senso di dovere
incondizionato, trae origine dalla morale teologica, insieme ai suoi
analoghi di legge, comandamento, obbligo, ecc.. Esso rimarrà
estraneo alla morale filosofica fintanto che non produrrà una
prova convincente, tratta dall’essenza della natura umana o del
mondo oggettivo. Fino a quel momento l’unica origine che riconosco a
lui, e ai suoi simili, è quella del Decalogo.
Nei secoli del cristianesimo l’etica ha inconsciamente preso forma
dalla morale teologica. Poiché la morale teologica è -
nella sua essenza - imperativa, anche l’etica ha ingenuamente
assunto la forma di prescrizione e di dottrina del dovere,
illudendosi che quella fosse la sua forma propria e naturale, senza
neppure pensare che per l’etica occorre un altro tipo di
legittimazione.
Come tutti i popoli, tutte le epoche e tutte le dottrine religiose,
anche i filosofi (ad eccezione dei veri e propri materialisti) hanno
chiaramente riconosciuto che il significato morale delle azioni
umane è metafisico, ossia si estende oltre questa esistenza
fatta di apparenze [fenomeni] fino a toccare l’eternità.
Quindi il valore morale di una azione non deve necessariamente
essere concepito in termini di comandamento, ubbidienza, legge e
dovere.
Oltretutto, questi concetti [comandamento, ubbidienza, legge e
dovere] separati dalle premesse teologiche da cui derivano perdono
ogni significato. Se si cerca di sostituirli - come fa Kant -
parlando di obbligo assoluto e di dovere incondizionato, si rimpinza
di parole il lettore, dandogli da digerire una vera e propria
contradictio in adjecto [contraddizione nel termine aggiunto].
Infatti, ogni obbligo ha senso e significato solo in relazione alla
minaccia di una punizione o alla promessa di una ricompensa.
Ancora prima di Kant, Locke nel Saggio sull’intelletto umano ha
scritto:
“Sarebbe del tutto vano pensare ad una regolamentazione delle libere
azioni dell’uomo senza allegare ad essa il rinforzo di qualcosa di
bene o di male, che determini la sua volontà. Ogni volta che
si pensa a una legge bisogna pensare anche a una corrispondente
ricompensa o punizione”.120
Ogni obbligo è dunque necessariamente condizionato da una
punizione o da una ricompensa, quindi è essenzialmente e
inevitabilmente ipotetico, mai categorico (nel linguaggio di Kant).
Se le clausole di premio o punizione venissero meno, il concetto di
obbligo perderebbe significato, cosicché parlare di un
obbligo assoluto è una contradictio in adjecto.
È impossibile immaginare una voce che provenga
indifferentemente dall’interno o dall’esterno, la quale emetta un
ordine senza contemporaneamente promettere o minacciare qualcosa.
Chi le obbedisce fa bene o fa male a seconda delle circostanze, ma
in ogni caso egli perseguirebbe il proprio tornaconto,
cosicché le sue azioni non avrebbero alcun valore morale.
L’assoluta astrusità e contraddittorietà del concetto
di obbligo incondizionato, che sta alla base dell’etica di Kant,
viene allo scoperto nel suo sistema solo più tardi, nella
Critica della ragion pratica, come un veleno che non può
rimanere nascosto dentro l’organismo, ma che prima o poi deve
sfogarsi e prendere aria. Quell’obbligo incondizionato in
realtà postula di nascosto una condizione, anzi, più
condizioni: un premio (addirittura l'immortalità per il
premiato) e chi promette questo premio.
Queste condizioni sono certamente necessarie quando dovere e obbligo
vengono promossi a concetti base dell’etica. Questi due concetti,
infatti, sono essenzialmente relativi, poiché hanno
significato solo tramite la minaccia di una punizione o la promessa
di una ricompensa.
La ricompensa prevista poi per la virtù (la quale, quindi,
solo apparentemente ha lavorato senza retribuzione) compare sempre
nascosta sotto un velo con il nome di ‘sommo bene’, il quale sarebbe
l’unione della virtù con la felicità d’animo. Questa,
in fondo, non è altro che una morale che persegue la
felicità d’animo ed è pertanto mossa dall’egoismo.
Si tratta dell’eudemonismo, che Kant aveva solennemente cacciato
fuori dalla porta d’ingresso del suo sistema poiché eteronomo
[condizionato da fattori esterni], ma che si è intrufolato di
nuovo, attraverso la porta di servizio, sotto il nome di ‘sommo
bene’. Così il contraddittorio presupposto di un obbligo
assoluto e incondizionato si è preso la rivincita.
D’altro canto, un obbligo condizionato non può certamente
essere il concetto che sta alla base dell’etica, poiché tutto
ciò che viene fatto nella speranza di una ricompensa, o nel
timore di una punizione, è necessariamente un’azione
egoistica e, come tale, priva di valore morale.
È quindi evidente la necessità di una concezione
dell’etica più nobile e libera da pregiudizi, se si vuole
veramente e realmente cogliere fino in fondo il significato perenne
- ossia, che va ben al di là del fenomeno - del comportamento
morale dell’uomo.
Come ogni obbligo, così pure ogni dovere è
imprescindibilmente legato a qualche condizione. Entrambi questi
concetti, infatti, sono strettamente imparentati, quasi identici.
L’unica differenza sta nel fatto che l’obbligo può anche
basarsi solo su una costrizione. Il dovere invece presuppone un
riconoscimento, ossia l’accettazione di quel determinato dovere. Un
dovere può pertanto sorgere tra padrone e servitore,
superiore e dipendente, governo e sudditi.
Poiché nessuno si assume un dovere senza una ricompensa, ogni
dovere conferisce automaticamente anche un diritto. Uno schiavo
invece non ha alcun dovere poiché non ha alcun diritto. Per
lui esiste solo l’obbligo fondato sulla costrizione. In seguito
presenteremo l’unico significato che il concetto di dovere possiede
nell’etica.
L’impostazione di un’etica in forma imperativa - ossia, come
dottrina del dovere - e la concezione del valore morale delle azioni
umane come adempimento, o trasgressione, di un dovere, traggono
certamente origine, assieme al concetto di obbligo, dalla morale
teologica, in definitiva dal Decalogo. Una morale di questo tipo si
basa essenzialmente e necessariamente sul presupposto che l’uomo
dipenda da una superiore volontà imperante, la quale gli
promette una ricompensa oppure lo minaccia di una punizione.
Ma un simile presupposto è tipico della teologia, e pertanto
non può essere tacitamente e tranquillamente trasferito alla
morale filosofica [l’etica]. Non si può, quindi, assumere in
anticipo che la forma imperativa - ossia l’imposizione di
comandamenti, leggi e doveri - sia del tutto naturale ed essenziale
per l’etica. Oltretutto è un cattivo espediente rimpiazzare
la condizione esterna - essenziale a quei concetti, a causa della
loro origine - con l’aggettivo ‘assoluto’ o ‘categorico’,
poiché così facendo si crea di nuovo una contradictio
in adjecto [contraddizione nel termine aggiunto].
La forma imperativa dell’etica di Kant è stata dunque presa
in prestito, tacitamente e incautamente, dalla morale teologica.
Alla sua vera base stanno delle premesse teologiche le quali, di
fatto, sono in essa contenute in maniera inseparabile, anzi
implicite [implicitamente], poiché sono l’unica cosa che
conferisce ad essa un senso e un significato.
Dopo aver impostato in questo modo la sua etica, Kant ha avuto gioco
facile, alla fine della sua presentazione, nel tirar fuori dalla sua
morale una nuova teologia, la famosa ‘teologia morale’. Infatti, gli
è bastato soltanto tirar fuori espressamente quei concetti
che, implicitamente postulati dal concetto di obbligo, stavano
nascosti alla base della sua morale ed erigerli esplicitamente a
postulati della ragione pratica.
E così - con grande edificazione per il mondo intero -
sembrò che una teologia fosse addirittura scaturita dalla
morale filosofica, sostentandosi solamente su di essa. In
realtà ciò è potuto accadere solo perché
questa etica già poggiava di nascosto su premesse teologiche.
Senza voler mancare di rispetto a Kant, a me sembra che questa
sorprendente operazione sia analoga a quella che un prestigiatore ci
riserva quando ci fa trovare una cosa là, dove lui prima
l’aveva abilmente nascosta.
In termini astratti, il procedimento seguito da Kant è stato
quello di promuovere a risultato ciò che avrebbe dovuto
essere il principio e il presupposto e di assumere invece come
premessa ciò che avrebbe dovuto essere dedotto come
risultato.
Così, dopo aver rigirato la frittata sottosopra, nessuno si
accorse (neppure lui stesso) che si trattava in realtà ancora
della vecchia e ritrita morale teologica. Vedremo nei paragrafi
§ 6 e § 7 come questa abile manovra è stata
realizzata.
In realtà, già prima di Kant l’impostazione della
morale in forma imperativa e come dottrina del dovere era pratica
comune anche in filosofia. Solo che allora si fondava la morale
sulla volontà di una divinità comprovata in qualche
altro modo e poi si procedeva di conseguenza.
Ma quando ci si accinge - come fa Kant - a fondare una morale
sganciata da qualunque autorità divina e ad erigere un’etica
senza presupposti metafisici non si è autorizzati a porle
come fondamento quella forma imperativa - ossia, ‘tu hai l’obbligo’
e ‘è tuo dovere’ - senza alcuna giustificazione.
§ 5 Riguardo ai presunti doveri verso noi stessi, in
particolare
Tuttavia Kant non ha voluto giustificare quella impostazione
imperativa - a lui così cara - della dottrina dei doveri
neppure durante la sua presentazione. Inoltre Kant - come i suoi
predecessori - ha posto accanto ai doveri verso gli altri anche i
doveri verso sé stessi. Siccome io nego assolutamente
l’esistenza di doveri verso sé stessi, voglio inserire per
inciso qui - dove il contesto è più che appropriato -
la mia spiegazione al riguardo.
I doveri verso sé stessi - come tutti i doveri - possono
essere di giustizia o di amore. In base all’evidente principio:
volenti non fit injuria [se uno è consenziente, non
c’è offesa]121 è impossibile che esistano doveri di
giustizia verso sé stessi. Infatti, se faccio deliberatamente
una determinata cosa, la faccio perché la voglio io. Poi mi
succederà qualcosa che ho voluto io, quindi non avrò
compiuto alcuna ingiustizia nei miei confronti.
Per quanto riguarda, invece, i doveri di amore verso sé
stessi, la morale arriva troppo tardi e si ritrova il lavoro
già fatto. L’impossibilità di trasgredire il dovere di
amare sé stessi viene data per scontata anche dal supremo
comandamento della morale cristiana: «Ama il prossimo tuo come
te stesso». Questo comandamento presuppone che l’amore che uno
nutre verso sé stesso sia il massimo e la premessa di ogni
altro amore. Giammai si dirà: «Ama te stesso come ami
il tuo prossimo». In tal caso, infatti, chiunque avrebbe la
sensazione che si stia chiedendo troppo poco.
Oltretutto questo sarebbe l’unico dovere dove si pone all’ordine del
giorno una opus supererogationis [opera di super-erogazione, fatta
volontariamente ben al di là di quanto richiesto]. Kant
stesso, infatti, nei Principi metafisici della dottrina della
virtù (13, R 230) dice:
“Ciò che un uomo ineluttabilmente vuole non rientra nel
concetto di dovere”.
Questo concetto dei doveri verso sé stessi viene sempre
tenuto in molta considerazione ed è ben visto in generale.
Non c’è da meravigliarsi. Eppure questo concetto susciterebbe
un divertente effetto nel caso che qualcuno cominciasse a
preoccuparsi per la propria persona e parlasse seriamente del dovere
di conservare sé stesso. Come se non fosse fin troppo
evidente che sarà la paura a fargli alzare i tacchi e non ci
sarà bisogno di alcun dovere verso sé stessi per
dargli la spinta.
Di solito però, quando si parla di doveri verso sé
stessi, si fa innanzitutto un discorso, impegolato nei pregiudizi e
affrontato con gli argomenti più superficiali, contro il
suicidio.
A differenza dell’animale, che è vittima solo di sofferenze
corporali e limitate all’immediato presente, l’uomo è vittima
anche di sofferenze spirituali incomparabilmente più grandi,
che possono riguardare anche il passato e il futuro. In compenso,
solo all’uomo la natura ha dato il privilegio di poter
deliberatamente porre fine alla propria vita prima ancora del
termine che la natura stessa le ha posto, ossia di vivere non
necessariamente fin quando è possibile (come l’animale), ma
solo fino a quando lui stesso lo desidera. Se l’uomo debba opporsi a
questo privilegio per motivi etici è una questione difficile
che non si può certo risolvere con i soliti argomenti
superficiali.
Anche i motivi contro il suicidio che Kant non si vergogna di
addurre (53, R48) e (67, R57), onestamente non si possono definire
che miserie spirituali, degne neppure di risposta. Non si può
fare a meno di ridere al pensiero che simili considerazioni
avrebbero dovuto strappare il pugnale dalle mani di Catone,
Cleopatra, Cocceio Nerva122 e Arria (la moglie di Peto).123
Se esistessero realmente dei motivi genuinamente morali contro il
suicidio, essi risiederebbero più nel profondo e non
potrebbero essere toccati tramite il corto scandaglio dell’etica
ordinaria. Questi motivi sono parte integrante di un modo di vedere
le cose ancora più elevato del punto di vista del presente
trattato.124
Altre cose, che di solito vengono elencate nella rubrica dei doveri
verso sé stessi, sono in parte regole di prudenza e in parte
prescrizioni dietetiche, che nulla hanno da vedere con la morale
vera e propria.
Infine, fra i doveri verso sé stessi si include anche il
divieto di atti di lussuria contro natura: l’onanismo, la pederastia
e la zoofilia.
Di questi, l’onanismo è principalmente un vizio di
gioventù, da sconfiggere più con la dietetica che con
l’etica. Per questo motivo gli scritti contro l’onanismo sono stati
redatti da medici (come Tissot, tra gli altri), non da moralisti.
Dopo che la dietetica e l’igiene hanno assolto il loro compito
riguardo a questo problema e lo hanno risolto con argomenti
incontestabili, se anche la morale volesse intervenire troverebbe il
lavoro già fatto, cosicché le rimarrebbe ben poco da
fare.
La zoofilia è un trasgressione del tutto anormale, molto
rara, una vera eccezione, che desta la massima indignazione
perché contraria alla natura umana. È una cosa che
ripugna e che parla da sola contro sé stessa, più di
quanto possa fare qualunque argomento razionale. Inoltre, essendo
una degradazione della natura umana, la zoofilia è un
oltraggio alla specie umana, come tale e in astratto, non al singolo
individuo.
Di queste tre deviazioni sessuali solo la pederastia rientra nella
competenza dell’etica, dove troverà automaticamente posto
nelle considerazioni che faremo sulla giustizia. È questa
infatti che viene violata, poiché alla pederastia non si
può concedere il volenti non fit iniuria [non vi è
alcuna offesa se la controparte è consenziente]. In questo
caso la violazione della giustizia consiste nella seduzione di
persone giovani e inesperte che vengono corrotte fisicamente e
moralmente.
§ 6 Il fondamento dell’etica di Kant
La forma imperativa dell’etica (una vera petitio principii, come
dimostrato nel § 4) sta in relazione diretta con una
particolare idea prediletta da Kant, la quale, come tale, si
può certo giustificare ma non accettare.
Capita talvolta che un medico, avendo usato una particolare medicina
in un determinato caso con brillante risultato, la prescriva poi per
tutti gli altri casi. A un simile medico paragono Kant.
Con la separazione dello a priori dallo a posteriori nel campo della
conoscenza umana, Kant ha compiuto la scoperta più brillante
e ricca di conseguenze che la metafisica abbia mai potuto vantare.
Perché meravigliarsi allora che egli cerchi di applicare
questo metodo e di effettuare questa separazione in ogni altro campo
della filosofia? Anche l’etica dovrebbe quindi consistere di una
parte pura, conoscibile a priori, e di una parte empirica. Secondo
Kant, per la motivazione dell’etica la parte empirica andrebbe
respinta poiché inammissibile.
Come aveva già fatto per la fisica nei Principi metafisici
della scienza della natura, per l’etica Kant si propone nella
Fondazione della metafisica dei costumi di scoprire ed evidenziare
la parte pura, cosicché l’etica dovrebbe essere una scienza
completamente a priori. Quindi, quella legge morale - oltre a essere
data per scontata in anticipo senza alcuna legittimazione, deduzione
o prova - dovrebbe anche essere conoscibile a priori,
indipendentemente da ogni esperienza interna ed esterna, ossia:
“... un giudizio sintetico a priori che poggia solo su concetti
della ragione pura”.125
Ma allora anche la legge morale dovrebbe essere puramente formale
come tutto ciò che è conoscibile a priori, e dovrebbe
riferirsi solo alla forma, non al contenuto delle azioni. Pensate
bene a cosa questo significa! Kant aggiunge esplicitamente (Prologo
vi-vii, R 5-6) che la legge morale:
“... non deve essere cercata nella natura soggettiva dell’uomo (nel
soggettivo) né nelle circostanze del mondo (nell’oggettivo)”,
e che:
“... neppure in minima parte dovrebbe derivare dalla conoscenza
dell’uomo, ossia dall’antropologia”.
Kant ribadisce poi (59, R 52) che:
“... non si potrebbe neppure pensare di voler dedurre la
realtà del principio morale dell’uomo dalla particolare
costituzione della natura umana”,
e ancora (60, R 52) che:
“... tutto ciò che potrebbe essere dedotto da una particolare
disposizione naturale dell’umanità (da certi sentimenti e
tendenze, o addirittura da un particolare orientamento che dovesse
essere proprio della natura umana), ma che non dovesse
necessariamente valere per la volontà di ogni essere dotato
di ragione, non potrebbe offrire alcun fondamento alla legge
morale”.
Tutto questo prova incontestabilmente che (al contrario di
ciò che tutti i filosofastri di questi tempi vorrebbero far
credere) Kant non concepisce la presunta legge morale come un dato
di fatto della coscienza, ossia, come qualcosa di empiricamente
dimostrabile. Con il rifiuto di qualsiasi fondamento empirico della
morale Kant esclude ogni esperienza interna e, ancora più
decisamente, ogni esperienza esterna.
Kant fonda il suo principio morale (notate bene) non su un dato di
fatto dimostrabile della coscienza - come, ad esempio, una
disposizione d’animo - né tantomeno su un rapporto oggettivo
delle cose nel mondo esterno. No! Entrambe costituirebbero un
fondamento empirico. Il fondamento della morale dovrebbe, invece,
essere costituito esclusivamente da puri concetti a priori, senza
alcun contenuto proveniente dall’esperienza interna né da
quella esterna, come un guscio vuoto senza gheriglio.
Valutiamo bene la portata di questa affermazione! Da sotto i piedi
ci viene tolto il supporto della coscienza umana e del mondo intero,
assieme a ogni esperienza e ad ogni dato di fatto ad essi associato.
Non abbiamo più nulla su cui poggiare. A cosa dovremmo allora
aggrapparci? Ad un paio di concetti astratti, completamente privi di
contenuto e che fluttuano nell’aria.
Da simili concetti - anzi, a rigore dalla pura forma con cui vengono
espressi in giudizi - dovrebbe scaturire una legge che dovrebbe
valere con ‘assoluta necessità’ ed avere la forza di
mettere la museruola e il morso all’impeto dell’ingordigia,
all’assalto delle passioni ed allo smisurato egoismo.
A questa concezione preconfezionata dell’imprescindibile e
necessaria a priorità e purezza da ogni contenuto empirico
del fondamento della morale è strettamente associata un’altra
idea tanto cara a Kant. È l’idea che il principio morale
(ancora da definire), essendo un giudizio sintetico a priori dal
contenuto esclusivamente formale, quindi di pertinenza esclusiva
della ragione pura, dovrebbe come tale valere per ogni
possibile essere dotato di ragione.
Solo per questo motivo (quindi, come corollario e per accidens [per
accidente]) il principio morale dovrebbe valere anche per gli
uomini. Esso non si basa su un sentimento qualsiasi, bensì
sulla ragione pura che non conosce altro che sé stessa e il
principio di non contraddizione.
Così facendo Kant non considera la ragione pura semplicemente
come una facoltà conoscitiva [esclusiva] dell’uomo (come
invece essa è) ma la immagina (senza alcuna giustificazione)
come qualcosa di a sé stante. In questo modo Kant crea un
precedente pericolosissimo, come testimonia il miserabile stato
della filosofia nei nostri tempi.
Questo erigere la morale non per gli uomini in quanto uomini, ma per
tutti gli esseri dotati di ragione in quanto tali, è un’idea
per lui così importante e prediletta, che Kant non si stanca
mai di ribadirla ogni volta che si presenta l’occasione.
Io sostengo, invece, che non si è mai autorizzati a stabilire
l’esistenza di un genus [genere (categoria sistematica superiore
alla specie)], che sperimentalmente si ritrova solo all’interno di
una sola species [specie], quando nel concetto di quel genus non si
può includere assolutamente nulla che non si ritrovi
già in quella determinata species, cosicché tutto
ciò che si afferma di quel genus non si può intendere
altrimenti che come appartenente a quella determinata species.
Oltretutto, se per costruire quel genere si toglie idealmente e
senza alcuna autorizzazione ciò che spetta a quella specie,
si annulla proprio la condizione della possibilità di
esistenza degli attributi isolati e ipostatizzati [trasferiti dal
concreto all’astratto] come genere.
Sappiamo che l’intelligenza [la facoltà esercitata
dall’intelletto] in generale è una facoltà esclusiva
degli esseri animali, cosicché non siamo autorizzati a
pensare che l’intelligenza possa esistere al di fuori e
indipendentemente dalla natura animale. Così pure sappiamo
che la ragione è una proprietà esclusiva degli uomini,
cosicché non siamo autorizzati a pensare che la ragione possa
esistere al di fuori della loro specie, né siamo autorizzati
a creare un genere di ‘esseri dotati di ragione’ diverso dall’unica
specie ‘uomo’.
Tanto meno siamo autorizzati a stabilire leggi in abstracto per
degli immaginari esseri ragionevoli. Parlare di esseri ragionevoli
oltre agli uomini è come parlare di esseri pesanti oltre ai
corpi. Non si può fare a meno di sospettare che, a questo
proposito, Kant abbia voluto fare un pensiero ai cari angioletti e
contare sulla loro solidarietà per convincere il lettore.
Comunque sia, così facendo si presuppone tacitamente
l’esistenza di una anima rationalis - ben diversa dalla anima
sensitiva e dalla anima vegetativa - che sopravvivrebbe alla morte e
non sarebbe altro che razionale, appunto.
Eppure Kant stesso nella Critica della ragion pura aveva chiaramente
e definitivamente posto fine a questa ipostasi [sostanza] del tutto
trascendente. Ciò nonostante nell’etica di Kant, soprattutto
nella Critica della ragione pratica, si vede costantemente aleggiare
sullo sfondo il pensiero che l’essenza intima ed eterna dell’uomo
sia la ragione.
Poiché questo problema rientra solo marginalmente nel tema di
questo trattato, debbo qui contentarmi di affermare semplicemente il
contrario, ossia che la ragione - come qualsiasi altra
facoltà conoscitiva - è qualcosa di secondario che
appartiene al fenomeno ed è condizionato dall’organismo,
mentre il vero nucleo metafisico e indistruttibile dell’uomo
è la sua volontà.
Kant ha voluto, dunque, estendere anche alla filosofia pratica lo
stesso metodo di separazione tra conoscenza pura a priori e
conoscenza empirica a posteriori che aveva utilizzato con tanto
successo nella filosofia teoretica. In questo modo ha supposto che,
come noi conosciamo a priori le leggi dello spazio, del tempo e
della causalità, così pure (o in maniera analoga)
dovremmo conoscere a priori anche il filo conduttore morale del
nostro agire, il quale si dovrebbe poi manifestare come dovere
assoluto nell’imperativo categorico.
Ma che distanza stellare corre tra quelle conoscenze teoretiche a
priori e questa presunta legge morale! La conoscenza teoretica,
infatti, si basa e si esprime tramite le forme della conoscenza
[spazio, tempo e causalità], ossia le funzioni del nostro
intelletto, grazie alle quali possiamo intuire il mondo. Tramite
queste forme il mondo viene rappresentato, cosicché solo loro
possono dettare legge assoluta al mondo reale. Ogni esperienza deve
quindi sempre ed esattamente corrispondere ad esse, come tutto
ciò che osservo attraverso un vetro azzurro mi si presenta,
sempre ed esattamente, colorato di azzurro.
L’esperienza, invece, si fa continuamente beffe della presunta legge
morale a priori, come lo stesso Kant ammette quando si pone la
domanda se l’esperienza abbia avuto modo, anche una sola volta, di
orientarsi secondo questa legge morale. Qui vengono raggruppate
sotto il concetto di a-priorità due cose completamente
disparate!
Oltretutto Kant non ha tenuto conto che, secondo la sua stessa
filosofia teoretica, proprio la a-priorità delle conoscenze
che [derivano direttamente dalle forme di conoscenza e che quindi]
non derivano dall’esperienza limita la loro validità solo al
‘fenomeno’ (ossia, alla rappresentazione del mondo reale che avviene
nella nostra testa a opera dell’intelletto) e nega qualsiasi
validità a conoscenze riguardo allo ‘essere in sé’
delle cose (ossia a ciò che esiste di per sé,
indipendentemente dalla nostra rappresentazione del mondo).
Quindi anche nella filosofia pratica, se la presunta legge morale
scaturisse a priori nella nostra testa, essa dovrebbe essere solo
una forma del ‘fenomeno’ e non toccare l’essenza della ‘cosa in
sé’. Ma questa conseguenza sarebbe in netto contrasto con la
concezione dell’etica kantiana. Kant, infatti, afferma ripetutamente
- ad esempio nella Critica della ragion pratica (175, R 228) - che
ciò che vi è di morale dentro l’uomo sta in un
rapporto così stretto con il vero essere ‘in sé’ delle
cose da addirittura toccarlo direttamente.
Anche nella Critica della ragione pura ogni qualvolta la misteriosa
‘cosa in sé’ spunta fuori in qualche modo più
chiaramente, essa si fa riconoscere come la volontà morale
dentro di noi. Eppure di questa incongruenza [se la legge morale
fosse anch’essa una forma a priori dell'intelletto, come tale
dovrebbe riguardare solo il fenomeno, non la ‘cosa in sé’]
Kant non ha tenuto conto.
Nel paragrafo § 4 ho dimostrato che Kant ha prelevato la forma
imperativa dell’etica - ossia i concetti di obbligo, di legge e di
dovere - direttamente dalla morale teologica e ha ignorato cosa
effettivamente conferisce a questi concetti forza e significato. Per
dare poi un fondamento a questi concetti Kant si spinge tanto oltre,
da pretendere che il concetto stesso di dovere costituisca anche il
motivo per il suo compimento, ossia, che il concetto di dovere sia
proprio ciò che obbliga.
Un’azione, secondo Kant (ii, R 18) possiede un genuino valore morale
solo se viene compiuta esclusivamente per dovere, solo per amore del
dovere, senza alcuna altra propensione a compierla. Il valore morale
del carattere si mostra solo quando l’individuo, senza nutrire
alcuna simpatia nel cuore, freddo e indifferente verso la sofferenza
degli altri (quindi non esattamente nato per diventare un
filantropo), elargisce benefici vari solo per il sofferto senso del
dovere.
Quest’affermazione che offende il vero sentimento morale, questa
apoteosi della mancanza di amore antitetica alla dottrina del
cristianesimo - per il quale l’amore sta prima di ogni altra cosa e
senza l’amore ogni azione perde qualsiasi valore (1 Corinzi 13.3) -
e questa pedanteria morale senza tatto, sono stati ridicolizzati da
Schiller in due azzeccati epigrammi, intitolati Scrupolo di
coscienza e Decisione.126
Pare che lo spunto originario di questi epigrammi sia stato fornito
da alcuni passi della Critica della ragion pratica. Ad esempio (150,
R 211):
“Il sentimento che impone all’uomo di assecondare la legge morale
è quello di farlo per dovere, non per naturale inclinazione o
per iniziativa spontanea non comandata”.
Comandata deve essere! Che morale da schiavi! E ancora (213, R 257):
“I sentimenti di compassione e di partecipazione affettiva delle
persone di buon cuore sarebbero addirittura inopportuni,
perché potrebbero confondere le loro massime morali dettate
dalla ragione, tanto da destare in loro - anche se soggetti alla
ragione legislatrice - il desiderio di sbarazzarsene”.
Sono sicuro che ciò che apre le mani al suddetto benefattore,
privo di amore e indifferente al dolore degli altri, non è
altro (ammesso che non abbia secondi fini) che la deisidaimonia
[paura irrazionale, superstizione] da schiavo, sia che il suo
feticcio si chiami ‘imperativo categorico’ oppure Fitzlipuzli [nome
di una divinità messicana]. Cos’altro potrebbe mai muovere un
cuore così duro se non la paura?
In conformità a questa concezione della morale, secondo Kant
(13, R 19) il valore morale di un’azione non dovrebbe affatto
consistere nell’intenzione con cui è stata compiuta,
bensì nella massima morale che è stata seguita. Io,
invece, invito [il lettore] a riflettere sul fatto che solo
l’intenzione determina il livello di moralità di un’azione,
cosicché la medesima azione merita di essere elogiata oppure
disapprovata a seconda dell’intenzione con cui è stata
compiuta.
Di solito infatti, quando si discute dell’importanza morale di
un’azione, si indaga innanzitutto sull’intenzione e si giudica poi
in base ad essa. Così pure, d’altro canto, solo adducendo
l’intenzione ci si suole giustificare quando un’azione viene
fraintesa, oppure chiedere scusa, quando il suo esito è stato
controproducente.
Finalmente, a pagina (14, R 20) troviamo la definizione del concetto
base dell’etica di Kant: il dovere. Esso sarebbe:
“La necessità di un’azione per rispetto della legge morale”.
Tuttavia ciò che è necessario succede ed è
inevitabile, mentre le azioni ‘per puro dovere’ di solito non
succedono. Tanto che lo stesso Kant ammette (25, R 28) di non poter
addurre alcun esempio sicuro del proposito di agire per puro dovere
e (26, R 29) che:
“Tramite l’esperienza è semplicemente impossibile individuare
con certezza un solo caso nel quale un’azione conforme al dovere si
sia basata semplicemente sull’idea del dovere”
In quale senso si può allora dire che una simile azione
é necessaria? Poiché è giusto interpretare un
autore sempre nel modo a lui più favorevole, diciamo che
secondo Kant un’azione conforme al dovere è oggettivamente
necessaria ma soggettivamente casuale.
Ma questa è una cosa più facile da dire che da
immaginare. Dove si trova l’oggetto di questa necessità
oggettiva, il cui esito viene a mancare di solito (se non
addirittura sempre) nella realtà?
Anche volendo essere il più possibile favorevoli
nell’interpretazione, non si può fare a meno di pensare che
la definizione ‘necessità di una azione’ non sia altro che
una perifrasi forzata, ma abilmente camuffata, della parola
‘obbligo’. Il camuffamento risulta ancora più evidente se si
osserva che nella medesima definizione viene usata la parola
‘rispetto’ al posto di ‘ubbidienza’. Infatti, nella nota a pagina
(16, R 21) Kant dice:
“Rispetto significa semplicemente assoggettare la mia volontà
alla legge. La determinazione immediata tramite la legge e la
coscienza della legge si chiama rispetto”.
Ma in quale lingua? Ciò che questa frase esprime, nella mia
lingua si chiama ‘ubbidienza’.
Tuttavia la parola ‘rispetto’ non deve essere stata scelta per caso,
in un modo così infelice, al posto della parola ‘ubbidienza’;
deve pur servire a qualche scopo. Evidentemente lo scopo non
può essere altro che quello di mascherare la provenienza
dell’imperativo categorico e del concetto di dovere dalla morale
teologica. Esattamente come la precedente espressione
‘necessità di una azione’ (la quale rimpiazza in maniera
forzata e impropria la parola ‘obbligo’) è stata scelta al
posto di ‘obbligo’ proprio perché questo è un termine
del Decalogo.
Quindi la precedente definizione, secondo cui: “Il dovere è
la necessità di un’azione per rispetto della legge”, dovrebbe
suonare, in un linguaggio senza forzature e distorsioni, ossia senza
alcuna maschera: “Il dovere è un’azione che deve accadere per
ubbidienza alla legge”. Questo è il punto.
Passiamo ora alla legge morale, la pietra fondamentale su cui poggia
l’etica di Kant. Quale è il suo contenuto? Dove sta scritta?
Questo è il problema principale.
Bisogna innanzitutto osservare che si tratta di due domande. La
prima riguarda il principio, la seconda il fondamento della morale.
Sono due cose ben distinte, sebbene spesso (talvolta di proposito)
vengano confuse l’una con l’altra.
Il principio – ossia, la massima suprema - di una etica è
l’espressione più breve e concisa che definisce il modo di
agire che quella etica prescrive, oppure, quando essa non assume una
forma imperativa, il modo di agire al quale essa riconosce un
genuino valore morale. Si tratta quindi della sua direttiva,
sintetizzata in una frase, verso la virtù in generale, ossia
lo Óti [òti: che cosa] della virtù.
Il fondamento di una etica, invece, è il diÒti
[diòti: perché] della virtù, ossia il motivo di
quell’obbligo, di quella esortazione o di quell’elogio contenuti nel
principio. Questo motivo può essere ricercato nella natura
dell’uomo, nei suoi rapporti con il mondo esterno, oppure altrove.
Come in tutte le scienze anche nell’etica si dovrebbe distinguere
chiaramente il ‘che cosa’ dal ‘perché’. La maggior parte dei
moralisti, invece, cancella di proposito questa differenza,
verosimilmente poiché il ‘che cosa’ è così
facile, mentre il ‘perché’ è terribilmente più
difficile da stabilire. Pertanto preferiscono compensare la
povertà di una parte con la ricchezza dell’altra e cercano di
creare un felice connubio tra Pen…a [penìa: povertà] e
PÒroj [pòros: abbondanza] sintetizzando entrambe in
una sola frase.
Di solito ci riescono tramite l’accorgimento di non indicare
espressamente nella sua semplicità il ‘che cosa’ (a tutti ben
noto) ma di costringerlo dentro una formula artificiosa, dalla quale
esso può essere dedotto a conclusione di determinate
premesse. In questo modo il lettore ha l’impressione di aver appreso
non solo la cosa (il principio) ma anche la sua motivazione (il
fondamento). Di questo espediente ci si può facilmente
accorgere esaminando i principi morali comunemente noti.
Ma io nel seguito non ho intenzione di ricorrere a simili
trucchetti. Voglio procedere onestamente, senza equiparare il
principio dell’etica al suo fondamento, bensì distinguerli
entrambi chiaramente. Ricondurrò quel ‘che cosa’, il
principio, la massima (sulla quale tutti i moralisti sono d’accordo,
anche se la rivestono in modi differenti) all’espressione che
considero la più semplice e pura:
“Neminem laede, imo omnes, quantum potes, juva” [non danneggiare
nessuno, anzi, per quanto puoi, aiuta tutti].
Questo è il vero principio, il risultato comune delle loro
deduzioni così diverse, al quale tutti i moralisti si
preoccupano di dare un fondamento. È lo Óti [che cosa]
per il quale si sta ancora cercando il diÒti [perché].
È la conseguenza di cui si cerca il motivo, il datum il cui
quaesitum costituisce il problema di ogni etica (come testimonia
anche l’indizione del presente concorso). La soluzione di questo
problema fornirà il vero fondamento dell’etica che, come la
pietra filosofale, si sta cercando da millenni.
Che il datum, lo Óti [che cosa], il principio trovi realmente
nella suddetta frase la sua espressione più pura, risulta
evidente dal fatto che essa è la conclusione, ciò a
cui si vuole arrivare, a partire dalle premesse di ogni altro
principio morale. Anzi, ogni altro principio morale potrebbe quasi
essere visto come una trascrizione, indiretta e allusiva, di quella
semplice espressione.
Questo vale, ad esempio, anche per il comune e triviale principio:
quod tibi fieri non vis, alteri ne feceris [non fare agli altri
quello che non vuoi sia fatto a te]127 il cui difetto – quello di
far riferimento solo alla giustizia tralasciando la bontà -
può essere corretto con il ripetere la stessa frase senza il
non e il ne.
Con questo emendamento anche questo secondo principio significa:
neminem laede, imo omnes, quantum potes, juva. Tuttavia esso ci
arriva attraverso un cammino indiretto, tanto da suscitare
l’impressione di fornire anche il motivo, il ‘perché’ di
quella prescrizione. E invece così non è,
poiché il desiderio che una determinata cosa non venga fatta
a me non implica affatto che io non debba farla ad altri. Lo stesso
succede con tutti gli altri principi, o massime supreme dell’etica,
che sono stati formulati fino a oggi.
Ma torniamo alle nostre precedenti domande. Cosa dice quella legge
morale, nel cui rispetto, secondo Kant, consiste il dovere e su cosa
è fondata? Vedremo che anche Kant ha legato strettamente, ma
in maniera artificiosa, il principio con il fondamento della morale.
Ricordo ancora una volta il requisito posto da Kant riguardo al
principio dell'etica. Esso deve essere essenzialmente a priori e
formale, addirittura un giudizio sintetico a priori, senza alcun
contenuto materiale. Inoltre non può poggiare su nulla di
empirico, ossia su qualcosa di oggettivo nel mondo esterno o di
soggettivo nella coscienza umana (ad esempio, un sentimento,
un’inclinazione, un impulso, ecc.).
Kant era perfettamente consapevole della difficoltà di questo
compito, tanto da affermare (60, R 53):
“Qui vediamo che la filosofia poggia su un punto delicato, che deve
essere ben saldo, sebbene non abbia alcun aggancio ad alcuna cosa in
cielo e non sia sorretto da alcuna cosa in terra”.
Proprio per questo dobbiamo attendere con ansia la soluzione del
compito che Kant si è posto e aspettare con impazienza, per
vedere come dal nulla - ossia da concetti a priori, senza alcun
contenuto empirico o materiale - possano sorgere le leggi che
materializzano il comportamento concreto dell’uomo. Si tratta di un
procedimento che potremmo paragonare al processo chimico tramite il
quale da tre gas invisibili come l’azoto, l’idrogeno e il cloro,
davanti ai nostri occhi si materializza nello spazio apparentemente
vuoto il concreto sale di ammonio.
Ma io voglio esporre il procedimento con cui Kant ha risolto questo
difficile problema in maniera più chiara di quanto lui stesso
abbia voluto, o potuto, fare. È una cosa oltretutto
necessaria, poiché mi pare che raramente questo procedimento
sia stato ben compreso. Infatti quasi tutti i kantiani sono
incappati nell’errore di credere che Kant ponga l’imperativo
categorico come dato immediato della coscienza.
Se così fosse la sua origine sarebbe antropologica e legata
all’esperienza, anche se interiore, cosicché il suo
fondamento sarebbe empirico. Ma un simile fondamento cozzerebbe
frontalmente con il punto di vista di Kant ed è stato da lui
ripetutamente respinto. Kant, infatti, afferma (48, R 44):
“Non si può per via empirica stabilire l’esistenza di un
simile imperativo categorico”.
E aggiunge (48, R 44):
“La possibilità dell’imperativo categorico va ricercata a
priori poiché, a questo proposito, non disponiamo della
circostanza favorevole che la sua realtà sia data
nell’esperienza”.
Ciò nonostante già Reinhold, il suo primo discepolo,
è evidentemente caduto in quell’errore, poiché nei
suoi quaderni scrive:
“Kant assume la legge morale come un fatto immediatamente certo,
come un dato di fatto originario della coscienza morale”.128
Ma se Kant avesse voluto giustificare l’imperativo categorico come
un dato di fatto della coscienza (quindi empirico) non avrebbe
certamente evitato di dimostrarlo come tale. Eppure non si trova
traccia di qualcosa di simile nelle sue opere.
A quanto mi risulta, l’imperativo categorico compare per la prima
volta nella Critica della ragion pura (802 i Ed.; 830 v Ed.) dove
sorge ex nunc [improvvisamente] senza alcun preavviso, semplicemente
collegato alla frase precedente tramite un ingiustificato ‘quindi’.
Formalmente viene presentato per la prima volta nella Fondazione
della metafisica dei costumi in un modo del tutto a priori, tramite
una deduzione da concetti.
Ciò nonostante la Formula di concordia del criticismo, che si
trova nel quinto quaderno di quel periodico di Reinhold così
‘importante’ per la critica filosofica, riporta (p. 112) addirittura
la seguente frase:
“Noi distinguiamo l’autocoscienza morale dall’esperienza, con la
quale l’autocoscienza - come un dato di fatto originario, oltre al
quale nessun sapere può andare - è legata nella
coscienza umana. E per autocoscienza morale intendiamo l’immediata
coscienza del dovere, ossia della necessità di assumere la
legalità del dovere - indipendente dal piacere o dal dolore -
come molla di spinta e come filo conduttore delle azioni
volontarie”.
Qui ci troviamo senza dubbio di fronte a
“... una considerevole proposizione, che addirittura propone anche
qualcosa”.129
Ma parlando seriamente, a quale sfacciata petitio principii vediamo
qui giungere la legge morale di Kant! Se ciò che Reinhold
scrive fosse vero, l’etica disporrebbe di un fondamento
incomparabilmente solido e non ci sarebbe bisogno di alcun concorso
a premi per stimolarne la ricerca. In questo caso sarebbe il
più grande dei misteri che un simile dato di fatto della
coscienza sia stato scoperto solo così tardi, dopo che per
millenni si è andati alla ricerca, con solerzia e con fatica,
di un fondamento per la morale. Mostrerò in seguito come lo
stesso Kant abbia dato lo spunto per incappare in questo deprecabile
errore.
Ma in fondo non ci dobbiamo stupire del persistere indisturbato di
questo fondamentale errore tra i kantiani. Infatti, mentre lor
signori scrivevano innumerevoli libri sulla filosofia di Kant, hanno
mai notato la deformazione che la Critica della ragione pura ha
subito nella seconda edizione e che l’ha resa un libro incoerente,
addirittura contraddittorio? Questa deformazione è venuta
alla luce solo recentemente ed è stata dibattuta (a mio
parere) molto bene nel prologo di Rosenkranz al secondo volume della
Opera omnia di Kant.
Bisogna pur tener conto che l’incessante insegnamento, dalla
cattedra e tramite le pubblicazioni, lascia a molti dotti solo poco
tempo per apprendere veramente. Il docendo disco [insegnando
imparo]130 non è necessariamente vero. Andrebbe piuttosto
rivisto con il semper docendo nihil disco [continuando
ininterrottamente ad insegnare non imparo nulla].
Addirittura non è senza fondamento quello che Diderot scrive
in Il nipote di Rameau:
“Credete forse che questi insegnanti conoscano le scienze che
insegnano? Sciocchezze, caro signore, sciocchezze! Se le
conoscessero abbastanza per insegnarle, non le insegnerebbero. E
perché? Perché avrebbero dovuto prima passare la vita
a studiarle”.
Anche Lichtenberg dice:
“Ho più volte avuto modo di notare che gli esperti di
professione spesso non conoscono il meglio”.131
Ma torniamo alla morale di Kant e al suo impatto sul pubblico. La
maggior parte delle persone, appena il risultato della morale di
Kant risulta in accordo con i propri sentimenti morali, si affretta
a dare per scontato che la sua deduzione sia esatta. Inoltre, appena
sorge qualche difficoltà a proposito di questa morale, non si
preoccupa di indagare a fondo, ma preferisce avere fiducia in
ciò che dice la gente ‘del mestiere’.
In realtà, la motivazione della legge morale di Kant non
consiste affatto nella sua evidenza empirica come dato di fatto
della coscienza, né in un appello al sentimento morale,
né in una petitio principii dall’altisonante nome
(attualmente in voga): ‘postulato assoluto’. Si tratta invece di un
sottile procedimento del pensiero, che Kant ci presenta due volte,
(17, R 22) e (51, R 46), il quale può essere illustrato come
segue.
Kant, disprezzando ogni molla di spinta empirica della
volontà, rifiuta in partenza di fondare la legge morale su
qualcosa di oggettivo o soggettivo, proprio perché empirico.
Come unica risorsa per la legge morale non gli rimane altro che la
sua stessa forma. Questa forma è, appunto, la
legalità. Ma la legalità consiste nel valere per
tutti, ossia nella validità in generale. Questa diventa
quindi la sua sostanza: il contenuto della legge morale non è
altro che la sua stessa validità universale. Pertanto la
legge morale secondo Kant suona così:
“Agisci solo secondo la massima della quale tu allo stesso tempo
puoi volere che diventi una legge universale per tutti gli esseri
dotati di ragione”.
È la ‘validità in generale’ la vera motivazione - che
è stata di solito travisata - del principio morale di Kant e
quindi il fondamento (il diÒti [il perché]) di tutta
la sua etica (si confronti anche la Critica della ragion pratica
(61, R 147), alla fine della nota i).
Tutta la mia sincera ammirazione per l’acutezza di pensiero con cui
Kant ha realizzato questo capolavoro! Tuttavia io devo proseguire
nella mia rigorosa verifica con il metro della verità.
Vorrei inoltre far notare una cosa (sulla quale ritornerò in
seguito) ossia che la ragione, proprio mentre e fintanto che compie
il suddetto speciale procedimento del pensiero, acquista
l’appellativo di ‘ragione pratica’. L’imperativo categorico della
ragione pratica è la legge morale (lo Óti [il che
cosa]) che si ottiene come risultato di quello speciale procedimento
del pensiero [la sostanza della legge morale non può che
coincidere con la sua forma, ossia la legalità, la quale
implica la validità in generale].
Quindi la ragione pratica non è affatto - come i più,
compreso Fichte, pensano - una facoltà particolare che non si
può far risalire ad altro, una qualitas occulta
[qualità occulta], una specie di istinto morale simile al
moral sense [senso morale] di Hutcheson. È invece - come Kant
dice nel prologo (xii, R 8) e poi ha ripetutamente ribadito - una
sola e stessa cosa con la ragione teoretica. Anzi, è la
ragione teoretica stessa quando essa compie quello speciale
procedimento del pensiero.
Fichte, invece, definisce l’imperativo categorico come un ‘postulato
assoluto’132. Questa è la moderna, camuffata versione di
petitio principii. Come tale Fichte ha sempre considerato
l’imperativo categorico, incappando così nell’errore che
abbiamo precedentemente evidenziato.
Innanzitutto, la prima obiezione immediata da muovere al fondamento
della morale di Kant è la seguente: è impossibile che
sorga dentro di noi una legge morale di questo tipo.
Questo evento, infatti, presuppone che all’uomo stesso venga in
mente di guardarsi attorno e cercare una legge per la sua
volontà, alla quale la volontà stessa debba poi
sottomettersi e ubbidire. Ma non è possibile che all’uomo
venga in mente di fare spontaneamente questa cosa. Potrebbe farla,
semmai, solo dopo che un’altra molla di spinta morale - reale,
attiva ed efficiente, la quale, in quanto tale, si manifesta
spontaneamente, ha effetto su di lui, anzi, penetra dentro di lui
senza essere stata evocata e lo pervade di propria iniziativa - gli
abbia dato la prima spinta e gli abbia offerto l’occasione.
Ma questo sarebbe in contraddizione con la premessa posta da Kant,
secondo la quale proprio quello speciale procedimento del pensiero
(di cui sopra) dovrebbe stare all’origine di ogni concetto morale e
costituire il punctum saliens [punto saliente] della
moralità.
Fintanto che questo non succede e fintanto che ex hypothesi [per
ipotesi] l’uomo non dispone di alcuna altra molla di spinta morale
che non sia quell’astratto procedimento del pensiero, le redini
delle azioni umane rimangono esclusivamente nelle mani dell’egoismo,
mosso dalla legge di motivazione. Così in ogni singolo caso
sarebbero gli eventuali motivi empirici ed egoistici a dettare, da
soli e indisturbati, le azioni dell’uomo.
Infatti, con simili presupposti, per l’uomo non esisterebbe alcun
altro stimolo e neppure alcun altro motivo, in base ai quali
dovrebbe venirgli in mente di porsi domande riguardo ad una legge,
la quale limiterebbe la sua volontà e alla quale la
volontà stessa dovrebbe sottomettersi, né tanto meno
di ricercarla e di scervellarsi sopra (l’unica cosa da fare per
portare avanti quel singolare procedimento del pensiero).
A questo proposito è assolutamente irrilevante quale grado di
chiarezza si voglia attribuire a quel procedimento del pensiero
proposto da Kant, oppure se lo si voglia semplicemente ridurre a una
riflessione oscuramente percepita. Infatti nessuna modifica al
riguardo può intaccare la fondamentale verità che dal
nulla deriva il nulla e che ogni effetto implica una causa.
La molla di impulso morale - come ogni altro motivo capace di
mettere in moto la volontà - deve assolutamente annunciarsi
da sé e avere una certa efficacia, ossia deve essere reale.
Ma reale è per l’uomo solo ciò che è empirico o
che si presuppone possa essere conseguito empiricamente.
Pertanto la molla di impulso morale deve effettivamente essere
empirica. Come tale deve annunciarsi spontaneamente, toccarci senza
attendere una nostra richiesta e penetrare autonomamente dentro di
noi con una forza tale, da poter perlomeno vincere gli enormi motivi
egoistici che le si contrappongono.
La morale ha a che fare con le azioni reali dell’uomo, non con un
castello di carta aprioristico, i cui risultati, nelle vicende serie
e urgenti della vita, non interessano a nessuno e la cui efficacia,
in mezzo all’infuriare delle passioni, sarebbe pari a quella di una
siringa d’acqua su un incendio.
Abbiamo già accennato che Kant considerava un grande merito
della sua legge morale il fatto di poggiare solo su puri concetti
astratti a priori, ossia sulla ragione pura. Come tale essa sarebbe
valida non solo per gli uomini, ma anche per tutti gli esseri dotati
di ragione. Dobbiamo purtroppo lamentare che i puri concetti
astratti a priori, senza contenuto reale e senza alcun fondamento
empirico, non possono mai smuovere come minimo gli uomini. Che lo
possano fare poi con altri esseri dotati di ragione, non saprei cosa
dire.
E qui sta il secondo difetto della motivazione della morale di Kant:
la mancanza di un contenuto reale.
Questa cosa è finora passata inosservata, poiché il
vero fondamento della morale di Kant (chiaramente esposto in
precedenza) probabilmente non è stato minimamente compreso
nella sua essenza proprio da coloro che lo hanno celebrato e
propagandato. Il secondo difetto dunque è la totale mancanza
di realtà, quindi, di possibile efficacia.
Il fondamento della morale kantiana fluttua nell’aria come una
ragnatela di sottilissimi concetti privi di contenuto. Non si basa
su nulla, quindi non può né sorreggere né
smuovere nulla. Oltretutto Kant gli ha posto sulle spalle un carico
infinitamente pesante: il presupposto della libertà di
volere.
Nonostante Kant abbia ripetutamente espresso il convincimento che la
libertà delle azioni umane assolutamente non può
esistere, che neppure teoricamente è mai ipotizzabile
(Critica della ragion pratica 168, R 223) e che se si conoscessero
esattamente il carattere di un uomo e i motivi che agiscono su di
lui sarebbe possibile calcolare matematicamente le sue azioni come
le eclissi di luna (Critica della ragion pratica 177, R 230), ora
invece, semplicemente sul credito di quel fondamento della morale
fluttuante nell’aria, la libertà viene ammessa - seppure
idealiter [idealmente] e come postulato - tramite la famosa
conclusione: “Tu puoi, perché tu devi”.
Ma una volta che si è chiaramente riconosciuto che una cosa
non è e che non può essere, a che serve tutto quel
postulare? Si dovrebbe piuttosto rigettare ciò su cui quel
postulato si fonda, poiché si tratta di un presupposto
impossibile, secondo la regola a non posse ad non esse valet
consequentia [se una cosa non può essere, non esiste], e
anche tramite una dimostrazione apagogica [per assurdo] che
ribalterebbe l’imperativo categorico. Qui, invece, si costruisce una
dottrina falsa sopra un’altra.
Kant stesso deve essersi reso conto, nel suo intimo,
dell’insufficienza di un fondamento della morale fatto solo di un
paio di concetti astratti e senza contenuto. Infatti nella Critica
della ragion pratica (dove procede in generale con minor rigore e
metodo, anche perché si è fatto più audace,
grazie alla fama conquistata nel frattempo) Kant a poco a poco
cambia la natura del fondamento della sua etica, dimentica quasi che
è solo una ragnatela di combinazioni astratte di concetti, e
sembra voler diventare più concreto. In questo libro (81, R
163) Kant dice:
“La legge morale è come un faktum [fatto] della ragione
pura”.
Cosa dobbiamo pensare di questa strana espressione? Un fatto
[è una conoscenza empirica e come tale] viene generalmente
distinto da ciò che è conosciuto esclusivamente
tramite la ragione pura. Così pure (83, R 164) Kant parla di
una “ragione che determina direttamente la volontà”. A questo
proposito bisogna ricordare che nella Fondazione della metafisica
dei costumi Kant respinge ogni fondamento di tipo antropologico e
ogni dimostrazione dell’imperativo categorico come dato di fatto
della coscienza, perché sarebbe un fondamento empirico.
Imbaldanziti da queste occasionali esternazioni, i successori di
Kant si spinsero molto più avanti su questa strada. Fichte
addirittura ammonisce:
“... di non lasciarsi fuorviare, nello spiegare ulteriormente la
coscienza che noi abbiamo dei doveri e di volerla dedurre da motivi
fuori di essa, poiché questo pregiudicherebbe la
dignità e l’assolutezza della legge”.
Bella scusa! E aggiunge:
“Il principio della moralità è un pensiero che si
fonda sull’intuizione intellettuale della facoltà assoluta
dell’intelligenza e si identifica direttamente con la stessa
intelligenza pura”.133
Dietro quali espressioni retoriche un simile pallone gonfiato
nasconde la sua mancanza di giudizio! Chi desiderasse convincersi di
come i kantiani abbiano completamente ignorato, o a poco a poco
dimenticato, il fondamento e la deduzione originali della legge
morale di Kant, potrebbe leggere, ad esempio, un saggio degno di
nota di Reinhold, dove si afferma che:
“Nella filosofia di Kant l’autonomia (che è un tutt’uno con
l’imperativo categorico) è un dato di fatto della coscienza,
e non deve essere ricondotta a null’altro, perché essa si
annuncia tramite una coscienza immediata”.
Ma allora l’imperativo categorico avrebbe un fondamento
antropologico, quindi empirico, in contrasto con quanto
espressamente e ripetutamente affermato da Kant. Ciò
nonostante Reinhold aggiunge:
“Sia nella filosofia pratica del criticismo, sia nell’intera
filosofia trascendentale purificata e superiore, l’autonomia
è ciò che fonda dopo aver fondato sé stessa,
che non è capace e neppure necessita di ulteriore fondamento,
l’assolutamente originale, il di per sé vero e certo, la
verità atavica, il principio assoluto, il prius [primo] kat’
™xoc»n [kat exochén: per eccellenza]”.134
Pertanto chi volesse presupporre, esigere o cercare un fondamento di
questa autonomia al di fuori della stessa verrà sospettato,
dalla scuola kantiana, di mancanza di coscienza morale135 oppure di
errore speculativo a causa di falsi concetti fondamentali. La scuola
di Fichte e Schelling lo dichiarerà affetto da quella
mancanza di spirito che rende incapaci di filosofare, tipica del
carattere del popolo profano e della pigra mandria - o meglio, con
le pittoresche espressioni di Schelling - del profanum vulgus [volgo
profano] e dello ignavum pecus [gregge ignavo].
Ognuno può comprendere quale possa essere la
credibilità di una dottrina che tenta di estorcere la
verità con simili assi. Proprio con il timore che questi
incutevano possiamo spiegare la credulità - veramente
infantile - con cui i kantiani hanno accettato l’imperativo
categorico, dandolo per affare fatto. Nella scuola kantiana,
infatti, la contestazione di un’affermazione teorica poteva essere
scambiata per mancanza di rispetto morale.
Anche se nella propria coscienza uno non aveva capito molto
dell’imperativo categorico, preferiva starsene zitto, pensando
dentro di sé che l’imperativo categorico doveva essere meglio
sviluppato ed essersi manifestato più chiaramente nella
coscienza degli altri. A nessuno infatti piace rivoltare la propria
coscienza all’esterno.
Nella scuola kantiana la ragione pratica, con il suo imperativo
categorico, sembra diventare sempre più un fatto iperfisico,
un tempio di Delfo dentro l’animo umano, nelle cui sacre tenebre
l’oracolo pronuncia verdetti infallibili, non su cosa
accadrà, ma su cosa deve accadere.
Purtroppo, una volta accettata - o meglio, insinuata ed estorta -
l’immediatezza della ragione pratica venne poi estesa anche alla
ragione teoretica, dal momento che lo stesso Kant ha ripetutamente
affermato che le due ragioni sono una cosa sola (xii, R 8).
Così, una volta ammesso che dal punto di vista pratico la
ragione è in grado di dettare legge ex tripode [dal
tripode]136, si apre immediatamente la via per estendere lo stesso
privilegio anche alla ragione teoretica, sorella del tutto
consustanziale [di identica natura] della ragione pratica,
dichiarando anche lei assolutamente sovrana, con immenso ed evidente
vantaggio.
Ecco allora tutti i filosofastri e i visionari - con in testa il
delatore degli atei F. H. Jacobi - infilare di corsa la porticina,
che inaspettatamente era stata loro aperta, per portare al mercato
le loro cianfrusaglie, o almeno, per portare in salvo quanto avevano
di più caro tra le cose di famiglia, che la dottrina di Kant
minacciava di distruggere.
Come un solo passo falso in gioventù può rovinare
l’intero corso della vita di una persona, così il solo falso
presupposto di Kant riguardo all’esistenza di una ragione pratica
dotata di credenziali addirittura trascendenti e legittimata ad
emettere sentenze ‘senza motivazione’ come la più alta corte
d’appello, ebbe come conseguenza che dalla rigorosa e sobria
filosofia di Kant sorgessero dottrine a lei del tutto eterogenee.
Dottrine di una ragione che all’inizio ha solo un lieve
presentimento del ‘soprasensibile’, ma che in seguito lo percepisce
chiaramente e infine lo intuisce intellettualmente con tutta forza.
Da allora, grazie alle affermazioni e alle esternazioni ‘assolute’
di una simile ragione, pronunciate ex tripode, ogni visionario ha
potuto spacciare le proprie fantasticherie. Questo inedito
privilegio della ragione teoretica è stato ampiamente
sfruttato.
Qui, dunque, sta l’origine di quel modo di filosofare, sorto subito
dopo la dottrina di Kant, che consiste nel mistificare, imporre,
ingannare, gettare sabbia negli occhi e vendere aria fritta. Questa
epoca verrà ricordata nella storia della filosofia come il
‘periodo della disonestà’, poiché in essa il carattere
di onestà e della ricerca comune assieme al lettore, che si
trova negli scritti di tutti i precedenti filosofi, è
scomparso. Ogni pagina dei loro scritti dimostra che i filosofastri
di questa epoca non vogliono insegnare nulla, ma solo ammaliare il
lettore.
Come eroi di questa epoca brillano Fichte e Schelling, e infine -
anche se del tutto indegno e ad un livello più basso di
questi due uomini prodigio - quel goffo ciarlatano senza spirito di
Hegel. A far parte del coro si son messi poi tutti quei professori
di filosofia che, con serio cipiglio, intrattengono il loro pubblico
sullo ‘infinito’, sullo ‘assoluto’ e su altre cose simili, di cui
non possono sapere nulla.
Come gradino, per risalire alla facoltà divinatoria della
ragione, valse perfino il seguente penoso espediente: dal momento
che la parola Vernunft [ragione] deriva dal verbo vernehmen
[percepire], la ragione deve essere la facoltà di percepire
il cosiddetto ‘soprasensibile’, ossia la Nefelokokkug…a
[nefelokokkughìa: Nubicuculia].137
Questa bella pensata ebbe un immenso successo, fu raccontata in
Germania per trent’anni ininterrottamente e con immenso diletto,
anzi, divenne la prima pietra delle facoltà universitarie di
filosofia.
Invece è chiaro che il sostantivo Vernunft [ragione] deriva
certamente dal verbo vernehmen [percepire], ma solo perché la
ragione conferisce all’uomo il vantaggio rispetto agli animali, non
solo di ascoltare, ma anche di percepire, non quello che sta
succedendo nella Nubicuculia, bensì quello che un uomo
ragionevole dice a un altro. È il messaggio con gli altri che
viene percepito dall’uomo e la facoltà [che consente questa
percezione] è detta Vernunft [ragione].
Questo è il significato che in ogni tempo tutti i popoli e
tutte le lingue hanno attribuito alla parola ‘ragione’: la
facoltà di elaborare concetti generali, astratti, non
intuitivi, che vengono espressi e fissati mediante la parola. Questo
è il solo privilegio che l’uomo possiede realmente rispetto
all’animale. È la rappresentazione astratta, il concetto,
ossia la nozione [sintetica] di più cose singole, che
determina il linguaggio.
Tramite il linguaggio, i concetti determinano il vero e proprio
pensiero, e tramite il pensiero la coscienza non solo del presente -
che anche gli animali possiedono - ma anche del passato e del
futuro. Tramite tutto questo determinano poi il lucido ricordo, la
riflessione, la previsione, il proposito, l’azione congiunta di
più persone, lo Stato, il commercio, l’arte, le scienze, la
religione, la filosofia, in breve, tutto quanto contraddistingue
così marcatamente la vita dell’uomo da quella dell’animale.
Per l’animale esistono solo le rappresentazioni intuitive, quindi,
solo i motivi immediati. Per questo la dipendenza delle sue azioni
volontarie dai motivi balza subito all’occhio. Per l’uomo, invece,
la dipendenza dalle intuizioni del momento è minore, anche se
lui pure è mosso (secondo il suo carattere individuale) dai
motivi con ferrea necessità. Ma i motivi che lo muovono, di
solito, non sono quelli intuitivi e immediati, bensì le
rappresentazioni astratte (i concetti e i pensieri) che sono in ogni
caso il frutto di precedenti intuizioni, ossia dell’influsso che il
mondo esterno ha esercitato su di lui.
Questo conferisce all’uomo una libertà relativa, in confronto
a quella dell’animale. L’uomo, infatti, non è – come
l’animale - determinato da ciò che gli succede intorno e che
intuisce al momento, bensì dal sopraggiungere dei pensieri
tratti da precedenti esperienze o acquisiti tramite l’insegnamento.
Il motivo che muove necessariamente anche l’uomo rimane nascosto
nella sua testa e non può essere scorto al momento dal
testimone oculare dell’azione.
Tutto questo conferisce una caratteristica speciale, completamente
diversa da quella appariscente dell’animale, non solo a tutte le sue
azioni, ma anche ai suoi movimenti. L’uomo sembra quasi mosso da
sottilissimi e invisibili fili, cosicché tutti i suoi
movimenti hanno un’impronta di intenzionalità e di
premeditazione, che conferisce loro una aspetto di indipendenza e li
differenzia, a vista d’occhio, da quelli dell’animale. Tutte queste
grandi differenze derivano esclusivamente dalla facoltà umana
di elaborare rappresentazioni astratte [rappresentazioni di
rappresentazioni], ossia i concetti.
Questa facoltà è l’essenza della ragione, il
patrimonio che contraddistingue l’uomo, il cosiddetto tÕ
lÒgimon, tÕ logistikÒn [to lòghimon, to
loghistikòn: ragione, ragionevolezza], ratio, la ragione, il
discorso, raison, reason, discourse of reason.
Se mi si chiedesse quale è la differenza tra l’intelletto
(noàj [nùs], intellectus, entendement, understanding)
e la ragione, risponderei che l’intelletto è quella
facoltà conoscitiva che anche gli animali possiedono (seppure
in diverso grado, mentre l’uomo la possiede al massimo), ossia la
consapevolezza - diretta e anteriore a ogni esperienza - della legge
di causalità, la quale costituisce la forma e nella quale
consiste l’essenza dell’intelletto stesso.
Dall’intelletto dipende innanzitutto l’intuizione del mondo esterno.
I sensi, infatti, di per sé sono solo capaci di produrre la
sensazione, la quale non è affatto l’intuizione, ma solo il
materiale per costruire l’intuizione:
“L’intelletto vede e ascolta, tutto il resto è sordo e
cieco”.138
L’intuizione sorge quando noi riferiamo le sensazioni trasmesse dai
sensi direttamente alla loro causa, la quale, proprio grazie a
questa operazione dell’intelletto, si configura come oggetto esterno
nello spazio (un’altra forma dell'intelletto). Questo prova che noi
conosciamo a priori la legge di causalità. Questa legge,
infatti, non proviene dall’esperienza, poiché l’esperienza
presuppone l’intuizione degli oggetti esterni, la quale è
possibile solo tramite la legge di causalità.
Nel grado di perfezione di questa immediata comprensione dei
rapporti di causalità consiste la superiorità
dell’intelletto, l’intelligenza, la sagacità, la
profondità e l’acume, che stanno alla base della conoscenza
del nesso tra le cose, nel senso più ampio della parola. Sono
l’acume e l’esattezza di comprensione ciò che rende una
persona più capace di intendere, più intelligente e
più astuta di un’altra.
In tutti i tempi si è definito ‘ragionevole’ chi non si
lascia guidare dalle impressioni intuitive, bensì dai
pensieri e dai concetti, e intraprende qualcosa sempre con
riflessione, logica e prudenza. In ogni paese un comportamento di
questo tipo è definito ‘ragionevole’. Tuttavia per nessun
motivo esso implica giustizia e amore verso il prossimo. Al
contrario: una persona può essere estremamente ragionevole,
ossia agire con riflessione, logica, prudenza, secondo un piano
prestabilito, metodicamente, e tuttavia seguire principi
estremamente egoistici, ingiusti e addirittura sprezzanti.
A nessuno, prima di Kant, era mai venuto in mente di identificare un
comportamento giusto, virtuoso e nobile con un comportamento
ragionevole. Al contrario: questi due comportamenti sono sempre
stati considerati ben differenti e tenuti separati. Il comportamento
razionale dipende dal tipo di motivazione, mentre il comportamento
morale dipende dal tipo di principio [etico].
Solo dopo Kant la virtù è stata identificata con la
razionalità, dal momento che anche la virtù dovrebbe
scaturire dalla ragione pura. Ma questo è in netto contrasto
con il modo di esprimersi di tutti i popoli, il quale non è
certo sorto per caso, ma è il frutto della conoscenza
universale - quindi concorde - degli uomini.
Razionalità e malvagità possono benissimo convivere;
anzi, solo dalla loro unione possono sorgere i più grandi ed
efferati crimini. Così pure possono convivere
irrazionalità e nobiltà d’animo. Ad esempio, se
donassi oggi, a chi ne ha bisogno, ciò di cui domani io
stesso avrei ancora più bisogno, oppure se regalassi, a chi
versa nel bisogno, la somma di denaro che spetta a un mio creditore,
e così via.
Purtroppo, il promuovere la ragione a fonte della virtù -
affermando che come ragione pratica essa è capace di
emettere, come un oracolo, imperativi categorici puri a priori -
insieme alla falsa teoria, esposta nella Critica della ragion pura,
secondo la quale la ragione teoretica sarebbe una facoltà
orientata prevalentemente verso lo ‘assoluto’ sotto forma di tre
presunte idee [psicologica (anima), cosmologica (mondo) e teologica
(Dio)] - la cui impossibilità è riconosciuta, anche
questa a priori, dall’intelletto - hanno dato luogo a un exemplar
vitiis imitabile [un modello imitabile anche nei suoi difetti].139
Questo errore ha indotto i filosofi ciarlatani - con Jakobi in testa
- alle assurde affermazioni, che la ragione sarebbe in grado di
percepire direttamente il ‘soprasensibile’, che sarebbe una
facoltà orientata verso cose al di là di ogni
esperienza (quindi verso la metafisica), che conoscerebbe
direttamente e intuitivamente il fondamento primo di tutte le cose e
di tutta l’esistenza, il soprasensibile, l’assoluto, la
divinità, ecc.
Se si avesse voluto usare la ragione stessa, invece di idolatrarla,
si sarebbe potuto controbattere a simili affermazioni, già da
molto tempo, con la seguente semplice osservazione.
Se l’uomo, grazie alla ragione (la quale è il suo esclusivo
strumento per risolvere l’enigma del mondo), possedesse dentro di
sé una metafisica innata che ha bisogno solo di essere
coltivata, tra tutti gli uomini regnerebbe una concordanza
così perfetta sui temi della metafisica, come sulle
verità dell’aritmetica e della geometria. Sarebbe anche
assolutamente impossibile che sulla terra esistano un così
grande numero di religioni e un numero ancora più grande di
sistemi filosofici radicalmente differenti. Chiunque divergesse
dalla maggioranza, riguardo ai punti di vista religiosi e filosofici
[della metafisica], verrebbe subito catalogato come una persona nel
cui cervello qualcosa non funziona.
Così pure avrebbe dovuto imporsi la seguente semplice
constatazione. Se scoprissimo una specie di scimmie capaci di
costruire intenzionalmente gli strumenti da utilizzare per la lotta,
per l’edilizia o per qualsiasi altro uso, non esiteremmo ad
ammettere che questi animali sono dotati di ragione. Eppure, quando
troviamo dei popoli selvaggi senza alcuna religione o metafisica -
come ce ne sono tanti - non ci passa neppure per la testa di non
riconoscere a loro, per questa loro mancanza, di essere dotati di
ragione.
Riguardo alle presunte conoscenze soprasensibili, Kant, con la sua
critica, ha ricondotto la ragione entro i suoi confini. Ma una
ragione alla Jakobi, capace di intuire direttamente il
soprasensibile, Kant non l’avrebbe certamente ritenuta degna di
alcuna critica. E intanto nelle università una simile
ragione, dotata di poteri divinatori immediati, continua ad essere
propinata agli studenti innocenti.
Nota
Se vogliamo scoprire la vera origine dell’ipotesi della ragione
pratica dobbiamo risalire ulteriormente lungo il suo albero
genealogico. Troveremo allora che essa proviene da una dottrina che
lo stesso Kant ha nettamente respinto. Tuttavia, come una
reminiscenza di un precedente modo di pensare, questa dottrina sta
segretamente, quasi inconsapevolmente, alla base dell’ipotesi
kantiana della ragione pratica, con il suo imperativo categorico e
la sua autonomia.
Si tratta della psicologia razionale, secondo la quale l’uomo
è fatto di due sostanze del tutto eterogenee: il corpo
materiale e l’anima immateriale. Platone è stato il primo a
proclamare questo dogma e ha cercato poi di dimostrarlo come
verità oggettiva. Cartesio l’ha portato al massimo della
perfezione e l’ha posto in primo piano, dotandolo di una determinata
spiegazione e di rigore scientifico.
Tuttavia proprio in questo modo venne alla luce la sua
falsità, come fu successivamente dimostrato da Spinoza, Locke
e Kant. Da Spinoza - la cui filosofia consiste soprattutto nel
contestare il dualismo del suo maestro - il quale, in netto e
manifesto contrasto con le due sostanze postulate da Cartesio, ha
così formulato la sua tesi principale:
“La sostanza pensante e la sostanza estesa sono una sola e medesima
sostanza, che viene intesa a volte con questo e a volte con
quell’attributo”.140
Da Locke, il quale contesta l'esistenza di idee innate, e sostiene
che ogni conoscenza deriva dall’esperienza e che non è
impossibile che la materia possa pensare. Da Kant, tramite la
critica della psicologia razionale, come risulta nella prima
edizione della Critica della ragion pura.
Sull’altro fronte, invece, Leibniz e Wolff si sono battuti per il
partito sbagliato. Questo ha fatto sí che a Leibniz venisse
conferito l’immeritato onore di essere paragonato al grande Platone,
a lui così eterogeneo. Ma non è questa la sede adatta
per esporre tutte queste teorie.
Secondo la psicologia razionale l’anima è originariamente ed
essenzialmente un essere che conosce. Solo in seguito diventa anche
un essere che vuole. A seconda che, nelle sue attività
fondamentali, l’anima stia operando solo per sé stessa senza
coinvolgere il corpo, oppure stia operando congiuntamente con il
corpo, essa può disporre di una maggiore o minore
facoltà conoscitiva, come pure di una maggiore o minore
facoltà volitiva.
All’apice delle sue facoltà l’anima immateriale opera
essenzialmente per sé stessa, senza coinvolgimento del corpo.
È un intellectus purus [puro intelletto] che si occupa solo
di rappresentazioni e di atti volitivi puramente spirituali, i quali
spettano solo a lei, non sono per nulla sensoriali e nulla hanno a
che fare con tutto ciò che è legato ai sensi, ossia
che proviene dal corpo. Secondo Cartesio:
“La conoscenza pura non ha nulla a che fare con le immagini
corporee”.141
In questo stato l’anima conosce solo cose puramente astratte,
universalia [cose universali], concetti innati, aeternae veritates
[verità eterne], ecc. Così pure la sua volontà
si trova sotto l’influsso di rappresentazioni puramente spirituali.
Al contrario, la inferiore facoltà conoscitiva e volitiva
è opera dell’anima quando essa agisce in stretta
collaborazione con il corpo e i suoi organi, i quali pregiudicano la
sua attività puramente spirituale. Proprio durante questa
attività inferiore dovrebbe sorgere la conoscenza intuitiva,
poco chiara e confusa, mentre quella astratta, fatta di concetti
dedotti, dovrebbe essere la conoscenza chiara!
La volontà, quando viene determinata dalla conoscenza
condizionata dai sensi, è bassa e per lo più malvagia,
poiché il suo volere è guidato dall’eccitazione dei
sensi. Il volere genuino, invece, è guidato dalla ragione
pura e appartiene esclusivamente all’anima immateriale. Questa
dottrina è stata esposta chiaramente dal cartesiano De la
Forge:
“Non sono che due forme della stessa volontà: quella che
è chiamata ‘appetito sensoriale’, quando viene destata per
mezzo dei giudizi che si formano in conseguenza delle percezioni dei
sensi, e quella che viene chiamata ‘appetito razionale’, quando la
mente forma giudizi riguardo alle sue stesse idee, indipendentemente
dalla confuse rappresentazioni dei sensi, che sono causa delle sue
inclinazioni. Il motivo per cui queste due diverse propensioni della
volontà sono state prese per due diversi appetiti, è
il fatto che spessissimo uno si oppone all’altro. Infatti la
rappresentazione che la mente costruisce sulla base delle sue
proprie percezioni non sempre coincide con i pensieri che le vengono
suggeriti dalla condizione del corpo. Quest’ultima spesso costringe
la mente a volere qualcosa, mentre la sua parte razionale le fa
desiderare una cosa diversa”.142
Da reminiscenze oscuramente consapevoli della psicologia razionale
trae origine la dottrina kantiana dell’autonomia della
volontà, la quale - come voce della pura ragione pratica -
detta legge per tutti gli esseri dotati di ragione, in quanto tali.
Essa è determinata solo da motivi formali, al contrario di
quelli materiali, che determinano la facoltà più bassa
del desiderio, alla quale la facoltà più elevata si
oppone.
In realtà questa dottrina, sistematicamente presentata per la
prima volta da Cartesio, si ritrova già presso Aristotele, il
quale la espone chiaramente nel De anima (i, 1). Perfino Platone
l’aveva già preparata e accennata nel Fedone (Ed. Bipontine,
p.188).
In seguito all’opera di sistematizzazione e di consolidamento fatta
da Cartesio, ritroviamo questa dottrina cent’anni dopo ancora
baldanzosa, posta in primo piano, ma, proprio per questo, esposta al
rischio di deludere.
Il Muratori fornisce un resumé [riassunto] della dottrina
allora in voga in Della forza della fantasia umana (c. 13 e 14). In
quest’opera la fantasia è un organo puramente materiale,
corporale e cerebrale, la cui funzione è di intuire il mondo
esterno tramite i dati dei sensi. La fantasia è la
facoltà bassa di conoscenza, mentre all’anima immateriale
spetta il compito di pensare, di riflettere e di giudicare.
Ma in questo modo la cosa diventa evidentemente problematica, e lo
si doveva avvertire. Infatti, se la materia fosse capace di
procedere alla complicata operazione di comprendere intuitivamente
il mondo, non si capisce perché non dovrebbe anche essere
capace di astrarre i concetti, partendo dall’intuizione, e poi anche
di tutto il resto.
Dopo tutto l’astrazione concettuale non è altro che lasciar
cadere le determinazioni non necessarie per un determinato scopo,
ossia le differenze individuali e specifiche. Ad esempio, con il
lasciare da parte quanto è specifico della pecora, del bue,
del cervo, e del cammello si può arrivare al concetto di
ruminante. Tramite questa operazione le rappresentazioni perdono il
loro carattere intuitivo, cosicché, come rappresentazioni non
intuitive e semplici concetti astratti, necessitano solo della
parola per essere fissati nella coscienza e utilizzati.
Purtroppo dobbiamo constatare che Kant, mentre costruisce la sua
dottrina della ragione pratica e dell’imperativo categorico, si
trova ancora sotto l’influsso postumo di quella vecchia dottrina [la
psicologia razionale].
§ 7 Il supremo principio dell’etica di Kant
Dopo aver illustrato nei precedenti paragrafi il vero fondamento
dell’etica di Kant, passiamo ora al supremo principio che poggia su
quel fondamento, a esso accuratamente legato e con esso cresciuto in
maniera distorta. Ricordiamo che il supremo principio morale
(l’imperativo categorico) di Kant dice:
“Agisci solo secondo la massima che, allo stesso tempo, tu possa
volere che valga come legge universale per tutti gli esseri
ragionevoli”.143
Osserviamo - per inciso - che è un curioso procedimento
consigliare, a chi si suppone stia cercando una massima per il
proprio comportamento, di andare innanzitutto a cercare una massima
per il comportamento di ogni altro possibile essere ragionevole.
Prendiamo piuttosto atto che l’imperativo categorico di Kant non
è ancora il principio vero e proprio della morale [ossia, lo
Óti (òti: che cosa) della virtù] ma solo una
regola euristica [metodica] per arrivarci, ossia un’indicazione
riguardo a dove trovarlo. Quindi, non si tratta ancora di denaro
sonante, bensì di una cambiale sicura. E chi dovrebbe
riscuoterla? A dire il vero un esattore del tutto inatteso:
nientemeno che l’egoismo (come subito dimostreremo).
Dunque, la massima stessa, secondo la quale io posso volere che
tutti agiscano, sarebbe [secondo Kant] il vero principio della
morale. Il mio ‘poter volere’ sarebbe quindi il cardine attorno al
quale ruota l’indicazione data.
Ma cosa posso io realmente volere o non volere? Per stabilire cosa
io posso volere in vista della suddetta massima, ho evidentemente
bisogno di una ulteriore regola, tramite la quale io possa
innanzitutto trovare la chiave di quell’indicazione che mi è
stata data [nell'imperativo categorico] quasi come un ordine
sigillato. Ma dove trovare questa regola?
Questa non può essere trovata in nessun altro luogo se non
nel mio egoismo. È l’egoismo la regola immediata, sempre
disponibile, originaria e viva, di ogni atto della volontà.
Rispetto a ogni principio morale l’egoismo ha perlomeno il
privilegio dello jus primi occupantis [il diritto del primo
occupante]. L’indicazione contenuta nell’imperativo categorico di
Kant, per trovare il principio vero e proprio (la massima) della
morale, poggia infatti sulla tacita premessa che io possa volere
solo ciò che è meglio per me.
Dal momento che, per stabilire la massima comune da seguire, io mi
devo necessariamente considerare non sempre come parte attiva, ma a
volte anche come parte passiva, da questo secondo punto di vista il
mio egoismo decide per la giustizia e per l’amore verso il prossimo,
non perché esso desideri praticare queste virtù,
bensì per beneficiarne. Proprio come quell’avaro che, dopo
aver ascoltato una bella predica sulla beneficenza, esclama: “Ben
detto! Che bello! Quasi quasi vorrei anch’io andare a chiedere
l’elemosina”.
Lo stesso Kant non può fare a meno di allegare questa
indispensabile chiave di interpretazione all’indicazione contenuta
nel suo principio supremo della morale (l’imperativo categorico). Ma
non lo fa immediatamente nell’enunciare l’imperativo stesso,
poiché ciò potrebbe suscitare scandalo. Lo fa, invece,
ad una decente distanza, in fondo al testo, affinché non
balzi subito all’occhio che qui, nonostante i sublimi preparativi a
priori, sullo scranno del giudice siede l’egoismo stesso a
pronunciare l’ultima parola.
Solo dopo aver deciso dal punto di vista dell’eventuale ruolo
passivo, l’egoismo ufficializza la sua decisione anche per quello
attivo. Con questo accorgimento, Kant afferma (19, R 24):
“Io non posso volere, come norma universale, il mentire, altrimenti
nessuno mi crederebbe più, oppure mi ricambierebbe con la
stessa moneta”.
E ancora (55, R 49):
“L’universalità di una legge, secondo la quale ognuno possa
promettere ciò che gli pare, con il proposito poi di non
mantenere la promessa, renderebbe impossibile la promessa stessa e
il fine che, con essa, ci si prefigge. Nessuno, infatti, ci
crederebbe più”.
A proposito dell’amore del prossimo (56, R 50):
“Chi decidesse di non agire per amore del prossimo rischierebbe di
contraddire se stesso. Infatti, potrebbe prima o poi aver bisogno
dell'amore e della partecipazione degli altri ma, a causa di quella
norma scaturita dalla sua particolare volontà, toglierebbe a
sè stesso ogni speranza di ricevere l'aiuto desiderato”.
Così pure:
“Se tu avessi la certezza che tutti guardano con assoluta
indifferenza alla miseria altrui, continueresti ad aiutare il
prossimo?” 144.
«Con quanta leggerezza dichiariamo ingiusta una legge per il
semplice fatto che va conto i nostri interessi»145 sarebbe la
risposta!
Questi passi chiariscono abbastanza bene in quale senso bisogna
intendere il ‘poter volere’ dell’imperativo categorico di Kant. Ma
come stiano realmente le cose, riguardo al principio supremo della
morale di Kant, vien detto nella maniera più chiara nei
Principi metafisici della dottrina della virtù (p. 30):
“Ognuno, infatti, desidera essere aiutato. Ma se proclamasse
apertamente la sua massima di non voler aiutare gli altri, chiunque
sarebbe autorizzato a non prestargli aiuto. Quindi una massima
solipsistica [esasperatamente egocentrica] finirebbe con il
contraddire sé stessa”.
‘Sarebbe autorizzato’ dice, ‘sarebbe autorizzato’!
Qui si afferma, nella maniera più chiara possibile, che
l’obbligo morale si basa esclusivamente sul presupposto della
reciprocità. Si tratta, quindi, di una morale egoistica.
È l’egoismo che detta i termini dell’obbligo morale,
accettando astutamente di scendere a compromessi, a patto che
l’obbligo sia reciproco. Questo andrebbe bene per motivare il
principio della convivenza civile, ma non il principio della morale.
Quando nella Fondazione della metafisica dei costumi (81, R 67) Kant
dice:
“Il principio «agisci ogni volta secondo la massima che, allo
stesso tempo, tu possa volere che valga come legge universale»
è la sola condizione affinché una volontà non
possa mai entrare in conflitto con sé stessa”
il vero significato della parola ‘conflitto’ è il seguente.
Se uno proclamasse la massima dell’ingiustizia e della mancanza
d’amore verso il prossimo, la dovrebbe revocare più tardi -
quando eventualmente lui stesso passa nel ruolo di chi soffre - e in
tal modo finirebbe con il contraddirsi.
Dopo questa spiegazione risulta perfettamente chiaro che il
principio supremo della morale di Kant non è affatto un
imperativo categorico - come si continua a sostenere - ma, di fatto,
un imperativo ipotetico. Esso, infatti, presuppone tacitamente che
la massima da stabilire per il mio comportamento, quando la elevo a
legge universale, diventa anche legge nei miei confronti. A questa
condizione - ossia, diventare io stesso eventualmente la parte
passiva - non posso assolutamente volere nè l’ingiustizia,
nè la mancanza d’amore.
Ma se nello stabilire la massima di validità universale io
facessi a meno di questa condizione, confidando di rimanere sempre
dalla parte attiva e mai passiva (per esempio, grazie alle mie
superiori forze fisiche e spirituali) e se non esistesse alcun altro
fondamento della morale oltre a quello di Kant, allora potrei
benissimo scegliere come massima di validità universale
l’ingiustizia e la mancanza d’amore per il prossimo, e lasciare che
il mondo si regoli nel seguente modo:
“... secondo il semplice piano: prende chi ne ha la forza e mantiene
chi può”.146
Pertanto, alla mancanza di un fondamento reale del supremo principio
della morale di Kant (come abbiamo dimostrato nel paragrafo §
6) bisogna aggiungere anche la sua recondita natura ipotetica,
nonostante Kant assicuri esplicitamente il contrario. È in
realtà un imperativo ipotetico che poggia addirittura
sull’egoismo, poiché è l’egoismo il segreto risolutore
dell’indicazione data nel supremo principio.
Oltretutto, se lo si considerasse semplicemente come una
esortazione, il supremo principio di Kant non sarebbe altro che una
trascrizione, un travestimento, un’espressione camuffata della ben
nota massima: quod tibi fieri non vis, alteri ne feceris [non fare
ad altri quello che non vorresti fosse fatto a te]. Basta, infatti,
ripetere questa massima togliendo il non e il ne, per liberarla dal
difetto di contenere solo l’esortazione giustizia e non anche
all’amore verso il prossimo.
Questa [quod tibi fieri non vis, alteri ne feceris] è
evidentemente la massima secondo la quale io, tenendo ovviamente
conto del mio eventuale ruolo passivo e quindi del mio egoismo,
posso volere che tutti gli altri agiscano. Anche questa massima
è una trascrizione - o meglio, una premessa - della massima
da me proposta come la più semplice e chiara espressione del
comportamento morale unanimemente postulato da tutti i sistemi
etici: neminem laede, imo omnes, quantum potes, juva [non fare del
male a nessuno, anzi, per quanto puoi, aiuta tutti].
Quest’ultimo principio è, e rimane, il vero e puro contenuto
di ogni morale. Ma su cosa poggia? Cosa è che dà forza
a questo principio? Proprio questo [il diÒti (diòti:
perché)] è l’antico e difficile problema, che viene
ancora oggi qui riproposto.
Dal lato opposto grida forte la voce dell’egoismo: neminem juva, imo
omnes, si forte conducit, laede [non aiutare nessuno, anzi
danneggialo, se puoi trarne un vantaggio], con la variante proposta
dalla malvagità: imo omnes, quantum potes, laede [fai del
male a tutti, quanto più ti è possibile]. Opporre
all’egoismo e alla malvagità un avversario di pari se non,
addirittura, di maggior forza: questo è il problema di ogni
etica. Hic Rhodus, hic salta! [fa conto che qui sia Rodi e qui
salta!].147
Kant si propone poi (57, R 60) di convalidare il suo principio
supremo della morale [l’imperativo categorico] tentando di dedurre
da esso la suddivisione dei doveri (ben nota da tempo e che
certamente poggia sull’essenza della moralità) in doveri di
giustizia (detti anche doveri in senso stretto, perfetti e
irrinunciabili) e in doveri di virtù (detti anche imperfetti,
complementari, meritori, o meglio: doveri d’amore).
Peccato che il suo tentativo risulti così forzato e
palesemente goffo, da deporre decisamente contro il supremo
principio stesso.
Infatti, secondo Kant, i doveri di giustizia dovrebbero poggiare su
una massima, la cui contraria non potrebbe mai essere pensata come
legge universale di natura senza cadere inevitabilmente in
contraddizione. I doveri di virtù [di amore] invece,
dovrebbero poggiare su una massima, la cui contraria potrebbe
certamente essere pensata come legge universale di natura, ma non
potrebbe essere voluta.
Ora io invito il lettore a riflettere sul fatto che la massima
dell’ingiustizia - ossia, il prevalere della forza sul diritto - che
secondo Kant non potrebbe neppure essere pensata come legge di
natura, è in realtà e di fatto la legge dominante in
natura, non solo nel regno animale, ma anche tra gli uomini.
I popoli civili hanno cercato di prevenire gli effetti dannosi di
questa legge tramite l’organizzazione statale. Tuttavia, appena
questo rimedio viene meno o eluso, ecco che quella legge torna
immediatamente in vigore. Senza interruzione, invece, questa legge
continua a vigere tra popolo e popolo. Come tutti sanno, infatti, il
termine giustizia nei rapporti tra i vari popoli è solo una
finezza burocratica della diplomazia. In realtà è la
forza bruta che decide. Eppure, la giustizia genuina, ossia quella
spontanea, esiste certamente, ma sempre e solo come eccezione a
quella legge di natura.
Come se non bastasse, negli esempi citati prima di procedere a
quella suddivisione dei doveri (53, R 48), Kant illustra i doveri di
giustizia innanzitutto con il cosiddetto dovere verso sé
stessi di non togliersi volontariamente la vita, quando il male
prevale sul piacere.
Quindi, il principio di togliersi la vita, quando il male prevale
sul piacere, non potrebbe neppure essere pensato come legge
universale di natura. Io invece affermo che, dal momento che lo
Stato in questo assunto non ha alcun potere, proprio questo
principio dimostra di essere l’incontrastata legge di natura
realmente in vigore. Infatti - come l’esperienza quotidiana dimostra
- è certamente regola comune per l’uomo togliersi la vita
quando l’innato e fortissimo impulso di conservarla viene
sopraffatto da una enorme sofferenza.
Che esista, invece, qualche altro pensiero capace di trattenerlo
dopo che la fortissima paura innata della morte, che ogni essere
vivente sente nel proprio intimo, si sia dimostrata impotente -
ossia che esista un pensiero più forte della paura della
morte - è una supposizione azzardata. Oltretutto è un
pensiero così difficile da individuare che i moralisti non
sono ancora riusciti a indicarlo esattamente. E tanto meno gli
argomenti addotti da Kant in questa occasione (53, R 48 e 67, R 57)
contro il suicidio sono mai riusciti a trattenere neppure per un
istante una persona stanca della vita.
In definitiva, per far piacere alla suddivisione dei doveri secondo
il principio supremo della morale di Kant, una legge naturale,
incontestabilmente vigente di fatto e realmente operante ogni
giorno, viene dichiarata ‘impossibile perfino da pensare’!
A questo punto non posso nascondere la mia soddisfazione nel gettare
uno sguardo in avanti, sulla motivazione della morale che
darò in seguito. Da quel fondamento della morale, infatti, la
suddivisione in doveri di giustizia e di amore - più
precisamente, la suddivisione [della virtù] in giustizia e
amore verso il prossimo - segue spontaneamente e perfettamente
grazie a un criterio di separazione del tutto naturale, il quale
traccia automaticamente una netta linea di demarcazione. Il
fondamento della morale da me individuato fornisce di fatto quella
controprova che Kant ha cercato invano di esibire per il suo
fondamento adducendo una pretesa assolutamente immotivata.
§ 8 Forme derivate del supremo principio dell’etica di Kant
Kant ha riformulato il principio supremo della sua etica
[l’imperativo categorico] con una espressione diversa [una forma
derivata], nella quale si dice espressamente dove cercare la massima
[il principio vero e proprio] della morale, non indirettamente come
nell’imperativo categorico, nel quale viene data solo
un’indicazione.
Per enunciare questa [prima] forma derivata, Kant si spiana
innanzitutto il cammino (63, R 55) con definizioni dei concetti di
‘fine’ e di ‘mezzo’ estremamente insolite e contorte, addirittura
bizzarre. Meglio e con minor fatica avrebbe fatto definendoli
più semplicemente e correttamente così: il ‘fine’
è il motivo diretto di un atto di volontà, il ‘mezzo’
quello indiretto. Simplex sigillum veri [la semplicità
è il suggello della verità]!
Kant, invece, si insinua attraverso alcune sorprendenti definizioni
fino ad affermare:
“L’uomo, e in generale ogni essere dotato di ragione, esiste come
fine in sé stesso”.
Purtroppo devo precisare che l’espressione «esistere come fine
in sé stesso» è addirittura un controsenso, una
contradictio in adjecto [contraddizione nel termine aggiunto].
Infatti, ‘essere il fine’ significa ‘essere voluto’. Ogni fine
presuppone una volontà, della quale il fine è il
motivo diretto. Solo in questa relazione il concetto di fine ha un
significato, che perde, invece, appena viene separato da essa.
Questa relazione [tra fine e volontà] è essenziale per
il concetto di fine ed esclude necessariamente ogni ‘in sé’.
‘Fine in sé’ è come dire: ‘amico in sé’, ‘zio
in sé’, ‘nemico in sé’, ‘nord o ovest in sé’,
‘sopra o sotto in sé’, ecc.
In ultima analisi, l’espressione ‘fine in sé’ ha la stessa
origine dell’espressione ‘obbligo assoluto’. Infatti, come
condizione di esistenza alla base di entrambe sta, segretamente e
quasi inconsciamente, lo stesso pensiero teologico.
E non va meglio neppure con il concetto di ‘valore assoluto’, che
dovrebbe spettare a quel presunto, ma impensabile, ‘fine in
sé’. Anche il concetto di ‘valore assoluto’, infatti, deve
essere bollato senza pietà come contradictio in adjecto. Ogni
valore, infatti, è una grandezza comparativa, la quale
oltretutto sta necessariamente in un duplice rapporto. Il primo
è di relazione, in quanto è un valore per qualcuno. Il
secondo è di confronto, poiché un valore, per essere
quantificato, deve essere confrontato con qualche altra cosa. Avulso
da queste due relazioni il concetto di valore perde ogni senso e
significato. Questo è fin troppo chiaro e non servono
ulteriori spiegazioni.
Come quelle due definizioni violano la logica, così pure
viola la morale genuina l’affermazione (65, R 56) che gli esseri
sprovvisti di ragione (ossia gli animali) sarebbero semplicemente
cose, cosicché potrebbero essere utilizzati solo come mezzi
(non anche come fini).
Questa affermazione viene chiaramente ribadita nei Principi
metafisici della dottrina della virtù (§ 16):
“L’uomo non ha alcun dovere nei confronti di alcun altro essere, ma
solo nei confronti dell’uomo”.
Inoltre (§ 17):
“Il trattamento crudele degli animali va contro il dovere dell’uomo
verso sé stesso, poiché smorza nell’uomo la
compassione di fronte al dolore umano. In questo modo si indebolisce
un dispositivo naturale molto utile per la moralità nei
confronti degli altri uomini”.
L’uomo dovrebbe quindi aver compassione degli animali solo per
tenersi in allenamento morale. L’animale sarebbe quasi un fantasma
patologico, sul quale esercitare il proprio sentimento di
compassione, da praticare poi nei confronti degli uomini. Per me, e
per tutta l’Asia intera non-islamica e non-giudaica, queste
affermazioni sono rivoltanti e vergognose.
Ancora una volta possiamo constatare che l'etica di Kant è
solo una versione camuffata della morale teologica (come
precedentemente dimostrato), diretta emanazione della morale
biblica. Dato che la morale cristiana (come vedremo in seguito) non
ha alcun riguardo per gli animali, anche nell'etica di Kant gli
animali vengono sommariamente messi al bando, sono solo cose,
semplici mezzi per fini arbitrari, materiale per la vivisezione, la
caccia a cavallo, la tauromachia, le corse d’azzardo, da frustare a
morte legati al carretto stracarico di pietre, ecc.
Pfui! Che morale da paria, candala e misala148, la quale non sa
riconoscere l’essere eterno presente in tutto ciò che vive,
che risplende di misterioso significato in ogni occhio capace di
vedere la luce del sole!
Questa morale conosce e considera solo la propria valorosa specie,
per la quale il contrassegno della ragione è l’unica
condizione affinché un essere vivente diventi oggetto di
considerazione morale.
Proprio su un cammino così accidentato, addirittura per fas
et nefas [utilizzando il lecito e l’illecito], Kant giunge a
enunciare il principio supremo della sua etica tramite una seconda
forma derivata:
“Agisci solo in modo tale da considerare l’umanità, sia nella
tua come in qualsiasi altra persona, ogni volta anche come fine e
mai solo come mezzo”.
Così - in maniera del tutto artificiosa e attraverso un’ampia
perifrasi - Kant giunge a dire:
“Tieni conto non solo di te stesso, ma anche degli altri”.
Questa non è altro che una trascrizione della massima: quod
tibi fieri non vis, alteri ne feceris [non fare ad altri quello che
non vorresti fosse fatto a te] la quale tuttavia contiene solo le
premesse della conclusione, del vero ultimo traguardo di ogni
morale: neminem laede, imo omnes, quantum potes, juva [non fare del
male a nessuno, anzi, per quanto puoi, aiuta tutti]. Questa massima,
come ogni cosa bella, si presenta al meglio quando è nuda.
Nella seconda forma derivata del principio supremo della morale di
Kant vengono poi tirati di nuovo in ballo, forzatamente e
pesantemente, i supposti doveri verso sé stessi. Di questi
abbiamo già detto abbastanza in precedenza.
A questa seconda massima di Kant si potrebbe, tra l’altro, obiettare
che un criminale giustamente condannato a morte, viene trattato solo
come un mezzo, non contemporaneamente come un fine. Precisamente,
come un mezzo indispensabile per garantire alla legge, tramite la
sua applicazione, il potere deterrente per il quale essa è
stata fatta.
Sebbene questa seconda forma derivata non sia di alcun aiuto come
massima morale, nè possa valere come adeguata ed esplicita
espressione delle indicazioni sigillate nel supremo principio
dell'etica kantiana, essa ha tuttavia il merito di offrire un
sottile aperçu [scorcio] psicologico-morale. Essa infatti
raffigura l’egoismo con una tratto estremamente caratteristico, che
merita di essere approfondito.
L’egoismo, di cui tutti noi siamo stracolmi, è la nostra
partie honteuse [parte vergognosa] per nascondere la quale abbiamo
inventato la gentilezza. L’egoismo traspare da tutti i veli sotto
cui tentiamo di nasconderlo, soprattutto quando cerchiamo
istintivamente di utilizzare chiunque ci capiti davanti come un
possibile mezzo per uno dei nostri innumerevoli fini.
Appena facciamo una nuova conoscenza, infatti, pensiamo subito se
essa potrebbe servirci in qualche modo. Per la maggior parte delle
persone, quando sono convinte che il nuovo conosciuto a loro non
serve, quest’ultimo diventa proprio un nulla.
Cercare negli altri un possibile mezzo per i propri fini, come se
gli altri fossero solo attrezzi, fa quasi parte del modo naturale di
guardarsi attorno dell’uomo. Se poi l’attrezzo durante l’uso
dovrà più o meno soffrire, è un pensiero che
può sorgere solo più tardi, o addirittura non sorgere
affatto. Parecchie cose dimostrano che noi diamo per scontato questo
atteggiamento anche negli altri. Ad esempio, quando chiediamo
un’informazione o un consiglio a qualcuno, perdiamo di solito ogni
fiducia nella sua risposta appena scopriamo che in quella faccenda
l’altro potrebbe avere qualche interesse personale, anche se piccolo
e remoto. Subito diamo per scontato che l’altro ci voglia utilizzare
come un mezzo per i suoi fini, e che ci stia consigliando non
secondo la sua competenza, ma secondo il suo proposito, anche se la
competenza fosse grandissima e il proposito piccolissimo. Sappiamo
benissimo che un millimetro cubo di proposito pesa più di un
metro cubo di competenza.
D’altro canto in una simile situazione, di fronte alla domanda:
“Cosa dovrei fare?”, al nostro interlocutore spesso non viene in
mente nulla, se non ciò che noi dovremmo fare per assecondare
i suoi fini. Una simile reazione gli verrà immediatamente,
quasi meccanicamente, ancor prima di pensare ai nostri fini,
poiché è la sua volontà che gli detta
immediatamente la risposta, ancor prima che la nostra domanda possa
giungere al forum [tribunale] del suo vero e proprio giudizio.
L’altro, dunque, cercherà di indirizzarci secondo i suoi fini
senza neppure rendersene conto, credendo sinceramente di parlare
secondo competenza, mentre è solo il proposito personale che
sta parlando per lui. Addirittura potrà arrivare al punto di
mentire senza che lui stesso se ne renda conto.
Tanto preponderante è, infatti, l’influsso della
volontà sulla conoscenza. Sul fatto di parlare secondo
competenza, oppure secondo proposito, non vale la testimonianza
della propria coscienza, bensì, nella maggior parte dei casi,
del proprio interesse. Ad esempio, una persona inseguita da nemici e
in pericolo di morte, che incrociando un venditore ambulante gli
chiedesse informazioni su una possibile via di fuga, potrebbe
sentirsi rispondere: “... non vi serve forse qualcosa della mia
merce?”.
Tuttavia non si può dire che sia sempre così.
Può anche capitare che qualcuno partecipi realmente e
spontaneamente alla sorte di un altro, ossia - nel linguaggio di
Kant - che consideri l’altro come un fine, non come un mezzo. Quanto
immediato, o quanto remoto, è il pensiero di un uomo nel
considerare gli altri non di solito come mezzo, ma a volte come
fine: questo è il parametro per misurare la grande differenza
morale fra i caratteri. Il vero fondamento dell’etica è
costituito, in ultima analisi, proprio da ciò che determina
questa differenza. Ma di questo parleremo in seguito.
Nella seconda forma derivata del principio supremo dell'etica, Kant
ha dunque contraddistinto l’egoismo, e il contrario dell’egoismo,
con un tratto estremamente caratteristico. Mi è piaciuto
porre in evidenza e in piena luce questa sua perla, dal momento che,
riguardo al resto del fondamento della sua etica, c’è
purtroppo ben poco da condividere.
La terza (e ultima) forma derivata del principio supremo dell'etica
di Kant riguarda l’autonomia della volontà:
“La volontà di ogni essere dotato di ragione è
universalmente legislativa per tutti gli esseri ragionevoli”.
In questa terza forma derivata (71, R 60), nonostante derivi
direttamente dall'imperativo categorico, dovrebbe tuttavia emergere
il tratto specifico che lo contraddistingue: la volontà,
quando vuole per dovere, è aliena da ogni interesse
particolare.
Tutti i precedenti principi morali sarebbero dunque falliti, secondo
Kant (73, R 62), poiché:
“... alla base delle azioni, indotte o spontanee, pongono sempre un
interesse a vantaggio proprio o altrui”.
Nota bene: anche a vantaggio degli altri!
“Invece, una volontà universalmente legislativa prescrive di
agire solo per dovere, senza interesse alcuno”
Invito il lettore a riflettere su cosa questo significa:
nientemeno che una volontà senza motivi, ossia un effetto
senza causa!
In realtà, interesse e motivo sono due concetti
intercambiabili. Interesse significa: quod mea interest, ossia,
ciò che mi riguarda. E questo non è forse tutto
ciò che stimola e muove la mia volontà? Cos’altro
può essere un interesse se non un motivo che influenza la mia
volontà? Quando un motivo muove la volontà, allora
essa ha un interesse. Quando, invece, nessun motivo la muove, la
volontà può in realtà entrare in azione
esattamente come una pietra può cambiare posizione senza
essere urtata o trascinata. Ma non è necessario spiegare
queste cose a un lettore istruito. In conclusione: ogni azione deve
necessariamente avere un motivo e ogni motivo presuppone
necessariamente un interesse.
Kant invece ci presenta un secondo tipo - assolutamente inedito - di
azioni, le quali procedono senza alcun interesse, quindi senza alcun
motivo. E queste dovrebbero essere le azioni di giustizia e di amore
verso il prossimo! Per confutare questa assurda premessa è
bastato solo riportarla al suo vero significato, che stava nascosto
nell’equivoco riguardo alla parola interesse.
Ciò nonostante Kant celebra il trionfo della sua autonomia
della volontà (74, R 62) con la costruzione di una utopia
morale, denominata ‘regno dei fini’. Questo è un regno
popolato da esseri ragionevoli in abstracto, i quali vogliono tutti
senza interesse alcuno, ossia senza volere nulla. Una sola cosa
vogliono: che tutti vogliano sempre secondo la massima
dell’autonomia della volontà.
“È difficile non scrivere una satira”.149
Ma la sua autonomia della volontà spinge poi Kant ben oltre
questo piccolo e innocente regno dei fini (che in fondo potremmo
anche lasciar perdere, poiché inoffensivo). Lo spinge verso
un’altra cosa dalle conseguenze ben più gravi: il concetto di
‘dignità dell’uomo’.
Questa poggerebbe esclusivamente sull’autonomia della
volontà, e consisterebbe nel fatto che l’uomo deve rispettare
la legge che lui stesso si è dato, esattamente come i
cittadini di uno stato costituzionale devono rispettare la
costituzione che loro stessi si sono dati.
Ora, come ornamento dell’etica di Kant questa cosa potrebbe anche
andar bene. Purtroppo peró l’espressione ‘dignità
dell’uomo’, una volta che è stata pronunciata da Kant,
è diventata in seguito lo schibboleth [la parola fantomatica]
di tutti i moralisti scervellati e senza idee, i quali nascondono la
mancanza di un fondamento reale (o perlomeno con qualche contenuto)
della loro etica dietro l’imponente espressione ‘dignità
dell’uomo’. Così facendo, pensano astutamente che anche i
loro lettori si sentano dotati di una tale dignità, e che
siano quindi soddisfatti di un simile fondamento.150
Ma proviamo a esaminare meglio questo concetto e a verificarne la
realtà. Kant definisce (79, R 66) la ‘dignità
dell’uomo’ come:
“... un valore incondizionato e senza paragone”.
È una spiegazione dal tono sublime e tanto imponente che
nessuno osa avvicinarsi ad essa, per esaminarla meglio, senza
esitare. Se invece lo facesse, scoprirebbe che anche questa è
una vuota iperbole, nella quale si nasconde una contradictio in
adjecto [contraddizione nel termine aggiunto] che come un verme la
rode dall’interno.
Ogni valore, infatti, scaturisce dalla valutazione di una cosa
rispetto ad un’altra, ed è quindi un concetto comparativo e
relativo. Proprio la relatività costituisce l’essenza del
concetto di valore. Già gli stoici - secondo Diogene Laerzio
- ci insegnano giustamente che:
“Il valore è la contropartita di un determinato bene,
definita dalla valutazione di un esperto. Come a dire, scambiare
grano con orzo, asino compreso”.151
Un valore incondizionato, incomparabile e assoluto, come dovrebbe
essere questa ‘dignità dell’uomo’, è pertanto un
compito espresso a parole (come succede spesso in filosofia) per
cogliere un pensiero che non è neppure possibile pensare,
come il numero o lo spazio più grande di tutti.
“Proprio quando manca qualsiasi concetto ecco che, al momento
opportuno, sbuca fuori una parola”.152
Così, anche in questa circostanza, con l’espressione
‘dignità dell’uomo’ si è buttata sulla piazza una
parola molto ben accetta, grazie alla quale d’ora in poi ogni
morale, dipanata in tutte le classi di doveri e in tutti i casi
della casistica,153 ha trovato un comodo fondamento sul quale
erigersi per continuare a predicare a piacere.
Alla fine della sua presentazione del concetto di ‘dignità
dell’uomo’ (124, R 97), Kant dice:
“Come potrebbe la ragion pura, senza ulteriori impulsi presi
altrove, essere di per sé pratica? Come potrebbe il solo
principio dell’universalità di tutte le sue massime elevate a
legge - senza il sostegno di alcun oggetto del volere, dove si
potrebbe nascondere qualche interesse - dare un impulso a sé
stesso e destare così un interesse puramente morale? In altre
parole, come potrebbe la ragion pura diventare pratica?46 Nessuna
ragione umana sarebbe capace di spiegarlo: sarebbe solo lavoro e
fatica sprecata”.
A questo punto è opportuno ricordare che quando non è
possibile dimostrare teoricamente la possibilità di una cosa,
della quale si afferma l’esistenza, bisognerebbe perlomeno
dimostrarla di fatto nella realtà.
Ma l’imperativo categorico della ragione pratica viene
esplicitamente presentato come tutt’altro che un dato di fatto della
coscienza, né viene motivato in qualche modo tramite
l’esperienza. Al contrario, veniamo abbondantemente ammoniti da Kant
(p. vi del prologo e p. 59-60, R 52). che esso:
“... non va ricercato per via antropologica empirica”.
Inoltre ci viene ripetutamente assicurato (48, R 44) che:
“È impossibile stabilire empiricamente, attraverso alcun
esempio, se esista mai un simile imperativo”.
Infine (49, R 45) che:
“La realtà dell’imperativo categorico non è
riscontrabile nell’esperienza”.
Riassumendo tutto quanto, si potrebbe davvero sospettare che Kant
abbia voluto prendere in giro i suoi lettori. Questo sarebbe giusto
e lecito fare con il pubblico filosofico tedesco del giorno d’oggi.
Ma quello dei tempi di Kant non si era ancora contraddistinto in
quel senso che da allora a oggi ha preso. Oltretutto l’etica era il
tema meno adatto per scherzare.
Dobbiamo in ogni caso rimanere fermamente convinti che, se una cosa
non è teoricamente possibile e se non può essere
dimostrata nella realtà, la sua esistenza non è per
nulla credibile.
Ma proviamo pure, con uno sforzo della fantasia, a immaginare un
uomo il cui animo sia posseduto - come da un demone - da un obbligo
assoluto che si esprime esclusivamente tramite imperativi categorici
e che riesce a guidare le azioni di quell’uomo regolarmente in
direzione opposta alle sue inclinazioni e ai suoi desideri.
Con un simile uomo non riusciremmo mai ad avere un’immagine della
vera natura umana, nè di quanto succede nel nostro intimo. In
un simile obbligo assoluto riconosceremo piuttosto un surrogato
artificiale della morale teologica, rispetto alla quale esso sta
come una gamba di legno a una gamba vera.
In conclusione, il nostro risultato è che l’etica di Kant -
come pure le precedenti - è priva di un solido fondamento.
Essa è in sostanza (come ho precedentemente dimostrato,
tramite l’indagine sulla sua forma imperativa) un’edizione rivoltata
della morale teologica, camuffata dietro alcune formule molto
astratte e a prima vista dedotte a priori.
Questo camuffamento è talmente ben fatto e irriconoscibile da
ingannare verosimilmente lo stesso Kant. Egli infatti credeva
veramente di poter stabilire i concetti di legge morale e di
comandamento del dovere (che hanno senso solo nella morale
teologica) indipendentemente da ogni teologia e di poterli fondare
sulla pura conoscenza a priori. Io ho invece abbondantemente
dimostrato che questi due concetti della sua etica mancano di ogni
fondamento reale e sono campati in aria.
Alla fine la morale teologica annidata all’interno si svela tra le
sue stesse mani nella dottrina del bene supremo, nei postulati della
ragione pratica e nella teologia morale.
Eppure tutto questo non ha deluso né Kant né il suo
pubblico, riguardo al vero nesso tra l’etica kantiana e la morale
teologica. Tutt’altro. Entrambi furono contenti di vedere questo
articolo di fede [la morale teologica] motivato, anche se solo
idealmente e per uso pratico, tramite l’etica. Entrambi confusero in
buona fede le conseguenze con le premesse, e viceversa. Non si
accorsero infatti che alla base dell’etica di Kant stanno già
tacitamente nascoste, come premesse inevitabilmente necessarie,
tutte le sue presunte conseguenze.
Al termine di questa indagine rigorosa (anche se faticosa per il
lettore) permettetemi un paragone frivolo e scherzoso per
risollevare un poco l’umore. A causa di questa sua
auto-mistificazione, mi sembra che si possa paragonare Kant a un
cavaliere, il quale a un ballo in maschera fa la corte la serata
intera a una bella dama mascherata, illudendosi di fare una nuova
conquista. Finché, alla fine del ballo, la dama getta la
maschera e si rivela essere ... sua moglie.
§ 9 La dottrina kantiana della coscienza
Evidentemente la ragione pratica, con il suo presunto imperativo
categorico, è strettamente imparentata con la coscienza.
Esistono tuttavia alcune differenze.
La prima consiste nel fatto che l’imperativo categorico si esprime
tramite un comando prima dell’azione; la coscienza, invece, solo
dopo l’azione. Prima dell’azione la coscienza può al massimo
parlare solo indirettamente tramite la riflessione, con il ricordare
casi precedenti, nei quali azioni simili hanno ricevuto in seguito
la sua disapprovazione. Su questo mi sembra che poggi anche
l’etimologia della parola Gewissen [coscienza], poiché solo
ciò che è già accaduto è gewiss [certo].
In ogni persona - anche la migliore - in seguito a eventi esterni,
per uno stato d’animo alterato, o semplicemente per malumore,
possono sorgere pensieri e desideri ignobili, bassi e malvagi.
Tuttavia nessuno è moralmente responsabile di simili
pensieri, quindi la sua coscienza non deve farsene carico. Essi
mostrano semplicemente di che cosa sarebbe capace l’uomo in
generale, non solo chi li ha avuti. Allo stesso tempo, infatti,
altri motivi subentrano rapidamente nella coscienza e si
contrappongono a quei pensieri, cosicché questi non potranno
mai venir tradotti in azione, e rimarranno come la minoranza
sconfitta in un’assemblea deliberante.
Solo tramite le azioni realmente compiute uno può conoscere
empiricamente sé stesso, e così pure gli altri. Solo
le azioni vanno a carico della coscienza, poiché esse non
sono qualcosa di opinabile come i pensieri. Al contrario, l’azione
compiuta è un dato di fatto immodificabile, che è
conosciuto e non semplicemente pensato.
La stessa origine ha la parola latina conscientia [coscienza]. Si
tratta del conscire sibi, pallescere culpa [rimproverare se stesso,
impallidire per la propria colpa].154 Così pure la parola
greca sune…dhsij [sunéidesis: conoscenza, consapevolezza
morale, coscienza], ossia la conoscenza che l’uomo ha di ciò
che ha fatto.
La seconda differenza consiste nel fatto che la coscienza trae
sempre la sua materia dall’esperienza, mentre il presunto imperativo
categorico - essendo puro a priori - non può trarre nulla
dall’esperienza.
In attesa che ci venga presentata, possiamo nel frattempo supporre
che la dottrina kantiana della coscienza potrà far luce anche
sul concetto - coniato dallo stesso Kant - di imperativo categorico.
Kant espone questa sua dottrina nei Principi metafisici della
dottrina della virtù (p. 13). Sono poche pagine che - mentre
mi accingo alla critica della dottrina stessa - presuppongo siano
note al lettore.
La presentazione della coscienza ad opera di Kant fa un’impressione
talmente imponente, che chiunque, con rispettoso timore, esita ad
avvicinarsi e tanto meno osa muovere alcuna obiezione. Ognuno,
infatti, teme che il proprio intervento teorico possa essere
scambiato per pratico e di venire quindi tacciato di mancanza di
coscienza, qualora osasse negare la correttezza dell’esposizione
fatta da Kant.
Ma io non mi lascerò trarre in inganno, poiché qui si
tratta di teoria, non di prassi. Qui non si tratta di predicare la
morale, bensì di provare con rigore il fondamento ultimo
dell’etica.
Innanzitutto Kant fa continuamente ricorso a espressioni giuristiche
latine, che sembrano proprio le meno adatte per esprimere gli
impulsi più reconditi dell’animo umano. Siccome questo
linguaggio e taglio giuridico vengono utilizzati dall’inizio alla
fine, sembra quasi che siano una cosa essenziale e propria al tema.
Nel profondo dell’animo viene montato un vero e proprio tribunale
con tanto di processo, giudice, accusa, difesa e sentenza. Se nel
nostro intimo dovesse realmente aver luogo quel processo che Kant
descrive, dovremmo meravigliarci che qualcuno possa essere, non dico
così malvagio, ma così stupido da agire contro la
propria coscienza.
Infatti, una simile istituzione soprannaturale - del tutto singolare
- nella nostra coscienza e un simile giudice, nelle segrete tenebre
nel nostro intimo, dovrebbero suscitare in ognuno un orrore e una
deisidaimonia tali, da trattenerlo dal procurare brevi e fugaci
vantaggi contro il divieto, e sotto la minaccia, di una paurosa
potenza soprannaturale, che si manifesta in maniera così
chiara e immediata.
Nella realtà, invece, vediamo che l’efficacia della coscienza
è talmente blanda, che tutti i popoli si sono preoccupati di
rafforzarla con l’aiuto di una religione positiva [che detta
comandamenti], se non addirittura di rimpiazzarla completamente con
la religione stessa.
Oltretutto, se la coscienza avesse davvero simili facoltà, a
nessuno sarebbe venuto in mente di bandire il presente concorso a
premi della Reale Società.
Esaminando più da vicino la presentazione fatta di Kant,
vediamo che l’effetto imponente viene ottenuto in un modo
particolare. Kant attribuisce al giudizio morale di se stessi, come
propria ed essenziale, una forma [giuridica] che, invece, non lo
è affatto. Questa forma, infatti, potrebbe essere attribuita
al giudizio morale esattamente come a qualsiasi altro tipo di
insistente e intima riflessione - anche del tutto estranea alla
morale - su cosa abbiamo fatto e cosa, invece, avremmo potuto fare.
Ad esempio, una coscienza non genuina, simulata e poggiata
semplicemente sulla superstizione (come quella di un hindu che si
rimprovera di aver causato la morte di una vacca, o quella di un
ebreo che si ricorda di aver fumato la pipa di sabato a casa155),
procederebbe esattamente nello stesso modo, con tanto di accusa,
difesa e sentenza.
Anche la consueta verifica personale, che non nasce da alcun punto
di vista etico (anzi, spesso, è addirittura più di
carattere immorale che morale), procederebbe in ogni caso nello
stesso modo. Ad esempio, quando bonariamente, e senza riflettere
troppo, mi sono fatto garante per un amico, ma poi di notte mi rendo
conto di quale grossa responsabilità mi sono fatto carico, e
di come facilmente potrei ricavarne un grosso danno, ecco allora
l’antica voce della saggezza lanciarmi la profezia:
“Dai una garanzia e subito ci sarà una sventura”.156
In quello stesso momento, infatti, anche nel mio intimo si fa avanti
la pubblica accusa di fronte all’avvocato difensore, il quale cerca
di giustificare la mia avventata malleveria [rendersi garante per
qualcuno] con l’urgenza delle circostanze, con i legami di amicizia,
con l’impossibilità di sottrarsi, addirittura lodando il mio
buon animo, e infine il giudice che inesorabilmente pronuncia il
verdetto: “ ... un gesto da stupido!”, sotto il quale mi sento
sprofondare!
Quanto abbiamo detto riguardo alla forma giudiziaria prediletta da
Kant, vale anche per gran parte della rimanente presentazione. Ad
esempio, ciò che Kant afferma - all’inizio del paragrafo -
come prerogativa esclusiva della coscienza, vale, invece, anche per
qualsiasi scrupolo di altra natura. Potrebbe letteralmente riferirsi
alla segreta consapevolezza di una persona che vive di rendita e le
cui uscite oltrepassano le entrate, cosicché il capitale
intaccato è destinato lentamente a estinguersi:
“Questa consapevolezza lo segue come la sua ombra, appena egli tenta
di fuggire. Certo che potrebbe distrarsi con piaceri e svaghi,
oppure dormirci sopra. Tuttavia non può fare a meno di
ritornarci di tanto in tanto con il pensiero, o di perdere il sonno
appena sente dentro di sé la tremenda voce della coscienza,
ecc.”.
Dopo aver descritto la forma giuridica come qualcosa di essenziale
per l’esposizione della dottrina della coscienza - così da
mantenerla dall’inizio alla fine - Kant la utilizza anche per il
seguente sottile sofisma:
“Se l’accusato dalla propria coscienza e il giudice fossero
rappresentati dalla stessa persona, ci troveremmo di fronte ad un
tribunale iniquo, poiché la pubblica accusa perderebbe
sempre”.
Questo concetto viene poi ulteriormente ribadito tramite una nota
molta contorta e oscura. Kant deduce infine che noi, per non cadere
in contraddizione, dobbiamo pensare il giudice interno - in quel
dramma giudiziario della coscienza - come un’altra persona, diversa
da noi, un nunzio del cuore, un onnisciente, uno che potrebbe
obbligare chiunque e, dal punto di vista esecutivo, una potenza
assoluta.
In questo modo Kant si apre una comoda via per condurre il lettore
dalla coscienza alla deisidaimonia, come se questa fosse una
conseguenza necessaria della coscienza stessa, confidando nel fatto
che il lettore lo seguirà volentieri, poiché sin
dall’infanzia l’educazione gli ha reso simili concetti familiari,
quasi connaturali.
Kant ha avuto così gioco facile, facendo tuttavia una cosa
che avrebbe dovuto ben guardarsi dal fare, se veramente avesse
voluto non solo predicare, ma anche praticare l’onestà.
Io semplicemente nego la validità dell’affermazione iniziale
[riguardo alla necessità di differenziare giudice e accusato]
dalla quale vengono poi tirate tutte quelle conseguenze, anzi, la
dichiaro un sotterfugio. Infatti, non è vero che la pubblica
accusa finirebbe regolarmente con il perdere se l’accusato e il
giudice fossero la stessa persona, perlomeno non nel nostro
tribunale interiore.
In quell’esempio di incauta malleveria, la pubblica accusa ha forse
perso? Anche in quel caso dovremmo forse - per non cadere in
contraddizione - ricorrere a una prosopopea [figura retorica che
personifica un concetto astratto] e pensare necessariamente a un
altro giudice oggettivamente diverso da quello che ha pronunciato lo
sferzante verdetto: “... un gesto da stupido!” ? Dovremmo forse
pensare a un Mercurio reincarnato, oppure alla personificazione
della mÁtij [métis: saggezza, astuzia]157 come Omero
suggerisce, e incamminarci anche in quel caso sulla strada della
deisidaimonia, anche se pagana?
Nella presentazione [della sua dottrina della coscienza] Kant si
astiene dall’attribuire validità oggettiva alla sua ‘teologia
morale’ (anch'essa brevemente ma sostanzialmente accennata),
bensì la presenta solo come una forma soggettivamente
necessaria. Questo tuttavia non lo assolve dall’arbitrio con cui la
costruisce (sia pure come solo soggettivamente necessaria),
poiché parte da ipotesi assolutamente infondate.
Una cosa è comunque certa: tutta la forma giuridico
drammatica con la quale Kant presenta la coscienza - mettendo
assieme forma e coscienza come se fossero una cosa sola e
mantenendole unite fino alla fine, per trarne poi le conseguenze -
non è assolutamente essenziale, né peculiare, alla
coscienza stessa.
Si tratta piuttosto della forma molto più comune che la
riflessione assume spontaneamente in ogni situazione pratica. Una
forma che di solito scaturisce in generale dal conflitto tra opposti
motivi, la cui importanza viene soppesata dalla ragione tramite la
riflessione. Non importa che i motivi siano di natura morale o
egoistica, nè che si tratti di stabilire cosa fare oppure di
riflettere su ciò che è già accaduto.
Se togliamo alla presentazione fatta da Kant la forma giuridico
drammatica che le è stata arbitrariamente attribuita, subito
il nimbus [l’aureola luminosa] che l’avvolge, assieme al suo aspetto
imponente, svaniscono. Solo questo rimane: che nel rimuginare sulle
nostre azioni a volte ci prende una insoddisfazione di noi stessi
del tutto particolare, la quale ha la peculiarità di non
riguardare il risultato, bensì l’azione stessa.
Non si tratta di una insoddisfazione come le altre, come quando, ad
esempio, ci rimproveriamo di aver agito male e di essere andati
contro il nostro interesse. È invece l’insoddisfazione di
aver agito troppo egoisticamente, di aver pensato troppo a noi
stessi e poco agli altri, o addirittura di aver avuto esclusivamente
come fine - senza trarre alcun vantaggio personale - la sofferenza
degli altri.
Che si possa essere insoddisfatti e rammaricati non per le
sofferenze che abbiamo sofferto, ma per quelle che abbiamo causato,
è un dato di fatto nudo e crudo, che nessuno può
negare.
Esamineremo in seguito il nesso tra una insoddisfazione di questo
tipo con l’unico fondamento dell’etica resistente a ogni verifica.
Kant invece, come un astuto avvocato, ha cercato di trarre il
massimo vantaggio da questo dato di fatto originario, addobbandolo e
ingigantendolo, per assicurare in anticipo un comodo supporto alla
sua etica e alla sua ‘teologia morale’.
§ 10 La dottrina kantiana del carattere empirico e
intelligibile. La teoria della libertà.
Dopo aver attaccato l’etica di Kant, colpendola non solo in
superficie (come altri hanno precedentemente fatto) ma rigirandola
sottosopra per ristabilire la verità, mi sembra giusto e
doveroso non congedarmi da lui senza prima ricordare il più
grande e brillante merito di Kant nel campo dell’etica. Esso
consiste nella dottrina della coesistenza della libertà con
la necessità, che Kant espone dapprima nella Critica della
ragion pura (533-554, I ed.) e ancora più chiaramente nella
Critica della ragion pratica (169-179, iv Ed. ; R 224-231).
Hobbes per primo, poi Spinoza, Hume, Holbach nel suo Sistema della
natura, e infine Priestley con la massima ampiezza e
profondità, hanno dimostrato la totale e ferrea
necessità degli atti della volontà al subentrare dei
motivi, in maniera così chiara, da essere senza dubbio
annoverata tra le verità perfettamente dimostrate. Solo per
ignoranza e grossolanità si poteva continuare a parlare di
libertà di volere nelle singole azioni dell’uomo, ossia di un
liberum arbitrium indifferentiae.
Anche Kant, in seguito alle incontestabili prove di questi suoi
predecessori, diede per certa l’assoluta necessità degli atti
della volontà, al cui riguardo non poteva più
sussistere alcun dubbio. Lo dimostrano tutti i passi in cui Kant
parla della libertà solo dal punto di vista teorico.
Tuttavia è anche vero che le nostre azioni sono accompagnate
dalla consapevolezza della loro specifica potenzialità e
originalità, grazie alle quali noi le riconosciamo come opera
nostra. Ognuno avverte con infallibile certezza di essere il reale
autore e il responsabile morale delle proprie azioni.
Ma poiché la responsabilità presuppone la
possibilità di agire diversamente - quindi la libertà,
in qualche modo - la consapevolezza della responsabilità
implica anche, di conseguenza, la consapevolezza della
libertà.
La chiave per risolvere la contraddizione che sorge da questi due
dati di fatto [necessità degli atti della volontà e
consapevolezza della propria responsabilità (quindi, di
essere in qualche modo liberi)] è stata finalmente trovata
nella profondissima distinzione di Kant tra ‘fenomeno’ e ‘cosa in
sé’.158 Questa distinzione è il nucleo di tutta la sua
filosofia e costituisce il suo maggiore merito.
L’individuo , che per il suo carattere innato e immutabile viene
rigidamente determinato in tutte le sue manifestazioni dalla legge
di causalità (la quale in questo caso, in seguito alla
mediazione operata dall’intelletto, è detta ‘legge di
motivazione’), è semplicemente un ‘fenomeno’. La ‘cosa in
sé’ (che essendo fuori dal tempo e dallo spazio, libera dalla
successione e dalla molteplicità degli atti, è una e
immutabile) sta alla base [di tutti i fenomeni, quindi] anche
dell’individuo. L’originario fondamento come ‘cosa in sé’
dell’individuo è il suo carattere intelligibile159, il quale
è presente in tutte le sue azioni e vi si imprime
uniformemente, come un sigillo in mille ceralacche.
Attraverso la successione degli atti di volontà che si
manifestano nel tempo, il carattere intelligibile definisce il
carattere empirico dell’individuo come ‘fenomeno’. Questo
‘fenomeno’, quindi, in tutte le sue manifestazioni che vengono
provocate dai motivi, deve presentare la costanza di una legge di
natura, cosicché tutti i suoi atti di volontà si
susseguono in maniera rigorosamente necessaria.
Questa dottrina kantiana fornisce un fondamento razionale alla
immutabilità e alla inflessibile rigidità del
carattere empirico di ogni uomo nelle quali molte teste pensanti
hanno da sempre creduto (mentre le altre credono che sia possibile
modificare il carattere di un uomo tramite argomentazioni razionali
ed esortazioni morali).
È una dottrina in pieno accordo con l’esperienza, che
è ormai diventata un caposaldo della filosofia. Grazie ad
essa la filosofia non venne più sbeffeggiata dalla saggezza
popolare, la quale già da moltissimo tempo aveva affermato
quella stessa verità tramite il proverbio spagnolo: lo que
entra con el capillo, saie con la mortaja [ciò che entra con
la cuffietta da neonato, esce con il sudario], oppure: lo que en la
leche se mama, en la mortaja se derrama [ciò che si succhia
nel latte materno, si decompone nel sudario].
La dottrina di Kant della coesistenza della libertà con la
necessità è - a mio parere - la più grande
opera della profondità del pensiero umano. Questa dottrina e
l’estetica trascendentale160 sono le due grandi gemme nella corona
della gloria di Kant, che mai potrà svanire.
Come è noto, Schelling nel suo trattato Ricerche filosofiche
sull’essenza della libertà umana, grazie al suo modo
colorito, vivace e intuitivo di esporre, ha fornito una parafrasi di
questa dottrina più comprensibile a molti. Sarebbe una
iniziativa da lodare, se Schelling avesse perlomeno avuto
l’onestà di ammettere che si trattava del pensiero di Kant,
non del proprio (come una parte del pubblico filosofico ancora oggi
crede).
Questa dottrina di Kant, e l’essenza della libertà in
generale, diventa ancora più comprensibile se la si
riallaccia ad una verità universale, la cui espressione
più concisa sta nella frase, spesso ripetuta dagli
scolastici: operari sequitur esse [l’operare è conseguenza
dell’essere (ciò che una cosa fa deriva da ciò che
quella cosa è)].
Ogni cosa al mondo agisce in conformità a ciò che essa
è, ossia, secondo la propria natura, nella quale tutte le sue
manifestazioni si ritrovano già potentia [in potenza] e che
si trasformano actu [in atto] quando vengono sollecitate dalle
circostanze esterne. Solo allora si può vedere di quale pasta
una determinata cosa è fatta. Questa pasta è il suo
carattere empirico, mentre il suo fondamento primo - al quale
l’esperienza non può accedere direttamente - è il
carattere intelligibile, ossia l’essenza in sé di quella
determinata cosa.
L’uomo non fa eccezione al resto dei fenomeni del mondo. Anche
l’uomo ha la sua salda e permanente natura, il suo carattere
immutabile, anche se individuale e diverso da quello di un altro.
Questo carattere è appunto ‘empirico’ per la nostra
comprensione, e proprio per questa empiricità è solo
un fenomeno.
Il carattere intelligibile, invece, è l’essenza del carattere
come ‘cosa in sé’. Tutte le azioni dell’uomo – le quali, per
quanto riguarda la loro componente esterna, sono determinate dai
motivi - non possono avvenire in nessun altro modo se non secondo il
suo immutabile carattere individuale. Come uno è, così
deve agire. Per un determinato individuo, in ogni particolare e
determinato caso, solo una azione è possibile: operari
sequitur esse. La libertà appartiene solo al carattere
intelligibile, non al carattere empirico.
Lo operari [il comportamento] di ogni individuo è
necessariamente determinato all’esterno dai motivi e all’interno dal
suo carattere. Quindi, tutto ciò che egli fa, avviene per
necessità. La libertà sta solo nel suo esse [essere]:
egli avrebbe potuto essere un altro. Il merito, o la colpa, sono
dovuti a ciò che lui è, poiché tutto ciò
che lui fa discende automaticamente, come un semplice corollario, da
ciò che lui è.
La teoria di Kant ci libera dall’errore fondamentale di confondere
la libertà con l’operari e la necessità con l’esse.
Adesso sappiamo che le cose stanno esattamente al contrario.
La responsabilità morale dell’uomo riguarda solo
apparentemente ciò che lui fa, ma nel profondo riguarda
ciò che lui è. Infatti, dato ciò che lui
è, al presentarsi di determinati motivi il suo agire non
può essere diverso da come avviene. Anche se ferrea è
la necessità con cui, per un determinato carattere, le azioni
sono determinate dai motivi, a nessuno - neppure a chi è
convinto di questa necessità - verrà mai in mente di
discolparsi scaricando la propria responsabilità sui motivi.
Ognuno infatti riconosce chiaramente che, a seconda del caso e delle
circostanze, oggettivamente sarebbe potuta succedere un’azione ben
diversa, addirittura opposta, se soltanto lui fosse stato un altro.
Ma dato che - da quanto risulta dall’azione compiuta - lui è
quello che è (e non un altro), proprio per questo si sente
responsabile. Il martello della coscienza batte sul chiodo del
proprio esse.
La coscienza, infatti, consiste nella conoscenza sempre più
profonda del proprio Io, così come esso emerge dalle proprie
azioni. In occasione del proprio operari la coscienza dà la
colpa al proprio esse. Poiché solo grazie alla
responsabilità ci rendiamo conto della libertà, dove
risiede l’una deve risiedere anche l’altra, quindi nello esse.
L’operari, invece, è soggetto alla necessità. Noi
impariamo a conoscere noi stessi - come pure gli altri - solo
tramite l’esperienza. Del nostro carattere non abbiamo alcuna
conoscenza a priori. Anzi, all’inizio noi abbiamo del nostro
carattere un’altissima opinione, poiché il principio quisque
praesumitur bonus, donec probetur contrarium [ognuno è
presunto buono, fino a prova contraria] vale anche per il nostro
forum [tribunale] interno.
Nota
Chi è in grado di riconoscere l’essenza di un pensiero anche
sotto differenti forme, dovrà convenire che la dottrina del
carattere intelligibile ed empirico è stata elevata a
chiarezza astratta sicuramente da Kant, ma che già Platone
l’aveva abbozzata.
Purtroppo Platone, non avendo riconosciuto l’idealità del
tempo [ossia, che il tempo è solo una forma della conoscenza]
ha potuto esporla solo in una veste temporale, ossia tramite un mito
e collegandola alla metempsicosi [trasmigrazione dell’anima dopo la
morte in altri corpi].
La comprensione dell’identità delle due dottrine è
ancora più facilitata dalla presentazione e dalla spiegazione
del mito di Platone che Porfirio ci ha fornito con estrema chiarezza
e determinazione, cosicché la concordanza del mito di Platone
con la dottrina astratta di Kant non può non essere
riconosciuta.
Stobeo, nel secondo libro della sua Antologia, ha conservato in
extenso [integralmente] la spiegazione data da Porfirio in uno
scritto, ormai perso, nel quale Porfirio commenta, con esattezza e
nei dettagli, il mito che Platone riporta nella seconda parte del
decimo libro della Repubblica. È un testo che merita davvero
di essere letto. Come saggio, riporto qui un breve passo, per
indurre il lettore interessato a leggere direttamente Stobeo.
Il lettore potrà così rendersi conto che quel mito di
Platone può essere visto come una allegoria della grande e
profonda scoperta fatta da Kant - nella sua astratta purezza - della
dottrina del carattere empirico e intelligibile.
Potrà anche rendersi conto che questa dottrina,
sostanzialmente acquisita da Platone migliaia di anni prima di Kant,
risale ancora più indietro nel tempo. Porfirio infatti
sostiene che Platone l’ha presa dagli Egizi. In realtà essa
si ritrova nella dottrina della metempsicosi del Brahmanesimo, dalla
quale molto probabilmente trasse origine la saggezza dei sacerdoti
egizi. Il passo di Stobeo dice:
“L’intero pensiero platonico mi sembra si possa riassumere
così: prima di calarsi nei vari corpi e nelle varie vite, le
anime hanno la libertà di scegliere o l’una o l’altra vita
che intendono vivere, insieme alla forza vitale e al corpo
corrispondenti a quella vita (infatti, dice che all’anima è
aperta la possibilità di scegliere la vita di un leone o
quella di un uomo). Ma dopo che l’anima si è calata in una di
queste vite, tale libertà viene meno. Infatti, una volta
discese nei corpi e diventate spiriti vitali, invece di pure anime,
esse hanno ormai una libertà commisurata alla condizione del
corpo: in certi casi è vivace e mobile, come nell’uomo, in
altri rigida e fissa, come in quasi tutti gli altri esseri viventi.
Questa libertà è strettamente legata all’organismo
corporeo, dal momento che è autonoma nei movimenti, ma si
indirizza secondo i desideri che nascono dal corpo”.161
§ 11 L’etica di Fichte, come lente di ingrandimento degli
errori dell’etica di Kant
Allo studente di anatomia e di zoologia parecchie cose, nei
preparati e nei prodotti naturali, non risultano così
evidenti come nelle incisioni su lastra di rame, dove le medesime
cose vengono raffigurate con una certa esagerazione. Analogamente io
suggerirei a chi, dopo la precedente critica, non risultasse ancora
evidente la nullità del fondamento dell’etica di Kant, di
ricorrere al Sistema della dottrina morale di Fichte per chiarirsi
le idee.
Infatti, come nell’antico teatro tedesco dei burattini accanto
all’imperatore - o a qualsiasi altro eroe - veniva sempre posto un
buffone, il quale ripeteva alla sua maniera e con esagerazione ogni
cosa che l’eroe aveva detto o fatto, così accanto al grande
Kant troviamo il fondatore della Wissenschaftslehre [dottrina della
scienza] o meglio del Wissenschaftsleere [vuoto di scienza].162
Di fronte al pubblico filosofico tedesco quest’uomo ha perfettamente
condotto a termine il suo piano - notevole e ben congegnato - di
destare attenzione tramite la mistificazione filosofica, assicurando
così la prosperità sua e dei suoi pari. Vi è
riuscito proprio surclassando Kant in ogni questione e presentandosi
come il superlativo vivente di Kant. Con l’ingigantire ogni parte
saliente della filosofia di Kant, Fichte ne ha fatto davvero una
caricatura; così pure ha fatto con l’etica.
Nel suo Sistema della dottrina morale l’imperativo categorico
è degenerato in un imperativo dispotico. L’obbligo assoluto,
la ragione legiferante e il comandamento del dovere, si sono evoluti
in un fato morale, in un’insondabile necessità che il genere
umano agisca rigorosamente secondo determinate massime (p. 308-309).
A giudicare dalle premesse morali quelle massime dovrebbero avere un
grandissimo contenuto, tuttavia in nessuna pagina si riesce mai a
saperne qualcosa. Si riesce solo a capire che, come le api sono
pervase dall’impulso congiunto di costruire assieme favi e alveare,
così pure anche gli uomini dovrebbero avere l’impulso di
rappresentare tutti assieme una grande commedia mondiale
rigorosamente morale, nella quale noi non saremmo altro che
burattini mossi da fili. Ma sia ben chiaro: con la sostanziale
differenza che alla fine l’alveare viene costruito davvero, mentre
al posto della commedia morale mondiale viene in realtà
rappresentata una commedia profondamente immorale.
In Fichte vediamo che la forma imperativa dell’etica di Kant, la
legge morale e l’obbligo assoluto sono esasperati fino a costituire
un sistema di fatalismo morale, il cui svolgimento a volte trascende
nel ridicolo.163
Se nell’etica di Kant si avverte una certa pedanteria morale, in
quella di Fichte la pedanteria morale più ridicola fornisce
abbondante materia alla satira. Si legga, ad esempio (p. 407-409),
la soluzione del noto dilemma casistico dove, di due vite umane, una
deve andare persa. Tutti gli errori di Kant vengono elevati al
superlativo. Ad esempio (p. 199):
“L’impulso di agire secondo la simpatia, la compassione e l’amore
verso il prossimo non solo non è morale, ma va addirittura
contro la morale” (!)
e (p. 402):
“La molla che spinge ad aiutare gli altri non deve mai essere una
sconsiderata bontà di cuore, bensì il fine,
chiaramente ponderato, di promuovere il più possibile la
causalità della ragione”.
In mezzo a tanta pedanteria fa anche apertamente capolino la vera e
propria rozzezza filosofica di Fichte, come ci si può
giustamente aspettare da un uomo al quale l’insegnamento non ha mai
concesso il tempo per imparare. Fichte, infatti, sostiene seriamente
il liberum arbitrium indifferentiae [libero arbitrio di
indifferenza], adducendo le più triviali ragioni (p. 160,
173, 205, 208, 237, 259, 261).
Chi non è ancora perfettamente convinto che un motivo, anche
se agendo tramite il medium [mezzo] della conoscenza, è una
causa come le altre (quindi, come ogni altra causa, comporta la
stessa necessità dell’effetto, cosicché tutte le
azioni umane avvengono rigorosamente per necessità) è
una persona filosoficamente rozza e sprovvista delle basi della
conoscenza filosofica. Comprendere la rigorosa necessità
delle azioni umane costituisce la linea di demarcazione che separa
le teste filosofiche dalle altre. Oltrepassando questo linea, Fichte
dimostra chiaramente di appartenere alle altre.
Il fatto poi di affermare cose in netta contraddizione con quanto
precedentemente lui stesso ha detto (seguendo le orme di Kant, p.
303), come pure molte altre contraddizioni nei suoi scritti,
dimostra che Fichte non ha mai seriamente ricercato la
verità, né aveva alcun salda convinzione fondamentale.
Ma questa per i suoi scopi non era affatto necessaria.
La cosa più ridicola poi è che quest’uomo sia
diventato famoso per la sua rigorosa logica, poiché la gente
ha confuso il rigore logico con il suo tono pedante nel dimostrare
prolissamente cose banali.
L’esposizione completa del sistema del fatalismo morale di Fichte si
trova nel suo ultimo scritto La dottrina della scienza esposta nelle
sue linee generali (Berlino, 1810), notevole per avere solo 46
pagine in formato 12 e tuttavia contenere tutta la sua filosofia in
nuce [nel nucleo]. È un libro da consigliare a chi
giustamente ritiene che il proprio tempo sia troppo prezioso per
essere sprecato con le più voluminose opere di quest’uomo,
scritte con la prolissità e la noiosità di Christian
Wolff, con l’intento non di istruire, ma di ingannare il lettore. In
questo breve scritto (p. 32) si dice:
“L’intuizione di un mondo sensibile aveva il solo scopo di
permettere all’io di vedere se stesso in questo mondo come un dovere
assoluto”.
Poi (p. 33 e p. 36) si dice addirittura:
“L’obbligo della visibilità dell’obbligo”,
e:
“Un obbligo di intuire che io ho l’obbligo”.
Fino a tal punto è dunque arrivata subito dopo Kant la forma
imperativa della sua etica, con il suo ‘obbligo’ campato in aria -
un exemplar vitiis imitabile [un modello imitabile anche nei suoi
difetti] - che essa ha escogitato per avere un comodo poà
stî [pu sto: punto di appoggio].
D’altro canto, tutto quanto abbiamo fin qui detto non cancella il
merito di Fichte, che consiste nell’aver oscurato - con i
superlativi boriosi, con le stravaganze e con l’insensatezza,
camuffata da profondità di pensiero, dei suoi Fondamenti
dell’intera dottrina della scienza - e nell’aver addirittura
scacciato la filosofia di Kant (questo tardo capolavoro della
profondità del pensiero umano) dalla nazione stessa dove essa
era sorta.
In questo modo, infatti, Fichte è incontestabilmente riuscito
a dimostrare al mondo intero quale possa essere la competenza
filosofica del pubblico tedesco. Questo pubblico si è
lasciato truffare come un bambino, al quale si sfila dalle mani un
prezioso gioiello e gli si da in cambio un giocattolo di legno di
Norimberga.
La fama che Fichte si è conquistato in questo modo vive di
credito ancora oggi. Il suo nome viene regolarmente citato accanto a
quello di Kant, come HraklÁj kaˆ p…qhkoj [Eraklés
kài pìthekos: Ercole e la scimmia],164 e spesso viene
addirittura posto prima di quello di Kant.165
Il suo esempio ha chiamato alla ribalta quei successori che tutti
conosciamo, animati dallo stesso spirito e coronati dallo stesso
successo nell’arte della mistificazione filosofica del pubblico
tedesco. Ma non è il caso di parlare qui diffusamente di
queste persone, anche se le loro ragguardevoli opinioni vengono
ancora esposte in lungo e in largo, e discusse con serio cipiglio
dai professori di filosofia, come se si trattasse realmente di
filosofi.
Dobbiamo piuttosto ringraziare Fichte, per aver messo a disposizione
del tribunale dei posteri una sovrabbondanza luculliana di atti per
procedere a una revisione. In quasi tutte le epoche i posteri sono
la corte di cassazione per giudicare il vero merito del mondo
contemporaneo, come il giudizio universale per giudicare i santi.
iii - Motivazione dell’etica
§ 12 Requisiti
Anche la motivazione dell’etica di Kant, ritenuta da sessant’anni
come un saldo fondamento, mostra invece di essere un inammissibile
presupposto e un semplice travestimento della morale teologica, e
affonda così, davanti ai nostri occhi, nel baratro profondo -
probabilmente incolmabile - degli errori filosofici.
Do per scontato che il lettore sappia anche che i precedenti
tentativi di motivare l’etica sono ancora meno soddisfacenti di
quello di Kant. Essi sono per lo più supposizioni non provate
e campate in aria. Allo stesso tempo - come la motivazione data da
Kant - sono artificiose sottigliezze che richiedono le più
sottili distinzioni e che si appoggiano sui concetti più
astratti. Sono improbabili combinazioni, regole euristiche,
affermazioni in equilibrio sulla punta di uno spillo, massime
montate sui trampoli, dall’alto delle quali non si riesce più
a scorgere la vita reale e il suo trambusto. Sono comunque tutte
cose perfettamente adatte per rimbombare nelle sale universitarie e
per esercitare l’acume del pensiero.
Tuttavia nessuna di esse può essere ciò che desta in
ogni uomo un reale e sentito appello ad agire secondo giustizia e a
fare del bene, e tantomeno ciò che può
controbilanciare la forte tendenza verso l’ingiustizia e la durezza
di cuore, o ciò che sta alla base del rimorso di coscienza.
Voler far risalire il rimorso di coscienza alla violazione di quelle
massime cervellotiche può solo servire a rendere ridicole le
stesse massime. Se esaminiamo la questione seriamente, combinazioni
artificiose di concetti di quel tipo non potranno mai contenere il
vero impulso verso la giustizia e l’amore per il prossimo.
Questo impulso dovrebbe essere piuttosto qualcosa che richieda meno
riflessione e ancor meno astrazione e combinazione, che possa
parlare a ciascuno indipendentemente dalle sue capacità
intellettuali, anche alla persona più rozza. Qualcosa che
poggi sulla comprensione intuitiva e che si faccia sentire partendo
direttamente dalla realtà delle cose.
Fintanto che l’etica non avrà dimostrato un fondamento di
questo tipo, continui pure a disputare e a mettersi in bella mostra
nelle aule universitarie, tanto la vita reale se ne farà
beffe. Debbo pertanto dare ai moralisti vari il paradossale
consiglio di guardarsi un poco attorno nella vita reale degli
uomini.
§ 13 Punto di vista scettico
Se gettiamo lo sguardo indietro sui tentativi fatti invano da oltre
duemila anni per trovare un fondamento certo della morale, dobbiamo
forse dedurre che non esiste una morale naturale indipendente dagli
ordinamenti dettati dall’uomo?
È forse la morale solo un artefatto, un mezzo escogitato per
domare meglio il genere umano, egoista e malvagio, che senza il
supporto di una religione positiva [che detta comandamenti] non
potrebbe stare in piedi, poiché privo di una legittimazione
propria e di un fondamento naturale?
Eppure il giudice e il poliziotto non possono arrivare dappertutto.
Esistono misfatti troppo difficili da scoprire, addirittura alcuni
che non è possibile punire legalmente, dove quindi la
pubblica sicurezza ci lascia soli. Oltretutto la legge statale ci
può al massimo costringere a praticare la giustizia - non
fosse altro perché ognuno desidera soprattutto beneficiarne
personalmente, più che praticarla - ma non ci può
certo costringere ad amare il prossimo o a fare del bene.
Queste considerazioni hanno fatto sorgere l’ipotesi che la morale
poggi semplicemente sulla religione e che lo scopo di entrambe sia
completare l’inevitabile insufficienza delle istituzioni e delle
leggi dello Stato. Pertanto non esisterebbe una morale naturale,
fondata semplicemente sulla natura delle cose o dell’uomo. Questo
spiegherebbe perché i filosofi invano si son dati da fare nel
cercare il fondamento della morale.
Una simile opinione è abbastanza plausibile, ed è
già stata formulata dai pirroniani:
“Nulla è buono o cattivo per natura, ma è l’arbitrio
umano che pronuncia questi giudizi, come dice Timone”.166
Anche nei tempi moderni alcuni eminenti pensatori si sono espressi
in questo senso. Questa ipotesi merita pertanto di essere
accuratamente esaminata, anche se sarebbe molto più comodo
scartarla immediatamente, gettando un’occhiata inquisitrice nella
coscienza di chi ha avuto un simile pensiero.
Commetterebbe un grosso errore puerile chi pensasse che tutte le
azioni conformi alla giustizia e alla legalità umana abbiano
un’origine morale. È vero piuttosto che la giustizia
praticata dagli uomini e la genuina onestà di cuore stanno in
un rapporto simile a quello che intercorre tra la cortesia e il
genuino amore del prossimo. Solo quest’ultimo è capace di
vincere l’egoismo realmente, non solo in apparenza, come fa la
cortesia.
La rettitudine d’animo sbandierata in ogni occasione - la quale
vorrebbe essere ritenuta al di sopra di ogni sospetto ed è
accompagnata dalla massima indignazione che si scatena al minimo
cenno di sospetto nei suoi confronti, pronta a degenerare nell’ira
più focosa - sono cose che solo una persona inesperta e
ingenua può scambiare sui due piedi per denaro sonante, ossia
pensare che sia il frutto di delicati sentimenti o di una coscienza
morale.
In realtà la giustizia che viene comunemente praticata nelle
relazioni umane - affermata come [il loro] principio granitico -
poggia soprattutto su due necessità esteriori. Innanzitutto
sull’ordinamento legislativo, grazie al quale la forza pubblica
protegge i diritti di ogni cittadino, e poi sulla sentita esigenza
di godere di un buon nome e dell’onore civile, per poter fare strada
nella società.
Al mondo, infatti, le azioni di ogni uomo sono tenute sott’occhio
dall’opinione pubblica, la quale rigorosamente e implacabilmente non
perdona mai un solo passo falso, anzi lo rinfaccerà al
trasgressore fino alla fine dei suoi giorni, come una indelebile
macchia. E in questo l’opinione pubblica è davvero saggia,
poiché è convinta - in base al principio operari
sequitur esse [ciò che uno fa deriva da ciò che uno
è] - che il carattere di una persona è immutabile,
cosicchè chi ha compiuto una sola volta una determinata
azione, al ripresentarsi delle medesime circostanze, la
rifarà inesorabilmente.
Questi due sono dunque i guardiani che sorvegliano la giustizia
sociale, senza i quali - diciamolo francamente - ci troveremmo nei
guai, soprattutto dal punto di vista della proprietà privata,
questo punto cruciale della vita di ogni uomo, attorno al quale
ruota ogni sua attività.
Nel campo della proprietà privata, infatti, i motivi
puramente etici (ammesso che esistano) per comportarsi onestamente
possono in generale trovare applicazione solo dopo un lungo giro.
Essi, infatti, possono riferirsi innanzitutto e immediatamente solo
alla proprietà per diritto naturale; alla proprietà
per diritto legale, invece, solo mediatamente, poiché il
diritto legale poggia su quello naturale.
Il diritto naturale vale esclusivamente per la proprietà
acquisita grazie alla personale fatica del proprietario. Quando
questo tipo di proprietà viene sottratto, lo è anche
il lavoro fatto dal proprietario, il quale si trova così
derubato.
La teoria del diritto del primo occupante, che io respingo
incondizionatamente, non può essere trattata in questa
sede.167
Senza dubbio la proprietà per diritto legale, anche se
attraverso mille fasi intermedie, deve all’origine poggiare sulla
proprietà per diritto naturale. Ma quanto è lontana
nella maggior parte dei casi la proprietà legale dalla sua
fonte originale per diritto naturale! Di solito vi giunge attraverso
un collegamento molto difficile, se non addirittura impossibile da
dimostrare.
La proprietà legale, infatti, può essere ereditata,
acquisita per matrimonio, vinta alla lotteria, oppure anche
guadagnata non proprio con il sudore della fronte, bensì
grazie a una intelligente riflessione o ad un’idea improvvisa, ad
esempio, nel mercato azionario. A volte addirittura grazie a un’idea
insensata che, grazie al caso, il deus eventus [il dio evento] ha
voluto onorare e coronare.
Solo nella minoranza dei casi si tratta veramente del frutto di
fatica concreta e di lavoro. In questi casi rientra anche la fatica
psichica, come quella di avvocati, medici, impiegati, insegnanti,
che agli occhi della gente rozza sembra costare meno.
Ci vuole una considerevole cultura per riconoscere il diritto
naturale anche a questo tipo di proprietà e per rispettarlo
in base ad un impulso puramente morale. Molti invece, nel loro
intimo, considerano la proprietà degli altri come posseduta
solo per diritto legale, cosicché se trovassero il modo per
strappargliela utilizzando, o anche raggirando, la legge, lo
farebbero senza alcuna esitazione. Sono infatti convinti che gli
altri la perderebbero nello stesso modo in cui l’hanno guadagnata, e
che le proprie pretese siano altrettanto valide quanto quelle dei
precedenti proprietari.
Dal loro punto di vista, nella società civile il diritto del
più astuto è subentrato al diritto del più
forte. Il ricco, invece, è spesso di una rettitudine
meticolosa, poiché ha particolarmente a cuore una determinata
regola e sostiene una massima, sul cui rispetto poggia ogni sua
proprietà, compresi i privilegi che ne derivano. Il ricco,
quindi, prende effettivamente sul serio la massima suum cuique [a
ciascuno il suo] e non se ne separa.
Di fatto esiste un simile attaccamento oggettivo alla lealtà
e alla fiducia, con la ferma determinazione di mantenerle sacre.
Questo attaccamento poggia semplicemente sul fatto che la
lealtà e la fiducia stanno alla base di ogni libera relazione
tra gli uomini, di ogni buon ordinamento e del sicuro diritto di
proprietà. Sono virtù che spesso tornano a vantaggio
generale e che quindi meritano di essere mantenute anche a costo di
sacrifici, proprio come quando per un buon terreno si spende anche
una cifra.
L’onestà fondata su questi principi è riscontrabile di
solito presso i benestanti, o persone che esercitano per lo meno
un’attività redditizia. Soprattutto tra i commercianti, i
quali sono perfettamente convinti che i traffici e il commercio
hanno un indispensabile sostegno nella fiducia e nel credito.
Proprio per questo motivo l’onore dei commercianti è del
tutto particolare.
Il povero, invece, il quale possiede troppo poco e, a causa della
disparità di mezzi, si vede condannato alle privazioni e ad
un duro lavoro, mentre gli altri, ai suoi occhi, vivono
nell’abbondanza e nell’ozio, difficilmente riconoscerà che
questa disparità sia dovuta a un’altra disparità, in
termini di merito e di onesto guadagno.
Dato che il povero non riconosce questi meriti, da cos’altro
potrebbe trarre lo stimolo puramente morale verso l’onestà,
per trattenersi dall’allungare la mano sull’abbondanza degli altri?
Di solito è la legge che lo trattiene. Ma se una volta tanto
si presentasse la rara occasione, tramite la quale lui - sicuro di
farla franca - potesse in un sol colpo scaricare dalle proprie
spalle il peso opprimente della miseria, che la vista del benessere
degli altri rende ancor più gravoso, e impadronirsi dei beni
così spesso invidiati, cosa potrebbe trattenere la sua mano?
Dei dogmi religiosi? Raramente la fede è così solida.
Un motivo puramente morale per agire secondo giustizia?
Probabilmente solo in alcuni casi.
Nella maggior parte dei casi, invece, sarà solo la
preoccupazione - molto sentita anche dal più modesto degli
uomini - del proprio buon nome e onore civile, e il pericolo
evidente di venire espulso per sempre, a causa di una simile azione,
dalla grande loggia massonica degli uomini onesti (quelli che
rispettano la legge della rettitudine, dopo essersi spartiti tra di
loro e aver amministrato ogni proprietà sulla terra).
È il timore di diventare, a causa di una sola azione
disonesta, un paria della società civile, uno di cui nessuno
più si fida, la cui compagnia tutti fuggono, tagliato fuori
da ogni possibilità di miglioramento, in una parola ‘uno che
ha rubato’, al quale si appioppa il detto: “Chi ruba una volta
è ladro per sempre”.
Dunque sono questi i due guardiani della pubblica rettitudine. Chi
ha vissuto con gli occhi ben aperti dovrà convenire che la
maggior parte dell’onestà nei rapporti sociali è
soprattutto merito loro.
Senza dubbio esistono anche persone che sperano di sfuggire alla
sorveglianza di quei due guardiani e che considerano la rettitudine
e l’onestà solo come un emblema, come una bandiera dietro la
quale poter perfezionare le loro ruberie con maggior successo.
Non dobbiamo quindi trascendere in sacro fervore, andando su tutte
le furie, quando, una volta tanto, qualche moralista solleva il
problema, se mai la comune giustizia e onestà - in fin dei
conti - non siano solo una convenzione, e neppure quando poi,
andando a fondo della questione, si adopera per ricondurre anche
tutta la morale convenzionale a ragioni più recondite e
mediate, a un fondamento - tutto sommato - semplicemente egoistico
(come ai loro tempi hanno cercato di fare Holbach, Helvetius,
d’Alembert e altri).
Questo è certamente vero addirittura per la maggior parte
delle azioni secondo giustizia (come ho precedentemente dimostrato).
E non c’è alcun dubbio che sia vero anche per una
considerevole parte delle azioni filantropiche. Queste, infatti,
vengono spesso compiute per ostentazione, molto spesso nella
speranza di una ricompensa nell’altro mondo elevata al quadrato o al
cubo, e anche per altri fini egoistici.
Tuttavia è certamente vero che avvengono anche azioni di
amore disinteressato verso il prossimo e di giustizia del tutto
spontanea.
Prova dell’esistenza di simili azioni (senza fare riferimento a
fatti opinabili, ma solo a fatti realmente accaduti) sono alcuni
indiscutibili casi in cui un povero, senza correre il pericolo di
essere perseguito legalmente e neppure di essere semplicemente
scoperto o sospettato, ha tuttavia restituito a un ricco ciò
che gli apparteneva. E ancora, quando un oggetto perso e poi
ritrovato, o il denaro depositato da una terza persona in seguito
deceduta, sono stati restituiti ai loro legittimi proprietari o agli
eredi. Oppure quando il deposito di valori fatto sulla fiducia da un
esule presso un povero prima di fuggire, è stato da
quest’ultimo fedelmente custodito e al ritorno gli è stato
restituito.
Senza dubbio casi di questo tipo esistono. La sorpresa, la
commozione e l’ammirazione con cui li accogliamo dimostrano
chiaramente che essi appartengono alle cose inaspettate, alle rare
eccezioni.
In realtà esistono persone veramente oneste, come pure esiste
veramente il quadrifoglio. Amleto non esagera affatto quando dice:
“Visto come va il mondo, essere onesto è come essere uno su
diecimila”.168
Per controbattere l’obiezione che alla base delle suddette azioni ci
siano dei dogmi religiosi - cosicché l’autore avrebbe tenuto
conto di una punizione o di un premio nell’altro mondo - potrei
citare alcuni casi in cui l’autore non aveva alcuna fede religiosa
(un evento poi non così raro come il pubblico riconoscimento
del fatto stesso).
Contro il punto di vista scettico si suole fare appello innanzitutto
alla coscienza. Tuttavia gli scettici sollevano anche molti dubbi
sull’ipotesi che l’origine naturale della moralità stia nella
coscienza. Come minimo esiste anche una conscientia spuria [falsa
coscienza] che spesso viene confusa con quella vera. Spesso,
infatti, il rimorso e l’inquietudine che qualcuno prova per
ciò che ha fatto, in fondo non è altro che la paura
delle conseguenze che gli potrebbero succedere.
La violazione di norme imposte dall’alto, arbitrarie e addirittura
senza senso, può torturare qualcuno con un rimorso intimo del
tutto simile a quello della coscienza. Ad esempio, qualche ebreo
bigotto potrebbe davvero sentirsi profondamente addolorato per avere
fumato la pipa il sabato sera a casa sua, nonostante nell’Esodo
(35.3) stia scritto:
“Non accenderete il fuoco in giorno di sabato, in nessuna delle
vostre dimore”.
Parecchi gentiluomini o ufficiali, in seguito a una qualsiasi
accusa, sono rosi nel loro intimo dal rimorso di non essersi
attenuti scrupolosamente al codice dei pazzi, altrimenti detto
‘codice d’onore cavalleresco’. La cosa può degenerare a tal
punto che parecchi membri di questa classe,
nell’impossibilità di mantenere la parola d’onore data
oppure, in una lite, di ottemperare al suddetto codice con un
duello, si sparano (ho visto entrambi i casi). La stessa persona
è invece capace ogni giorno, senza il minimo scrupolo, di non
mantenere la parola data, fintanto che questa non sia accompagnata
dallo schibboleth [parola fantomatica]: ‘onore’.
In generale, ogni incongruenza, ogni mancanza di attenzione, ogni
azione contraria ai nostri propositi, principi e convinzioni di
qualunque tipo, addirittura ogni indiscrezione, ogni passo falso e
ogni balourdise [balordaggine] ci rodono poi dentro e ci lasciano
una spina nel cuore. Parecchi si stupirebbero nel vedere di cosa
è fatta la propria coscienza, che a loro sembra così
imponente: 1/5 di timore degli altri, 1/5 di deisidaimonia, 1/5 di
pregiudizio, 1/5 di vanità e 1/5 di abitudine. Tutto sommato,
parecchi non sono meglio di quell’inglese che sinceramente ha
confessato: “I cannot afford to keep a conscience” [non posso
permettermi il lusso di avere una coscienza].
Le persone religiose di ogni credo per ‘coscienza’ non intendono
altro che i dogmi e le prescrizioni della loro religione, insieme
alla loro personale verifica, in base a quelle norme, delle azioni
compiute. In questo senso vengono intese le espressioni ‘obbligo di
coscienza’ e ‘libertà di coscienza’. I teologi, gli
scolastici e i casisti [teologi ‘esperti’ nell’analizzare e
risolvere i casi di coscienza] del medioevo e di epoche posteriori
la intendevano proprio in questo modo. Tutto quanto uno sapeva sui
principi e sulle prescrizioni della Chiesa, insieme al proposito di
credere in essi e di seguirli, costituiva la sua coscienza. Di
conseguenza c’era una coscienza che dubita, che crede, che sbaglia,
ecc., per la cui rettifica ciascuno aveva lo specifico consigliere
di coscienza.
Per capire quanto poco il concetto di coscienza (come altri
concetti) sia determinato dal suo oggetto, in quanti modi diversi
venga inteso da persone diverse, e con quante oscillazioni e
incertezze compaia presso i vari autori, si veda la Storia delle
teorie della coscienza di Stäudlin (1824).
Tutto questo non basta per accreditare la reale esistenza del
concetto di coscienza ed ha quindi fatto sorgere la domanda: esiste
realmente una genuina coscienza innata? Nel paragrafo § 10,
dedicato alla teoria della libertà, ho già avuto modo
di chiarire brevemente il mio concetto di coscienza, sul quale
ritornerò in seguito.
Queste obiezioni degli scettici non bastano assolutamente per negare
l’esistenza di una moralità genuina, tuttavia bastano per
moderare le nostre aspettative riguardo all’attitudine morale
dell’uomo e, con essa, al fondamento naturale della moralità.
Infatti, molte delle cose che vengono attribuite alla
moralità risultano poi derivare da altri impulsi.
La constatazione del marciume morale del mondo dimostra a
sufficienza che la molla che spinge verso il bene non è tra
le più poderose. Spesso, infatti, questa molla non ha
efficacia, nonostante non vi siano stimoli opposti a contrastarla,
anche se in questo campo la differenza di carattere individuale
svolge un ruolo determinante. Oltretutto, smascherare il marciume
morale non è facile, poiché le sue manifestazioni sono
ostacolate e celate dall’ordinamento legislativo, dalla
necessità di salvare l’onore e perfino dalla gentilezza.
Infine, come se non bastasse, con l’educazione si cerca di
promuovere la moralità nei giovani presentando loro la
giustizia e la virtù come se fossero le massime comunemente
praticate al mondo. Solo più tardi l’esperienza
mostrerà loro - spesso con gravi conseguenze - che le cose
stanno in tutt’altro modo.
Scoprire, infatti, che proprio i loro maestri sono stati i primi a
ingannarli in gioventù, avrà un effetto negativo sulla
moralità dei giovani. Meglio avrebbero fatto presentandosi
come primo esempio di sincerità e di onestà, dicendo
loro chiaro e tondo:
“Il mondo è in uno stato penoso e gli uomini non sono come
dovrebbero essere. Ma non lasciarti fuorviare; cerca di essere tu il
migliore”.
Tutti questi fattori - come abbiamo detto - ostacolano lo
smascheramento della reale immoralità del genere umano.
Lo Stato, questo capolavoro dell’egoismo consapevole, razionale e
cumulativo di tutti, ha messo la protezione dei diritti di ognuno
nelle mani di una forza infinitamente superiore a quella del
singolo, costringendolo a rispettare il diritto degli altri. In
questo modo l’egoismo senza limiti di quasi tutti, la
malvagità di molti e la crudeltà di parecchi, non
hanno via libera: la costrizione li imbriglia tutti.
L’equivoco che ne deriva è così grande che quando, nei
casi particolari in cui la forza dello Stato viene a mancare o
è elusa, vediamo sorgere l’avidità insaziabile, la
vile bramosia di denaro, la falsità profondamente nascosta e
la malvagità degli uomini, allora lo spavento ci fa spesso
indietreggiare e lanciare un urlo, come se ci fossimo imbattuti in
un mostro mai visto prima. Simili situazioni sarebbero all’ordine
del giorno se non esistessero la costrizione imposta dalla legge e
la necessità di conservare l’onore civile.
Bisogna leggere la cronaca nera e il resoconto di stati di anarchia,
per vedere cosa l’uomo, dal punto di vista morale, realmente
è. Le mille persone che qui, davanti ai nostri occhi, si
mischiano pacificamente tra di loro, dovrebbero essere viste come
altrettanti lupi e tigri, il cui muso è serrato da una
robusta museruola. Al pensiero che per una volta sola la forza dello
Stato venga meno, ossia che la museruola venga tolta, ogni persona
avveduta si metterebbe a tremare di fronte allo spettacolo che ci si
dovrebbe aspettare.
Questo dimostra quanta poca fiducia ognuno in fondo ha nella
religione, nella coscienza o in qualsiasi altro fondamento naturale
della morale, qualunque possa essere.
Eppure, proprio in quel momento, di fronte alla potenza scatenata
dell’immoralità, la genuina molla di spinta morale dell’uomo
mostrerebbe apertamente la sua efficienza e potrebbe così
essere facilmente riconosciuta. Allo stesso tempo si mostrerebbe,
senza veli, la incredibilmente grande diversità morale dei
caratteri, tanto grande quanto la diversità intellettuale
delle teste (che non è certamente poca).
Forse qualcuno obietterà che l’etica non ha nulla a che fare
con ciò che gli uomini realmente fanno, ma che sia piuttosto
la scienza che stabilisce cosa gli uomini dovrebbero fare.
Questa è proprio l’affermazione di principio che io nego.
Nella parte critica di questo trattato, ho già dimostrato a
sufficienza che il concetto di ‘obbligo’ - ossia la forma imperativa
dell’etica - vale solo per la morale teologica e che al di fuori di
questa non ha alcun senso. Io attribuisco invece all’etica il
compito di interpretare il comportamento estremamente diverso, dal
punto di vista morale, degli uomini, di chiarirlo e di ricondurlo al
suo fondamento primo.
Non rimane quindi altra via che quella empirica per trovare il
fondamento dell’etica, ossia per indagare se esistono in generale
alcune azioni, alle quali possiamo attribuire un autentico valore
morale. Queste saranno le azioni di spontanea giustizia, di puro
amore verso il prossimo e di reale nobiltà d’animo.
Bisognerà allora considerare queste azioni come un fenomeno
particolare, che deve essere chiarito correttamente, ricondurre
questo fenomeno al suo vero fondamento e identificare lo specifico
impulso che spinge gli uomini ad azioni di questo tipo,
assolutamente diverse da tutte le altre.
Questa molla di spinta, assieme alla suscettibilità delle
singole persone nei suoi confronti, costituisce il motivo ultimo
della moralità. Identificandolo, avremo trovato il fondamento
della morale.
Questo è il modesto cammino che io indico all’etica. Chi non
lo ritiene abbastanza elevato, cattedratico e accademico,
poiché non contiene alcuna struttura a priori, né
alcun codice assoluto di leggi per tutti gli esseri ragionevoli in
abstracto [in astratto], può tornarsene all’imperativo
categorico, allo schibboleth [parola fantomatica] della
‘dignità dell’uomo’, ai vuoti modi di dire, alle
fantasticherie e alle bolle di sapone delle scuole filosofiche,
ossia a quei principi di cui l’esperienza si fa beffe ad ogni passo,
che nessuno conosce e di cui nessuno ha mai sentito parlare al di
fuori delle sale universitarie.
Invece il fondamento che noi troveremo, seguendo il cammino da me
proposto, è supportato dall’esperienza. Ogni giorno e ogni
ora questo fondamento fornisce una tacita testimonianza di sé
stesso.
§ 14 Molle di spinta antimorali169
La principale e fondamentale molla di spinta per gli uomini e per
gli animali è lo egoismus170 [egoismo], ossia l’impulso ad
esistere e al proprio benessere.
L’egoismo è negli animali, come nell’uomo, completamente
legato all’intimo nucleo del proprio essere, anzi, si identifica con
esso. Tutte le azioni scaturiscono di regola dall’egoismo e proprio
nell’egoismo bisogna di solito ricercare la spiegazione di una
determinata azione. Sempre all’egoismo fa riferimento di solito il
calcolo dei mezzi, con i quali si cerca di guidare una persona verso
un determinato fine. Per sua natura l’egoismo non ha confini.
L’uomo vuole incondizionatamente preservare la propria esistenza, la
vuole libera dalla sofferenza, compreso ogni tipo di mancanza o di
privazione, vuole la maggior quantità possibile di benessere,
vuole ogni piacere di cui è capace e addirittura - quando
possibile - cerca di sviluppare dentro di sé nuove
capacità per provare piacere. Tutto ciò che si oppone
agli sforzi del suo egoismo provoca in lui dispiacere, ira, odio, ed
egli cercherà di distruggerlo in quanto suo nemico. L’uomo
vorrebbe godere e possedere tutto, ma poiché non è
possibile, vorrebbe almeno dominare ogni cosa. ‘Tutto per me e
niente per gli altri’ è la sua parola d’ordine.
L’egoismo è colossale, più grande del mondo. Se a ogni
individuo fosse dato di scegliere tra la distruzione sua o del resto
del mondo, non c’è bisogno che vi dica cosa la maggior parte
delle persone sceglierebbe. Ognuno si ritiene al centro del mondo e
ogni cosa viene riferita solo a sé stesso.
Di tutto ciò che succede - ad esempio, i grandi cambiamenti
nel destino dei popoli - ognuno fa subito riferimento al proprio
interesse e, anche se piccolo e mediato, a questo pensa prima di
ogni altra cosa. Non esiste un contrasto maggiore tra la grande ed
esclusiva attenzione che ognuno presta al proprio Io e
l’indifferenza che normalmente tutti gli altri hanno proprio di
quell’Io (esattamente la stessa che lui prova nei confronti degli
altri).
È perfino comico osservare gli innumerevoli individui,
ciascuno dei quali ritiene - per lo meno dal punto di vista pratico
- solo sé stesso reale, mentre considera gli altri quasi come
fantasmi.
Questo dipende dal fatto che ognuno è dato direttamente a
sé stesso, mentre gli altri gli sono dati solo in modo
mediato, ossia come rappresentazioni dentro la propria testa,
cosicché l’immediatezza fa valere il proprio diritto. In
virtù della soggettività essenziale di ogni coscienza,
ognuno vede sé stesso come il mondo intero. Tutto ciò
che è oggettivo, infatti, esiste solo indirettamente come
semplice rappresentazione ad opera del soggetto, cosicché
tutto dipende sempre dalla coscienza di sé.
L’unico mondo che ogni uomo realmente conosce, e di cui è
consapevole, è quello che porta dentro di sé: il mondo
come sua rappresentazione. Ognuno è [ai propri occhi] il
centro del mondo e crede di essere tutto in tutto, il possessore di
ogni realtà. Nulla quindi può essere per lui
più importante di sé stesso.
Tuttavia mentre il suo Io, dal suo punto di vista soggettivo, si
configura in queste colossali dimensioni, dal punto di vista
oggettivo si riduce quasi a un nulla, a un miliardesimo - circa -
dell’attuale popolazione mondiale [anno 1840]. Oltretutto ognuno
è perfettamente consapevole che proprio quel suo Io - la cosa
più importante di tutte, quel microcosmo dal quale per
semplice modificazione, o accidente, sorge il macrocosmo, ossia il
suo mondo intero [come rappresentazione] - dovrà scomparire
con la morte, che per lui equivale alla fine del mondo.
Questi sono dunque gli elementi di cui, in base alla volontà
di vivere, l’egoismo si nutre, per poi estendersi continuamente,
come un ampio fossato, tra uomo e uomo.
Se per caso, una volta tanto, qualcuno riesce davvero a saltare al
di là di questo fossato per aiutare un altro, allora è
quasi un miracolo, che desta stupore e che strappa l’applauso.
Precedentemente (nel paragrafo § 8), durante l’esposizione del
principio della morale kantiana, ho avuto modo di mostrare come
l’egoismo si manifesti nella vita di ogni giorno e riesca sempre a
fare capolino da qualche angolo, nonostante la cortesia che gli si
applica davanti come una foglia di fico per nasconderlo.
La cortesia, infatti, è il rinnegamento convenzionale e
sistematico dell’egoismo nelle piccole cose dei rapporti quotidiani.
Si sa benissimo che è una ipocrisia, tuttavia la si esige e
la si loda. Infatti ciò che essa nasconde (l’egoismo)
è così brutto che nessuno vuole vederlo, nonostante si
sappia benissimo che esiste. Come quando si vuole che gli oggetti
ripugnanti vengano perlomeno nascosti dietro una tenda.
Siccome l’egoismo persegue sistematicamente i suoi scopi, qualora
non venisse contrastato né da forze esterne (tra le quali
bisogna annoverare anche ogni tipo di timore di potenze naturali o
soprannaturali), né dall’impulso morale genuino, all’ordine
del giorno della massa infinita di individui egoisti ci sarebbe
sempre il bellum omnium contra omnes [la guerra di tutti contro
tutti], a scapito di tutti.
Pertanto la ragione che riflette ha prontamente escogitato
l’istituzione dello Stato, il quale, fondato sulla paura reciproca
della violenza, riesce a prevenire le conseguenze nocive
dell’egoismo di tutti, per lo meno fin quando la paura reciproca ha
effetto.
Ma quando quelle due potenze che gli si oppongono [la forza esterna
dello Stato e la molla interna di spinta morale] non hanno alcun
effetto, l’egoismo si mostra subito in tutta la sua terribile
dimensione, e questo non è certo un bello spettacolo.
Nel pensare a come caratterizzare con un solo tratto la veemenza
dell’egoismo, per esprimere in maniera concisa la forza di questa
potenza antimorale, nella ricerca di qualche enfatica iperbole ho
trovato la seguente: qualcuno sarebbe in grado di ammazzare un altro
solo per lucidare i propri stivali con il suo grasso. Tuttavia
dubito che sia realmente un’iperbole.
L’egoismo è quindi la prima e la più importante -
anche se non l’unica - potenza che l’impulso morale deve combattere.
Già da questo si capisce immediatamente che, per scendere in
campo contro un simile avversario, l’impulso morale deve essere
qualcosa di più reale che un sofistico cavillo o una bolla di
sapone aprioristica.
In guerra il primo passo da fare è la ricognizione del
nemico. Nell’imminente battaglia contro l’egoismo, alla principale
potenza da un lato si contrapporrà prevalentemente,
dall’altro lato, la virtù della giustizia, la quale - a mio
parere - è la prima e vera virtù cardinale. La
virtù dell’amore verso il prossimo, invece, si
contrapporrà prevalentemente alla cattiveria e alla
malvagità. Esaminiamo, quindi, innanzitutto l’origine e le
varie graduazioni di questi [altri due] vizi.
La cattiveria nei gradi più bassi è molto comune,
addirittura consueta, e si spinge facilmente fino ai gradi
più alti. Goethe ha perfettamente ragione quando afferma:
“In questo mondo, l’indifferenza e l’antipatia sono di casa”.171
È per noi una vera fortuna che la prudenza e la cortesia vi
stendano sopra il loro mantello e non ci lascino vedere quanto
comune è la cattiveria reciproca, né come il bellum
omnium contra omnes [la guerra di tutti contro tutti] venga
regolarmente portato avanti, almeno nel pensiero.
Tuttavia esso a volte fa capolino - ad esempio - nella maldicenza,
così frequente e spietata. Diventa poi assolutamente evidente
quando scoppia nell’ira, la quale di solito supera di molte
lunghezze il motivo che l’ha scatenata. L’ira non potrebbe
manifestarsi così violentemente se non fosse stata compressa,
come la polvere da sparo nello schioppo, sotto forma di odio covato
nell’intimo e lungamente represso.
La cattiveria sorge in gran parte dagli inevitabili conflitti a cui
l’egoismo va incontro ad ogni passo. Inoltre, essa viene anche
oggettivamente destata dallo spettacolo di vizi, errori, debolezze,
pazzie, mancanze e imperfezioni di ogni tipo, che - più o
meno occasionalmente - ognuno offre agli altri.
La cosa può degenerare a tal punto che a parecchi, in momenti
di crisi ipocondriaca, il mondo potrebbe sembrare una mostra di
caricature dal punto di vista estetico, un manicomio dal punto di
vista intellettuale e un covo di briganti dal punto di vista morale.
Se poi questo malumore persistesse nel tempo, si trasformerebbe in
misantropia.
Una principale fonte di cattiveria è l’invidia. O meglio,
l’invidia suscitata dalla fortuna, dai possedimenti e dai privilegi
degli altri, è già essa stessa cattiveria. Nessuno
è esente dall’invidia. Già Erodoto dice:
“L’invidia è connaturata nell’uomo”.172
Tuttavia i gradi che può raggiungere sono molto diversi.
L’invidia più insanabile e velenosa è quella che
riguarda le capacità personali, poiché in questo caso
all’invidioso non rimane alcuna speranza. Allo stesso tempo è
anche la più degradante, poiché l’invidioso, in questo
caso, odia ciò che lui stesso dovrebbe amare e onorare.
Già il Petrarca lamentava:
“Di lor par che più d’altri invidia s’abbia,
Che per se
stessi son levati a volo,
Uscendo fuor della comune gabbia”.173
Un trattato completo sull’invidia si trova nel secondo volume dei
Parerga e Paralipomena (§ 114).
Da un certo punto di vista, il contrario dell’invidia è il
provare piacere delle disgrazie altrui. Mentre provare invidia
è umano, provare piacere delle disgrazie altrui è
diabolico. Non esiste alcun indice più sicuro di
malvagità di cuore, e di profonda indegnità morale,
che un lampo di puro e vivo piacere di fronte alle disgrazie altrui.
Si dovrebbe evitare per sempre la persona che ha manifestato un
simile sentimento.
“Questo è nero [di bile, di invidia]: state alla larga da
lui, Romani”.174
L’invidia e il piacere delle disgrazie altrui di per sé sono
solo teoriche: in pratica si traducono in malvagità e
crudeltà. Anche se l’egoismo può condurre a crimini e
a misfatti di ogni tipo, i danni e il dolore causati agli altri
dall’egoismo sono semplicemente un mezzo, non un fine, quindi sono
solo una conseguenza accidentale.
Per la malvagità e la crudeltà, invece, le sofferenze
e il dolore degli altri sono di per sé un fine, causarli
è un godimento. Per questo motivo esse sono due potenze
ancora più grandi di degradazione morale.
La massima dell’egoismo estremo è: neminem juva, imo omnes,
si forte conducit, laede [non aiutare nessuno; anzi fai del male a
chiunque, se la cosa ti può dare un vantaggio], quindi ancora
in maniera condizionata [da un ipotetico vantaggio].
La massima della malvagità è: omnes, quantum potes,
laede [fai del male a tutti, quanto più ti riesce]. Come il
compiacimento del male altrui è crudeltà a livello
teorico, così la crudeltà è il compiacimento
del male altrui a livello pratico. Il piacere teorico degenera in
pratico, appena sorge l’occasione.
Per mostrare i vizi particolari che scaturiscono da quei due vizi
fondamentali (egoismo e malvagità) bisognerebbe scrivere un
trattato completo sull’etica.
Dall’egoismo si dedurrebbero: avidità, ingordigia, libidine,
interesse personale, spilorceria, avarizia, ingiustizia, durezza di
cuore, orgoglio, boria, ecc. Dalla malvagità si dedurrebbero:
contrarietà, invidia, malevolenza, astiosità,
compiacimento del danno altrui, curiosità invadente,
calunnia, insolenza, petulanza, odio, collera, tradimento, perfidia,
brama di vendetta, crudeltà, ecc.
La prima radice è animalesca, la seconda diabolica. La
prevalenza dell’uno o dell’altro vizio, oppure dell’impulso morale
che dimostreremo in seguito, fornisce il criterio principale per
procedere alla classificazione dei caratteri. Nessuno è privo
di almeno un poco di questi due vizi e di quella virtù.
Con questo avrei terminato la terrificante parata delle potenze
antimorali, che ricorda un poco quella dei principi delle tenebre
nel Pandemonio di Milton.
Il mio piano prevedeva di prendere innanzitutto in considerazione
gli aspetti più oscuri della natura umana, affinché il
mio cammino venisse chiaramente distinto da quello di tutti gli
altri moralisti, facendolo assomigliare al cammino seguito da Dante
che, come primo passo, porta all’inferno.
Da questa panoramica delle potenze antimorali risulta chiaramente
quanto sia difficile il problema di trovare una molla di spinta
morale che possa spingere l’uomo ad un comportamento opposto a tutte
quelle tendenze profondamente radicate nella sua natura e - qualora
l’esistenza di un simile impulso morale fosse confermata
dall’esperienza - di renderne conto in maniera soddisfacente e non
artificiosa.
Il problema è così difficile, che per la sua
soluzione, in favore dell’umanità in generale, si è
dovuto ricorrere al macchinario di un altro mondo.
Si è fatto ricorso agli dèi, la cui volontà e i
cui comandamenti stabilirebbero il comportamento morale da seguire.
Per dar peso ai loro comandamenti, gli dèi distribuirebbero
un premio o una punizione in questo o in un altro mondo, dove
verremmo trasferiti dopo la morte.
Se la fede in una dottrina di questo tipo si potesse radicare
dappertutto (operazione in ogni caso possibile tramite un
indottrinamento precoce) e se potesse ottenere l’effetto desiderato
(cosa molto più difficile, che trova ben poca conferma
nell’esperienza), dovremmo riscontrare un livello di legalità
[conformità alla legge (divina e statale)] nelle azioni umane
che va ben oltre i limiti garantiti dai tribunali e dalla polizia.
Tuttavia ognuno avverte chiaramente dentro di sé che questo
non è assolutamente ciò che propriamente si intende
per genuino sentimento morale. È evidente che tutte le azioni
dettate da motivi di questo tipo affondano le loro radici
nell’egoismo.
Come è possibile, infatti, parlare di mancanza di interesse
personale quando si è attratti da una ricompensa o intimoriti
da una punizione? Una ricompensa che si è certi di ottenere
in un altro mondo equivale a una cambiale assolutamente sicura,
anche se a lunghissima scadenza.
L’augurio di ringraziamento che di solito un mendicante porge al suo
benefattore, ossia che l’offerta gli verrà restituita in un
altro mondo moltiplicata per mille, potrebbe indurre qualche
spilorcio a fare volentieri, come buon investimento, generose
elemosine, fermamente convinto di risorgere nell’altro mondo ricco
sfondato.
Forse, per la grande massa del popolo uno stimolo di questo tipo
è sufficiente, tanto è vero che esso viene fornito da
religioni anche tra loro differenti, le quali sono la metafisica del
popolo.
Bisogna tuttavia tener presente che, riguardo ai veri motivi del
nostro comportamento, talvolta ci sbagliamo tanto, quanto riguardo
ai motivi del comportamento degli altri.
Senza dubbio parecchie persone, mentre credono che le proprie azioni
più nobili siano dettate da motivi religiosi di quel tipo, in
realtà stanno agendo sulla spinta di impulsi molto più
nobili e puri, anche se più difficili da chiarire. Mentre
credono di spiegare il proprio nobile comportamento semplicemente
tramite il comandamento del loro Dio, in realtà stanno agendo
sotto la spinta di un genuino amore verso il prossimo.
Nel campo della morale - come pure in tutti gli altri campi - la
filosofia cerca invece, riguardo al problema da risolvere,
conclusioni vere e definitive, fondate sulla natura dell’uomo,
libere da ogni spiegazione mitica, dogma religioso o ipostasi
[sostanza] trascendente, ed esige che ogni conclusione sia
comprovata dall’esperienza, esterna o interna.
Il compito che noi dobbiamo svolgere è filosofico. Dobbiamo
quindi escludere qualsiasi soluzione condizionata dalla religione,
che io ho voluto qui ricordare, solo per far luce sulla grande
difficoltà del problema.
§ 15 Criterio delle azioni con valore morale
A questo punto bisogna innanzitutto rispondere alla domanda
empirica: esistono in realtà azioni di giustizia spontanea e
di amore disinteressato verso il prossimo, che possono arrivare fino
alla nobiltà e alla magnanimità d’animo?
Purtroppo, solo sulla base di osservazioni empiriche non è
possibile rispondere, poiché nell’esperienza è data
solo l’azione, non l’impulso che l’ha generata. Pertanto rimane
sempre la possibilità che un’azione buona o giusta sia stata
influenzata da un motivo egoistico.
In questa indagine teorica io non farò ricorso
all’inammissibile trucco di scaricare la questione dentro la
coscienza del lettore. Tuttavia credo che siano poche le persone che
dubitino e che non siano fermamente convinte - in base alla propria
esperienza - che spesso qualcuno agisce semplicemente ed
esclusivamente per non far torto agli altri, e che addirittura
esistono alcune persone per le quali il principio di rendere
giustizia agli altri è quasi innato, cosicché
deliberatamente non urtano nessuno, non cercano necessariamente il
proprio vantaggio, ma tengono conto anche dei diritti degli altri.
Persone che, quando assumono reciprocamente un impegno, non
controllano solamente che l’altro lo mantenga, ma anche che l'altro
riceva ciò che gli è dovuto, poiché giustamente
desiderano che chi ha a che fare con loro non ci rimetta. Queste
sono le persone veramente oneste, i pochi aequi [giusti] in mezzo ai
moltissimi iniqui [ingiusti]. Persone di questo tipo esistono
davvero.
Così pure credo che molti siano d’accordo con me sul fatto
che parecchie persone aiutano e danno, fanno e rinunciano, senza
avere nel cuore altra intenzione se non di aiutare chi vedono nel
bisogno.
Chi vuole pensi pure che Arnold von Winkelried,175 quando
esclamò:
“Cari e fedeli compatrioti, pensate voi a mia moglie e ai miei
bambini”,
per poi gettarsi contro tutte le lance dei nemici che gli fu
possibile, abbia avuto qualche interesse personale. Io non ci
riesco.
Nel paragrafo § 13 ho già richiamato l’attenzione su
casi di giustizia spontanea, che nessuno può onestamente e
ragionevolmente negare. A questo punto se qualcuno volesse insistere
nel negare che azioni di questo tipo succedono realmente, secondo
lui la morale sarebbe una scienza senza contenuto reale, come
l’astrologia e l’alchimia, e sarebbe quindi tempo perso discutere
riguardo al suo fondamento. A lui non ho altro da dire.
Continuerò a parlare con coloro che ammettono la
realtà di queste azioni.
Le azioni di questo tipo sono dunque le sole alle quali si
può attribuire un autentico valore morale. Il tratto
specifico e caratteristico di queste azioni è l’assenza di
quei motivi che ispirano di solito le azioni umane, ossia i motivi
egoistici nel senso più ampio della parola.
Pertanto proprio la scoperta di un motivo egoistico, nel caso fosse
l’unico motivo presente, annullerebbe completamente il valore morale
di una determinata azione, mentre lo diminuirebbe se ve ne fossero
altri. L’assenza di qualsiasi motivo egoistico è quindi il
criterio di valutazione del valore morale di un’azione.
Certo, si potrebbe obiettare che anche le azioni di pura
malvagità e crudeltà non sono dettate da motivi
egoistici. È ovvio però che simili azioni non possono
essere prese in considerazione, poiché sono esattamente il
contrario di quelle di cui stiamo parlando. Chi volesse comunque
attenersi a una rigorosa definizione potrebbe espressamente
escludere le azioni malvagie tramite la loro peculiare
caratteristica di provocare negli altri sofferenza.
Una ulteriore caratteristica del tutto personale, e quindi poco
evidente all'esterno, delle nostre azioni con valore morale è
quella di destare dentro noi stessi una specie di intima
soddisfazione, il cosiddetto plauso della coscienza. Analogamente le
nostre azioni di segno opposto - come l’ingiustizia e la mancanza di
amore, e ancora di più la malvagità e la
crudeltà - destano dentro noi un giudizio negativo.
Inoltre, come caratteristica esterna, secondaria e accidentale, i
testimoni neutrali applaudono e ammirano le azioni morali, mentre
biasimano quelle immorali.
Dobbiamo ora considerare le azioni con valore morale - così
definite e indiscutibilmente esistenti di fatto - come un fenomeno
sperimentale da chiarire, e quindi individuare cosa è che
muove l’uomo a compiere azioni di questo tipo.
Se questa ricerca avrà successo, essa metterà
necessariamente in luce la genuina molla di spinta morale. A quel
punto, siccome l'etica deve completamente sostenersi tramite questa
molla di spinta, il problema che ci siamo posti sarà risolto.
§ 16 Presentazione e dimostrazione dell’unica genuina molla di
spinta morale
Dopo i precedenti, inevitabili ma necessari preparativi, passiamo
ora alla dimostrazione della vera molla di spinta morale, che sta
alla base di ogni azione con autentico valore morale.
Come tale si presenterà una, che per la sua serietà e
indiscutibile realtà si discosta abissalmente da tutti quei
cavilli, sottigliezze, sofismi, affermazioni campate in aria e bolle
di sapone aprioristiche, che i precedenti sistemi filosofici hanno
voluto erigere come fonte del comportamento morale e porre a
fondamento dell’etica.
Io non voglio proporre questa molla di spinta morale come una
arbitraria supposizione, bensì voglio dimostrare realmente
che essa è la sola possibile. Ma per procedere a questa
dimostrazione è necessario riassumere innanzitutto alcuni
concetti.
Faccio quindi alcune premesse propedeutiche alla dimostrazione, le
quali potrebbero valere anche come assiomi (ad eccezione delle
ultime due, le quali fanno riferimento a quanto è stato
precedentemente detto):
1) Nessuna azione può accadere senza un motivo determinante
(ossia, senza una ragione sufficiente), esattamente come una pietra
non si può muovere senza una causa (qualcosa che la spinge o
che la attrae).
2) Analogamente, in presenza di un motivo determinante per il
carattere di chi compie l’azione, un’azione non può non
essere compiuta se un motivo opposto, ancora più forte, non
rende necessaria la sua omissione.
3) Ciò che muove la volontà è solo il bene o il
male in generale, nel senso più ampio della parola. E
viceversa: bene significa ‘conforme alla volontà’ e male ‘non
conforme alla volontà’. Ogni motivo deve pertanto fare
riferimento ad un bene o ad un male.
4) Il fine ultimo di ogni azione riguarda, quindi, un essere
sensibile al bene e al male.
5) Questo essere è lo stesso che compie l’azione, oppure un
altro essere che partecipa passivamente all’azione, traendone un
danno o un beneficio.
6) Ogni azione, il cui fine ultimo è procurare il bene, o
evitare il male, di chi la compie, è un’azione egoistica.
7) Tutto ciò che è stato detto per un’azione vale
anche per l’omissione dell’azione stessa, in presenza di un motivo
(per non compierla) o di un contromotivo (per compierla).
8) L’egoismo e il valore morale di un’azione si escludono a vicenda
(per quanto è stato detto nel precedente paragrafo). Se
un’azione ha per motivo un fine egoistico, non può avere
alcun valore morale. E viceversa: se ha valore morale non può
avere alcun motivo egoistico, diretto o indiretto, vicino o remoto.
9) Dopo aver escluso l’esistenza di presunti doveri verso noi stessi
(come dimostrato nel § 5), il valore morale di un’azione
può esistere solo in relazione agli altri . Solo se riguarda
gli altri un’azione può avere una valenza morale o immorale,
essere quindi un’azione di giustizia e di amore verso il prossimo,
oppure il contrario di entrambe.
Date queste premesse, è evidente che il bene o il male - i
quali devono stare alla base di ogni azione come fine ultimo
(secondo la premessa n. 3) - riguardano o colui che compie l’azione,
oppure qualcun altro che la subisce. Nel primo caso l’azione
è necessariamente egoistica, poiché poggia su un
motivo interessato. A questa categoria appartengono le azioni:
- intraprese palesemente per il proprio interesse e vantaggio
personale (come avviene nella maggior parte dei casi)
- dalle quali ci si aspetta un futuro profitto qualsiasi, sia in
questo o in un altro mondo
- nelle quali si tien d’occhio il proprio onore, la propria
reputazione sociale, la stima di qualcuno, la simpatia degli
astanti, ecc.
- il cui proposito è affermare una massima dalla quale, se
fosse osservata da tutti, si potrebbe eventualiter [eventualmente]
attendere un vantaggio personale (ad esempio, la massima della
giustizia o del mutuo soccorso), ecc.
- tramite le quali si ritiene opportuno ubbidire a qualsiasi
comandamento assoluto, emesso da una non ben precisata ma
sicuramente superiore potenza, nel timore di sfavorevoli conseguenze
(anche se solo immaginarie e imprecisate) in caso di disobbedienza
- con le quali si cerca di affermare l’alta opinione di sé
stessi, il proprio valore e la propria dignità (intesi
più o meno chiaramente), che altrimenti andrebbero persi, con
grande frustrazione del proprio orgoglio
- con le quali si vuole contribuire al proprio perfezionamento
(secondo il principio di Wolff).
In breve, qualsiasi possa essere il motivo dichiarato di un’azione,
se risulta che in qualche modo (più o meno diretto) la vera
molla di spinta è procurare il bene o evitare il male di chi
la compie, l’azione è egoistica e, come tale, priva di alcun
valore morale.
Esiste un solo caso in cui ciò non avviene: quando il motivo
ultimo dell’azione consiste direttamente ed esclusivamente nel
procurare il bene o nell’evitare il male di qualcun altro, il quale
viene coinvolto in maniera passiva [ossia, è semplicemente il
destinatario dell’azione].
In questo caso, la parte attiva [l’autore dell’azione] con la sua
azione od omissione tiene conto solo del bene e del male dell’altro,
e si propone esclusivamente che l’altro non venga leso, anzi che
riceva aiuto, assistenza e sollievo. Solo questo fine imprime su
un’azione il sigillo del valore morale.
Pertanto il valore morale si basa esclusivamente sul fatto che
l’azione viene compiuta (od omessa) semplicemente in favore di
qualcun altro.
Se questo non fosse il caso, il bene o il male che spingono a
compiere (o a desistere dal compiere) l’azione riguarderebbero solo
la parte attiva. Ma allora l’azione (o la sua omissione) sarebbe
egoistica e, come tale, priva di valore morale. Quando la mia azione
viene compiuta solo a favore di un altro, il bene dell’altro
costituisce il mio motivo diretto, esattamente come il motivo
diretto di tutte le altre mie azioni è il mio bene.
Tutto questo ci induce a formulare il problema, di cui stiamo
trattando, in un modo più stringato. Come è possibile
che il bene di un altro muova direttamente la mia volontà
esattamente come se fosse il mio? Come può il bene di un
altro diventare il mio motivo a tal punto, da porre talvolta
addirittura in secondo piano il mio stesso bene (il quale di solito
è l’unica sorgente dei miei motivi)?
Evidentemente solo se l’altro diventa il fine ultimo del mio volere
esattamente come lo sono io, cosicché io voglio direttamente
il suo bene (o non voglio il suo male) come se fosse il mio.
Questo presuppone necessariamente che io addirittura soffra insieme
a lui del male che lui patisce, che io percepisca il male suo come
di solito percepisco il mio, e che quindi io voglia immediatamente
il suo bene come di solito voglio il mio. Questo richiede che, in
qualche modo, io mi identifichi con lui e che la differenza che
esiste tra me e il prossimo, sulla quale poggia il mio egoismo,
venga annullata, almeno fino a un certo punto.
Ma io non sto dentro la pelle dell’altro. Quindi, solo tramite la
conoscenza che ho di lui - ossia la rappresentazione che faccio di
lui nel mio cervello - io posso identificarmi con lui a tal punto,
che la mia azione mostri che quella differenza è stata
annullata.
Il processo qui esposto non è né immaginario né
campato in aria, bensì è assolutamente reale e non
è poi così raro. È il fenomeno quotidiano della
compassione, ossia, innanzitutto dell’immediata solidarietà,
spontanea e senza ripensamenti di alcun genere, alla sofferenza di
un altro e in seguito del darsi da fare per evitare o alleviare
quella sofferenza, poiché in questo consiste in fondo ogni
appagamento, benessere e felicità.
Solo la compassione è il reale fondamento della spontanea
giustizia e del genuino amore verso il prossimo. Solo se scaturisce
dalla compassione, un’azione ha valore morale, mentre non ne ha
affatto se scaturisce da qualunque altro motivo.
Appena la compassione si muove, la buona e la cattiva sorte
dell’altro mi stanno a cuore proprio nello stesso modo - anche se
non sempre nella stessa misura - della mia sorte, cosicché la
differenza fra lui e me non è più assoluta.
In ogni caso questo processo desta stupore ed è addirittura
misterioso. In realtà è il grande mistero dell’etica,
il suo fenomeno originario, la pietra del confine oltre il quale
solo la speculazione metafisica può osare avventurarsi. In
questo processo vediamo abbattere il muro che, secondo la ‘luce
della natura’ (come gli antichi teologi chiamavano la ragione)
separa nettamente un essere dall’altro, e il non-Io diventare in un
certa misura l’Io.
Per il momento non ci addentreremo nella spiegazione metafisica di
questo fenomeno. Vogliamo innanzitutto verificare se effettivamente
ogni azione di spontanea giustizia e di genuino amore per il
prossimo deriva da questo processo. In tal caso il nostro problema
sarà risolto, poiché avremo dimostrato che il
fondamento ultimo della morale risiede nella natura stessa
dell’uomo.
A sua volta questo fondamento non sarà più un problema
dell’etica, bensì - come ogni altro problema della natura
umana - della metafisica. Tuttavia la spiegazione metafisica del
fenomeno originario dell’etica va ben oltre la domanda posta dalla
Reale Società, la quale mira solo al fondamento dell’etica.
La spiegazione metafisica potrebbe comunque essere allegata come
supplemento, da prendere o lasciare, a piacere.
Prima di passare alla deduzione delle virtù cardinali, a
partire dalla molla di spinta fondamentale che abbiamo identificato,
bisogna ancora fare due importanti osservazioni complementari.
1) Per facilitare la comprensione, ho semplificato la precedente
dimostrazione della compassione come unica sorgente delle azioni con
valore morale, tralasciando deliberatamente di considerare la molla
di spinta della malvagità, la quale - come la compassione -
non è egoistica, ma ha come fine ultimo il dolore degli
altri. Ora però possiamo prendere anche questa in
considerazione e riassumere la precedente dimostrazione, in maniera
più completa e stringata, come segue.
Esistono solo tre molle di spinta fondamentali delle azioni umane,
cosicché un qualunque possibile motivo scaturisce solo in
seguito alla loro sollecitazione. Esse sono:
a) l’egoismo, il quale vuole il proprio bene (ed è senza
confini)
b) la malvagità, che vuole il male degli altri (e si estende
fino alla estrema crudeltà)
c) la compassione, che vuole il bene degli altri (e si estende fino
alla nobiltà e alla magnanimità d’animo).
Ogni azione umana deve essere ricondotta a una di queste tre molle
di spinta, anche se talvolta le prime due possono agire
contemporaneamente. Dato che le azioni dotate di valore morale
esistono realmente, anch’esse devono derivare da una di queste tre
molle di spinta fondamentali.
Queste azioni non possono scaturire dall’egoismo (in base alla
premessa n. 8) e neppure dalla malvagità. Da questa infatti
derivano azioni che sono completamente riprovevoli dal punto di
vista morale, mentre dall’egoismo derivano azioni che possono essere
al massimo moralmente indifferenti.
Le azioni dotate di valore morale possono quindi derivare solo dalla
compassione. È possibile anche dare una prova a posteriori di
questa affermazione tramite la seguente osservazione.
2. La solidarietà immediata nei confronti degli altri
è limitata alla loro sofferenza. Di solito essa non viene
destata (almeno non direttamente) dal loro benessere, il quale, di
per sé, ci lascia indifferenti. Lo afferma anche Rousseau:
“Regola prima: il cuore dell’uomo è propenso a mettersi dalla
parte solo di quelli che sono più da compiangere, non di
quelli più felici di lui”.176
Questo succede perché il dolore e la sofferenza - nella quale
rientra anche ogni mancanza, privazione, necessità e
addirittura ogni desiderio - sono attivi e si fanno sentire
direttamente. Invece la natura della soddisfazione, del piacere e
della felicità, consiste solo nella rimozione di una
privazione e nella cessazione di un dolore. Questi sono quindi
passivi. Il bisogno e il desiderio sono addirittura il presupposto
necessario di ogni piacere.
Questo fatto viene riconosciuto già da Platone, il quale fa
solo una eccezione per i profumi e per i piaceri dello spirito.177
Anche Voltaire dice:
“Non esiste alcun vero piacere, se non vi è un vero
bisogno”.178
Ciò che è attivo e che si fa sentire spontaneamente
è il dolore. L’appagamento e il piacere non sono attivi,
poiché consistono solo nella cessazione del dolore. Proprio
per questo solo la sofferenza, la miseria, il pericolo e il bisogno
di aiuto dell’altro destano direttamente, in quanto tali, la nostra
solidarietà. Chi è felice e fortunato, in quanto tale,
ci lascia indifferenti, proprio perché il suo stato di
mancanza di dolore, di privazione e di bisogno non è attivo
[non ha effetto su di noi].
Certo, possiamo anche compiacerci della felicità, del
benessere e della soddisfazione di un altro. Ma questo compiacimento
è solo un effetto secondario, il quale presuppone una nostra
previa preoccupazione per le precedenti sofferenze e privazioni
dell’altro. Oppure partecipiamo alla felicità e al piacere di
un altro non in quanto persona felice, ma semplicemente
perché è il nostro figlio, padre, amico, parente,
servitore, dipendente, ecc. Ma il felice e il gaudente, in quanto
tali, non destano affatto la nostra solidarietà, come invece
succede con il sofferente, il bisognoso e l’infelice, proprio
perché tali.
Anche nel nostro ambito personale solo la sofferenza - nella quale
bisogna includere anche ogni privazione, bisogno, desiderio e,
addirittura, la noia - desta la nostra attività, mentre uno
stato di allegrezza e di beatitudine ci lascia inattivi, pigri e
tranquilli. Come potrebbe essere diversamente riguardo a un altro,
dato che la nostra solidarietà nei suoi confronti poggia su
una identificazione con lui? Anzi, la vista di una persona felice e
gaudente, in quanto tale, potrebbe addirittura destare l’invidia
(che già abbiamo classificato tra le potenze antimorali),
verso la quale ogni uomo ha una certa predisposizione.
In seguito alla precedente descrizione della compassione - come il
sorgere di un mio motivo immediato a causa del dolore di un altro -
devo deplorare il ripetuto errore fatto dal Cassina179 Questi,
infatti, sostiene che la compassione sorge da una momentanea
confusione della fantasia, cosicché noi stessi ci metteremmo
idealmente al posto di colui che soffre e crederemmo di soffrire
nella nostra persona i dolori dell’altro. Ma non è affatto
così.
A noi, invece, è chiaro e ben presente in ogni momento, che
è lui che sta soffrendo, non noi. Addirittura noi percepiamo
il dolore nella sua persona, non nella nostra, e ne rimaniamo
afflitti. Noi soffriamo con lui, quindi nella sua persona.
Percepiamo il suo dolore come suo e non immaginiamo affatto che sia
il nostro. Addirittura quanto più felice è il nostro
stato e quanto più siamo consapevoli che esso contrasta con
quello dell’altro, tanto più siamo suscettibili alla
compassione.
Non è certo facile spiegare come questo fenomeno estremamente
importante possa accadere, tanto meno dal punto di vista
semplicemente psicologico, come il Cassina ha cercato fare. Questo
fenomeno può essere spiegato solo dal punto di vista
metafisico, come cercherò di fare nell’ultimo paragrafo.
Ora però procediamo alla deduzione delle azioni dotate di
genuino valore morale, a partire dalla loro comprovata fonte. Nei
precedenti paragrafi abbiamo stabilito come massima di simili
azioni, quindi come principio dell’etica:
“Neminem laede, imo omnes, quantum potes, juva” [non danneggiare
nessuno, anzi, per quanto puoi, aiuta tutti].
Dato che questa massima consiste di due proposizioni, possiamo
suddividere le corrispondenti azioni morali in due classi.
§ 17 La virtù della giustizia
Esaminando più da vicino il fenomeno della compassione che
sta alla base dell’etica (come abbiamo precedentemente dimostrato),
possiamo immediatamente vedere che esistono due gradi ben distinti
secondo i quali la sofferenza di un altro può diventare un
motivo immediato per me, ossia mi può indurre a fare (o a
tralasciare di fare) qualcosa.
Il primo, quando la compassione, contrapponendosi ai miei motivi
egoistici o malvagi, mi trattiene dal causare sofferenza all’altro e
dar luogo a ciò che ancora non è, ossia diventare io
stesso la causa della sofferenza altrui. Il secondo, di grado ancora
più elevato, quando la compassione interviene attivamente e
mi spinge a portare aiuto all’altro.
La separazione tra i cosiddetti doveri di giustizia e di
virtù, o meglio, tra la giustizia e l’amore verso il
prossimo, che nell’etica di Kant risulta così forzata, si
presenta nella mia etica in maniera del tutto spontanea, a conferma
della sua esattezza. Si tratta del confine naturale, inconfondibile
e netto, tra l’attivo e il passivo, tra il non ledere e il portare
aiuto.
La denominazione finora solita di doveri di giustizia e doveri di
virtù - questi ultimi detti anche doveri d’amore, o doveri
imperfetti - presenta innanzitutto il difetto di coordinare il
genere [virtù] alla specie [giustizia]. In realtà
anche la giustizia è una virtù. Oltretutto questa
denominazione si basa su una estensione eccessivamente ampia del
concetto di dovere, che in seguito ricondurremo entro i suoi veri
limiti.
Pertanto, al posto di quei due ‘doveri’, io pongo le due
virtù della giustizia e dell’amore verso il prossimo. Le
chiamerò ‘virtù cardinali’, poiché da esse
tutte le altre virtù derivano in pratica e possono essere
dedotte in teoria. Entrambe affondano le radici nella compassione,
che è un dato di fatto innegabile, proprio ed essenziale,
della coscienza umana, il quale non dipende da premesse, concetti,
religioni, dogmi, miti, educazione e istruzione.
La compassione è spontanea e immediata, poiché giace
nella natura stessa dell’uomo. Proprio per questo essa regge alla
prova in ogni circostanza e si manifesta in ogni paese e in ogni
epoca. Ad essa si fa ovunque appello con fiducia, come a qualcosa di
cui l’uomo è necessariamente dotato, non come qualcosa che
appartiene agli ‘Dei estranei’. Chi mostra di non avere compassione
viene addirittura definito ‘disumano’, e il termine ‘umanità’
viene spesso utilizzato come sinonimo di ‘compassione’.
Il primo grado di efficienza di questa naturale e genuina molla di
spinta morale, è semplicemente passivo. In origine siamo
tutti inclini all’ingiustizia e alla violenza, poiché dentro
di noi il bisogno, l’ingordigia, la collera e l’odio si fanno
immediatamente avanti e godono dello jus primi occupantis [diritto
del primo occupante]. Invece la sofferenza degli altri, causata
dalla nostra ingiustizia e violenza, arriva alla nostra coscienza
solo tramite l’esperienza ed il cammino secondario della
rappresentazione, quindi in maniera mediata. Per questo Seneca dice:
“La bontà non si insinua mai in noi prima della
malvagità”.180
Il primo grado di efficienza della compassione è, quindi,
farsi avanti per evitare che io stesso, in seguito alle mie innate
potenze antimorali, diventi la causa della sofferenza dell’altro, di
gridarmi ‘fermo!’, e di porsi come arma di difesa dell’altro, per
proteggerlo dall’offesa che, altrimenti, il mio egoismo e la mia
malvagità mi spingerebbero a compiere.
Da questo primo grado scaturisce la massima neminem laede [non
danneggiare nessuno], ossia il principio della giustizia, la
virtù che proprio nella compassione trova la sua semplice e
pura origine morale, priva di ogni mescolanza. Né potrebbe
trovarla altrove, altrimenti dovrebbe appoggiarsi sull’egoismo.
Se il mio animo è suscettibile alla compassione fino a questo
grado, essa mi tratterrà quando e dove vorrò
perseguire i miei fini usando la sofferenza altrui come un mezzo,
indipendentemente dal fatto che questa sofferenza sia presente o
futura, diretta o indiretta, ossia mediata da altre mani. Allora
eviterò di aggredire l’altro nel patrimonio e nella persona,
e tantomeno di procurargli dolori spirituali o corporali.
Quindi, non solo mi tratterrò dal causargli alcun dolore
fisico, ma anche dal procuragli alcuna sofferenza spirituale tramite
offese, angustia, ira o calunnia. La stessa compassione mi
tratterrà dal cercare di soddisfare le mie voglie a costo
della felicità di persone dell’altro sesso, dal sedurre la
moglie di un altro, dal corrompere fisicamente o moralmente i
giovani pervertendoli con la pederastia.
Tuttavia non è necessario che la compassione venga destata in
ogni singolo caso, dove potrebbe anche arrivare troppo tardi.
Infatti, tramite la consapevolezza acquisita una volta per tutte
della sofferenza che ogni azione ingiusta provoca necessariamente
agli altri, esacerbata anche dal dover sopportare l’ingiustizia e la
prepotenza altrui, in ogni animo nobile sorge la massima: neminem
laede [non fare del male a nessuno]!
La matura riflessione eleva questa massima - una volta per tutte - a
fermo convincimento di rispettare il diritto degli altri, di non
permettersi mai di lederlo, di mantenersi liberi dal rimorso di aver
causato qualche sofferenza, di non scaricare sugli altri, con
violenza o astuzia, il peso e le sofferenze della vita che le
circostanze assegnano a ognuno, ma di farsi carico personalmente
della parte che ci spetta, per non raddoppiare quella di un altro.
Certo, un principio o una conoscenza astratta non possono
assolutamente costituire la fonte e il fondamento ultimo della
moralità. Tuttavia sono indispensabili per procedere a un
cambiamento morale della propria vita, come un recipiente, un
reservoir [serbatoio] nel quale conservare lo stato d’animo che
scaturisce dalla sorgente della moralità (la quale non scorre
in ogni momento), per lasciarla fluire poi in una specie di canale
secondario, appena giunge il momento di usarla. Da questo punto di
vista, nel campo della morale succede come in fisiologia, dove - ad
esempio - la cistifellea è necessaria per conservare alcune
sostanze prodotte del fegato da utilizzare al momento opportuno, e
in molti altri casi simili.
Senza saldi principi cadremmo inesorabilmente in balia delle molle
di spinta antimorali, quando queste, sotto l’influsso di impressioni
esterne, degenerano in passioni. La padronanza di sé stessi
consiste nell’attenersi fermamente e nel seguire i propri principi
nonostante la presenza di motivi contrari che spingono in direzione
opposta.
Questo spiega anche perché le donne - le quali, per una
debolezza della loro ragione, sono meno capaci di comprendere,
attenersi e adottare come linea di condotta i principi universali -
di solito sono seconde agli uomini nella virtù della
giustizia, quindi anche dell’onestà e dell’agire secondo
coscienza. Per questo i loro più frequenti difetti sono
l’ingiustizia e la falsità, e la menzogna è il loro
proprio elemento.
Le donne invece superano gli uomini nella virtù dell’amore
verso il prossimo. Questo, di solito, sorge intuitivamente dalla
occasione e fa appello immediato alla compassione, nei confronti
della quale le donne sono molto più sensibili. Per le donne
esiste veramente solo ciò che è intuitivo, presente e
immediatamente reale. Loro non riescono ad afferrare bene ciò
che è lontano, assente, passato o futuro, che può
essere conosciuto solo tramite concetti.
Anche in questo campo c’è una specie di compensazione: la
virtù della giustizia è più frequente negli
uomini, l’amore verso il prossimo più frequente nelle donne.
Il pensiero di vedere una donna esercitare l’ufficio di giudice fa
sorridere; ma le sorelle della misericordia superano decisamente i
loro fratelli.
L’animale invece, essendo completamente privo di conoscenza
razionale astratta, è assolutamente incapace di alcun
proposito, né tantomeno di principi e di autocontrollo,
cosicché rimane in completa balia delle impressioni e delle
passioni. Proprio per questo l’animale non è moralmente
consapevole, sebbene le varie specie mostrino una grande differenza
in termini di buono o cattivo carattere, e nelle più evolute
perfino i singoli individui.
Nelle singole azioni di giustizia la compassione agisce solo in
maniera indiretta, tramite principi, più potentia [in
potenza] che actu [in azione]. Un po’ come in statica, dove la
maggiore mobilità di un braccio della bilancia (dovuta alla
sua maggiore lunghezza, grazie alla quale una massa minore
può bilanciare una maggiore) in uno stato di equilibrio
agisce solo in potenza, eppure con altrettanta efficacia in azione.
Ma la compassione è sempre pronta a manifestarsi actu, ossia
a entrare direttamente in azione. Pertanto, quando in alcuni casi la
suddetta massima della giustizia vacilla, per sostenere la giustizia
e rinvigorire i giusti propositi nessun motivo è più
efficace di quello che scaturisce dalla sua fonte originaria (la
compassione).
Questo vale non solo nel caso di lesione della persona, ma anche del
patrimonio. Ad esempio, quando uno ha la tentazione di tenere per
sé una cosa di valore che ha trovato, nulla (a parte i motivi
di prudenza o di natura religiosa) può ricondurlo meglio sul
cammino della giustizia come il pensiero della preoccupazione, del
profondo dispiacere e delle lamentele di chi ha perso quella cosa.
Consapevoli di questa verità, spesso succede che al pubblico
appello per la restituzione di denaro perso viene allegata
l’assicurazione che chi l’ha perso è un povero diavolo, una
persona a servizio, e simili.
Da queste considerazioni spero risulti chiaro - sebbene al primo
sguardo potrebbe anche non essere evidente - che anche la giustizia,
come virtù spontanea e genuina, trae la sua origine dalla
compassione.
A chi dovesse ritenere che questo terreno sia troppo povero per
consentire a quella grande e autentica virtù cardinale di
affondarvi le radici, vorrei ricordare quanto piccolo sia
l’ammontare della giustizia genuina, spontanea, non interessata e
non simulata, che si riscontra tra la gente.
Vorrei inoltre ricordare che la vera giustizia si presenta come una
sorprendente eccezione, e che in confronto alla pseudo giustizia -
basata semplicemente sull’astuzia e sbandierata ai quattro venti -
essa sta, in termini di qualità e di quantità, come
l’oro al rame.
Vorrei chiamare la pseudo giustizia dikaiosÚnh p£ndhmoj
[dikaiosùne pàndemos: giustizia comune] e la vera
giustizia oÙran…a [uranìa: la giustizia celeste],
proprio quella che, secondo Esiodo, nell’età del ferro ha
abbandonato la terra per rifugiarsi tra gli Dei del cielo. Per
questa pianta rara e sempre esotica sulla terra la radice della
compassione è forte abbastanza.
L’ingiustizia - o il torto - consistono dunque nel ledere il
prossimo. Il concetto di torto è attivo e precede il concetto
di diritto, il quale è passivo e indica semplicemente le
azioni che si possono compiere senza ledere il prossimo, ossia senza
fargli torto.
È evidente che nel diritto rientrano anche quelle azioni il
cui unico scopo è difendersi da un tentato torto. Infatti,
nessuna solidarietà e nessuna compassione per il prossimo
può indurmi a lasciarmi ledere da un altro, ossia a lasciare
che sia io a soffrire un torto.
Che il concetto di diritto è negativo [passivo: non ledere la
giustizia] mentre quello di torto è positivo [attivo: ledere
la giustizia] può anche essere inteso tramite la spiegazione
che il padre della dottrina filosofica del diritto, Ugo Grozio,
inserisce nel prologo della sua opera principale:
“Qui ‘diritto’ non significa altro che ciò che è
giusto, in senso negativo più che positivo, ossia, il diritto
coincide con ciò che ingiusto non è”.181
La negatività [passività] della giustizia (nonostante
a prima vista potrebbe sembrare il contrario) viene comprovata anche
dalla triviale massima: “A ciascuno il suo”. Infatti, se una cosa
appartiene a un altro, non c’è bisogno di dargliela. Quindi
questa massima in realtà significa: “Non togliere all’altro
ciò che gli appartiene”.
Poiché ciò che viene richiesto dalla giustizia
è solo passivo (non ledere gli altri), questa richiesta
può anche essere pretesa. Il neminem laede, infatti,
può essere praticato contemporaneamente da tutti.
L’istituzione incaricata di questa imposizione è lo Stato, il
cui specifico scopo è proteggere il singolo dagli altri e la
comunità dai nemici esterni.
Alcuni filosofastri tedeschi di quest’epoca decadente vorrebbero
trasformare lo Stato in un istituto di moralità, di
educazione e di edificazione. Dietro questo tentativo si nasconde il
proposito gesuitico di sospendere la libertà e ostacolare la
crescita personale del cittadino, per trasformarlo - come si fa in
Cina - in una semplice ruota della macchina statale e religiosa.
Questo è esattamente il cammino che in passato ha portato
all’Inquisizione, agli auto da fè182 e alle guerre di
religione. Le parole di Federico il Grande:
“Nella mia terra ognuno deve poter provvedere alle proprie esigenze
spirituali come meglio gli pare”
dimostrano che lui non avrebbe mai assecondato l’odierno progetto.
Ed invece vediamo che ovunque (ad eccezione - più apparente
che reale - dell’America del Nord) in maniera più o meno
evidente, lo Stato si prende cura anche delle esigenze metafisiche
dei suoi cittadini. Sembra quasi che i governi abbiano eletto a
proprio principio la frase di Curzio Rufo:
“Nulla governa la massa in maniera più efficace della
superstizione. La folla - di solito sfrenata, crudele e mutevole
quando si lascia prendere dal fanatismo - obbedisce più ai
suoi preti che ai suoi comandanti”.183
I concetti di giusto (che contempla anche la difesa preventiva da
una lesione) e di ingiusto, equivalenti a quelli di non-lesione e di
lesione, non dipendono evidentemente da alcuna legislazione positiva
[che impone il rispetto di determinate norme], bensì la
precedono.
Esiste quindi un diritto etico puro - il cosiddetto diritto naturale
[o meglio, morale] - e una dottrina del diritto pura, ossia,
indipendente da ogni legislazione positiva.
I principi della pura dottrina del diritto sono empirici
poiché sorgono assieme al concetto di lesione, ma di per
sé poggiano sull’intelletto puro, il quale fornisce a priori
il principio: causa causae est causa effectus [la causa della causa
è la causa dell’effetto].
Questo significa - nel caso dell’autodifesa preventiva - che il
responsabile di ciò che io sono costretto a fare, per
difendermi preventivamente dalla lesione che un altro mi vuole
procurare, non sono io, bensì l’altro. Pertanto io posso
oppormi, senza fargli alcun torto, a tutti i danni che lui mi vuole
procurare. Potremmo paragonarla a una legge morale di
reciprocità.
Dall’unione del concetto empirico di lesione con quella regola
(causa causae est causa effectus), di cui l’intelletto dispone a
priori, nascono i concetti fondamentali di giusto e di ingiusto, che
ognuno comprende a priori e che mette immediatamente in pratica a
seconda delle circostanze.
All’empirista, che nega queste cose, si può far notare - dato
che per lui solo l’esperienza conta - che anche i selvaggi sanno
distinguere, spesso con accuratezza e con precisione, il diritto dal
torto. Questo fatto balza immediatamente all’occhio durante il
baratto di merci, o accordi vari, con l’equipaggio di navi europee
quando questo entra in contatto con loro. I selvaggi, infatti, si
mostrano audaci e sicuri quando stanno dalla parte del diritto, ma
insicuri, quando stanno dalla parte del torto. Nelle controversie
sono propensi ad accettare un giusto compromesso, mentre un
comportamento ingiusto della controparte li spinge alla guerra.
La pura dottrina del diritto è un capitolo dell’etica che
stabilisce quali sono le azioni che uno non può fare se non
vuole ledere gli altri, ossia per non far loro torto.
Da questo punto di vista la morale tiene d’occhio il soggetto
dell’azione. La legislazione, invece, prende questo capitolo
dell'etica per utilizzarlo dal punto di vista di chi subisce
l’azione (quindi, dall’altro punto di vista) e classificare quelle
stesse azioni [ossia le azioni che - secondo l'etica - uno non
può fare, per non ledere gli altri] come azioni che nessuno
deve subire, poiché a nessuno si deve fare torto.
Contro queste azioni lo Stato erige il bastione delle leggi, come
diritto positivo [che impone con la forza il rispetto della legge].
Il proposito del diritto positivo [promulgato dallo Stato] è
che nessuno subisca un’ingiustizia, mentre il proposito della pura
dottrina del diritto è che nessuno compia una ingiustizia.184
In ogni azione ingiusta la qualità del torto è la
stessa e consiste nella lesione della persona, della libertà,
della proprietà o dell’onore dell’altro, ma la
quantità può essere molto differente.
La differenza in quantità del torto pare che non sia stata
finora adeguatamente presa in considerazione dai moralisti. Nella
vita reale, invece, se ne tiene ben conto, poiché ad essa
corrisponde la dimensione del danno provocato. Lo stesso vale
riguardo alla giustizia delle azioni.
Facciamo alcuni esempi, per chiarire meglio le differenze in
quantità. Un morto di fame che ruba il pane compie un torto.
Ma quanto piccola è la sua ingiustizia rispetto a quella di
un ricco che - in qualche modo - sottrae l’ultima cosa rimasta a un
povero. E analogamente: il ricco che paga il suo bracciante si
comporta secondo giustizia. Ma quanto piccola è questa
giustizia rispetto a quella di un povero che spontaneamente
restituisce a un ricco il portafoglio perso.
L’ammontare della significativa differenza in quantità di
giustizia - a parità di qualità - non è diretta
e assoluta come le grandezze misurabili con il metro, bensì
indiretta e relativa (come le grandezze trigonometriche). Per
valutarla, propongo la seguente formula: la grandezza
dell’ingiustizia della mia azione è uguale all’ammontare del
danno che con essa provoco a un altro, diviso l’ammontare del
vantaggio che tramite essa io ottengo. E analogamente, la grandezza
della giustizia della mia azione è uguale all’ammontare del
vantaggio che la lesione dell’altro mi procurerebbe, diviso
l’ammontare del danno che lui soffrirebbe, nel caso io non compissi
quella determinata azione.
Ma esiste anche un’ingiustizia doppia, che si contraddistingue da
un’ingiustizia semplice (anche se grande) in questo particolare
modo: la dimensione dell’indignazione di un testimone neutrale (che
di solito è proporzionale all’ammontare dell’ingiustizia)
raggiunge il massimo possibile. Quell’azione viene aborrita come
qualcosa di sconvolgente, che grida vendetta al cielo, come un
misfatto, uno ¥goj [àgos: empietà] di fronte al
quale anche gli Dei si coprono il viso con la mano.
La doppia ingiustizia succede quando qualcuno, che si è
assunto espressamente l’impegno di proteggere un altro riguardo a
una determinata cosa, non solo non adempie l’impegno assunto (e
questo costituisce già una lesione dell’altro, quindi
un’ingiustizia), ma in aggiunta aggredisce e lede deliberatamente
l’altro, proprio quando dovrebbe proteggerlo.
Questo succede, ad esempio, quando la guardia del corpo o
l’accompagnatore di fiducia si trasformano in assassini, quando il
custode di fiducia diventa un ladro, quando il tutore fa man bassa
del patrimonio del pupillo, quando l’avvocato commette una
prevaricazione [delitto ai danni della parte da lui difesa], quando
il giudice si lascia corrompere, quando il consigliere di fiducia
fornisce di proposito un consiglio deleterio.
Tutti questi delitti rientrano nel concetto di tradimento, la
vergogna di questo mondo. Per questo anche Dante colloca i traditori
nel girone più profondo dell’Inferno, dove si trova lo stesso
Satana.185
Siccome stiamo parlando del concetto di assunzione di un impegno,
è il momento opportuno per definire anche il concetto di
dovere, così spesso usato nell’etica e nella vita quotidiana,
al quale tuttavia viene attribuito una significato troppo esteso.
Abbiamo visto che il torto consiste sempre nella lesione di un altro
nella persona, libertà, proprietà e onore. Potrebbe
quindi sembrare che ogni torto sia sempre un’azione intrapresa, un
fatto compiuto. In realtà esistono delle azioni, la cui
semplice omissione costituisce un torto. Queste azioni si chiamano
doveri. Questa è la vera definizione filosofica del concetto
di dovere.
Questo concetto, invece, perde ogni sua particolarità e
svanisce se - come nella morale di Kant - si vuol definire dovere
ogni modo di agire degno di essere lodato, dimenticando così
che, ciò che è un dovere, è anche un debito.
Il dovere, tÕ dšon [to déon: ciò che è
doveroso fare], le devoir, duty, è quindi un’azione che
comporta la lesione di un altro (commettendo così un torto)
nel caso non venisse compiuta. Evidentemente questo può
succedere solo quando chi omette di compiere quella determinata
azione si era impegnato a compierla. Ogni dovere infatti deriva da
una precedente assunzione di impegno.
L’impegno, di solito, deriva da un espresso accordo reciproco, ad
esempio, tra principe e popolo, governo e funzionari, padrone e
servitore, avvocato e cliente, medico e malato. In generale, tra chi
si è impegnato a fornire una prestazione di qualsiasi tipo,
nel senso più ampio della parola, e chi l’ha richiesta. Un
dovere fornisce anche un diritto, poiché nessuno si assume un
impegno senza alcun motivo, ossia senza alcun vantaggio per se
stesso.
Mi risulta che esiste solo un tipo di dovere il quale viene assunto
senza un previo accordo diretto, bensì indirettamente,
tramite una semplice azione, poiché la controparte era
assente nel momento in cui l’impegno è stato assunto. Si
tratta del dovere dei genitori nei confronti dei figli.
Chi mette al mondo un figlio ha il dovere di mantenerlo fin quando
il figlio non è in grado di mantenersi da solo. Se quel
momento non dovesse arrivare mai - ad esempio, nel caso di un figlio
cieco, minorato fisico o psichico - anche l’impegno non verrebbe mai
a cessare. Infatti, se il genitore semplicemente non prestasse
assistenza al figlio (commettendo così un’omissione) lo
lederebbe, anzi, lo porterebbe alla rovina.
Il dovere morale dei figli nei confronti dei genitori non è
altrettanto immediato e definito. Esso deriva dal fatto che, siccome
a ogni dovere corrisponde un diritto, anche i genitori possono
vantarne uno nei confronti dei figli. Da qui sorge il dovere
dell’ubbidienza, che tuttavia viene a cessare più tardi,
quando cessa anche il diritto dal quale era sorto. Al suo posto
subentra la riconoscenza per quello che i genitori hanno fatto in
più di ciò che era loro stretto dovere.
Anche se la ingratitudine è un difetto odioso e spesso
perfino rivoltante, non si può dire che la gratitudine sia un
dovere, poiché la sua omissione non provoca una lesione
dell’altro, ossia non costituisce un torto. Oltretutto [per
costituire un torto] il benefattore dovrebbe aver erroneamente
pensato di aver tacitamente concluso [preventivamente] un accordo
[con il beneficiato].
Come dovere derivante da una determinata azione si potrebbe far
valere il risarcimento dell’eventuale danno arrecato. Tuttavia il
risarcimento, come compensazione delle conseguenze di un’azione
ingiusta, è un semplice tentativo di cancellarla. È
quindi essenzialmente qualcosa di negativo [una misura di ripiego],
giustificato dal fatto che l’azione stessa non avrebbe dovuto
succedere.
Bisogna anche notare che la faciloneria è nemica della
giustizia e che spesso la lede grossolanamente. Pertanto non le si
debbono fare troppe concessioni. I tedeschi sono amici della
faciloneria, mentre gli inglesi si attengono alla giustizia.
La legge di motivazione è tanto ferrea quanto la
causalità fisica e comporta una altrettanto irresistibile
necessità. Di conseguenza ci sono due modi per compiere
un’ingiustizia: tramite la violenza o l’astuzia.
Come io posso con la violenza uccidere un altro, oppure derubarlo, o
costringerlo a ubbidirmi, così posso fare tutte queste cose
con l’astuzia, presentando al suo intelletto dei falsi motivi,
cosicché l’altro è costretto a fare ciò che
altrimenti non farebbe. Questo succede tramite la menzogna,
detestabile proprio perché è uno strumento
dell’astuzia, ossia della costrizione sulla base della legge di
motivazione.
Di solito la menzogna è da condannare. Infatti, anche la
menzogna deve avere un motivo e - tranne qualche rara eccezione -
questo motivo è di solito ingiusto, poiché consiste
nell’intenzione di indurre un altro, sul quale non ho altrimenti
alcun potere, ad assecondare invece il mio volere, costringendolo
tramite la legge di motivazione. Questa intenzione sta anche alla
base della semplice bugia millantatrice, poiché con essa uno
cerca di porsi, agli occhi degli altri, in una posizione di
prestigio ben più alta di quanto gli spetta.
L’obbligo che sorge da un accordo o da un contratto sta nel fatto
che, se non vengono rispettati, diventano una solenne menzogna, il
cui proposito di ledere l’altro è ancora più evidente,
poiché il motivo della menzogna, ossia la fruizione della
prestazione richiesta alla controparte, è stato espressamente
dichiarato. L’aspetto biasimevole di un simile imbroglio sta nel
fatto che prima si disarma l’altro con una illusione e poi lo si
deruba. Il massimo si raggiunge con il tradimento, estremamente
odioso poiché rientra nella categoria della doppia
ingiustizia.
Come, con pieno diritto, è lecito respingere con violenza la
violenza altrui, così pure è lecito respingere una
violenza con l’astuzia, quando manca la forza o quando semplicemente
lo si ritiene più opportuno. Nei casi in cui si ha il diritto
di usare la violenza, se ne ha altrettanto di usare la menzogna. Ad
esempio: per attirare con l’astuzia in una trappola un rapinatore o
un criminale violento; in tali occasioni non sono vincolato da
alcuna eventuale promessa estorta con la violenza.
Ma il diritto di mentire va ben oltre, fino alle domande
assolutamente illecite e indiscrete riguardo alla propria persona o
ai propri affari, per i quali non solo la risposta, ma anche un
semplice «...preferisco non rispondere», potrebbe
destare un sospetto e mettermi in pericolo. In questi casi la
menzogna diventa l’arma di difesa contro la curiosità
illecita, la quale spesso non è mossa da buone intenzioni.
Di fronte al timore di una violenza fisica, ad opera della presunta
malvagità di un altro, ho il diritto di opporre
anticipatamente resistenza fisica con opportuni mezzi di
prevenzione, a discapito dell’aggressore. Ad esempio, montando delle
punte aguzze sul muro di cinta, liberando i cani di notte nel
giardino, e addirittura disponendo delle tagliole o mettendo dei
congegni che aprono automaticamente il fuoco, le cui eventuali
deleterie conseguenze saranno da ascrivere all’invasore stesso.
Così pure ho il diritto di mantenere il segreto su tutto
quanto mi esporrebbe all’aggressione altrui, nel caso venisse
divulgato. A buona ragione, poiché bisogna sempre ritenere
come estremamente probabile la malvagia volontà degli altri e
prendere in anticipo le dovute precauzioni.
Proprio per questo l’Ariosto dice:
“Quantunque il simular sia le più volte
ripreso, e dia di mala mente indici,
si trova pure in molte cose e molte
avere fatti evidenti benefici,
e danni e biasmi e morti avere già tolte:
che non conversiam sempre con gli amici,
in questa assai più oscura che serena
vita mortal, tutta d’invidia piena”.186
Ad un probabile danno, causato dall’astuzia altrui, posso opporre in
anticipo la mia astuzia senza commettere alcuna ingiustizia.
Pertanto, a chi vuole mettere arbitrariamente il naso nei miei
affari privati non debbo rendere conto e neppure mostrargli - ad
esempio, con l’affermazione: «... questo preferisco non
rivelarlo» - dove sta qualcosa di segreto, che potrebbe essere
per me pericoloso e per lui eventualmente vantaggioso, o che
comunque gli conferirebbe un certo potere su di me.
“Vogliono sapere i segreti della casa, e così farsi
temere”.187
Sono addirittura autorizzato a sbarazzarmi di lui con una menzogna
anche a suo discapito, nel caso che questa lo induca a compiere un
errore con conseguenze per lui dannose. In questo caso infatti io mi
debbo difendere e la menzogna è l’unico mezzo per contrastare
la curiosità malintenzionata dell’altro.
Ask me no questions, and I’ll tell you no lies [non farmi domande, e
non ti dirò bugie] è la giusta massima in questi casi.
In effetti gli inglesi - per i quali l’accusa di mentire è
estremamente offensiva e che quindi mentono meno di quanto si faccia
negli altri paesi - considerano come un segno di maleducazione ogni
domanda indiscreta riguardo ai propri affari privati. Proprio questo
l’espressione to ask questions [fare domande] vuole significare.
Ogni persona ragionevole procede secondo questo principio [la
menzogna come legittima difesa preventiva] anche se fosse una
persona della massima onestà. Ad esempio, se a chi sta
ritornando da un luogo lontano, dove è andato a prelevare dei
soldi, un viaggiatore sconosciuto si avvicinasse e gli chiedesse -
come al solito - da dove viene e dove va, e poi, a poco a poco, cosa
mai lo ha spinto in quel luogo, chiunque risponderebbe con una
menzogna, per non correre il rischio di essere rapinato.
Se uno viene sorpreso in casa dal padre della ragazza che sta
corteggiando, alla domanda sul motivo della sua insolita presenza,
risponderà senza pensarci due volte con una bugia, se proprio
non è picchiato in testa. E così in molti altri casi,
nei quali ogni persona ragionevole mente senza il minimo scrupolo di
coscienza.
Questo principio semplicemente elimina lo stridente contrasto tra la
morale che viene predicata e quella che viene praticata ogni giorno
anche dalle persone migliori e più oneste. Tuttavia la
menzogna deve essere utilizzata esclusivamente come arma di difesa.
Oltretutto il diritto di mentire potrebbe dar luogo ad abusi
abominevoli, poiché la menzogna è uno strumento molto
pericoloso.
Come anche in un paese pacifico la legge consente a chiunque di
portare armi e di usarle in caso di legittima difesa, così
pure la morale consente il ricorso alla menzogna, ma esclusivamente
per legittima difesa. Al di fuori del caso di legittima difesa
contro una violenza o un inganno, la menzogna è uno strumento
con cui si compie un torto, poiché la giustizia esige che si
dica la verità nei confronti di chiunque.
Contro il rifiuto assoluto, senza eccezioni e a priori, della
menzogna testimonia anche il fatto che esistono delle situazioni in
cui mentire è addirittura un dovere, specialmente per un
medico.
Esistono poi anche delle menzogne con nobili propositi, come ad
esempio quella del marchese Posa nel Don Carlos188, e quella della
Gerusalemme liberata189, in generale in tutti i casi dove uno vuole
farsi carico della colpa di altri. In fin dei conti anche
Gesù Cristo una volta non ha detto di proposito la
verità.190 Anche Campanella dice:
“Bello il mentir, se a fare gran ben’ si trova”.191
Eppure il principio, comunemente messo in pratica, della menzogna
necessaria è [considerato come] un vergognoso rattoppo sul
bel vestito di una morale da quattro soldi.
Le deduzioni dell’illegittimità della menzogna, riportate in
alcuni compendi di ispirazione kantiana che fanno riferimento alla
facoltà di parola dell’uomo, sono così piatte,
infantili e insulse, che verrebbe voglia - per metterle in ridicolo
- di gettarsi fra le braccia del diavolo ed esclamare, assieme a
Talleyrand:
“L’uomo ha ricevuto il dono della parola per poter nascondere i
propri pensieri”.192
L’orrore di Kant, incondizionato e illimitato, per la menzogna - che
viene tirato fuori in ogni occasione - si basa sull’affettazione e
sul pregiudizio. Nel capitolo della Dottrina della virtù193
dedicato alla menzogna, Kant la descrive con tutti i più
oltraggiosi attributi, senza addurre però alcun vero motivo
(che sarebbe stato molto più efficace) per rifiutarla.
Declamare è più facile che dimostrare, e predicare la
morale è più facile che essere sinceri. Kant avrebbe
fatto meglio a scatenare tutto quel suo fervore contro il
compiacimento del danno altrui. Questo è il vero vizio
diabolico, non la menzogna. Questo vizio è esattamente il
contrario della compassione. È l’impotente crudeltà
che si compiace di vedere il prossimo in preda a sofferenze che lei
stessa è incapace di procurargli, con tanti ringraziamenti al
caso che fa questo sporco lavoro per lei.
Secondo il codice dell’onore cavalleresco, l’accusa di mentire
è talmente grave che va letteralmente lavata con il sangue
dell’accusatore. Questo non perché per l’uomo d’onore la
menzogna è una ingiustizia - altrimenti l’accusa di aver
commesso un’ingiustizia tramite un’azione violenta dovrebbe mandarlo
su tutte le furie allo stesso modo (ma notoriamente questo non
avviene) - bensì perché per lui la violenza stessa sta
a fondamento della giustizia. Pertanto chi ricorresse alla menzogna
per compiere un’ingiustizia dimostrerebbe di non avere la forza, o
abbastanza coraggio, per compierla. Ogni menzogna, secondo il codice
dell’onore cavalleresco, dimostra che chi mente ha paura, e questo
basta per condannarlo.
§ 18 La virtù dell’amore verso il prossimo
La giustizia è la prima e fondamentale virtù
cardinale. Tutti i filosofi dell’antichità l’hanno
riconosciuta come tale tuttavia le hanno coordinato altre tre
virtù, scelte pero' in maniera impropria. Non hanno invece
eletto a virtù l’amore verso il prossimo, la caritas, la
¢g£ph [agàpe: amore fraterno, affetto]. Anche
Platone, che primeggia nel campo della morale, ha indicato come
virtù solo la giustizia spontanea e disinteressata.
In pratica l’amore verso il prossimo si è manifestato in ogni
tempo, ma in teoria è stato preso in considerazione ed
elevato formalmente a virtù - anzi, la più grande di
tutte le virtù, che abbraccia addirittura anche il nemico -
per la prima volta dal cristianesimo, e questo è uno dei suoi
maggiori meriti.
Questo per quanto riguarda l’Europa. In Asia invece, già
mille anni prima, l’amore illimitato per il prossimo era stato
oggetto non solo di dottrina e di precetto, ma anche di pratica. I
Veda e i Dharmashastra, lo Itihasa e il Purana, come pure la
dottrina del Buddha Sakyamuni194 non si stancano mai di predicarlo.
Ad essere rigorosi, già presso gli antichi troviamo tracce di
esortazione all’amore verso il prossimo, ad esempio, in Cicerone,195
come pure in Pitagora (secondo Giamblico).196
Ora il mio compito è dedurre, dal punto di vista filosofico,
questa virtù a partire dal fondamento della morale da me
dimostrato.
Tramite la compassione - che, come ho precedentemente dimostrato,
esiste davvero, nonostante la sua misteriosa origine - il secondo
grado con cui la sofferenza dell’altro, di per sé stessa e
immediatamente, diventa il mio motivo, si differenzia nettamente dal
primo grado [quello della giustizia] per il carattere attivo delle
azioni che ne conseguono. La compassione, infatti, in questo secondo
grado non solo mi trattiene dal ledere gli altri, ma addirittura mi
spinge a portare loro aiuto.
A seconda che la mia partecipazione immediata sia viva e
profondamente sentita, e che le necessità dell’altro siano
grandi e urgenti, io verrò indotto da quel motivo puramente
morale a compiere un sacrificio più o meno grande, per
portare soccorso ai bisogni e alle necessità dell’altro.
Questo sacrificio può consistere nello sforzo delle mie
capacità fisiche e psichiche, nella mia proprietà,
salute, libertà, o addirittura nella mia stessa vita in
favore dell’altro.
In questa solidarietà immediata, che non ha bisogno del
supporto di alcuna argomentazione, si trova la sola pura fonte
dell’amore verso il prossimo, della caritas [carità], della
¢g£ph [agàpe: amore fraterno], ossia di quella
virtù la cui massima è: omnes, quantum potes, iuva
[aiuta tutti, per quanto ti è possibile]. Da questa
virtù deriva tutto quanto l’etica prescrive sotto il nome di
doveri di virtù, doveri d’amore e doveri imperfetti.
Questa solidarietà del tutto immediata, addirittura
istintiva, con chi soffre - ossia, la compassione - è la sola
fonte delle azioni con valore morale.
Queste sono azioni prive di alcun motivo egoistico e, proprio per
questo, sono solite destare nel nostro intimo una certa
soddisfazione, il cosiddetto ‘plauso della coscienza’. Anche negli
astanti esse sono solite destare approvazione, rispetto e
ammirazione, e addirittura far loro sentire un poco di vergogna di
sé stessi (un fatto che nessuno può negare).
Se, invece, un’azione benefica fosse dettata da un qualunque altro
motivo, non potrebbe che essere egoistica, se non addirittura
malvagia. Infatti, in conformità alle tre molle di spinta
originarie di tutte le azioni (l’egoismo, la malvagità e la
compassione) è possibile suddividere i motivi che muovono
l’uomo in tre grandi classi principali e generali: 1) il proprio
bene, 2) il male degli altri, 3) il bene degli altri. Se il motivo
di un’azione benefica non appartiene alla terza classe, non
può che appartenere ad almeno una delle due precedenti.
Talvolta, infatti, azioni [apparentemente] benefiche per fare del
male agli altri succedono davvero. Ad esempio, quando faccio del
bene a uno, ma non a un altro, per indispettire il secondo e fargli
così pesare maggiormente la sua sofferenza, o per svergognare
una terza persona che non ha voluto compiere quella stessa buona
azione, oppure, infine, per umiliare il destinatario stesso
dell’azione benefica.
Più frequente invece è il caso di una buona azione
fatta per motivi egoistici. Ad esempio, quando miro al mio bene,
anche se remoto e tramite un lungo giro, contando su una ricompensa
in questo o in un altro mondo, sulla conquista della stima degli
altri e della fama di persona nobile di cuore, sul pensiero che chi
aiuto oggi, un domani mi potrà a sua volta aiutare, essere
utile in qualche modo, o servire. Infine anche quando sono mosso
solo dal pensiero di mantener viva la massima della nobiltà
d’animo e della beneficenza, perché in futuro questa massima
potrebbe far comodo anche a me.
In breve, quando il mio scopo è qualcosa di diverso da
quello, puro e semplice, di aiutare l’altro, di strapparlo
dall’indigenza e dal bisogno, e vederlo così libero dalla
sofferenza. Nulla di più e nulla di meno. Solo ed
esclusivamente in questo caso dimostrerò di possedere
realmente quell’amore verso il prossimo, quella caritas
[carità] e quella ¢g£ph [agàpe: amore
fraterno], predicato con grande ed eccelso merito dal cristianesimo.
Le stesse indicazioni che il Vangelo allega al suo comandamento di
amore verso il prossimo, come:
“Non sappia la tua mano sinistra ciò che fa la tua destra”197
e simili, poggiano sul sentimento che - come ho dimostrato -
costituisce il fondamento della morale. Affinché un’azione
possegga valore morale, il motivo deve essere esclusivamente il
bisogno dell’altro, senza tener conto di nient’altro.
Giustamente nello stesso passo del Vangelo198 si dice che chi
dà con ostentazione, proprio da questa trae il suo compenso.
A questa affermazione anche i Veda conferiscono - per così
dire - gli ordini maggiori, ribadendo che chi aspira a ricevere una
ricompensa dalle proprie azioni si trova ancora sul cammino
dell’oscurità, non essendo ancora pronto per la redenzione.
Se qualcuno, mentre sta facendo un’elemosina, mi chiedesse che cosa
ne ricava lui, onestamente gli risponderei:
“Solo questo: dare un poco di allevio al destino di quel povero,
null’altro. Se questo non ti serve a nulla oppure non ti interessa,
allora tu non hai voluto fare un’elemosina, bensì hai voluto
acquistare qualcosa, ma hai usato male i tuoi soldi. Se invece ti
importa che quella persona, oppressa dalla miseria, soffra un poco
meno, allora tu hai raggiunto il tuo scopo, hai ottenuto che lui
soffra meno e puoi vedere esattamente quanto la tua offerta
ricompensa sé stessa”.
Ma come è possibile che una sofferenza, che non è la
mia e che non mi colpisce direttamente, ciò nonostante possa
diventare per me un motivo così immediato da spingermi ad
agire, come di solito succede solo con un motivo esclusivamente mio?
È possibile solo se anch’io partecipo a quella sofferenza,
nonostante essa mi venga data solo come una cosa esterna tramite
l’intuizione o la conoscenza, se la percepisco come mia - non dentro
di me, bensì dentro l’altra persona - e se avviene ciò
che dice Calderon:
“... che tra il veder soffrire e il soffrire non ci sia alcuna
distanza”.199
Ma questo presuppone che io mi sia identificato in qualche modo con
l’altro, che per un momento la barriera tra l’Io e il non-Io sia
stata rimossa. Solo allora la situazione in cui versa l’altro, i
suoi bisogni, le sue necessità e le sue sofferenze diventano
immediatamente miei. Allora vedo l’altro non più come
l’intuizione empirica me lo presenta, come qualcosa di estraneo, di
indifferente e di completamente diverso, bensì io soffro
insieme a lui, nonostante i miei nervi non stiano sotto la sua
pelle. Solo così il suo dolore e i suoi bisogni possono
diventare il mio motivo; altrimenti solo i miei possono diventarlo.
Questo processo è misterioso: è qualcosa che sfugge
completamente alla ragione, qualcosa la cui origine non si spiega
tramite l’apprendimento.
Eppure è una cosa che succede tutti i giorni. Ognuno lo ha
spesso vissuto, e neppure alle persone più dure di cuore e
più egoiste è rimasto estraneo. Ogni giorno si
presenta davanti ai nostri occhi in casi sporadici, nelle piccole
cose, ogni volta che un uomo aiuta un altro uomo e corre in suo
soccorso con un impulso immediato, senza ragionarci troppo sopra. A
volte, addirittura, qualcuno pone consapevolmente a rischio la
propria vita per una persona che vede per la prima volta, senza
pensarci sopra due volte, appena si rende conto della grande
necessità e del grande pericolo dell’altro.
Questo fenomeno si presenta, invece, macroscopicamente quando, dopo
una lunga riflessione e un acceso dibattito, la magnanima nazione
inglese sborsa venti milioni di sterline per pagare il riscatto
degli schiavi nelle sue colonie, suscitando l’entusiasmo del mondo
intero.
Chi volesse negare che questa bella azione in grande stile sia stata
dettata dalla compassione e la volesse, invece, attribuire alla
cristianità, tenga presente che nel Nuovo Testamento non vien
detta una sola parola contro la schiavitù - nonostante questa
pratica fosse comunissima anche ai tempi di Gesù - e inoltre
che nel 1860 in Nord America, durante il dibattito sulla
schiavitù, qualcuno si è appellato al fatto che anche
Abramo e Giacobbe avevano avuto degli schiavi.
Ora gli studiosi di etica dibattano pure su quali possano essere, in
ogni singolo caso, i risultati pratici di quel misterioso e intimo
processo, suddividendoli in capitoli e paragrafi sui doveri di
virtù, d’amore e imperfetti, o come meglio credono. Tuttavia
la radice fondamentale dell’amore verso il prossimo è quella
che ho qui esposto, dalla quale scaturisce la massima: omnes,
quantum potes, juva [aiuta tutti, per quanto ti è possibile].
Da questa massima si può dedurre facilmente tutto il resto,
come pure dalla prima frase della massima - ossia, dal neminem laede
[non nuocere a nessuno] - si possono dedurre tutti i doveri di
giustizia.
L’etica è in realtà la più facile di tutte le
scienze - come si poteva anche prevedere - dal momento che ognuno ha
il compito di costruirsela personalmente, di dedurre lui stesso la
regola per ogni singolo caso a partire da quella massima, che
affonda la radice nel suo cuore. Pochi hanno infatti il tempo e la
pazienza per apprendere un’etica già confezionata.
Dalla giustizia e dall’amore verso il prossimo discendono tutte le
altre virtù. Esse sono pertanto le virtù cardinali.
Avendo individuato da cosa esse provengono, abbiamo localizzato la
pietra fondamentale dell’etica.
La giustizia è tutto il contenuto etico dell’Antico
Testamento; l’amore verso il prossimo quello del Nuovo. Questa
è la kain¾ ™ntol» [kainé entolé:
il nuovo comandamento]200 nel quale, secondo Paolo201, sono
contenute tutte le virtù cristiane.
§ 19 Conferme del fondamento della morale presentato
La verità che abbiamo appena enunciato - ossia, che la
compassione è l’unica genuina e altruistica molla di spinta
morale - costituisce uno straordinario, addirittura quasi
incomprensibile paradosso [una sofferenza, che non è la mia,
può diventare un motivo immediato per la mia volontà].
Cercherò pertanto di dissuadere il lettore da un simile
pensiero, dimostrando che questa verità è, invece,
confermata dall’esperienza e dalle manifestazioni di un sentimento
umano universale.
1. Innanzitutto, a questo scopo prenderò come esempio un caso
appositamente escogitato, che possa fungere da experimentum crucis
[esperimento cruciale] in questa ricerca. Tuttavia, per non rendere
troppo facile il mio compito, non prenderò in considerazione
un caso di amore verso il prossimo, bensì proprio uno dei
casi più gravi di violazione del diritto.
Supponiamo che due giovani, Tizio e Caio, siano entrambi follemente
innamorati di una ragazza (non la stessa) e che sul cammino di
entrambi si trovi un altro spasimante, preferito dalla ragazza per
altri motivi. Supponiamo che entrambi siano decisi a spedire
all’altro mondo il proprio rivale e che siano in grado di farlo in
maniera assolutamente sicura, addirittura al di sopra di ogni
sospetto.
Tuttavia, al momento di compiere l’omicidio entrambi, dopo un
conflitto di coscienza, decidono di desistere. Supponiamo, inoltre,
che essi debbano dare una spiegazione, chiara e sincera, dei motivi
che li hanno indotti a desistere dal loro proposito omicida.
Ora il lettore è libero di scegliere a piacere tra le
seguenti spiegazioni fornite da Caio. A trattenerlo potrebbe essere
stato un qualunque motivo religioso, come la volontà di Dio,
il giudizio universale, la dannazione eterna, ecc. Oppure Caio
potrebbe dire, insieme a:
Kant: “Mi son reso conto che la massima del mio comportamento in
questo caso non sarebbe stata idonea a fornire una regola
universalmente valida per tutti gli esseri ragionevoli,
poiché avrei trattato il mio rivale solo come mezzo e non
allo stesso tempo come fine”.
Fichte: “Ogni vita umana è un mezzo per realizzare la legge
morale. Pertanto io non posso, senza mostrare indifferenza verso la
realizzazione della legge morale, uccidere una persona destinata a
contribuirvi”.202
Detto per inciso, Caio potrebbe sbarazzarsi di un simile scrupolo
nella speranza - una volta in possesso della sua amata - di generare
un nuovo strumento per la realizzazione della legge morale.
William Wollaston: “Mi son reso conto che quell’azione sarebbe stata
l’espressione di un principio non vero”.
Francis Hutcheson: “Il senso morale, le cui sensazioni - come pure
quelle degli altri sensi - non possono essere spiegate, mi ha
indotto a desistere”.
Adam Smith: “Ho previsto che la mia azione non avrebbe destato
alcuna simpatia nei miei confronti da parte degli spettatori”.
Christian Wolff: “Ho capito che con una simile azione avrei
ostacolato il mio perfezionamento e che neppure avrei promosso
quello di chiunque altro”.
Spinoza: “Ad un umano nulla è più utile di un altro
umano: per questo non ho voluto ucciderlo”.203
Insomma, Caio dica pure quello che gli pare. Tizio invece (la cui
spiegazione faccio mia) dice:
“Quando giunsi ai preparativi, cosicché per un momento non
dovetti pensare più alla mia passione bensì al mio
rivale, mi divenne chiaro che cosa gli sarebbe realmente successo.
Allora ebbi compassione e pietà di lui, mi dispiacque per
lui, mi si spezzava il cuore: non potevo farlo!”.
Ora io chiedo a ogni lettore onesto e imparziale: quale dei due
è il migliore? A chi dei due preferireste affidare il vostro
destino? Quale dei due è stato trattenuto dal motivo
più puro? Dove sta quindi il fondamento della morale?
2. Nulla scuote così profondamente il nostro sentimento
morale come la crudeltà. Possiamo perdonare ogni altro
misfatto, ma non la crudeltà, proprio perché questa
è esattamente il contrario della compassione.
Quando veniamo a sapere di un’azione molto crudele - come, ad
esempio, quella riportata sui giornali di una madre che ha ucciso il
proprio figlio di cinque anni versandogli dell’olio bollente in gola
e il figlio minore seppellendolo vivo, oppure la notizia proveniente
da Algeri, dove in seguito a una rissa accidentale tra uno spagnolo
e un algerino, quest’ultimo, fisicamente più forte, ha
letteralmente strappato la mandibola dell’altro e se l’è
portata via come trofeo, abbandonandolo ancora vivo - allora
rimaniamo profondamente turbati e ci domandiamo:
“Come è possibile fare una cosa simile?”.
Ma qual’è il vero senso di questa domanda? Forse:
“Come è possibile temere così poco la dannazione nella
vita futura?”.
Difficilmente. Forse:
“Come è possibile agire secondo una massima che non si presta
affatto a diventare legge universale per tutti gli esseri
ragionevoli?”.
Certamente no. Oppure:
“Come è possibile trascurare fino a tal punto il proprio e
l’altrui perfezionamento?”.
Tanto meno. Il vero senso di questa domanda è senza dubbio
semplicemente questo:
“Come è possibile essere così senza pietà?”.
È la mancanza assoluta di compassione che bolla una
determinata azione con il timbro di moralmente abietta e ripugnante.
Quindi, è la compassione la vera molla di spinta morale.
3. Il fondamento della morale - ossia la molla di spinta morale che
io ho individuato - è assolutamente l’unico al quale si possa
attribuire un’efficacia reale e diffusa.
La stessa cosa - onestamente - nessuno può affermare riguardo
ai principi morali enunciati da tutti gli altri filosofi. Quelli,
infatti, sono principi astratti, a volte addirittura cavillosi,
senz’altro fondamento che una combinazione artificiosa di concetti,
tanto che la loro applicazione alle azioni reali mostra spesso un
lato addirittura comico.
Una buona azione, compiuta tenendo conto solo del principio morale
di Kant, sarebbe in fondo un’opera di pedanteria filosofica. Oppure
potrebbe dar luogo ad un autoinganno, poiché l’autore di
quell’azione, dettata probabilmente da altri e più nobili
motivi, potrebbe erroneamente pensare che essa sia il prodotto
dell’imperativo categorico e di un concetto di dovere fondato sul
nulla.
Raramente è possibile dimostrare una decisa efficacia reale
dei principi morali, non solo filosofici (i quali mirano solo alla
teoria) ma anche religiosi, promulgati per scopi esclusivamente
pratici. La prova sta innanzitutto nel fatto che, nonostante la
grande differenza di religioni sulla terra, il grado di
moralità - o meglio, di immoralità - non corrisponde
affatto a questa differenza, anzi è essenzialmente lo stesso
ovunque. Non bisogna poi confondere la raffinatezza o la
grossolanità con la moralità o l’immoralità.
La religione dei greci aveva una tendenza morale estremamente
ridotta, quasi limitata al giuramento; non si insegnava alcun dogma
e non si predicava apertamente alcuna morale. Ma non per questo
possiamo dire che i greci, tutto sommato, siano stati moralmente
peggiori degli uomini dei secoli cristiani.
La morale del cristianesimo è qualitativamente più
alta della morale di tutte le altre religioni apparse in Europa.
Tuttavia, se uno volesse credere che la moralità in Europa
sia migliorata di pari passo [con il diffondersi del cristianesimo]
e che ora eccella per lo meno tra le morali contemporanee, potrebbe
venir facilmente convinto del contrario.
Innanzitutto tra i musulmani, parsi, hindu e buddisti troviamo
altrettanta onestà, fedeltà, tolleranza, gentilezza,
benevolenza, nobiltà d’animo e abnegazione come tra le
popolazioni cristiane. Ma soprattutto un lungo elenco di
crudeltà disumane, che hanno accompagnato il cristianesimo,
darebbe addirittura il colpo di grazia al cristianesimo stesso.
Ad esempio, le innumerevoli guerre di religione, le irresponsabili
crociate, lo sterminio di gran parte degli indigeni d’America e il
ripopolamento di quel continente con schiavi negri trascinati
dall’Africa, strappati senza il minimo diritto alle loro famiglie,
alla loro patria, al loro continente, e condannati per sempre ai
lavori forzati.204
Inoltre, la millenaria persecuzione degli eretici, i tribunali
dell’Inquisizione che gridano vendetta al cielo, la notte di San
Bartolomeo, il massacro di diciottomila olandesi da parte dei
soldati spagnoli del duca di Alba, ecc.
Ma soprattutto dovremo effettivamente riconoscere quanto minuscola
è l’influenza di ogni religione sulla moralità se solo
confrontassimo l’eccellente morale che il cristianesimo - e,
più o meno, ogni altra religione - predica con la prassi dei
suoi fedeli. Basta pensare a dove mai andremmo a finire con questa
prassi se non ci fosse la forza dello Stato a proteggerci dai
criminali e cosa mai dovremmo temere se anche per un solo giorno le
leggi dello Stato venissero abolite.
Il problema sta senza dubbio nella debolezza della fede. In teoria e
fintanto che ci si attiene a delle pie considerazioni, a ciascuno la
propria fede sembra essere salda. Tuttavia la pietra di paragone di
ogni nostro convincimento è la pratica. Quando si arriva al
dunque e si dovrebbe dare prova della propria fede di fronte a
pesanti rinunce e sacrifici, allora la debolezza della fede traspare
chiaramente.
Quando uno medita seriamente di compiere un crimine, in quel momento
ha già abbattuto lo steccato della vera e propria
moralità. In seguito, la prima cosa a trattenerlo è il
pensiero della polizia e della magistratura. Superato anche questo,
contando di sfuggire alle loro maglie, la seconda barriera che si
frappone è la salvaguardia del proprio onore sociale.
Superata anche questa, c’è poco da sperare che, dopo aver
vinto queste due poderose resistenze, un dogma religioso qualsiasi
possa avere abbastanza influenza per trattenerlo dal compiere quel
crimine. Infatti se i pericoli certi e immediati non sono riusciti
ad intimorirlo, difficilmente potranno trattenerlo i pericoli
remoti, basati semplicemente sulla fede.
Oltretutto, a discapito di ogni buona azione dettata da motivi
essenzialmente religiosi, si può obiettare che non si tratta
mai di un’azione disinteressata. Essa infatti tien conto di un
premio o di una punizione, quindi non possiede un genuino valore
morale.
Questa considerazione si trova chiaramente espressa in una lettera
del granduca Carlo Augusto di Weimar, dove si dice:
“Il barone Weyhers stesso ha osservato che deve proprio essere un
cattivo soggetto colui che si comporta bene per motivi religiosi e
non per una naturale inclinazione”.205
Si prenda, invece, in considerazione la molla di spinta morale da me
presentata. Chi oserebbe negare per un solo istante che in tutti i
tempi, in tutti i popoli, in tutte le condizioni di vita, anche in
assenza delle leggi dello Stato, in mezzo agli orrori delle
rivoluzioni e delle guerre, negli eventi grandi o piccoli, ogni
giorno e ogni ora quella molla non abbia manifestato, clamorosamente
o discretamente, un’efficienza decisa e veramente sorprendente?
Quotidianamente essa impedisce molti torti e spinge a compiere
parecchie buone azioni senza tener conto di alcuna ricompensa, e
spesso quando meno uno se l’aspetta. Quando poi essa, ed essa sola,
entra in azione, tutti noi, commossi e riverenti, riconosciamo
incondizionatamente un genuino valore morale a questa azione.
4. La compassione illimitata verso tutti gli esseri viventi è
la garanzia più solida e sicura di un comportamento morale
corretto, che non ha bisogno di alcuna casistica.
Chi ne è pervaso molto probabilmente non lederà, non
danneggerà e non farà del male a nessuno. Piuttosto,
avrà riguardo verso tutti, perdonerà e aiuterà
chiunque secondo le sue possibilità. Ogni sua azione
porterà impresso il marchio della giustizia e dell’amore
verso il prossimo.
Provate a dire:
“Quest’uomo ha molte virtù, ma non ha alcuna pietà”,
oppure:
“È un uomo ingiusto e malvagio, tuttavia ha molta compassione
degli altri”
e avvertirete subito la contraddizione.
Ognuno ha i suoi gusti. Tuttavia io non conosco un augurio
più bello di quello con il quale si concludevano le antiche
rappresentazioni teatrali indiane (come pure, in tempi più
recenti, quelle inglesi con la preghiera per il re). Essa recita:
“Possano tutti gli esseri viventi rimanere liberi dal dolore”.
5. Anche da alcuni piccoli particolari si può dedurre che la
vera molla di spinta morale è la compassione.
Ad esempio, è parimenti ingiusto sottrarre senza pericolo,
tramite sotterfugi legali, cento denari a un ricco o a un povero.
Tuttavia il rimprovero della coscienza e il biasimo di testimoni
imparziali saranno molto più forti e sentiti nel secondo
caso. Proprio per questo Aristotele dice:
“È peggio fare del male a un uomo sfortunato che a uno
fortunato”.206
Il rimprovero della coscienza diventa addirittura ancora più
lieve, che nel caso del ricco, se si sottraggono soldi ad una cassa
statale. Questa infatti non può essere in nessun modo oggetto
di compassione. Questo dimostra che l’oggetto del proprio biasimo, e
di quello dei testimoni, non è la violazione del diritto in
quanto tale, bensì la sofferenza causata agli altri.
In effetti, la semplice violazione del diritto in quanto tale (ad
esempio, il furto ai danni di una cassa statale) viene disapprovata
anche dalla propria coscienza e da quella dei testimoni, ma solo
perché viene infranto il principio di rispettare ogni tipo di
diritto, come un uomo veramente onesto è solito fare. Si
tratta quindi di una disapprovazione mediata e di grado minore.
Tuttavia se si trattasse di una cassa statale ricevuta in custodia
sulla fiducia, la situazione sarebbe ben diversa, poiché in
questo caso subentrerebbe il concetto (precedentemente accennato) di
doppia ingiustizia, con il suo aspetto particolarmente odioso.
Questo fatto spiega perché il più grave rimprovero che
si suol muovere agli avidi ricattatori e alle canaglie legali
è di essersi impossessati dei beni di vedove e di orfani.
Proprio questi ultimi, in quanto completamente indifesi, avrebbero
dovuto destare compassione più di chiunque altro.
Quindi è proprio la mancanza assoluta di compassione che
taccia un determinato individuo di malvagità.
6. L’amore per il prossimo poggia sulla compassione in maniera
ancora più evidente che la giustizia.
Nessuno riceverà mai una testimonianza di amore genuino da
parte degli altri, fintanto che le cose gli stanno andando bene
sotto ogni aspetto. Una persona felice può certo sperimentare
l’affetto di parenti e amici. Tuttavia la manifestazione di una
genuina, disinteressata e oggettiva solidarietà alle vicende
e al destino altrui - come effetto dell’amore verso il prossimo -
viene riservata solo a chi sta in qualche modo soffrendo.
Infatti verso una persona felice, in quanto tale, non ci sentiamo
solidali. Anzi, proprio perché felice, quella persona rimane
estranea al nostro cuore: habeat sibi sua [a ciascuno quello che si
merita]. Addirittura, se uno possedesse molto più degli
altri, desterebbe facilmente invidia, la quale, in occasione di una
sua eventuale futura caduta dalla vetta della felicità,
potrebbe trasformarsi in compiacimento della disgrazia altrui.
Tuttavia, nella maggior parte dei casi questo rischio non si avvera,
ossia non si arriva allo:
“... e i nemici ridono”.207
di Sofocle.
Infatti, appena una persona felice cade in disgrazia, avviene una
grande trasformazione nel cuore degli altri, che dice molto riguardo
al tema che stiamo trattando. Innanzitutto egli può in quel
momento verificare quale tipo di solidarietà era quella che
gli amici nei tempi felici gli riservavano:
“Gli amici se la squagliano appena si vede il fondo della
bottiglia”.208
Tuttavia le cose che lui temeva ancora più della sfortuna,
ossia il giubilo degli invidiosi e le risa di scherno dei perfidi
(cose insopportabili, solo a essere immaginate) di solito non
avvengono. Anzi, l’invidia si placa e svanisce assieme a ciò
che l’aveva causata, e al suo posto subentra la compassione, che
porta con sé l’amore per il prossimo.
Spesso gli invidiosi e i nemici di una persona felice, alla sua
caduta si trasformano in amici premurosi, che consolano e aiutano.
Chi non ha mai sperimentato qualcosa di simile (anche se in tono
minore) e con grande sorpresa, dopo essere stato colpito dalla
sfortuna, non ha visto coloro che avevano mostrato la maggior
freddezza, o addirittura malevolenza nei suoi confronti, avvicinarsi
con sincera solidarietà?
L’infelicità è la condizione necessaria per la
compassione, e la compassione è la sorgente dell’amore per il
prossimo.
Questa considerazione è in accordo con il fatto che nulla
riesce ad attenuare la nostra collera (anche se giusta) più
rapidamente del commento: “È un povero disgraziato”, riferita
alla persona oggetto della nostra collera. La compassione è
per la collera ciò che la pioggia è per il fuoco.
Pertanto, a chi non desidera avere rimorsi di coscienza, qualora si
trovasse in preda alla collera nei confronti di un altro e meditasse
di procurargli un grosso dolore, vorrei dare il seguente consiglio.
Immagina di avergli già effettivamente inflitto quel dolore,
di vederlo dibattersi tra sofferenze corporali o spirituali, nel
bisogno e nella miseria, e dì a te stesso: “Questa è
opera mia”.
Se c’è qualcosa che può placare l’ira, è
proprio questo. La compassione, infatti, è il vero
controveleno dell’ira. Meglio prevenire [il rimorso] con un
artificio di questo tipo finché si è in tempo.
“La pietà, la cui voce, dopo che uno si è vendicato,
fa sentire la sua legge”.209
In generale nulla riesce a dissipare così facilmente il
nostro cattivo umore nei confronti degli altri, come l’osservare le
cose da un punto di vista nel quale loro destano la nostra
compassione. Perfino il fatto che i genitori di solito amino
maggiormente il figlio cagionevole di salute deriva dalla
compassione che quel figlio desta in loro continuamente.
7. La molla di spinta morale che abbiamo individuato dimostra di
essere quella vera anche dal fatto che essa si prende cura anche
degli animali, così irresponsabilmente trascurati dagli altri
sistemi etici europei.
La presunta mancanza di diritti degli animali, il pensiero assurdo
che il nostro comportamento nei loro confronti non abbia alcuna
valenza morale o - come recita la morale kantiana - che non esista
alcun dovere verso gli animali, è una scandalosa
grossolanità, una barbarie dell’occidente, la cui origine sta
nel giudaismo.
In filosofia questo assurdo pensiero risale alla presunta totale
differenza - a dispetto di ogni evidenza - tra uomo e animale
sostenuta da Cartesio nella maniera più decisa e stridente,
come una inevitabile conseguenza dei suoi errori. Quando infatti la
filosofia di Cartesio, Leibniz e Wolff, sulla base di concetti
astratti, concepì la psicologia razionale corredandola di una
anima rationalis [anima razionale] immortale, le naturali pretese
del mondo animale andarono evidentemente a cozzare contro questo
privilegio esclusivo e contro la patente di immortalità,
riservati alla specie umana. Come succede in simili frangenti, la
natura non ha potuto far altro che protestare in silenzio.
Questi filosofi poi, messi alle strette dalla loro coscienza
intellettuale, dovettero cercare di dare un supporto alla psicologia
razionale tramite quella empirica. Dovettero pertanto darsi da fare
per aprire un enorme fossato, una distanza abissale tra uomo e
animale, per rappresentare gli animali - a discapito di ogni
evidenza - come qualcosa di fondamentalmente diverso dall’uomo. Di
questi loro propositi già Boileau si fa [ironicamente] beffe:
“Gli animali hanno forse delle università? Le quattro
facoltà fioriscono forse presso loro?”.210
Alla fine gli animali avrebbero dovuto non sapere distinguere
sé stessi dal mondo esterno, non avere coscienza di sé
stessi e neppure avere un proprio Io! Contro queste sguaiate
affermazioni si potrebbe semplicemente ricordare lo smisurato
egoismo insito in ogni animale, anche il più piccolo e
insignificante. Esso ci dimostra continuamente quanto gli animali
siano consapevoli del proprio Io rispetto al mondo, ossia il non-Io.
Se uno di questi cartesiani finisse tra gli artigli di una tigre,
potrebbe chiarissimamente constatare quale netta differenza la tigre
pone tra il proprio Io e non-Io.
A livello popolare, in sintonia con i sofismi di quei filosofi,
troviamo la peculiarità di alcune lingue (quella tedesca in
particolare) di utilizzare termini specifici riguardo al mangiare,
bere, concepire, partorire, morire e riguardo al cadavere
dell’animale, con il proposito di non dover utilizzare per gli
animali gli stessi termini delle corrispondenti azioni o oggetti
dell’uomo. In questo modo si cerca di nascondere, dietro la
diversità delle parole, la perfetta identità delle
cose.
Le lingue antiche, invece, non conoscono un simile doppione,
bensì indicano senza esitazione la stessa cosa con lo stesso
termine. Questo penoso stratagemma deve senza dubbio essere opera
della pretaglia europea la quale, nella sua profanità, non
pensa di aver mai fatto abbastanza per negare e per oltraggiare
l’essere eterno che vive in ogni animale.
Così facendo, essa ha dato un fondamento alla durezza di
cuore e alla crudeltà, tipiche in Europa, nei confronti degli
animali. Cose che un asiatico non può guardare senza
inorridire. Nella lingua inglese non troviamo questo indegno
stratagemma, senza dubbio perché i Sassoni, quando hanno
conquistato l’Inghilterra, non erano ancora cristiani. Tuttavia
troviamo qualcosa di analogo anche presso gli inglesi.
In inglese, infatti, ogni animale è generis neutrius [di
genere neutro] e viene indicato con il pronome neutro it [esso],
esattamente come una cosa inanimata. Questo è particolarmente
deplorevole soprattutto per i primati, le scimmie, i cani, ecc.
È un tipico stratagemma, ad opera della pretaglia, per
degradare gli animali a livello di cose.
Gli antichi egizi, la cui vita era interamente dedicata a fini
religiosi, seppellivano nella stessa tomba le mummie dell’uomo e
quelle dell’ibis, del coccodrillo, ecc. In Europa, invece, è
un orrore e un crimine se un cane fedele viene seppellito accanto
alla tomba del suo padrone, sulla quale a volte, per una
fedeltà e un attaccamento assolutamente senza riscontro
presso gli uomini, quel cane ha aspettato la propria morte.
Nulla meglio della zoologia e dell’anatomia può rivelare
l’identità di ciò che è essenziale nel fenomeno
‘animale’ e ‘uomo’. Cosa dire allora se, al giorno d’oggi uno
zootomista bigotto ha la sfrontatezza di affermare una assoluta e
radicale differenza tra uomo e animale, fino ad arrivare ad
aggredire e insultare gli zoologi onesti, i quali, alieni da ogni
clericalismo, servilismo e tartufianismo [bigotteria] proseguono la
loro ricerca attenendosi alla natura e alla verità? Una
simile persona deve essere davvero cieca in tutti i cinque sensi e
totalmente cloroformizzata dal foetor judaicus [fetore giudaico] per
non riconoscere l’identità di ciò che è
essenziale e principale nell’uomo e nell’animale.
Ciò che contraddistingue l’uomo dall’animale non sta in
ciò che è primario, ossia nel principio, nella forza
primordiale, nell’intima essenza, nel nucleo di entrambi i fenomeni,
poiché per entrambi si tratta della volontà
dell’individuo.
La differenza sta solo in ciò che è secondario, ossia
nell’intelletto, nel grado della facoltà conoscitiva, la
quale nell’uomo è incomparabilmente maggiore grazie alla
facoltà supplementare della conoscenza astratta, ossia la
ragione. Questa tuttavia deriva chiaramente solo dal maggiore
sviluppo cerebrale, quindi dalla differenza somatica
(principalmente, in termini di quantità) di un singolo
organo: il cervello.
Incomparabilmente molto più grande è, invece,
ciò che vi è di identico, dal punto di vista psichico
e somatico, tra l’uomo e l’animale. A quello [zootomista bigotto]
occidentale e giudaizzato, che disprezza gli animali e idolatra la
ragione, si dovrebbe ricordare che, esattamente come lui, anche il
cane è stato allattato dalla propria mamma.
Già in precedenza ho criticato perfino Kant per essere caduto
in quello stesso errore dei suoi contemporanei e compatrioti.
La morale del cristianesimo non ha rispetto per gli animali. Questo
è un suo difetto che farebbe meglio a confessare piuttosto
che perpetuare. È tuttavia una cosa sorprendente,
poiché la morale cristiana mostra per il resto una grande
concordanza con quella del Brahmanesimo e del Buddhismo, anche se
meno chiaramente espressa e non portata agli estremi.
È difficile non pensare che la morale cristiana, come pure
l’idea del Dio diventato uomo (Avatar) sia provenuta originariamente
dall’India e giunta in Giudea attraverso l’Egitto. Così il
cristianesimo sarebbe un bagliore della luce atavica indiana il
quale, riflesso dalle rovine egizie, è caduto purtroppo sul
suolo giudaico.
Un emblema scherzoso del suddetto deprecabile difetto della morale
cristiana, nonostante la grande concordanza con quella indiana,
potrebbe essere intravisto nel fatto che Giovanni Battista si
presenta come un Sanyassi indiano, tuttavia vestito di pelli
animali!
Questa cosa - come tutti sanno - sarebbe un orrore per uno hindu,
tanto che la Reale Società di Calcutta ha ricevuto il suo
esemplare dei Veda solo dopo aver promesso che non lo avrebbe
rilegato in cuoio, alla moda europea; per questo si trova in quella
biblioteca rilegato in seta.
Un analogo caratteristico contrasto ci viene offerto da un lato
dalla parabola evangelica della pesca di Pietro,211 propiziata da un
miracolo del Redentore a tal punto, che le barche si riempiono di
pesci fino quasi ad affondare, e dall’altro dall’aneddoto di
Pitagora - cultore della saggezza egizia - il quale, mentre i
pescatori stanno tirando la rete ancora sott’acqua, compra l’intero
pescato solo per poter ridare immediatamente la libertà a
tutti i pesci catturati.212
La pietà per gli animali sta in rapporto talmente stretto con
la bontà di carattere, da poter con sicurezza affermare che
chi è crudele con gli animali non può essere un uomo
buono. Essa mostra di scaturire dalla stessa fonte della
virtù da praticare nei confronti degli uomini.
Così, ad esempio, una persona sensibile, al ricordo di avere
immeritatamente, gratuitamente, oppure oltre il necessario,
maltrattato il proprio cane, cavallo o scimmia in un momento di
malumore, o d’ira, o per aver bevuto un po’ troppo, prova
esattamente la stessa insoddisfazione nei propri confronti - il
cosiddetto rimprovero di coscienza - che prova al ricordo di un
torto commesso contro un uomo.
Ricordo di aver letto di un cacciatore inglese in India, il quale,
dopo aver sparato a una scimmia, non ha più potuto
dimenticare lo sguardo che quella gli ha gettato mentre stava
morendo, cosicché da quel giorno non ha più sparato a
una scimmia. Lo stesso è successo a Wilhelm Harris, un vero
Nimrod [mitico cacciatore biblico], che per puro piacere della
caccia ha viaggiato nell’Africa nera negli anni 1836-37.
Nel suo libro Viaggi (pubblicato nel 1838 a Bombay) racconta di
essere andato, il giorno dopo aver sparato al suo primo elefante
(una femmina), alla ricerca dell’animale ferito a morte. Tutti gli
altri elefanti erano fuggiti da quella zona. Solo il piccolo della
vittima aveva passato la notte accanto al cadavere della madre. Alla
vista dei cacciatori, dimenticando ogni paura, si fece loro incontro
manifestando chiaramente e animatamente la propria assoluta
disperazione, e li cinse barrendo con la proboscide per chiedere il
loro aiuto. Lo Harris afferma di aver provato in quel momento un
vero e proprio rimorso per quello che aveva fatto, e di essersi reso
conto di aver compiuto quasi un assassinio.
Ora vediamo la sensibile nazione inglese contraddistinguersi da
tutte le altre per una accentuata pietà per gli animali, e
non perdere alcuna occasione per dimostrarlo. Nonostante il suo
deprecabile ‘freddo scetticismo’ in generale (come scrive il
principe Pückler nelle Lettere di un morto), questa nazione
è stata capace di assecondare la pietà per gli animali
a tal punto, da colmare tramite la legge questa lacuna della
religione nel campo della morale.
Proprio questa lacuna è il motivo per cui in Europa e in
America c’è bisogno di associazioni per la protezione degli
animali, le quali possono operare solo con l’aiuto della giustizia e
della polizia. In Asia le religioni stesse garantiscono agli animali
abbastanza protezione, cosicché laggiù nessuno pensa a
simili associazioni.
Nel frattempo anche in Europa cresce sempre più la coscienza
dei diritti degli animali, nella misura in cui svanisce, lentamente
fino a scomparire, il curioso concetto di un mondo animale creato
per essere sfruttato dall’uomo e per divertirlo, cosicché gli
animali vengono trattati come cose. Questo concetto, la cui origine
risale all’Antico Testamento (come ho dimostrato nel secondo libro
dei Parerga, § 177), sta alla base del trattamento rozzo e
senza rispetto degli animali in Europa.
Ad onore degli inglesi bisogna ricordare che in Inghilterra, per la
prima volta, la legge ha seriamente preso le difese degli animali
anche contro ogni trattamento crudele. Il malvagio che commette un
abuso contro un animale deve infatti pagare realmente una multa,
anche se fosse il proprietario dell'animale.
Ma non ancora soddisfatti di questo, a Londra è addirittura
sorta un’associazione di volontari per la protezione degli animali,
la Società per la prevenzione della crudeltà nei
confronti degli animali, la quale si dà molto da fare per
combattere la tortura degli animali, con un notevole dispendio di
risorse proprie. I suoi membri - la cui presenza è da temere
in ogni luogo - sorvegliano e poi denunciano chi tortura gli esseri
sensibili privi di parola.213
A Londra, in prossimità dei ponti erti, la società per
la protezione degli animali ha disposto un tiro di cavalli che ogni
carro con carico pesante può gratuitamente utilizzare. Non
è forse una bella cosa che merita il nostro plauso tanto
quanto una buona azione in favore degli uomini?
Anche la Società filantropica di Londra ha dal canto suo
bandito nel 1837 un premio di 30 sterline per la migliore
spiegazione delle argomentazioni morali contro la tortura degli
animali, le quali dovevano tuttavia essere tratte esclusivamente dal
cristianesimo (questa clausola rende certamente più difficile
il compito). Il premio è stato attribuito nel 1839 al signor
Macnamara.
A Filadelfia è sorta per fini analoghi la Società
degli amici degli animali. Al suo presidente il signor T. Forster
(un inglese) ha dedicato il suo libro - originale e ben scritto -
Philozoia: considerazioni morali sulla condizione attuale degli
animali e i mezzi per migliorarla (Brussel, 1839). L’autore - da
buon inglese - cerca ovviamente di dare un sostegno tratto dalla
Bibbia alle sue esortazioni a favore di un trattamento umano degli
animali. Tuttavia non vi trova alcun appiglio, cosicché alla
fine si deve aggrappare all’argomento che Gesú è nato
in una stalla, accanto al bue e all’asinello, proprio per mostrare
simbolicamente che dobbiamo considerare gli animali come nostri
fratelli e trattarli di conseguenza.
Quanto sopra dimostra che la corda morale che stiamo toccando
comincia a vibrare anche nel mondo occidentale.
Ma in generale la pietà per gli animali non ci deve spingere
fino al punto - come fanno i Brahamini - di astenerci dal mangiare
carne, poiché in natura la sensibilità al dolore
procede di pari passo con l’intelligenza. Pertanto l’uomo,
soprattutto nei paesi nordici, se si astenesse dal nutrirsi di carne
andrebbe incontro a delle sofferenze maggiori di quelle a cui
è sottoposto un animale tramite una morte rapida e repentina,
le quali in ogni caso dovrebbero anche venir alleviate con il
cloroformio. Senza una alimentazione carnivora il genere umano nei
paesi nordici non potrebbe sopravvivere.
Secondo lo stesso principio, l’uomo fa lavorare a proprio vantaggio
gli animali ma compie una crudeltà solo quando li costringe a
uno sforzo eccessivo.
8. Proviamo - una volta tanto - ad astenerci da ogni possibile
indagine metafisica sulla motivazione ultima della compassione
(dalla quale soltanto possono scaturire le azioni non egoistiche) e
consideriamola solo dal punto di vista empirico, come se la
compassione fosse una semplice istituzione naturale.
Ognuno vedrebbe allora chiaramente che per alleviare il più
possibile le innumerevoli e varie sofferenze a cui la vita è
esposta (alle quali nessuno può sfuggire del tutto), come
pure per porre un contrappeso al bruciante egoismo (che riempie ogni
essere e che spesso degenera in malvagità), la natura non
avrebbe potuto fare nulla di meglio che impiantare nel cuore
dell’uomo questo stupefacente dispositivo.
Grazie a esso la sofferenza di uno viene percepita e condivisa da un
altro, e da esso si alza la voce che, secondo le circostanze, grida
forte e chiaro: “Abbi pietà!”, oppure: “Aiuta!”.
Di sicuro, per il benessere di tutti, dalla reciproca
solidarietà che nasce dalla compassione c’era da aspettarsi
molto di più che da un rigido comandamento di un dovere
astratto e generico, dedotto da rigorose considerazioni razionali e
combinazioni di concetti. Da un simile comandamento, infatti, c’era
da aspettarsi un successo ben minore, poiché per l’uomo
comune i principi generali e le verità astratte sono del
tutto incomprensibili: per lui conta solo ciò che è
concreto.
Purtroppo l’umanità intera, ad eccezione di una piccolissima
parte, è sempre stata incolta e continuerà
necessariamente ad esserlo poiché il molto lavoro fisico,
necessario e inevitabile per l’intera comunità, non consente
di provvedere adeguatamente all’educazione dello spirito.
Invece, per destare la compassione (l’unica e comprovata fonte delle
azioni non egoistiche, e vero fondamento della moralità) non
c’è bisogno di alcuna conoscenza astratta. Basta solo la
conoscenza intuitiva, la semplice comprensione del caso concreto,
per destarla immediatamente senza alcuna mediazione da parte della
ragione.
9. In piena sintonia con la precedente considerazione [la
compassione poggia su una conoscenza intuitiva, non astratta], il
fondamento che io ho attribuito all’etica mi lascia senza alcun
predecessore di scuola filosofica.
Anzi, stando ai loro insegnamenti il mio fondamento sarebbe un
paradosso, poiché parecchi di loro, ad esempio gli stoici214,
Spinoza215 e Kant216, addirittura disapprovano e respingono la
compassione.
Tuttavia il mio fondamento ha dalla sua parte l’autorità del
più grande moralista dell’epoca moderna, come di sicuro
è J. J. Rousseau, il profondo conoscitore del
cuore umano. Rousseau ha tratto la sua saggezza non dai libri ma
dalla vita, e il suo insegnamento non è indirizzato alla
cattedra, bensì all’umanità. Nemico dei pregiudizi e
allievo della natura, è il solo al quale la natura ha
conferito il dono di insegnare la morale senza essere noioso,
dicendo la verità e toccando il cuore degli uomini.
Dopo essere stato in precedenza il più possibile stringato
con le citazioni, mi permetterò ora di riportare alcuni passi
di Rousseau a conferma della mia tesi.
Nel Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli
uomini Rousseau dice:
“C’è un altro principio, che Hobbes non ha colto e che
è stato regalato all’uomo per mitigare, in alcune
circostanze, la ferocia del suo egocentrismo e il desiderio estremo
del proprio tornaconto: la spontanea ripugnanza alla sofferenza di
un suo simile. Penso di non dovermi difendere da alcuna
contraddizione se attribuisco all’essere umano un’unica virtù
innata: la compassione. Su di essa deve convenire - senza alcuna
remora - anche il più accanito detrattore di qualsivoglia
umana virtù.
Mandeville ha capito che gli uomini, senza il dono naturale della
compassione, sarebbero dei mostri ed a nulla servirebbe qualsiasi
loro dottrina morale, ma non ha colto la forza della compassione
come supporto della ragione. Solo dalla compassione derivano tutte
le virtù sociali che lui attribuisce agli uomini. In effetti,
cosa sono la generosità, la clemenza, l’umanità, la
pietà verso i deboli, i colpevoli e la specie umana in
generale?
La benevolenza e l’amicizia stesse risultano (se bene analizzate)
prodotte dalla pietà costante indirizzata verso una precisa
finalità. Volere che qualcuno non soffra coincide con il
desiderare che sia felice. La compassione sarà massima quando
lo spettatore si identificherà totalmente con colui che
soffre. È quindi assolutamente certo che la compassione
è un sentimento naturale il quale, mitigando dentro ogni
individuo l’amore per sé stesso, concorre alla mutua
conservazione di tutta la specie.
È la compassione che nello stato di natura tiene il posto
delle leggi, dei costumi e delle virtù, con il vantaggio che
a nessuno verrà la tentazione di disubbidire alla sua voce.
È lei che farà desistere un prepotente selvaggio dal
togliere a un bambino fragile, o a un vecchio infermo, i loro mezzi
di sussistenza acquisiti a stento, fintanto che gli rimane la
speranza di trovare i suoi altrove.
È lei che al posto della sublime massima della giustizia
razionale: ‘fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te’,
ispira in tutti gli uomini quest’altra massima della bontà
naturale, meno perfetta ma probabilmente più utile della
precedente: ‘fai il bene tuo causando il minor male possibile agli
altri’. In una parola, è in questo sentimento naturale,
più che nelle sottili argomentazioni, che va ricercata la
ripugnanza che ogni uomo prova nel fare il male, a prescindere dalle
massime apprese tramite l’educazione”.217
Si confronti con quanto Rousseau dice nello Emilio, dove tra l’altro
afferma:
“In effetti come possiamo lasciarci muovere dalla compassione se non
trasportandoci fuori di noi stessi fino a identificarci con l’essere
che soffre, lasciando quasi il nostro essere per assumere quello
dell’altro. Noi soffriremo tanto quanto crederemo che l’altro
soffra. Non sarà dentro noi, ma dentro lui che proveremo
dolore. Dobbiamo offrire al giovane degli oggetti sui quali possa
agire la forza espansiva del suo cuore, affinché lo dilatino
fino a comprendere gli altri. Deve potere incontrare se stesso fuori
dal proprio Io ed evitare tutto ciò che incatena, contrae e
restringe l’umano sé stesso”.218
Privo del sostegno di eminenti esponenti di scuole filosofiche posso
solo allegare che i cinesi ammettono l’esistenza di cinque
virtù cardinali (tschang) tra le quali la prima è la
compassione (sin) e le altre quattro sono: la giustizia, la
cortesia, la saggezza e la sincerità.219
Analogamente vediamo anche che presso gli Hindu, sui cippi eretti in
memoria dei principi defunti, la compassione verso uomini e animali
sta al primo posto tra le virtù attribuite loro. Pausania
scrive che:
“Nell’Agorà di Atene c’è un altare della Pietà,
alla quale gli Ateniesi - soli tra i Greci - rendono onore,
considerandola la divinità più utile nella vita umana
e nei cambiamenti di fortuna”.220
Di questo altare parla anche Luciano nel Timone. Un detto di Focione
- tramandatoci da Stobeo - descrive la pietà come la cosa
più sacra dell’uomo:
“Come da un tempio non si deve togliere un altare, così dal
cuore umano non si deve rimuovere la pietà”.221
Nel libro Sapientia Indorum222 - traduzione greca del Pantscha
Tantra - troviamo:
“Si dice infatti che la prima tra le virtù sia la
compassione”.
Vediamo quindi che la sorgente della moralità è stata
chiaramente riconosciuta in tutti i tempi e in tutti i paesi, tranne
che in Europa, principalmente a causa del foetor judaicus [fetore
giudaico] che qui pervade ogni cosa. Per loro ci deve essere
assolutamente un comandamento del dovere, una legge morale, un
imperativo, insomma un ordine o un comando, al quale si deve
ubbidire. Da questa convinzione non vogliono recedere, né
vogliono riconoscere che alla base di un simile comportamento
c’è solo l’egoismo.
Senza dubbio alcune persone eccellenti hanno avuto l’intuizione
della verità. È successo a Rousseau (come abbiamo
precedentemente detto) e anche a Gotthold Ephraim Lessing, il quale
in una lettera del 1756 scrive:
“L’uomo che più prova compassione è il migliore degli
uomini, il più propenso alle virtù sociali e ad ogni
manifestazione di grandezza d’animo”.
§ 20 Differenza morale dei caratteri
L'ultima domanda, la cui risposta potrà contribuire al
completamento del fondamento dell’etica che abbiamo presentato,
è:
“Da dove proviene la così grande differenza nel comportamento
morale degli uomini?”.
Se la compassione è la molla di spinta fondamentale della
genuina - ossia disinteressata - giustizia e dell’amore verso il
prossimo, perché essa muove una determinata persona ma non
un’altra? Può forse l’etica, una volta scoperta la molla di
spinta morale, metterla anche in moto? Può l’etica
trasformare una persona dura di cuore in una persona caritatevole,
giusta e amorevole?
Certamente no. La differenza di carattere è innata e non
può cambiare. La malvagità di una persona malvagia
è innata, come i denti e le ghiandole velenifere di un
serpente. Come il serpente non può cambiare denti e
ghiandole, così anche il malvagio non può cambiare il
proprio carattere. Velle non discitur [il volere non si impara] ha
detto il precettore di Nerone.223
Platone dibatte a fondo nel Menone la questione della
possibilità di apprendere la virtù. Egli riporta una
frase di Teognide:
“Con tutti i tuoi insegnamenti, non potrai far diventare buono un
uomo cattivo”.224
Platone giunge alla conclusione che:
“La virtù non è né per natura né per
insegnamento; ma in coloro nei quali è presente, essa
sopravviene per sorte divina, senza l’intervento
dell’intelletto”.225
Mi sembra che la differenza tra fÚsei [fùsei: per
natura] e qe…v mo…rv [théia mòira: per sorte divina]
corrisponda quasi alla differenza tra ‘fisico’ e ‘metafisico’.
Già Socrate, il padre dell’etica, aveva affermato (a quanto
riferisce Aristotele nella Etica grande):
“Non dipende da noi essere buoni o cattivi”.226
Lo stesso Aristotele si esprime nel medesimo senso:
“Sembra infatti che per tutti gli uomini i tratti del carattere
siano determinati dalla natura: è per nascita, infatti, che
siamo giusti o saggi o coraggiosi, e così via”.227
Lo stesso convincimento troviamo chiaramente espresso negli
antichissimi frammenti (forse non autentici) del pitagorico Archita,
che Stobeo ci ha conservato (in dialetto dorico) nella sua
Antologia:
“Le virtù che si sviluppano da argomentazioni e
dimostrazioni, dovrebbero piuttosto essere chiamate conoscenze,
mentre la vera virtù è quell’ottima disposizione
morale della parte irrazionale della nostra anima, per la quale gli
altri dicono che abbiamo una certa qualità, per esempio che
siamo generosi o giusti o saggi”.228
Se si esaminano tutti i vizi e le virtù che Aristotele ha
raccolto in rapida rassegna nel De virtutibus et vitiis, vediamo che
entrambi possono essere considerati facoltà innate, anzi solo
così risultano autentici. Se invece, in seguito alla
riflessione razionale venissero praticati di proposito, saprebbero
di simulazione e mancherebbero di genuinità. Per questo,
nell’urgenza delle circostanze non si potrebbe affatto contare sulla
loro persistenza e conferma. Non diversamente succede anche alla
virtù dell’amore per il prossimo, che Aristotele - come tutti
gli antichi filosofi - non prende neppure in considerazione.
Nello stesso senso - anche se con il suo tipico scetticismo -
Montaigne dice:
“Sarà poi vero che per essere assolutamente buoni dobbiamo
esserlo grazie a una proprietà occulta, naturale e
universale, senza legge, senza ragione e senza esempio?”.229
Lichtenberg afferma a chiare lettere:
“Essere virtuosi di proposito serve ben poco. Ci vuole sentimento o
disposizione congenita”.230
Anche la dottrina originale del cristianesimo è in accordo
con questa visione. Infatti, nel Discorso della montagna si dice:
“L’uomo buono tira fuori il bene dalla ricca riserva che ha in
cuore, mentre l’uomo cattivo, dalla sua riserva di cattiveria, tira
fuori il male”.231
Nei due versetti che precedono quest’ultima frase questo concetto
viene anticipato, in maniera figurata, con l’immagine di un
determinato frutto prodotto regolarmente da un determinato
albero.232
Tuttavia il primo a chiarire perfettamente questo importante punto
è stato Kant, con la sua grande dottrina del carattere
empirico e del carattere intelligibile. Alla base del carattere
empirico, il quale - in quanto fenomeno - si manifesta nel tempo in
una molteplicità di azioni, sta il carattere intelligibile,
il quale, invece, costituisce la ‘cosa in sé’ di quel
fenomeno.233
Come tale, il carattere intelligibile è indipendente dal
tempo, dallo spazio, dalla pluralità e dal cambiamento. Solo
con questa dottrina si spiega la sorprendentemente ferrea
invariabilità del carattere, ben nota a ogni persona con un
minimo di esperienza.
La realtà e l’esperienza hanno sempre contrapposto, con
successo, l’invariabilità del carattere alle promesse di una
morale che vorrebbe migliorare l’uomo e che parla di progresso nel
campo della virtù, e hanno così dimostrato che la
virtù è innata e non può essere acquisita
tramite le prediche.
Ma supponiamo pure che il carattere originario possa essere mutato e
che l’uomo possa migliorare tramite le correzioni, frutto di una
migliore conoscenza. Supponiamo anche che sia possibile migliorare
il carattere tramite la morale in un ‘costante progresso verso il
bene’, come quell’etica superficiale afferma.
In questo caso non sarebbe possibile che le numerosissime
istituzioni religiose e tutte le campagne moralizzatrici abbiano
fallito il loro obiettivo. In media, infatti, almeno la metà
più anziana degli uomini dovrebbe essere significativamente
migliore della più giovane. Di questa differenza peró
non si trova alcuna traccia. Al contrario. Spesso ci aspettiamo
qualcosa di buono più dai giovani che dai vecchi, che la vita
di solito rende peggiori.
Certo, può succedere che nella vecchiaia qualcuno sembri un
poco migliore e qualcun altro, invece, un poco peggiore di quanto lo
fosse in gioventù. Ma questo dipende semplicemente dal fatto
che nella vecchiaia, in seguito alla conoscenza più matura e
ripetutamente rettificata, il carattere di una persona si manifesta
in maniera più limpida e chiara. In gioventù invece
l’ignoranza, gli errori e le chimere, talvolta pongono in primo
piano dei falsi motivi e nascondono quelli veri.234
Che tra i delinquenti definitivamente condannati dalla Giustizia ci
siano più giovani che vecchi deriva dal fatto che, se esiste
una predisposizione nel carattere verso simili imprese, presto essa
trova l’occasione per manifestarsi di fatto, raggiungendo
così il suo obiettivo, oppure la galera e il patibolo.
Viceversa se le occasioni, capitate nel corso di una lunga vita, non
sono riuscite a spingere una determinata persona a commettere alcun
crimine, in seguito quella persona non troverà facilmente
motivi per farlo. Per questo mi sembra che la vera ragione del
rispetto tributato alla vecchiaia consista nell’aver superato con
successo la prova di una lunga vita, dimostrando così la
propria integrità morale.
Questa è in effetti la condizione necessaria per riscuotere
rispetto. In accordo con questo modo di vedere le cose, nella vita
pratica nessuno si è mai lasciato ingannare dalle promesse
dei moralisti. Al contrario. Nessuno confida più in chi ha
agito male una sola volta, mentre tutti guardano sempre con fiducia
alla nobiltà d’animo di chi una volta ha dato prova di
averne, nonostante tutti i cambiamenti che possono essere
sopraggiunti.
Operari sequitur esse [l’operare è conseguenza dell’essere]
è una feconda affermazione della scolastica. Ogni cosa al
mondo agisce secondo l’immutabile natura che costituisce il suo
essere e la sua essentia [essenza]. Lo stesso succede anche con
l’uomo: come uno è così agisce, anzi così deve
agire. Il liberum arbitrium indifferentiae [il libero arbitrio di
indifferenza] è una invenzione del periodo infantile della
filosofia già da molto tempo smentita, che tuttavia alcune
vecchie donnicciole, con il tocco di professore, si compiacciono
ancora di trascinarsi dietro.
Le tre principali molle di spinta morale dell’uomo - ossia
l’egoismo, la malvagità e la compassione - sono presenti in
ogni individuo in proporzioni incredibilmente diverse. A seconda di
queste proporzioni, determinati motivi avranno effetto su di lui e
determinate azioni verranno intraprese.
Su un carattere egoistico solo i motivi egoistici hanno effetto,
cosicché i motivi che muovono alla compassione, o che
spingono alla malvagità, non potranno prevalere su lui. Un
simile individuo non sacrificherà il proprio interesse
né per vendicarsi di un nemico, né per aiutare un
amico.
Un altro carattere, invece, particolarmente sensibile ai motivi
malvagi, spesso non avrà neppure timore di pesanti
conseguenze sfavorevoli per la propria persona, pur di fare del male
agli altri. Esistono infatti dei caratteri che provano un tale
piacere nel procurare sofferenze agli altri, da vincere le proprie
altrettanto grandi sofferenze
“... pur di fare del male a un altro, senza preoccuparsi di se
stesso”.235
Simili individui affrontano con morboso piacere una battaglia dove
prevedono di causare grandi ferite e di subirne altrettanto grandi.
Addirittura - come l’esperienza ha spesso dimostrato - vogliono
deliberatamente uccidere chi ha fatto loro del male e subito dopo
uccidere anche sé stessi, per sfuggire alla punizione.
La bontà di cuore, invece, consiste in una pietà
universale, profondamente sentita verso tutti gli esseri dotati di
vita, soprattutto verso gli uomini. Infatti, con l’aumentare del
grado di intelligenza aumenta anche, di pari passo, la
sensibilità al dolore. Pertanto le numerose sofferenze
spirituali e corporali dell’uomo destano compassione molto
più del dolore solamente fisico - ed anche più ottuso
- degli animali.
La bontà di carattere impedirà innanzitutto di ledere
in qualsiasi modo gli altri e poi spingerà anche a prestare
aiuto, ogni qualvolta si troverà di fronte alla sofferenza
altrui.
Anche in questo campo si può giungere all’estremo (come
succede in direzione opposta con la malvagità) quando un
carattere di rara bontà prende maggiormente a cuore la
sofferenza altrui che la propria, fino a compiere un sacrificio in
favore dell’altro che farà soffrire lui stesso più di
quanto l’altro stesse effettivamente soffrendo, prima del suo aiuto.
Quando poi si tratta di aiutare più di una o molte persone,
egli giungerà eventualmente fino a sacrificare la propria
vita, come ha fatto Arnold von Winkelried. Müller racconta che,
nel v secolo, Paolino, vescovo di Nola, durante l’incursione dei
Vandali dall’Africa in Italia:
“... dopo aver consegnato, per riscattare i prigionieri, tutti i
tesori suoi, della sua chiesa e dei suoi amici, quando vide lo
strazio di una vedova, alla quale avevano portato via l’unico
figlio, offrì sé stesso in cambio come schiavo. In
quel tempo, chiunque fosse in età utile e non fosse caduto
sotto la spada, veniva portato come prigioniero a Cartagine”.236
A seconda di quella differenza incredibilmente grande, innata e
originaria, ognuno verrà prevalentemente mosso dai motivi
verso i quali lui stesso possiede una spiccata sensibilità.
Esattamente come una determinata sostanza reagisce solo con gli
acidi, mentre un’altra solo con gli alcali. Come le sostanze
chimiche, neppure il carattere può cambiare.
I motivi filantropici, che esercitano una spinta così potente
su un carattere buono, non hanno invece, come tali, alcun effetto su
chi è sensibile solo ai motivi egoistici. Se si volesse
indurre un simile carattere a compiere delle azioni filantropiche,
sarà possibile solo con il miraggio che l’attenuazione della
sofferenza altrui porterà anche, in qualche modo, un proprio
vantaggio.
In fin dei conti, la maggior parte delle dottrine morali non sono
altro che tentativi vari in questo senso.
In questo modo la sua volontà viene semplicemente sviata, non
migliorata. Per un reale miglioramento sarebbe necessario cambiare
completamente la sua sensibilità verso i motivi. Ad esempio,
facendo in modo che uno non sia più indifferente al dolore
altrui, che un secondo non provi più piacere nel causare
sofferenze, che ad un terzo il minimo incremento del proprio
benessere non prevalga e non neutralizzi ogni altro motivo.
Ma tutto questo è certamente ancora più impossibile
che tramutare il piombo in oro, poiché richiederebbe che allo
stesso tempo - per così dire - si rovesciasse il cuore nel
petto dell’uomo e si ricreasse il suo animo nel più profondo.
Il massimo che si può fare, invece, è illuminare la
mente, migliorare la comprensione, portare l’uomo a una più
corretta conoscenza di ciò che esiste oggettivamente e dei
veri rapporti della vita. Con questo non si fa altro che permettere
alla natura della propria volontà di manifestarsi in maniera
più coerente, chiara e netta, e di esprimersi in maniera
autentica.
In effetti, come parecchie buone azioni si basano su falsi motivi o
su vane - anche se bene intenzionate - promesse di vantaggi
personali in questo o nell’altro mondo, così anche parecchie
cattive azioni si basano semplicemente su una falsa conoscenza dei
rapporti della vita umana.
Su questo principio si basa il sistema penitenziario americano. Esso
si propone non di cambiare il cuore di un delinquente, ma
semplicemente di mettergli la testa a posto, così da fargli
capire che il lavoro e l’onestà sono un cammino verso il
proprio bene, più sicuro e addirittura più facile del
crimine.
Facendo leva sui motivi si può costringere alla
legalità, ma non certo alla moralità. Si può
cambiare il comportamento ma non la volontà, alla quale
soltanto spetta il valore morale. Non si può cambiare
l’obiettivo al quale la volontà aspira, bensì solo il
cammino che la volontà deve percorrere per raggiungerlo.
L’educazione può cambiare la scelta dei mezzi, ma non gli
obiettivi finali. Questi sono stabiliti per ciascuno dalla propria
volontà, in conformità alla propria originaria natura.
Ad un egoista si può mostrare che, rinunciando ad alcuni
piccoli vantaggi, potrebbe ottenere vantaggi maggiori. Al malvagio
si può mostrare che, nel procurare sofferenze ad altri,
potrebbe causare maggiori sofferenze a sé stesso. Tuttavia
non si può convincere nessuno a rinunciare all’egoismo e alla
malvagità, esattamente come non si può convincere il
gatto a rinunciare al suo istinto di cacciare il topo.
Tramite l’aumento della comprensione e la spiegazione dei veri
rapporti della vita - ossia, l’illuminazione della mente - persino
la bontà di carattere può essere sollecitata a
manifestare in maniera più conseguente e perfetta la propria
essenza.
Ad esempio, mostrando le conseguenze remote che le nostre azioni
potrebbero avere sugli altri, come le sofferenze che potrebbero
derivare, indirettamente o anche con il semplice trascorrere del
tempo, da questa o da quella azione, che noi non ritenevamo poi
così cattiva. Così pure illustrando le conseguenze
deleterie di parecchie buone azioni, come, ad esempio, tralasciare
di punire un criminale, e sottolineando la precedenza da attribuire
sempre al neminem laede [non fare del male a nessuno] rispetto allo
omnes juva [aiuta tutti].
In ogni caso, in questo senso esiste solo un’educazione morale e
un’etica che aiuta a migliorare. Altre possibilità non
esistono, e il limite lo si riconosce chiaramente. La testa viene
rischiarata, ma il cuore rimane sempre lo stesso.
La cosa fondamentale ed essenziale che fa la differenza nel campo
della moralità - come pure nel campo dell’intelligenza e
delle capacità fisiche - è l’innato: l’artificioso
può al massimo offrire solo un sostegno.
Ognuno è quello che è, direi quasi ‘per grazia di
Dio’, jure divino, fÚsei, qe…v mo…rv [fùsei,
théia mòira: per natura, per sorte divina].
“Tu sei alla fin fine ... quello che sei.
Poniti in capo una
parrucca con millantamila ricci
ed ai piedi zoccoli alti tre gran
palmi,
ma tu rimarrai pur sempre quello che sei”.237
Già da tempo sento il lettore porre la domanda: «Dove
stanno allora la colpa e il merito?». Per la risposta lo
rinvio al paragrafo § 10. Là ha già trovato posto
ciò che dovrei dire ora qui, in stretta relazione con la
dottrina di Kant sulla coesistenza della libertà e della
necessità. Lo invito quindi a rileggere quanto è
già stato scritto. In conformità a quella dottrina,
con il subentrare dei motivi lo operari [l’operare] diventa
assolutamente necessario. Pertanto la libertà - che si
annuncia esclusivamente tramite la responsabilità -
può stare solo nello esse [essere].
È vero che i rimproveri della coscienza riguardano
innanzitutto ed evidentemente ciò che abbiamo fatto, ma
essenzialmente e fondamentalmente riguardano ciò che siamo.
In realtà le nostre azioni sono solo una valida testimonianza
e stanno con il nostro carattere nello stesso rapporto in cui stanno
i sintomi con la malattia. Nello esse, in ciò che siamo, deve
stare anche la colpa o il merito.
Ciò che negli altri stimiamo e amiamo, oppure disprezziamo e
odiamo, non è qualcosa di mutevole e variabile, bensì
di stabile e duraturo in eterno: ciò che loro sono. Se per
caso dovessimo ravvederci al riguardo, non diremmo che sono cambiati
loro, bensì che ci siamo sbagliati noi.
Così pure l’oggetto della soddisfazione, o
dell’insoddisfazione, nei nostri confronti è ciò che
noi siamo, ciò che irrevocabilmente siamo e restiamo. Lo
stesso vale anche per le doti intellettuali e addirittura per le
caratteristiche fisionomiche. Come potrebbe allora la colpa, o il
merito, non stare in ciò che siamo?
La coscienza è la conoscenza che si va sempre più
perfezionando di noi stessi, il protocollo dei fatti che si va via
via riempiendo. Il tema dibattuto all’interno della nostra coscienza
sono innanzitutto le nostre azioni. Più precisamente, quelle
in cui non abbiamo prestato ascolto alla compassione (che ci
chiedeva perlomeno di non fare del male agli altri, o addirittura di
prestare loro aiuto e assistenza) poiché eravamo guidati
dall’egoismo o addirittura dalla malvagità. Oppure quelle
azioni in cui abbiamo dato ascolto a quell’appello, ripudiando
l’egoismo e la malvagità.
Entrambi i casi dimostrano quanto grande sia la differenza che
facciamo tra noi e gli altri. In questa differenza consiste, in fin
dei conti, il nostro grado di moralità o di
immoralità, ossia di giustizia e d’amore verso il prossimo,
oppure del loro contrario.
La memoria sempre più ricca delle azioni da questo punto di
vista significative va a completare sempre più il quadro del
nostro carattere e la conoscenza vera di noi stessi. Da questa
conoscenza sorge poi la soddisfazione, o l’insoddisfazione,
personale di ciò che siamo, a seconda che abbia prevalso
l’egoismo e la malvagità oppure la compassione, ossia, a
seconda che la differenza che noi abbiamo fatto tra noi stessi e gli
altri sia stata maggiore o minore.
Con questo stesso metro noi giudichiamo anche gli altri, il cui
carattere arriviamo a conoscere per via empirica, come il nostro,
seppure in maniera meno perfetta. E allora sorge l’elogio, il plauso
e la stima, oppure il biasimo, l’indignazione e il disprezzo.
Queste sono reazioni che nel giudizio di noi stessi si traducono in
soddisfazione oppure in insoddisfazione, la quale può
arrivare fino all’angoscia.
Molti modi di dire comuni testimoniano che anche i rimproveri, che
noi facciamo agli altri, fanno riferimento solo apparentemente alle
loro azioni bensì al loro carattere immutabile, e che la
virtù o il vizio sono considerati qualità permanenti,
inerenti al carattere.
Ad esempio: ‘adesso vedo come sei!’, ‘sul tuo conto mi sono
sbagliato’, now I see what you are! [adesso vedo cosa sei!],
voilà donc, comme tu es! [ecco dunque come sei!], ‘io non
sono così!’, ‘io non sono la persona capace di colpire alle
spalle!’. E inoltre: les âmes bien nées [le anime ben
nate], in spagnolo bien nacido [ben nato], eÙgen»j
[eughenés: nobile, generoso], eÙgšneia
[eughéneia: nobiltà, generosità], generosioris
animi amicus [un amico dall’animo più generoso], ecc.
La coscienza è condizionata dalla ragione solo per il fatto
che la ragione le permette di ricordare in modo più chiaro e
circostanziato. È naturale che la coscienza parli solo dopo
che il fatto sia avvenuto: per questo vien anche detta ‘coscienza
giudicante’. Prima che il fatto avvenga la coscienza può
parlare solo in senso improprio, ossia indirettamente, con
l’annunciare, grazie alle considerazioni tratte dal ricordo di
precedenti azioni simili, la propria futura disapprovazione di una
determinata azione, che per il momento viene solo progettata.
Questo per quanto riguarda l’aspetto etico della coscienza. Questo
aspetto rimane comunque un problema metafisico, che esula dal
presente compito, ma verrà toccato nell’ultimo paragrafo.
La sensibilità estremamente diversa, tra le diverse persone,
nei confronti dei motivi dell’egoismo e della malvagità,
oppure della compassione (sulla quale poggia il valore morale
dell’uomo) è qualcosa di innato e di immutabile. Questa
sensibilità non può essere spiegata con qualcosa, non
può essere conseguita tramite l’educazione, non può
sorgere nel tempo, mutare o addirittura dipendere dal caso.
Questo è in perfetto accordo con il ben noto fatto che la
coscienza è semplicemente la conoscenza empirica, tramite le
azioni compiute, del proprio carattere immutabile. Pertanto il corso
stesso della vita, con tutte le sue molteplici vicissitudini, non
è altro che il quadrante esterno di un meccanismo primario
interno, oppure lo specchio nel quale appare chiaramente,
all’intelletto di ognuno, l’essenza della propria volontà,
ossia del proprio intimo nucleo.
Chi si vuol dar la pena di riflettere su ciò che ho detto in
questo e nel paragrafo § 10, scoprirà nella mia
fondazione dell’etica una coerenza e una integrazione perfetta che
agli altri sistemi etici manca. Troverà inoltre una perfetta
corrispondenza con i dati di fatto dell’esperienza, che agli altri
manca ancora di più.
Solo la verità, infatti, può stare continuamente in
perfetto accordo con sé stessa e con la natura. Le false
teorie invece si contraddicono al loro interno con sé stesse
e all’esterno con l’esperienza, la quale ad ogni passo inoltra la
sua silenziosa protesta.
A questo punto mi rendo perfettamente conto - senza tuttavia provare
alcun rimorso o dispiacere - che le verità qui dedotte
cozzano frontalmente contro molti pregiudizi ed errori radicati
nella morale corrente, adatta per gli scolaretti. Ma innanzitutto io
qui non sto parlando né ai bambini né alla gente
comune, ma ad un’accademia illuminata, il cui quesito, puramente
teorico, riguarda le verità fondamentali dell’etica.
Ad una domanda estremamente seria un’accademia illuminata si aspetta
una risposta altrettanto seria. In secondo luogo ritengo che non
esistano errori privilegiati, errori utili o errori addirittura
innocui, bensì che ogni errore provochi infinitamente molti
più danni che benefici.
Se si volesse invece che gli attuali pregiudizi diventino il metro
di misura e la pietra di confine oltre la quale non si possa esporre
la verità, sarebbe più onesto lasciare che le
facoltà e le accademie di filosofia vadano scomparendo,
poiché ciò che non è, non deve neppure
sembrare.
iv - Interpretazione metafisica del fenomeno originario dell’etica
§ 21 Chiarimento riguardo a questa appendice
Precedentemente ho dimostrato che la molla di spinta morale [la
compassione] è un dato di fatto e che solo da essa possono
scaturire la giustizia disinteressata e il genuino amore verso il
prossimo. Su queste due virtù cardinali poggiano poi tutte le
altre virtù.
Per la fondazione dell’etica questo è sufficiente,
poiché l’etica deve essere necessariamente sostenuta da
qualcosa che esiste di fatto, riscontrabile nel mondo esterno o
nell’intimo della propria coscienza. Altrimenti si farebbe come la
maggior parte dei miei predecessori, i quali hanno postulato
arbitrariamente un principio astratto e da quello hanno poi dedotto
le prescrizioni morali, oppure, come ha fatto Kant, il quale
è partito dal semplice concetto di legge.
Mi sembra che quanto esposto nei precedenti paragrafi sia
sufficiente per adempiere il compito posto dalla Reale
Società, focalizzato sul fondamento dell’etica ma senza
pretese di una metafisica, la quale, a sua volta, motivasse il
fondamento.
Tuttavia mi rendo perfettamente conto che con questo lo spirito
umano non può sentirsi soddisfatto e appagato fino in fondo.
Come alla fine di ogni ricerca scientifica nell’ambito del mondo
reale, anche nel campo dell’etica lo spirito umano si trova di
fronte a un fenomeno originario il quale, nonostante riesca a
chiarire tutto quanto lo concerne e le sue conseguenze, rimane di
per sé inesplicato e si presenta come un enigma.
Anche qui sorge l’esigenza di una metafisica, ossia di una
spiegazione ultima dei fenomeni originari come tali e, nel loro
complesso, del mondo. Questa esigenza solleva la domanda del
perché ciò che osserviamo e comprendiamo sia
così e non in un altro modo, e di come dall’essenza in
sé delle cose scaturisca un determinato carattere del
fenomeno.
Anzi, per l’etica l’esigenza di una fondazione metafisica è
ancora più impellente, dal momento che tutti i sistemi
filosofici, come pure quelli religiosi, sono d’accordo sul fatto che
il significato etico delle azioni debba essere anche metafisico,
ossia andare ben oltre il semplice fenomeno delle cose e ogni
possibile esperienza, e stare in stretto rapporto con l’esistenza
del mondo intero e con il destino dell’uomo.
Tutti, infatti, ammettono che l’ultima vetta, sulla quale il
significato dell’esistenza si compie, è senza dubbio l’etica.
Questa convinzione è dimostrata anche dal fatto inconfutabile
che, all’avvicinarsi della morte, il corso dei pensieri di ogni uomo
- indipendentemente dal credere o meno in dogmi religiosi - prende
un indirizzo etico, cosicché ognuno si sforza di tirare le
somme del corso della propria vita soprattutto dal punto di vista
morale. A questo proposito valgono soprattutto le testimonianze
degli antichi, poiché esenti da ogni influsso cristiano.
Ricordo pertanto che questo dato di fatto è già stato
riportato in un passo, che Stobeo ci ha conservato, attribuito
all’antichissimo legislatore Zaleuco (Bentley e Heine, invece, lo
attribuiscono a un pitagorico):
“Ciascuno dovrebbe avere sempre ben presente il momento in cui se ne
andrà da questa vita. Infatti, tutti coloro che stanno per
morire sono presi dal pentimento al pensiero delle ingiustizie
commesse, e vorrebbero essersi comportati sempre in modo giusto”.238
Così pure - per citare un esempio storico - Pericle, sul
letto di morte, non volle sentir parlare delle sue grandi imprese,
ma solo del fatto di non aver mai fatto soffrire nessun ateniese.239
Per citare un fatto molto più prosaico del precedente, mi
viene in mente il resoconto delle dichiarazioni, di fronte ad una
giuria inglese, di un semplice quindicenne di colore. Questi, in
procinto di morire a causa delle ferite subite in una rissa su una
nave, mandò a chiamare di fretta tutti i suoi compagni, per
chiedere loro se lui li avesse mai umiliati od offesi. Ricevuta una
risposta negativa, provò una grande pace nell’animo.
Ripetutamente l’esperienza ci mostra che i moribondi, prima della
definitiva separazione, desiderano riconciliarsi con tutti.
Una ulteriore prova della tesi che l’etica deve avere un fondamento
metafisico è fornita da un ben noto fatto sperimentale.
Mentre per una prestazione di tipo intellettuale - anche se fosse il
massimo capolavoro del mondo - l’autore sarebbe anche disposto ad
accettare volentieri una ricompensa, qualora gli venisse offerta,
quasi tutti coloro che hanno compiuto qualcosa di moralmente
eccellente non sono invece disposti ad accettare alcuna ricompensa.
Questo è proprio il caso delle grandi azioni morali come, ad
esempio, quando uno salva la vita di una o più persone,
mettendo a rischio la propria. Di solito, anche se si tratta di un
povero, l’autore del gesto eroico non è disposto ad accettare
alcuna ricompensa, poiché si rende perfettamente conto che
con questa il valore metafisico della sua azione verrebbe menomato.
Bürger, nella conclusione della Ballata dell’uomo
coraggioso240, descrive poeticamente questo comportamento.
È una cosa che succede così spesso nella
realtà, che l’ho riscontrata più volte sui giornali
inglesi. Simili eventi sono comuni ed avvengono senza alcuna
distinzione di religione.
A causa di questa innegabile tendenza etico-metafisica della vita,
nessuna religione al mondo potrebbe stare in piedi senza fornire una
spiegazione del significato etico dell’esistenza. La religione,
infatti, ha nel suo aspetto morale il punto di aggancio nell’animo
dei fedeli.
Ogni religione pone il proprio dogma alla base dell’impulso morale
che l’uomo percepisce spontaneamente, anche senza esserne
consapevole, e ve lo lega così stretto, che dogma e impulso
morale sembrano quasi inseparabili. I preti addirittura si
preoccupano di spacciare la mancanza di fede e l’immoralità
come una sola e identica cosa. Per questo motivo, per chi crede in
una religione il termine ‘non credente’ equivale a ‘moralmente
cattivo’. Attributi come ‘senza Dio’, ‘ateo’, ‘pagano’, ‘eretico’ e
simili, sono comunemente usati come sinonimi di ‘moralmente
depravato’.
Per le religioni la spiegazione metafisica dell’impulso etico
è abbastanza semplice, poiché, partendo dalla fede,
possono pretendere che il fedele, sotto la minaccia di una pena
futura, creda anche nel loro dogma religioso.
Ma per i sistemi filosofici il gioco non è altrettanto
facile. Se andiamo ad esaminare i diversi sistemi vediamo che per
tutti le cose vanno piuttosto male, sia riguardo al fondamento
dell’etica, sia riguardo al punto di aggancio della loro etica con
la loro metafisica. Tuttavia la necessità di poggiare l’etica
sulla metafisica non può essere elusa, come ho già
sottolineato nell’introduzione tramite le autorevoli parole di Wolff
e di Kant.
Purtroppo il problema della metafisica è il più
difficile dei problemi che assillano lo spirito umano a tal punto,
che molti pensatori lo ritengono semplicemente insolubile.
In questo trattato mi trovo di fronte anche al particolare
svantaggio che la struttura di una monografia isolata comporta, la
quale mi impedisce di partire dal determinato sistema metafisico in
cui credo. Dovrei infatti o esporlo, il che sarebbe troppo lungo,
oppure darlo per noto, il che sarebbe molto improbabile.
Quindi, riguardo al tema specifico del principio metafisico
dell’etica, non posso utilizzare il metodo sintetico [deduttivo (dal
principio verso le conseguenze)] come ho fatto nei precedenti
paragrafi, ma solo quello analitico [induttivo], ossia dovrò
procedere a ritroso dalle conseguenze verso il principio.
La dura necessità di dover procedere senza alcuna premessa e
partire da nessun altro punto che non sia comune a tutti, mi ha
già reso molto difficile l’esposizione del fondamento
dell’etica. Andando a rivedere ciò che ho fatto (nei
paragrafi precedenti) mi sembra di aver realizzato a mano libera un
complesso artefatto, che di solito viene realizzato con l’ausilio di
specifici strumenti.
Ora che è stata sollevata la questione della spiegazione
metafisica del fondamento della morale, la difficoltà di
dover procedere senza dar nulla per scontato diventa così
grande, che non vedo altra soluzione se non quella di accontentarmi
di fare un abbozzo del tutto generico. Faró più
accenni che dimostrazioni, mostrerò la strada che porta al
traguardo ma senza seguirla fino in fondo, e soprattutto dirò
solo una piccola parte di quanto, in altre circostanze, dovrei
mettere in evidenza.
Nel procedere in questo modo faccio appello, oltre alle precedenti
ragioni, anche al fatto che il compito originariamente assegnato
è già stato risolto nei precedenti paragrafi. Quello
che sto per compiere ora è solo una opus supererogationis
[opera di super-erogazione (fatta volontariamente ben al di
là di quanto richiesto)] un contributo supplementare da dare
e da prendere a piacere.
§ 22 Fondamento metafisico
Ora dobbiamo abbandonare il solido terreno dell’esperienza, che
finora ha sostenuto tutti i nostri passi, per cercare l’ultima
spiegazione teorica in quel campo dove l’esperienza non ha alcuna
possibilità di spingersi. Sarà una fortuna se
riusciremo a trovare anche un solo indizio o intravedere fugacemente
qualcosa, di cui potremo in una certa misura contentarci.
Ma ciò che non ci deve abbandonare è l’onestà
del procedimento che abbiamo rispettato finora. Noi non cadremo in
fantasticherie, non scodelleremo favole, non stupiremo con belle
parole e non getteremo sabbia negli occhi del lettore, come suol
fare la cosiddetta filosofia post-kantiana. Promettiamo solo poche
cose, ma onestamente presentate.
Quello che finora è stato il motivo chiarificatore, ora
diventa il nostro problema: la compassione naturale, innata e
inestinguibile nell’uomo. Questa - come abbiamo visto - è
l’unica sorgente delle azioni non egoistiche e solo ad essa spetta
il valore morale.
Molti filosofi moderni trattano i concetti di ‘buono’ e di ‘cattivo’
come se fossero concetti elementari, che non necessitano e non si
prestano ad alcuna spiegazione. Poi parlano - di solito in maniera
trasognata e misteriosa - di una ‘idea del bene’ sulla quale
poggiano la loro etica, o perlomeno con la quale tentano di coprire,
come con un mantello, le sue lacune.241
Questo mi costringe subito a chiarire che questi concetti non sono
affatto elementari, né tantomeno a priori, bensì
esprimono una determinata relazione e sono tratti dall’esperienza
quotidiana.
Tutto ciò che è conforme alle aspirazioni di una
volontà individuale qualsiasi viene detto ‘buono’ in
relazione a questa volontà. Ad esempio, un buon mangiare, un
buon cammino, un buon presagio. Il contrario è detto
‘cattivo’, oppure ‘malvagio’ se si riferisce a esseri viventi. Un
uomo che, in virtù del proprio carattere, non ostacola le
aspirazioni degli altri, anzi per quanto possibile si rende
disponibile, li favorisce e asseconda, che non li lede, ma che
piuttosto, quando può, presta loro aiuto e assistenza, viene
definito dagli altri (ossia, dal loro punto di vista ): un uomo
‘buono’.
Il concetto di ‘buono’ viene quindi usato dal punto di vista
relativo, empirico e specifico del soggetto che beneficia di una
determinata azione.
Ora però vogliamo esaminare il carattere di un uomo ‘buono’
non solo dal punto di vista degli altri, bensì dal proprio.
Da quanto precedentemente detto, sappiamo che ciò che fa
scaturire in lui le virtù della giustizia e dell’amore per il
prossimo è l’immediata partecipazione alle vicissitudini
degli altri, la cui sorgente (come abbiamo visto) è la
compassione.
Se risaliamo al tratto essenziale di un carattere di questo tipo
scopriremo facilmente che esso fa minore differenza tra sé e
gli altri di quanto si suol comunemente fare. Agli occhi di un uomo
dal carattere malvagio, invece, la differenza tra sé e gli
altri è così grande, che per lui la sofferenza degli
altri è un piacere immediato a cui ambire anche senza alcun
ulteriore vantaggio personale, anzi a volte addirittura a proprio
svantaggio.
Agli occhi di un egoista quella differenza è ancora
abbastanza grande, poiché l’egoista, pur di procurarsi un
piccolo vantaggio, è disposto a utilizzare mezzi che causano
anche grandi danni agli altri.
Quindi, per il malvagio e per l’egoista esiste un ampio fossato,
un’enorme differenza tra l’Io circoscritto alla propria persona e il
non-Io esteso al resto del mondo. Pereat mundus, dum ego salvus sim
[crolli pure il mondo, purché rimanga salvo io], è la
loro massima.
Per l’uomo ‘buono’, invece, questa differenza non è
così grande. Anzi, nelle azioni di un animo nobile questa
differenza sembra addirittura cancellata, poiché egli
promuove il bene degli altri a proprie spese e pone l’Io degli altri
sullo stesso piano del proprio Io. Se poi ci fossero più
persone da salvare, il proprio Io verrebbe completamente sacrificato
e il singolo offrirebbe la propria vita per gli altri.
Sorge allora il seguente interrogativo: questa nobile concezione del
nesso tra il proprio e l’altrui Io, che sta alla base delle azioni
di una persona dal carattere buono, è forse sbagliata o
fondata su un auto-inganno? O piuttosto è sbagliata la
concezione opposta, sulla quale poggiano l’egoismo e la
malvagità?
Dal punto di vista empirico, la concezione che sta alla base
dell’egoismo è fortemente legittimata. Infatti, dal punto di
vista dell’esperienza, la differenza tra la propria e l’altrui
persona sembra essere assoluta. La differenza dello spazio che
separa me dagli altri, mi separa anche dalle loro vicissitudini.
Tuttavia bisogna innanzitutto osservare che la conoscenza che
abbiamo del nostro Io non è affatto completa, non è
ben chiara fino in fondo.
Tramite l’intuizione ad opera del cervello, sulla base dei dati
forniti dai sensi (quindi mediata), noi conosciamo il nostro corpo
come un oggetto nello spazio. Tramite il senso interno conosciamo la
sequenza continua delle nostre aspirazioni e degli atti della
volontà che avvengono quando si presentano i motivi esterni,
e infine gli svariati moti, più deboli o più forti,
della nostra volontà, ai quali fanno riferimento tutti i
sentimenti interni. Questo è tutto, poiché il
conoscere stesso non viene affatto conosciuto.
Il vero e proprio substrato di tutto il nostro ‘fenomeno’ - ossia,
la nostra intima ‘essenza in sé’, che vuole e che conosce -
ci è inaccessibile. Noi vediamo solo verso l’esterno: verso
l’interno è buio completo.
Quindi la conoscenza che abbiamo di noi stessi non è per
nulla completa ed esauriente, bensì è molto
superficiale. Addirittura, riguardo alla nostra parte più
grande e importante, noi siamo degli sconosciuti a noi stessi, siamo
un enigma. Come dice Kant:
“L’Io conosce sé stesso solo come fenomeno, non come
ciò che l’Io può essere in sé”.
Riguardo all’altra parte [il fenomeno], quella che cade nell’ambito
della nostra conoscenza, ognuno è completamente diverso dagli
altri. Ma questo non implica che lo stesso valga riguardo alla parte
più grande e importante, quella che a ognuno rimane nascosta
e sconosciuta [la ‘cosa in sé’]. Riguardo a questa parte
rimane perlomeno la possibilità che essa sia per tutti una
sola e identica cosa.
Su cosa poggia la molteplicità e la sequenzialità
degli esseri? Sullo spazio e sul tempo. Solo tramite questi sono
possibili, poiché la molteplicità si lascia pensare e
configurare solo nell’uno accanto all’altro o nell’uno dopo l’altro.
Dal momento che l’insieme degli individui è costituito da una
molteplicità di fenomeni dello stesso tipo, poichè
essi rendono possibile questa molteplicità, io definisco lo
spazio e il tempo come principium individuationis [principio di
individuazione], senza preoccuparmi se fosse proprio questo il
significato che gli scolastici attribuivano a questa espressione.
Se c’è qualcosa di assolutamente vero nelle conclusioni che
il profondo e mirabile pensiero di Kant ha regalato
all’umanità, questa è proprio l’estetica
trascendentale, ossia la dottrina dell’idealità dello spazio
e del tempo242. La motivazione fornita da Kant è talmente
chiara, che nessuna plausibile obiezione ha mai potuto esserle mossa
contro. Essa è il trionfo di Kant. È una delle
rarissime dottrine metafisiche che si possono ritenere realmente
dimostrate, una vera conquista nel campo della metafisica.
Secondo questa dottrina lo spazio e il tempo sono forme della nostra
facoltà intuitiva: esse appartengono a questa facoltà,
non alle cose conosciute tramite essa. [Kant ha dimostrato che] lo
spazio e il tempo non possono essere determinazioni delle cose in
sé, ma spettano solo al loro fenomeno, così come esso
è possibile solo nella nostra coscienza del mondo esterno, la
quale dipende da determinate condizioni fisiologiche.
Ma se lo spazio e il tempo sono estranei alla ‘cosa in sé’ -
ossia alla vera essenza del mondo - estranea a essa è anche
la molteplicità.
Quindi la ‘cosa in sé’ non può che essere una sola
negli innumerevoli fenomeni di questo mondo dei sensi,
cosicché in tutti i fenomeni si manifesta una sola e identica
essenza. E viceversa: ciò che si configura come molteplice -
quindi, nello spazio e nel tempo - non può essere ‘cosa in
sé’, bensì solo fenomeno. Il fenomeno, come tale,
è qualcosa che esiste solo per la nostra coscienza - la quale
è limitata da molteplici condizioni e addirittura dipende da
una funzione organica - e non può esistere al di fuori di
essa.
Questa dottrina - che ogni molteplicità è solo
apparente e che in tutti gli individui al mondo, anche se si
presentano in numero infinito, in sequenza temporale e in
distribuzione spaziale, si manifesta un unico e medesimo essere,
presente, identico e veramente esistente in tutti loro - è
apparsa molto tempo prima di Kant. Anzi, si potrebbe dire che
è sempre esistita.
Innanzitutto è la dottrina principale e fondamentale del
libro più antico del mondo, i sacri Veda, la cui parte
dogmatica - o meglio, la cui dottrina esoterica - è esposta
nelle Upanishad243. In quasi ogni pagina di questo libro troviamo
questa grande dottrina. Essa viene instancabilmente ripetuta in
innumerevoli modi e illustrata con diverse immagini e similitudini.
Senza dubbio questa dottrina stava anche alla base del pensiero di
Pitagora (nonostante le scarse informazioni che ci sono giunte sulla
sua filosofia). È risaputo che esclusivamente in questa
dottrina era contenuta quasi tutta la filosofia della scuola
eleatica. In seguito fu fatta propria dai neo-platonici, i quali
insegnavano che:
“... data l’unità dell’universo, tutte quante le anime
costituiscono una sola anima”.244
Nel secolo IX la vediamo sorprendentemente apparire in Europa ad
opera di Scoto Eriugena, il quale, entusiasta di questa dottrina, si
preoccupò di adornarla con le forme e le espressioni della
religione cristiana. Tra i maomettani la ritroviamo come mistica
ispirata dei Sufi. In occidente Giordano Bruno ha dovuto pagare con
una morte straziante il fatto di non aver resistito all’impulso di
affermare quella verità. Vediamo anche che i mistici
cristiani - senza volerlo e senza alcun proposito - vengono irretiti
da questa dottrina quando e dove la incontrano. Il nome di Spinoza
poi si identifica con la dottrina stessa.
Finalmente ai nostri giorni, dopo che Kant ha distrutto il vecchio
dogmatismo e ha lasciato il mondo sconvolto di fronte alle macerie
fumanti, quella dottrina è stata di nuovo ridestata dalla
filosofia eclettica [che segue principi o metodi di varia
provenienza] di Schelling. Amalgamando le dottrine di Plotino,
Spinoza, Kant e Böhme con i risultati della nuova scienza della
natura, Schelling ha messo rapidamente insieme un tutto che potesse
soddisfare temporaneamente le impellenti esigenze dei suoi
contemporanei, rielaborandolo in seguito con alcune varianti. Grazie
alla sua opera questa dottrina ha acquisito credito negli ambienti
culturali tedeschi e si è diffusa quasi dappertutto, anche
tra le persone di semplice istruzione.245
Unica eccezione sono gli attuali professori di filosofia, ai quali
è stato assegnato il difficile compito di remare contro il
cosiddetto panteismo. Trovandosi peró in grave
difficoltà e imbarazzo, questi professori, nella loro
angustia, fanno ricorso ai più penosi sofismi e alle frasi
più roboanti per cucire insieme un decoroso costume
carnevalesco, con il quale rivestire la loro prediletta filosofia da
donnicciole.
In breve: lo ˜n kaˆ p©n [en kài pan: l’uno e il tutto]
è stato in ogni tempo oggetto di scherno da parte degli
stolti, ma di costante meditazione da parte dei saggi.
Eppure la rigorosa dimostrazione di questa dottrina si trova
esclusivamente in Kant. Tuttavia Kant non l’ha esplicitamente
formulata, ma - come sogliono fare gli esperti oratori - si è
limitato a gettare le premesse, lasciando poi all’ascoltatore la
soddisfazione di trarre personalmente le conclusioni. Secondo la
dottrina di Kant la molteplicità e la diversità
appartengono solo all’apparenza, mentre una sola, e la medesima,
è l’essenza che si manifesta in ogni essere che vive.
Quindi la concezione che rimuove la differenza tra l’Io e il non-Io
non è quella sbagliata. Sbagliata è la concezione
opposta. Quest’ultima viene denominata dagli hindu con il nome di
Maja, ossia: parvenza, inganno, miraggio.
La prima concezione è quella che - come abbiamo dimostrato -
sta alla base del fenomeno della compassione, la quale è la
sua espressione reale. La concezione secondo cui un individuo
riconosce nell’altro immediatamente sé stesso, e la propria
vera essenza, costituisce quindi la base metafisica dell’etica.
Pertanto la saggezza pratica, ossia il praticare la giustizia e
l’amore verso il prossimo, si accorda perfettamente nel risultato
con la più profonda dottrina del più avanzato sapere
teoretico.
Il filosofo pratico - ossia il giusto, il benefattore dal nobile
animo - esprime semplicemente nei fatti la medesima nozione che
costituisce il risultato della massima profondità di pensiero
e della più travagliata ricerca del filosofo teoretico.
Oltretutto la sua perfezione morale è superiore a ogni
sapienza teoretica. Quest’ultima infatti è sempre solo
un’attività isolata, la quale, attraverso il lento cammino
delle deduzioni, giunge al medesimo traguardo che il filosofo
pratico invece raggiunge in un colpo solo.
L’uomo moralmente nobile, anche se spesso non molto dotato
intellettualmente, dimostra con le proprie azioni di possedere la
più profonda conoscenza e la somma saggezza, e riesce
così a umiliare l’uomo più geniale e dotto, quando
questi, nelle sue azioni, lascia intravedere che quella grande
verità è rimasta estranea al suo cuore.
“L’individuazione è reale; il principium individuationis e la
diversità degli individui, che da esso consegue, costituisce
l’ordinamento delle cose in sé. Ogni individuo è un
essere fondamentalmente diverso da tutti gli altri. Solo nel mio Io
sta il mio vero essere. Tutti gli altri sono un non-Io e mi sono
estranei”.
Questa è la nozione, la cui verità è
testimoniata dalla carne e ossa, che sta alla base dell’egoismo e
che si manifesta in pratica nel comportamento senza amore, ingiusto
e malvagio.
“L’individuazione è solo un fenomeno che sorge dallo spazio e
dal tempo, i quali non sono altro che le forme - condizionate dalla
mia facoltà conoscitiva cerebrale - di tutti gli oggetti
della conoscenza. Pertanto anche la molteplicità e la
diversità degli individui sono solo apparenti, ossia sono
presenti solo nella mia rappresentazione. La mia vera intima essenza
esiste in ogni cosa che vive esattamente come essa si manifesta
immediatamente nella mia autocoscienza solo a me stesso”.
Questa seconda nozione, invece - che in sanscrito viene
continuamente ribadita con la formula tat-twam asi, ossia: ‘questo
sei tu’ - è quella che si manifesta nella compassione, dalla
quale nascono poi tutte le virtù autentiche, ossia
disinteressate, e che si traduce in realtà tramite ogni buona
azione.
A questa nozione, in ultima istanza, fa riferimento ogni appello
alla mitezza, all’amore del prossimo e alla grazia, per ottenere
giustizia, poiché essa è il monito a tener sempre
presente che tutti gli esseri sono una sola e la medesima cosa.
Invece l’egoismo, l’invidia, l’odio, la persecuzione, la durezza di
cuore, la vendetta, il compiacimento delle disgrazie degli altri e
la crudeltà, derivano dalla prima nozione e lì si
fermano.
La commozione e la gioia che proviamo nel sapere, ancor più
nel vedere, ma soprattutto nel compiere noi stessi una nobile
azione, si basa in fondo sul fatto che un simile evento ci dà
la certezza che, al di là di ogni molteplicità e
diversità tra gli individui (in conformità al
principium individuationis) esiste realmente una loro unità,
la quale è addirittura accessibile a noi, poiché si
è concretizzata di fatto.
A seconda di possedere, o meno, una delle due opposte nozioni, tra
un essere e l’altro si instaurano la fil…a [filìa: amore,
affezione], oppure il ne‹koj [néikos: ostilità] di cui
parla Empedocle.
Tuttavia chi, animato dal ne‹koj [néikos: ostilità],
irrompesse fino nell’intimo più profondo del suo odiato
nemico, vi scoprirebbe - con grande sorpresa - proprio sé
stesso. Infatti, esattamente come noi stessi stiamo dentro tutte le
persone che ci compaiono nel sogno, così pure succede da
svegli, anche se questa non è una cosa altrettanto facile da
capire. Eppure, tat-twam asi [questo sei tu].
Il prevalere di una, o l’altra, di quelle opposte nozioni non si
manifesta solo nelle singole azioni, ma anche nel tipo di coscienza
e nello stato d’animo, che per una persona dal buon carattere sono
così radicalmente diversi da quelli di un cattivo carattere.
Un cattivo carattere avverte ovunque la presenza di un rigido muro
che lo separa da tutto quanto sta fuori. Per lui il mondo è
un assoluto non-Io e il suo rapporto con il mondo è di natura
ostile, cosicché il tono fondamentale del suo stato d’animo
è l’odio, la diffidenza, l’invidia e il compiacimento per le
disgrazie altrui.
Il carattere buono, invece, vive in un mondo esterno omogeneo al
proprio essere. Per lui gli altri non sono un non-Io, bensì
un ulteriore Io. Il suo rapporto con gli altri è amichevole
per natura. Egli si sente intimamente imparentato con tutti gli
esseri, solidarizza immediatamente con le loro vicissitudini, dando
per scontato che anche gli altri solidarizzino a loro volta come
lui. Da qui sorge la profonda pace nel proprio intimo e quello stato
d’animo fiducioso, tranquillo e soddisfatto, grazie al quale
chiunque si sente bene vicino a lui.
Il cattivo carattere, quando si trova nel bisogno, non confida
minimamente sull’assistenza degli altri. Se vi fa appello, lo fa
senza contarci molto. Se la ottiene, la accoglie senza vera
gratitudine, poiché non può concepirla in altro modo
che come l’effetto della stupidità degli altri. È
incapace di riconoscere la propria essenza in quella degli altri,
anche dopo che questi gli hanno lanciato un segnale inequivocabile
(questo è ciò che urta maggiormente
dell’ingratitudine). L’isolamento morale in cui lui essenzialmente e
inevitabilmente si trova, lo getta anche facilmente nella
disperazione.
Il carattere buono, invece, farà appello con tanta sicurezza
al soccorso da parte degli altri, quanto lui stesso è
consapevole della propria disponibilità a offrirlo. Infatti,
il mondo degli altri è per il malvagio un non-Io, mentre per
il buono è un ulteriore Io. Il magnanimo che perdona il
nemico e che ricambia il male con il bene è una persona
sublime, degna della massima lode, perché ha saputo
riconoscere il proprio stesso essere anche là, dove veniva
decisamente negato.
Se esaminiamo bene a fondo, ogni azione veramente buona e ogni aiuto
completamente disinteressato, motivati esclusivamente, in quanto
tali, dal bisogno degli altri, sono davvero qualcosa di misterioso,
un misticismo pratico, poiché scaturisce dalla medesima
intuizione che costituisce l’essenza di ogni misticismo, impossibile
da spiegare compiutamente in nessun altro modo.
Che uno faccia anche solo un’elemosina, senza minimamente mirare ad
altro che alleviare il bisogno che opprime il prossimo, è un
gesto possibile solo fintanto che uno intuisce di essere lui stesso
colui che ora gli appare in quel penoso stato, quindi fintanto che
uno riconosce il proprio essere anche in quel fenomeno estraneo.
Per questo, nel precedente paragrafo ho definito la compassione: il
grande mistero dell’etica. Chi muore per la propria patria si
è liberato dall’illusione che la propria esistenza sia
limitata alla propria persona. Egli estende il proprio essere a
tutti i suoi compatrioti e continua a vivere in loro, anche nelle
future generazioni, per le quali egli si sacrifica. Così
facendo egli considera la morte come un battito di ciglia, che
tuttavia non interrompe la visione complessiva.
Chi, invece, ha sempre considerato gli altri come un non-Io,
ritenendo che in fondo solo la sua persona fosse veramente reale,
considerando gli altri solo come fantasmi, riconoscendo loro solo
un’esistenza relativa, a seconda del fatto di assecondare o di
contrastare i suoi fini, facendo una incommensurabile differenza e
ponendo un profondo fossato tra la sua persona e tutto il non-Io,
chi quindi è esistito esclusivamente per sé, con la
morte vede affondare sé stesso, ogni realtà e il mondo
intero.
Ma chi ha scorto in tutti gli altri - addirittura in ogni essere
vivente - il proprio stesso essere, la cui esistenza è
trascorsa assieme all’esistenza di ogni altro essere vivente, con la
morte perde solo una piccola parte della propria esistenza. Egli
continua ad esistere negli altri, nei quali ha sempre riconosciuto e
amato sé stesso, facendo così svanire l’illusione che
separava la propria coscienza da quella degli altri.
Da qui forse può sorgere - se non tutta, almeno in gran parte
- la differenza nel modo in cui persone particolarmente buone, o
prevalentemente malvagie, affrontano l’ora della morte.
In tutti i secoli questa semplice verità ha dovuto arrossire
di vergogna - pur senza colpa - poiché era considerata un
paradosso. Ma la verità non può assumere
l’atteggiamento trionfante dell’errore universale, e allora guarda
sospirando il suo divino protettore - il tempo - il quale le fa
cenno che sarà proprio lei a vincere e a diventare famosa. Ma
il battito delle ali del tempo è talmente grande e lento, che
nel frattempo i suoi sostenitori sono morti.
Mi rendo perfettamente conto del paradosso che questa spiegazione
metafisica del fondamento primordiale dell’etica deve rappresentare
per le persone con una cultura occidentale, abituate a ben altri
fondamenti dell’etica. Tuttavia non posso tacere la verità.
A questo proposito, posso comprovare con una citazione che questa
metafisica dell’etica già da migliaia di anni costituiva la
visione fondamentale della saggezza indiana, alla quale io mi
riaggancio, come Copernico si è riagganciato al sistema
cosmico dei Pitagorici, respinto da Aristotele e da Tolomeo. Nello
Bhagavad Gita, infatti, si dice:
“Chi percepisce la presenza in tutte le creature viventi di uno
stesso sommo Signore, che non perisce quando quelle periscono,
percepisce il vero. Dunque, vedendo presente ovunque il medesimo
Signore, evita di fare del male a sé stesso per propria
colpa: e in questo modo prende la via del cielo”.246
Mi debbo accontentare di fare questi accenni riguardo alla
metafisica dell’etica, sebbene rimanga da fare un passo ancora
più significativo nella metafisica. Ma questo passo
presuppone che anche nell’etica stessa si sia andati un passo
avanti. Purtroppo così non è. In Europa il traguardo
più alto dell’etica è rimasto confinato alla dottrina
della giustizia e della virtù, e tutto quanto esce da questo
ambito o è sconosciuto o non viene accettato. A questa
necessaria omissione va quindi attribuito il fatto che il breve
cenno, che abbiamo fatto riguardo alla metafisica dell’etica, non
permette di scorgere neppure lontanamente la chiave di volta
dell’intero edificio della metafisica, né il vero e proprio
nesso della ‘divina commedia’.
Ma questo non rientrava nel compito assegnato e neppure nei miei
piani. Non si può dire tutto in una sola volta e non bisogna
neppure dare una risposta a ciò che non è stato
richiesto.
Mentre si cerca di promuovere la conoscenza e la comprensione umana,
si percepisce costantemente la resistenza opposta dalle epoche
precedenti, esattamente come quando si deve trascinare un carico che
grava pesantemente al suolo e ostacola ogni sforzo. Eppure ci si
può consolare con la certezza di avere non solo i pregiudizi
contro, ma anche la verità a favore, la quale, appena
sarà raggiunta dal suo alleato - il tempo - sarà
perfettamente sicura della vittoria, se non oggi, certamente domani.
Giudizio della Società Reale Danese delle Scienze
Quaestionem anno 1837 propositam, ‘utrum philosophiae moralis fons
et fundamentum in idea moralitatis, quae immediate conscientia
contineatur, et ceteris notionibus fundamentalibus, quae ex illa
prodeant, explicandis quaerenda sint, an in alio cognoscendi
principio, unus tantum scriptor explicare conatus est, cujus
commentationem, germanico sermone compositam et his verbis notatam:
‘Moral predigen ist leicht, Moral begründen ist schwer’,
praemio dignam judicare nequivimus.
Omisso enim eo, quod potissimum postulabatur, hoc expeti putavit, ut
principium aliquod ethicae conderetur, itaque eam partem
commentationis suae, in qua principii ethicae a se propositi et
metaphysicae suae nexum exponit, appendicis loco habuit, in qua plus
quam postulatum esset praestaret, quum tamen ipsum thema ejusmodi
disputationem flagitaret, in qua vel praecipuo loco
metaphysicae et ethicae nexus consideraretur.
Quod autem scriptor in sympathia fundamentum ethicae constituere
conatus est, neque ipsa disserendi forma nobis satisfecit, neque
reapse, hoc fundamentum sufficere, evicit; quin ipse contra esse
confiteri coactus est.
Neque reticendum videtur, plures recentioris aetatis summos
philosophos tam indecenter commemorari, ut justam et gravem
offensionem habeat.
Traduzione
Il tema proposto nel 1837: «L’origine e il fondamento della
filosofia morale devono essere ricercati in un’idea di
moralità che sia naturalmente radicata nella coscienza, e in
altri principi fondamentali che derivano da questa idea, oppure in
un diverso elemento di conoscenza?» è stato
affrontato da un solo concorrente.
Il suo scritto, composto in tedesco e contraddistinto dal seguente
motto: “Predicare la morale è facile; fondare la morale
è247 difficile”, è a nostro giudizio immeritevole del
premio.
L’estensore infatti, trascurando l’essenza del problema, ha ritenuto
che gli venisse richiesto di individuare un fondamento della morale,
quale che sia. Di conseguenza, quella sezione del suo scritto in cui
spiega il nesso tra il principio etico da lui definito e la sua
metafisica, è relegata a rango di appendice, quasi superflua
rispetto al tema proposto. Invece, proprio questo era richiesto dal
tema, ossia una discussione in particolare sul rapporto tra
metafisica e etica.
Dal momento poi che l’estensore ha tentato di individuare il
fondamento dell’etica nella compassione, il suo lavoro risulta
insoddisfacente non solo sul piano formale, ma anche su quello
sostanziale. Tale fondamento infatti non basta, come egli stesso
è costretto a riconoscere.
Non si deve tacere, infine, che molti sommi filosofi della nostra
epoca sono trattati con un disprezzo che si traduce in offesa aperta
e grave.
Cronologia
della vita e
delle opere di
Arthur Schopenhauer
1788 - Arthur Schopenhauer nasce il 22 febbraio a Danzica. Il padre
Heinrich è un agiato commerciante. La madre Johanna Henriette
Trosiener diverrà più tardi una nota scrittrice di
romanzi.
1793 - In seguito all’annessione della città libera di
Danzica alla Prussia, la famiglia Schopenhauer, fedele ai propri
sentimenti liberali, si trasferisce ad Amburgo.
1797 - Arthur soggiorna per due anni a Le Havre, a casa di un amico
d’affari del padre, dove impara il francese e i primi rudimenti di
latino.
1799 - Ritorna ad Amburgo e compie studi a indirizzo prevalentemente
commerciale. Ma questi non lo soddisfano e vorrebbe frequentare il
ginnasio. Il padre si oppone e in alternativa al ginnasio gli
propone un lungo soggiorno all'estero.
1803/04 - Gli Schopenhauer sono in viaggio per l’Europa: Inghilterra
(dove il giovane Arthur soggiorna qualche tempo a Wimbledon e ha
così modo di approfondire la conoscenza della lingua e della
letteratura inglese) poi Olanda, Belgio, Francia, Svizzera, Austria.
1805 - Ad Amburgo inizia l’apprendistato presso una ditta di
commercio. Il 20 aprile, incidente mortale (suicidio?) del padre.
1806 - La madre e la sorella si trasferiscono a Weimar. Qui Johanna
Schopenhauer apre un salotto letterario che avrà tra i suoi
ospiti le più illustri personalità del tempo, tra i
quali anche Goethe. Arthur rimane ad Amburgo, in dubbio tra
proseguire l’apprendistato commerciale o coltivare i suoi interessi
intellettuali.
1807/09 - Decide per la cultura umanistica. Frequenta il ginnasio a
Gotha e poi a Weimar, dedicandosi soprattutto all’antichità
classica. A ventuno anni, maggiorenne, riceve il suo terzo
dell’eredità paterna. Grazie a questa eredità,
può vivere di rendita e dedicarsi completamente allo studio e
alla ricerca.
1809/11 - Ultimato in soli due anni il ginnasio, entra nella
facoltà di medicina dell’università di Gottinga, dove
si dedica a diversi studi scientifici (fisiologia, anatomia,
matematica, fisica, chimica). Parallelamente segue anche le lezioni
di psicologia e di metafisica di G.E. Schulze, che frequenta con
tale entusiasmo, da abbandonare la facoltà di medicina e
passare a filosofia. Si immerge soprattutto nello studio di Platone
e di Kant.
1811/13 - Si trasferisce all’università di Berlino dove
prosegue gli studi in filosofia. Segue le lezioni di Fichte (che in
quel tempo gode fama di grande pensatore) e ne studia accuratamente
il pensiero filosofico, ma proprio per questo finisce con il
disprezzarlo.
1813/14 - Breve soggiorno in Weimar. Si trasferisce poi a
Rudolstadt, dove redige la dissertazione su “La quadruplice radice
del principio di ragione sufficiente”. Con questa tesi, il 18
ottobre 1813 riceve la laurea di filosofia nell’università di
Jena. A fine anno la pubblica e ritorna a Weimar, dove ha modo di
incontrarsi più volte con Goethe, per il quale nutre la
massima ammirazione.
1814/18 - Si trasferisce a Dresda. Frequenta gli ambienti letterari
e si dedica a molteplici studi. Nel 1815 scrive “La vista e i
colori”, pubblicato nel 1816. Nel 1816 comincia la stesura della sua
opera principale: “Il mondo come volontà e rappresentazione”.
Il libro viene completato nel 1818 e pubblicato dall’editore
Brockhaus, ottenendo però un fiasco commerciale.
1818/19 - Viaggio in Italia: Venezia, Roma, Napoli, Paestum, Milano,
durante il quale scrive il “Diario di viaggio”, pubblicato postumo.
Nel giugno 1819 a Milano riceve la notizia del fallimento della
banca Muhl di Danzica, presso la quale era depositato parte del suo
patrimonio.
1820 - Le prospettive economiche divenute incerte lo inducono a
cercare un lavoro come libero docente. Sceglie proprio
l’università di Berlino, dove ‘imperversa’ Hegel. Durante il
primo semestre ha un pubblico esiguo. In seguito rinnova spesso il
tentativo di tenere lezione in concomitanza con quelle di Hegel
(disprezzato ancora più di Fichte) ma le sue lezioni vengono
disertate.
1821 - Dopo lunghe trattative, riesce a recuperare dalla banca Muhl
buona parte del suo patrimonio.
1822 - Secondo viaggio in Italia: Milano, Firenze e Trento. Scrive
il “Taccuino” di viaggio.
1823/24 - Ritorno in Germania. Rimane per quasi un anno a Monaco,
poi a Dresda. Le condizioni di salute non sono le migliori.
1825/31- Di nuovo a Berlino, dove tenta di riprendere la carriera
universitaria, ma continua a essere ignorato. Traduce lo “Oracolo
manuale e arte di prudenza” di Baltasar Gracian, pubblicato postumo.
Progetti di matrimonio, fatti e rigettati. Nell’agosto 1831
abbandona Berlino a causa di una epidemia di colera (che avrà
tra le sue vittime anche Hegel). Passa l’inverno a Francoforte.
1832/33 - Dopo la permanenza di un anno a Mannheim, prende
definitivamente residenza a Francoforte.
1835/36 - Stesura e pubblicazione de “La volontà nella
natura”, una “esposizione delle conferme che la filosofia
dell’autore ha ricevuto da parte delle scienze empiriche”.
1838/41 - Scrive il “Trattato sulla libertà di volere”,
premiato nel 1939 dalla Regia Società Norvegese delle
Scienze. È il primo riconoscimento ufficiale. Scrive poi il
“Trattato sul Fondamento della morale”, non premiato nel 1840 dalla
Regia Società Danese delle Scienze. Nel 1841 pubblica
entrambi i trattati con il titolo “I due problemi fondamentali
dell’etica”.
1843/44 - Redazione del secondo volume de “Il mondo come
volontà e rappresentazione”, a commento e sviluppo dei temi
già trattati nel primo volume (1819). I due volumi riuniti
vengono pubblicati (senza onorario) in seconda edizione dall’editore
Brockhaus. L’accoglienza è, come al solito, fredda: il libro
non si vende.
1847 - Seconda e rivista edizione de “La quadruplice radice del
principio di ragione sufficiente”.
1851 - Pubblica, a Berlino, i “Parerga e Paralipomena” (una raccolta
di saggi il cui titolo significa ‘cose marginali, trascurabili’)
l’opera alla quale lavora dal 1845. Arriva finalmente il successo. I
riconoscimenti gli giungono soprattutto dall’estero.
1854 - Esce a Francoforte la seconda edizione di “La volontà
nella natura”.
1858 - Schopenhauer compie settant’anni. La sua vita è, come
al solito, molto ritirata: lunghe passeggiate solitarie con il cane,
pranzo in un ristorante inglese, lavoro e letture. Legge
regolarmente il Times e riviste letterarie, francesi, inglesi e
tedesche. In questo periodo scopre Leopardi, immergendosi “con molto
diletto” nella lettura delle “Operette morali” e dei “Pensieri”.
1859 - In seguito al successo destato, anche la seconda edizione
della sua opera principale è ormai esaurita. Terza edizione
de “Il mondo come volontà e rappresentazione”.
1860 - Nel mese di aprile si manifestano problemi di salute
(difficoltà respiratorie e tachicardia). All’inizio di
settembre si ammala di polmonite. Il 21 settembre muore. Viene
seppellito nel cimitero di Francoforte alla presenza di pochi
fedelissimi. Sulla pietra tombale non vi sono epigrafi, ma solo il
nome: Arthur Schopenhauer.