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ARTURO SCHOPENHAUER
AFORISMI SULLA SAGGEZZA NELLA VITA
(dall’opera PARERGA UND PARALIPOMENA)
TRADUZIONE
OSCAR D. CHILESOTTI
MILANO
FRATELLI DUMOLARD
188
INDICE
introduzione
capitolo I. — Divisione fondamentale
capitolo II. — Di ciò che si è
1. La salute dello spirito e del corpo
2. La bellezza
3. Il dolore e la noja. L’intelligenza
capitolo III. — Di ciò che si ha
capitolo IV. — Di ciò che si rappresenta
1. Dell’opinione altrui
2. Il grado
3. L’onore
4. La gloria
capitolo V. — Parenesi e massime
1. Massime generali
2. Circa la nostra condotta verso noi stessi
3. Circa la nostra condotta verso gli altri
4. Circa la nostra condotta di faccia all’andamento del mondo
ed alla sorte
capitolo
VI. — Sulla differenza delle età della vita
INTRODUZIONE
La felicità non è facile a conquistare; è molto
difficile trovarla in noi — impossibile altrove.
Chamfort.
Prendo qui nel suo significato immanente la nozione di saggezza
nella vita, cioè intendo con ciò l’arte di rendere la
vita quanto meglio è possibile piacevole e felice. Questo
studio potrebbe egualmente chiamarsi l’Eudemonologia; sarebbe dunque
un trattato sulla vita felice. Questa potrebbe a sua volta essere
definita una esistenza che, considerata dal punto di vista puramente
esteriore, o piuttosto (trattandosi d’un apprezzamento soggettivo)
che dopo fredda e matura riflessione è preferibile alla
non-esistenza. La vita felice, così definita, ci attrarrebbe
per sè stessa, e non solo per il timore della morte; ne
risulterebbe inoltre che noi desidereremmo vederla durare senza
fine. Se la vita umana corrisponda, o possa solamente corrispondere
alla nozione d’una tale esistenza, è questione a cui si sa
che ho risposto con una negativa nella mia Filosofia;
l’eudemonologia invece presuppone una risposta affermativa. Infatti
questa si fonderebbe sopra tale errore innato, errore che ho
combattuto in principio del capitolo XLIX, vol. II, della mia opera
principale. In conseguenza, per poter nondimeno trattare la
questione, dovetti allontanarmi interamente dal punto di vista
elevato, metafisico e morale a cui conduce la mia vera filosofia. Lo
sviluppo che segue è stabilito adunque, in una certa misura,
sopra una convenzione, nel senso che esso si mette sotto il punto di
vista usuale ed empirico, e ne conserva l’errore. Il suo valore
inoltre non può essere che condizionato, dal momento che la
parola eudemonologia non è che un eufemismo. Di più
esso non ha la minima pretesa di esser completo, sia perchè
il tema è inesauribile, sia perchè io avrei dovuto
ripetere ciò che altri ha già detto.
Io non ricordo che il libro di Cardano: De utilitate ex adversis
capienda (dell’utilità che si può cavare dalle
disgrazie), lavoro degno d’esser letto, che tratti lo stesso
argomento dei presenti aforismi; esso potrà servire a
completare quanto io qui presento. Aristotele, è vero, ha
intercalato una breve eudemonologia nel capitolo V, libro I, della
sua Rettorica, ma non ha fatto che un’opera assai meschina. Io non
ricorsi a questi miei predecessori; che non è affar mio il
compilare; tanto meno lo feci perchè in tal modo si perde
quell’unità di vedute che è l’anima delle opere di
sì fatta specie. Insomma, certamente i saggi di tutti i tempi
hanno sempre detto lo stesso, e gli sciocchi, cioè
l’incommensurabile maggioranza di tutti i tempi, hanno sempre fatto
lo stesso, ossia l’opposto, e sarà sempre così. Anche
Voltaire dice; Noi lascieremo questo mondo tanto stupido e tanto
cattivo quanto lo abbiamo trovato venendoci.
CAPITOLO PRIMO
Divisione fondamentale.
Aristotele (Etica a Nicomaco, I, 8) ha diviso i beni della vita
umana in tre classi: beni esteriori, dell’anima e del corpo. Non
conservando che la divisione in tre io dico che ciò che
distingue le sorti dei mortali può essere ridotto a tre
condizioni fondamentali. Esse sono:
1.° Ciò che si è: dunque la personalità nel
suo senso più lato. Per conseguenza qui si comprende la
salute, la forza, la bellezza, il temperamento, il carattere morale,
l’intelligenza ed il suo sviluppo.
2.° Ciò che si ha: dunque proprietà e ricchezza
d’ogni natura.
3.° Ciò che si rappresenta: è noto che con questa
espressione s’intende la maniera colla quale altri si figura un
individuo, quindi ciò che questi è nell’altrui
rappresentazione. Tutto ciò consiste dunque nell’opinione
altrui a suo riguardo, e si divide in onore, grado e gloria.
Le differenze della prima categoria, di cui abbiamo da occuparci,
sono quelle che la natura stessa ha posto fra gli uomini; d’onde si
può già inferire che la loro influenza sulla
felicità o sull’infelicità sarà più
essenziale e più penetrante che quella delle differenze che
derivano dalle convenzioni umane e che noi abbiamo ricordato nelle
due rubriche seguenti. I veri vantaggi personali, quali una gran
mente o un gran cuore, sono in rapporto ad ogni vantaggio di grado,
di nascita, pur anche regale, di ricchezza, ecc., ciò che i
re veri sono rispetto ai re sul teatro. Già Metrodoro, il
primo discepolo d’Epicuro, aveva intitolato un capitolo; Le cause
che vengono da noi contribuiscono alla felicità più di
quelle che nascono dalle cose.
E, senza dubbio, per la felicità dell’individuo, pur anche in
tutto il suo modo di essere, la cosa principale sarà
evidentemente quello che si trova o si produce in lui. Infatti
è là che risiede immediatamente il suo benessere o la
sua infelicità; insomma è sotto questa forma che si
manifesta da bel principio il risultato della sua
sensibilità, della sua volontà, del suo pensiero;
tutto ciò che si trova al di fuori non ha che un’influenza
indiretta. Perciò le medesime circostanze, i medesimi
avvenimenti esterni impressionano ogni individuo in modo affatto
differente, e, quantunque tutti siano posti nello stesso mezzo,
ognuno vive in un mondo differente. Perchè ciascuno non ha
direttamente a che fare se non colle sue proprie sensazioni, e coi
movimenti della sua propria volontà: le cose esterne non
hanno influenza su lui che in quanto determinino questi fenomeni
interni. Il mondo in cui si vive dipende dal modo d’intenderlo, che
è differente per ogni testa; secondo la natura delle
intelligenze esso sembrerà povero, scipito e volgare, o
ricco, interessante ed importante. Mentre un tale, per esempio,
invidia un tal altro per le avventure interessanti toccategli nella
sua vita, dovrebbe piuttosto invidiargli il dono di concezione che
ha dato a questi avvenimenti l’importanza che assumono nella sua
descrizione, perchè il medesimo fatto che si presenta in un
modo così interessante nella testa d’un uomo di spirito, non
offrirebbe più, concepito da un cervello grossolano e
triviale, che una scena insipida della vita d’ogni giorno.
Ciò si manifesta al più alto grado in molte poesie di
Goethe e di Byron, il fondo delle quali sta evidentemente sopra un
dato reale; uno sciocco, leggendole, è capace d’invidiare al
poeta la graziosa avventura in luogo d’invidiargli la potente
immaginazione che d’un avvenimento abbastanza comune, ha saputo fare
qualche cosa di così grande e di così bello.
Egualmente il melanconico vedrà una scena di tragedia
là dove il sanguigno non vede che un conflitto interessante,
ed il flemmatico un caso insignificante.
Tutto questo proviene dal fatto che ogni realtà, cioè
ogni attualità compita, si compone di due metà, il
soggetto e l’oggetto, ma così necessariamente e così
strettamente unite come l’ossigeno e l’idrogeno nell’acqua. Identica
la metà oggettiva, e differente la soggettiva, o viceversa,
la realtà attuale sarà tutt’altra; la più bella
e la migliore metà oggettiva, quando la soggettiva è
grossolana, di trista qualità, non darà mai che una
cattiva realtà ed attualità, simile ad un bel sito
visto col brutto tempo o riflesso da una camera oscura difettosa.
Per parlare più volgarmente ognuno è ficcato nella sua
coscienza come nella sua pelle, e non vive immediatamente che in
essa; così dal di fuori vi sarà da portargli ben poco
aiuto. Sulle scene Tizio rappresenta i principi, Caio i magistrati,
Sempronio i lacchè, o i soldati, o i generali, e così
di seguito. Ma queste differenze non esistono che all’esterno;
all’interno, come nocciuolo del personaggio, è sepolto in
tutti lo stesso essere, vale a dire un povero commediante colle sue
miserie e coi suoi affanni.
Nella vita succede lo stesso. Le differenze di grado e di ricchezza
danno a ciascuno la parte da rappresentare, a cui non corrisponde
affatto una differenza interna di felicità e di benessere;
anche qui è posto in ciascheduno lo stesso povero bietolone
colle sue miserie e coi suoi fastidî che possono differire
presso i singoli individui quanto al fondo, ma che quanto alla
forma, cioè in rapporto all’essere proprio, sono presso a
poco gli stessi per tutti; havvi certo differenza nel grado, ma
questa non dipende minimamente dalla condizione o dalla ricchezza,
vale a dire dalla parte da rappresentare.
Come tutto ciò che succede, tutto ciò che esiste per
l’uomo, non succede e non esiste immediatamente che nella sua
coscienza, evidentemente la qualità della coscienza
sarà l’essenziale prossimo, e nella maggior parte dei casi
tutto dipenderà da questa meglio che dalle imagini che vi si
presentano. Tutti gli splendori, tutte le gioie son povere, riflesse
dalla coscienza appannata d’un imbecille, rispetto alla coscienza
d’un Cervantes che in una squallida prigione scrive il Don
Chisciotte.
La metà oggettiva dell’attualità e della realtà
è fra le mani della sorte e quindi mutabile; la metà
soggettiva la siamo noi stessi, in conseguenza essa è
immutabile nella sua parte essenziale. Così malgrado tutti i
cambiamenti esterni la vita d’ogni uomo porta da un capo all’altro
lo stesso carattere; la si può paragonare ad un seguito di
variazioni sul medesimo tema. Nessuno può sortire dalla
propria individualità. Per l’uomo avviene come per l’animale;
questo, qualunque siano le condizioni in cui lo si mette, resta
confinato nel piccolo cerchio che la natura ha irrevocabilmente
tracciato intorno al suo essere, ciò che spiega
perchè, per esempio, tutti i nostri sforzi per la
felicità dell’animale che amiamo, devono mantenersi per forza
fra confini assai ristretti, precisamente in causa di questa
limitazione del suo essere e della sua coscienza; del pari
l’individualità dell’uomo si trova fissata anticipatamente la
misura della sua possibile felicità. Sono in special modo i
confini delle facoltà intellettuali che determinano una volta
per sempre l’attitudine alle gioie d’ordine superiore.
Se tali facoltà sono limitate, tutti gli sforzi esterni,
tutto quanto gli uomini o la fortuna facessero in suo favore, tutto
sarà impotente a trasportare l’individualità oltre la
misura della felicità e del benessere ordinario, mezzo
animale; essa dovrà contentarsi dei piaceri sensuali, d’una
vita intima ed allegra in famiglia, d’una società di bassa
lega o di passatempi volgari. L’istruzione stessa, quantunque abbia
una certa azione, non saprebbe insomma allargare di molto questo
cerchio, perchè i piaceri più elevati, più
varii e più durabili sono quelli dello spirito, per quanto
falsa possa essere in gioventù la nostra opinione su tale
argomento; e questi piaceri dipendono sopratutto dalla forza
intellettuale. È dunque facile veder chiaramente quanto la
nostra felicità dipenda da ciò che siamo, dalla nostra
individualità, mentre non si tiene conto il più delle
volte che di ciò che abbiamo o di ciò che
rappresentiamo. La sorte però può migliorarsi, inoltre
chi possiede la ricchezza interna non le domanderà gran cosa;
ma lo sciocco resterà sciocco, lo scimunito sarà
scimunito fino alla fine, foss’anche in paradiso fra mezzo le
Urì. Goethe dice: Popolo, e lacchè, e conquistatori in
ogni tempo riconoscono che il bene supremo dei figli della terra e
solamente la personalità. (W. O. Divan).
Che il soggettivo sia incomparabilmente più essenziale alla
nostra felicità ed alle nostre gioie dell’oggettivo ci viene
provato in tutto, dalla fame che è la miglior cucina, dal
vegliardo che guarda con indifferenza la deità che il giovine
idolatra, fino all’estremo vertice ove troviamo la vita dell’uomo di
genio e del santo. La salute sopratutto prevale talmente sui beni
esteriori che in verità un mendicante sano è
più felice di un re malato. Un temperamento calmo e giocondo,
proveniente da una salute perfetta e da una eccellente
organizzazione, una mente lucida, viva, acuta e giusta, una
volontà moderata e dolce, e come risultato una buona
coscienza, ecco i vantaggi che nessun grado, nessuna ricchezza
saprebbero surrogare. Ciò che un uomo è per sè
stesso, ciò che l’accompagna nella solitudine, e ciò
che nessuno saprebbe dargli o togliergli, è evidentemente
più essenziale per lui che tutto quello ch’egli può
possedere o che può essere per gli occhi altrui. Un uomo di
spirito, nella solitudine la più assoluta, trova nei suoi
pensieri e nella sua fantasia di che spassarsi dilettevolmente,
mentre l’individuo povero di spirito potrà variare
all’infinito le feste, gli spettacoli, i passeggi e i divertimenti
senza riuscire a scacciar la noia che lo tortura. Un buon carattere,
moderato e dolce, potrà esser contento nell’indigenza mentre
tutte le ricchezze del mondo non saprebbero soddisfare un carattere
avido, invidioso e malvagio. In quanto all’uomo dotato in permanenza
d’una individualità straordinaria, intellettualmente
superiore, può far senza della maggior parte di quei piaceri
a cui generalmente aspira la gente; anzi questi non sono per lui che
un disturbo ed un peso. Orazio dice parlando di sè;
V’è chi possede gemme, marmi, avorj, statuette etrusche,
quadri, argento, vesti tinte di porpora di Getulia; v’è chi
non si cura d’averne (Ep. II, L. II, v. 180 e seg.).
E Socrate alla vista d’oggetti di lusso esposti per la vendita
diceva: Quante cose vi sono di cui non ho bisogno!
Così la condizione prima e più essenziale per la
felicità della vita è ciò che noi siamo, la
personalità; a spiegarlo basterebbe il fatto che essa agisce
costantemente ed in ogni circostanza, che inoltre non è
soggetta a peripezie come i beni delle altre due categorie, e che
non può esserci tolta. In questo senso il suo valore
può esser considerato come assoluto, in opposizione al valore
solamente relativo degli altri beni. Ne risulta che l’uomo è
molto meno suscettibile d’esser modificato dal mondo esterno di
quello che non si sarebbe disposti a crederlo. Solo il tempo, nel
suo potere sovrano, esercita egualmente anche qui i suoi diritti; le
facoltà fisiche ed intellettuali s’infiacchiscono sotto i
suoi colpi: il carattere morale solo rimane inattaccabile.
Sotto questo rapporto i beni delle due ultime categorie avrebbero un
vantaggio sui beni della prima, siccome quelli che il tempo non
toglie direttamente. Un altro vantaggio sarebbe che, essendo posti
fuori di noi, sono accessibili di loro natura, e che ciascuno ha per
lo meno la possibilità di acquistarseli, mentre ciò
che è in noi, il soggettivo, è sottratto al nostro
potere; stabilito per diritto divino, esso si conserva invariabile
per tutta la vita. Così l’idea seguente contiene una
inesorabile verità:
«Come nel giorno che t’ha dato al mondo, il sole era là
per salutare i pianeti, tu sei cresciuto senza interruzione secondo
la legge con cui cominciasti. Tale è il tuo destino; tu non
puoi sfuggire a te stesso; così parlavano già le
Sibille, così i Profeti; nè tempo, nè potenza
alcuna spezza l’impronta che si sviluppa nel corso della
vita.»
«Goethe.»
Quanto possiamo fare in questo riguardo si è d’impiegare la
personalità, quale ci fu data, al nostro maggior profitto; in
conseguenza non coltivare che le aspirazioni che le si confanno, non
cercare che lo sviluppo che le è appropriato evitandone
qualunque altro, non sceglier quindi che lo stato, l’occupazione, il
genere di vita che le convengono.
Un uomo erculeo, dotato d’una forza muscolare straordinaria,
costretto dalle circostanze esterne a darsi ad un’occupazione
sedentaria, ad un lavoro manuale, paziente e penoso, o peggio ancora
allo studio ed a lavori di mente, occupazioni che reclamano forze
differenti, non sviluppate in lui, e che lasciano precisamente senza
impiego le forze che gli sono caratteristiche, un tal uomo
sarà infelice tutta la vita; sarà anche molto
più infelice colui nel quale le facoltà intellettuali
prevalgono di molto, e che è obbligato a lasciarle senza
sviluppo e senza impiego per occuparsi di faccende volgari che non
domanda, oppure, e sopratutto, d’un lavoro corporale per cui la sua
forza fisica non è sufficiente. Tuttavia, nel caso, bisogna
anche evitare, specialmente nell’età giovane, lo scoglio
della presunzione e non attribuirsi un eccesso di forze che non si
abbia.
Dalla preponderanza bene stabilita della nostra prima categoria
sulle altre due, risulta ancora che è più saggio
adoprarsi per conservare la salute e per sviluppare le proprie
facoltà che non per acquistare ricchezze, ciò che non
bisogna però interpretare nel senso che occorra trascurare
l’acquisto delle cose necessarie e convenienti. Ma la ricchezza
propriamente detta, vale a dire un grande superfluo, contribuisce
poco alla nostra felicità; per questo molti ricchi si sentono
infelici perchè sono sprovveduti di una vera coltura dello
spirito, di cognizioni e quindi di ogni interesse oggettivo che
potrebbe renderli atti ad un’occupazione intellettuale.
Perocchè quanto la ricchezza può fornire al di
là della soddisfazione dei bisogni reali e naturali ha
un’influenza piccolissima sul nostro vero benessere; questo è
piuttosto turbato dalle numerose ed inevitabili cure che porta con
sè la conservazione d’una grande fortuna. Tuttavia gli uomini
sono mille volte più occupati ad acquistar la ricchezza che
la coltura intellettuale, quantunque ciò che si è
contribuisca di certo alla nostra felicità più di
ciò che si ha.
Quante persone non vediamo noi diligenti come formiche ed occupate
da mattina a sera ad accrescere una ricchezza già acquistata!
Essi non conoscono nulla al di fuori del ristretto orizzonte che
racchiude i mezzi di riuscire al loro scopo; il loro spirito
è vuoto, e quindi inaccessibile a tutt’altra occupazione. I
piaceri i più elevati, i diletti intellettuali sono per
costoro impossibili; invano essi cercano di sostituirli con
divertimenti fugaci, sensuali, facili ma costosi, che si permettono
di tempo in tempo. Al termine della loro vita essi trovansi davanti
come risultato, quando la sorte fu loro propizia, un gran monte
d’oro, di cui lasciano allora agli eredi la cura di aumentare oppure
di dissipare. Una tale esistenza, benchè condotta con
apparenza seriissima ed importantissima, è dunque tanto
insensata come un’altra che inalberasse apertamente per insegna la
mazza della follia.
Così l’essenziale per la felicità della vita è
ciò che si ha in sè stessi. È unicamente
perchè la dose ne è d’ordinario così piccola
che la maggior parte di coloro che sono già sortiti
vittoriosi dalla lotta contro il bisogno, si sentono in fondo tanto
infelici come chi si trova ancora nella mischia. La vacuità
del loro interno, la scipitezza della loro intelligenza, la
povertà del loro spirito, li spingono a cercare la compagnia,
ma una compagnia composta di persone a loro simili, perchè
similis simile gaudet. Allora comincia in comune la caccia ai
passatempi ed ai divertimenti, ch’essi cercano da principio nei
godimenti sensuali, nei piaceri d’ogni specie, ed alla fine nelle
orgie. La sorgente di questa funesta dissipazione, la quale in un
tempo incredibilmente breve fa disperdere grosse eredità a
tanti figli di famiglia entrati ricchi nella vita, non è
altra davvero che la noia risultante da questa povertà e da
questo vuoto dello spirito che abbiamo or ora descritto. Un giovane
lanciato così nel mondo, ricco al di fuori ma povero al di
dentro, si sforza inutilmente di supplire al difetto della ricchezza
interna coll’esterna; ei vuole ricever tutto dal di fuori, simile a
quei vecchi che cercano d’attinger nuove forze nel fiato delle
giovinette. In tal modo la povertà interna ha finito col
produrre anche la povertà esterna.
Non credo occorra metter in rilievo l’importanza delle due altre
categorie dei beni della vita umana, perchè le ricchezze sono
oggidì troppo universalmente in pregio per aver bisogno
d’esser raccomandate. La terza categoria è di una natura
molto eterea a confronto della seconda, visto che essa non consiste
che nell’opinione altrui. Tuttavia è ammesso che ciascuno
possa aspirare all’onore, cioè ad un buon nome; ad un grado
può aspirare unicamente chi serve lo Stato, e in quanto
concerne la gloria non ve n’ha che infinitamente pochi che possano
pretendervi. L’onore è considerato come un bene
inapprezzabile, e la gloria come la cosa più eccellente che
l’uomo possa acquistare; essa è il toson d’oro degli eletti;
invece solo gli sciocchi preferiranno il grado alle ricchezze. La
seconda e la terza categoria hanno inoltre una sull’altra ciò
che si dice un’azione reciproca; quindi l’adagio di Petronio;
«Habes, haberis» è vero, e, in senso inverso, la
buona opinione altrui, sotto tutte le forme, ci aiuta soventi volte
ad acquistar la ricchezza.
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CAPITOLO II
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Di ciò che si è.
Noi abbiamo già conosciuto in modo generale che ciò
che si è contribuisce alla nostra felicità più
di ciò che si ha o di ciò che si rappresenta. La cosa
principale è sempre ciò che un uomo è, in
conseguenza ciò che possede in lui stesso, perocchè la
sua individualità l’accompagna dappertutto e dovunque, e
colora di sua tinta tutti gli avvenimenti della vita. In ogni cosa,
ed in ogni occasione quello che a bella prima gli fa impressione
è lui stesso. Questo è già vero per i piaceri
materiali, e, a più forte ragione, per quelli dell’anima.
Così l’espressione inglese: To enjoy one’s self è
molto ben trovata; non si dice mica in inglese: Parigi gli piace, si
dice invece: egli si piace a Parigi (He enjoys himself at Paris).
1. La salute dello spirito e del corpo.
Ma se l’individualità è di qualità cattiva,
tutte le gioie saranno come un vino squisito in una bocca impregnata
di fiele. Così dunque, nella buona come nella cattiva
fortuna, e salvo il caso di qualche grande disgrazia, ciò che
tocca ad un uomo nella sua vita è d’importanza più
piccola che la maniera con cui egli lo sente, vale a dire la natura
ed il grado della sua sensibilità sotto tutti i rapporti.
Ciò che abbiamo in noi stessi e da noi stessi, in una parola
la personalità ed il suo valore, ecco il solo fattore
immediato della nostra felicità e del nostro benessere. Tutti
gli altri agiscono indirettamente; la loro azione quindi può
essere annullata, ma quella della personalità mai.
Di qui viene che l’invidia più irreconciliabile e nello
stesso tempo nascosta colla massima cura è quella che ha per
oggetto i vantaggi personali. Inoltre la qualità della
coscienza è la sola cosa permanente e persistente;
l’individualità agisce costantemente, continuamente, e
più o meno, in ogni momento; tutte le altre condizioni non
hanno che un’influenza temporanea, passaggera, d’occasione, e
possono anche cangiare o sparire. Aristotele dice: La natura
è eterna, non le cose (Mor. a Eudemo, VII, 2). È per
questo che noi sopportiamo con più rassegnazione la sventura
la cui causa è tutta esterna, piuttosto che quella che ci
colpisce per nostra colpa; perchè la sorte può
cangiare, ma la nostra propria qualità è immutabile.
Quindi i beni soggettivi, quali un carattere nobile, una testa
possente, un umore gaio, un corpo bene organizzato ed in perfetta
salute, o, in generale, mens sana in corpore sano (Giovenale sat. X,
355), sono beni supremi, ed importantissimi alla nostra
felicità; perciò dovremmo attendere molto più
al loro sviluppo ed alla loro conservazione che non al possesso dei
beni esterni e dell’onore esterno.
Ma ciò che sopra tutto contribuisce più direttamente
alla nostra felicità è un umore allegro,
perocchè questa buona qualità trova subito la
ricompensa in sè stessa. Infatti chi è gaio ha sempre
motivo d’esserlo per la stessa ragione ch’egli lo è. Niente
può sostituire così completamente tutti gli altri beni
come questa qualità, mentre essa stessa non può esser
surrogata da cosa alcuna. Che un uomo sia giovane, bello, ricco e
stimato, per poter giudicare sulla sua felicità sarà
questione di sapere se, oltre a ciò, egli sia gaio; in cambio
s’egli è gaio, poco importa che sia giovane o vecchio, ben
fatto o gobbo, povero o ricco; egli è felice. Nella mia prima
giovinezza ho letto un giorno in un vecchio libro la frase; Chi ride
molto è felice, chi piange molto è infelice;
l’osservazione è molto sciocca, ma a causa della sua
verità così semplice non ho potuto dimenticarla,
quantunque essa sia il superlativo d’un truism (in inglese
verità triviale). Così dobbiamo, ogni volta che si
presenta, aprire alla gaiezza porte e fenestre, giacchè essa
non giunge mai di contrattempo, e non esitare a riceverla, come
facciamo di sovente, volendo prima renderci conto se abbiamo bene in
ogni riguardo motivo d’esser contenti, od anche per paura che essa
non ci distragga da serie meditazioni o da gravi cure quando
è molto incerto che queste possano migliorare la nostra
condizione, mentre la gaiezza, è un beneficio immediato. Essa
sola è, per così dire, il danaro contante della
felicità; tutto il resto non ne è che il biglietto di
banca; perocchè essa sola può darci la felicità
in un presente immediato; così è la gaiezza il supremo
bene per esseri la cui realtà ha la forma di
un’attualità indivisibile tra due tempi infiniti. Noi
dovremmo dunque aspirare anzitutto ad acquistare ed a conservare
questo bene. È certo d’altronde che niente contribuisce alla
gaiezza meno della ricchezza, e che niente vi contribuisce meglio
della salute: si è nelle classi inferiori, fra i lavoranti e
particolarmente fra i contadini che troviamo i visi allegri e
contenti; nei ricchi e nei grandi dominano le sembianze
melanconiche. Dovremmo perciò applicarci sopratutto a
conservare questo stato perfetto di salute di cui la gaiezza appare
come fioritura. Per ottener questo si sa che bisogna fuggire ogni
eccesso ed ogni disordine, evitare ogni emozione violenta e penosa,
come pure ogni applicazione dello spirito soverchia o troppo
prolungata; bisogna ancora prendere ogni giorno due ore d’esercizio
rapido all’aria libera, bagni frequenti d’acqua fredda, ed altre
misure dietetiche dello stesso genere. Non v’è salute se non
ci si dà ogni giorno abbastanza movimento; tutte le funzioni
della vita per compiersi regolarmente esigono il movimento degli
organi per cui si compiono, e dell’insieme del corpo.
Aristotele ha detto con ragione: la vita è nel movimento.
Infatti la vita consiste essenzialmente nel movimento. All’interno
d’ogni organismo regna un movimento incessante e rapido: il cuore
nel suo doppio movimento di sistole e diastole, batte impetuoso ed
instancabile; 28 pulsazioni gli bastano per mandare la massa intiera
del sangue nel torrente della grande e della piccola circolazione;
il polmone aspira senza mai smettere come una macchina a vapore;
gl’intestini si contraggono senza posa d’un movimento peristaltico;
tutte le glandule assorbono e danno secrezioni incessantemente; il
cervello stesso ha un doppio movimento per ogni battito del cuore e
per ogni aspirazione del polmone. Se, come succede nel genere di
vita interamente sedentario di tante persone, il movimento esterno
manca quasi totalmente, ne risulta una sproporzione innaturale e
dannosa tra il riposo esterno ed il tumulto interno. Perchè
questo perpetuo moto all’interno richiede anche d’esser aiutato
qualche poco dal moto all’esterno; tale stato sproporzionato
è analogo a quello che nascerebbe quando fossimo tenuti a non
lasciar scorgere al di fuori segno visibile di un’emozione che ci fa
bollire il sangue internamente. Gli alberi stessi, per prosperare,
hanno bisogno d’esser agitati dal vento. È questa una regola
assoluta che si può esprimere nel modo più conciso in
latino: Omnis motus, quo celerior, eo magis motus (quanto più
celere, tanto più ogni movimento è movimento).
Per meglio renderci conto quanto la nostra felicità dipenda
da una disposizione all’allegria, e questa dallo stato di salute,
non abbiamo che a confrontare l’impressione che producono su noi le
stesse circostanze esterne o gli stessi avvenimenti, nei giorni di
salute e di forza con quella che è prodotta, quando uno stato
di malattia ci dispone ad esser di cattivo umore ed inquieti. Non
è già ciò che sono oggettivamente ed in
realtà le cose, ma ciò che esse sono per noi, nella
nostra percezione, che ci rende felici o infelici. È quanto
esprime assai bene questa sentenza d’Epitteto: Ciò che
commuove gli uomini non son le cose, ma l’opinione sulle cose. In
tesi generale i nove decimi della nostra felicità riposano
esclusivamente sulla salute. Con essa tutto doventa sorgente di
piacere; senza di essa invece noi non sapremmo gustare un bene
esterno di qual si sia natura; pur anche gli altri beni soggettivi,
come le qualità dell’intelligenza, del cuore, del carattere,
sono diminuite e guastate dallo stato di malattia. Così non
è senza ragione che noi prendiamo notizia scambievolmente
sullo stato della nostra salute e che ci desideriamo reciprocamente
di star bene, perchè proprio in ciò v’ha quanto
è più essenzialmente importante per là
felicità umana. Ne segue adunque che è insigne pazzia
sacrificare la propria salute a checchessia, ricchezza, carriera,
studii, gloria e sopra tutto alla voluttà, ed ai piaceri
fuggittivi. Al contrario tutto deve cedere il passo alla salute.
Per quanto grande sia l’influenza della salute su questa gaiezza
così essenziale alla nostra felicità, non di meno
questa non dipende unicamente dalla prima, perchè con una
salute perfetta si può avere un temperamento melanconico ed
una disposizione predominante alla tristezza. Ne risiede certamente
la causa nella costituzione originaria, quindi immutabile,
dell’organismo e più specialmente nel rapporto più o
meno normale della sensibilità con l’irritabilità e
con la riproduttività. Una preponderanza anormale della
sensibilità produrrà l’ineguaglianza d’umore, una
gaiezza periodicamente esagerata ed un predominio della melanconia.
Siccome il genio è determinato da un eccesso della forza
nervosa, vale a dire della sensibilità, Aristotele ha
osservato con ragione che tutti gli uomini illustri ed eminenti sono
melanconici: Tutti gli uomini che sono nati o alla filosofia, o alla
politica, o alla poesia o alle arti si mostrano melanconici (Prob.
30, 1). Cicerone ebbe senza dubbio in vista questo passaggio nella
relazione tanto citata: Aristotele disse tutti gli uomini d’ingegno
esser melanconici (Tusc. I, 33). Shakespeare ha dipinto molto
piacevolmente questa grande diversità del temperamento
generale; La natura si diverte qualche volta a formare esseri
curiosi. V’ha chi si dà a fare continuamente gli occhietti
piccoli e che si mette a ridere come un pappagallo davanti un
semplice suonator di cornamusa, e v’ha chi tiene una tale fisonomia
d’aceto che non scoprirebbe i suoi denti, pur per sorridere,
quand’anche il grave Nestore giurasse ch’ei ha udito or ora uno
scherzo dei più ameni. (Il Mercante di Venezia, scena I).
È questa stessa diversità che Platone disegna colle
parole δυσκολος (d’umore difficile), ed ευκολος (d’umore facile).
Essa può esser ridotta alla suscettibilità, molto
diversa nei diversi individui, per le impressioni piacevoli o
disaggradevoli, in conseguenza della quale Tizio ride ancora di
ciò che mette Cajo in disperazione. E di più la
suscettibilità per le impressioni piacevoli è
d’ordinario tanto più piccola quanto quella per le
impressioni disaggradevoli è più forte, e viceversa. A
probabilità eguali di buono o cattivo esito in un affare, il
δυσκολος si stizzerà o si affliggerà dell’insuccesso,
e non si rallegrerà per la riuscita; l’ευκολος invece non
sarà nè stizzito nè afflitto per il cattivo
esito, e sarà contento per il buon successo. Se, nove volte
su dieci, il δυσκολος riesce ne’ suoi progetti, ei non si
rallegrerà per le nove volte riescite a bene, ma sarà
triste per il cattivo esito della decima; nel caso inverso l’ευκολος
sarà consolato e contento per l’unico successo felice.
Però non è facile trovare un male che non abbia alcun
compenso; così succede che i δυσκολος, cioè i
caratteri cupi ed inquieti, avranno, è vero, a sopportare
alla fin fine più disgrazie e dolori immaginari che non i
caratteri allegri e spensierati, ma in cambio incontreranno meno
sventure effettive, perchè chi vede tutto nero, chi teme
sempre il peggio e prende le sue misure in conseguenza, non
avrà delusioni così frequenti come colui che dà
colore e prospettiva ridente ad ogni cosa. Nondimeno quando
un’affezione morbosa del sistema nervoso o dell’apparecchio
digestivo viene a dar forza ad una δυσκολια innata, allora questa
può giungere a quell’alto grado in cui un malessere
permanente produce il disgusto della vita, d’onde proviene
l’inclinazione al suicidio. Il quale può allora esser
provocato dalle più piccole contrarietà; ad un grado
molto elevato del male non havvi nemmeno bisogno di motivo, per
risolvervisi basta la sola permanenza del malessere. Il suicidio si
compie allora con sì fredda riflessione e con sì
inflessibile risoluzione che a questo stadio il malato, posto
d’ordinario sotto custodia, profitta, lo spirito costantemente fisso
su questa idea, del primo momento in cui la sorveglianza sia
rilassata per ricorrere senza esitazione, senza lotta e senza paura,
a questo mezzo di sollievo per lui così naturale in questo
momento, e così ben venuto. Esquirol ha descritto molto a
lungo tale stato nel suo Trattato delle malattie mentali. È
certo che l’uomo il più sano, e fors’anco il più gaio,
potrà, capitando il caso, determinarsi al suicidio;
ciò succederà quando l’intensità dei dolori o
d’una sventura prossima ed inevitabile sarà più forte
dei terrori della morte. Non v’è differenza che nella potenza
più o meno grande del motivo determinante, potenza che
è in rapporto inverso colla δυσκολια. Quanto più
questa è grande, tanto più il motivo potrà
esser piccolo; al contrario più l’ευκολια, come pure la
salute che ne è la base, è grande, più grave
dovrà essere motivo. Vi saranno dunque gradi innumerevoli tra
questi due casi estremi di suicidio, tra quello cioè
provocato puramente da una recrudescenza morbosa della δυσκολια
innata, e quello dell’uomo sano ed allegro, proveniente da cause
affatto oggettive.
2. La bellezza.
La bellezza è analoga in parte alla salute. Questa
qualità soggettiva, benchè non contribuisca che
indirettamente alla felicità coll’impressione che produce
sugli altri, ha nondimeno una grande importanza anche per il sesso
mascolino. La bellezza è una lettera aperta di
raccomandazione che ci guadagna i cuori anticipatamente; specie ad
essa s’applicano i versi di Omero; Non bisogna sdegnare i doni
gloriosi degli immortali che soli possono dare e che nessuno
può accettare o rifiutare a suo piacere.
3. Il dolore, e la noia. L’intelligenza.
Un semplice colpo d’occhio ci fa scoprire due nemici della
felicità umana; il dolore e la noia. Inoltre possiamo
osservare che a misura che riusciamo ad allontanarci dall’uno, ci
avviciniamo al secondo, e reciprocamente; di maniera che la nostra
vita rappresenta in realtà una oscillazione più o meno
forte tra i due. Ciò deriva dal doppio antagonismo in cui
ciascuno di essi si trova verso l’altro, antagonismo esterno od
oggettivo, ed antagonismo interno o soggettivo. Infatti
esteriormente il bisogno e la privazione generano il dolore; per
contraccambio, gli agi e l’abbondanza fanno nascere la noia. Si
è per questo che vediamo la classe inferiore del popolo
lottare incessantemente contro il bisogno, dunque contro il dolore,
ed al contrario, la classe ricca ed altolocata alle prese
permanentemente, spesso disperatamente, contro la noia.
Internamente, o soggettivamente, l’antagonismo si fonda sul fatto
che in ogni individuo la facilità ad esser impressionato da
uno di questi mali è in rapporto inverso colla
facilità ad esser impressionato dall’altro; perocchè
tale suscettibilità è determinata dalla misura delle
forze intellettuali. Infatti una mente ottusa è sempre
accompagnata da impressioni grossolane e da una certa mancanza
d’irritabilità, ciò che rende l’individuo poco
accessibile ai dolori ed ai dispiaceri d’ogni specie e d’ogni grado;
ma questa stessa qualità ottusa dell’intelligenza produce
d’altronde quel vuoto interno che è stampato su tanti visi e
che si lascia scorgere per un’attenzione sempre svegliata su tutti
gli avvenimenti, anche più insignificanti, del mondo esterno;
questo vuoto è appunto la vera sorgente della noia, e chi ne
soffre aspira con avidità ad eccitamenti esterni, allo scopo
di mettere in movimento lo spirito ed il cuore non importa con qual
mezzo. Così egli non è difficile nella scelta dei
mezzi; lo si vede abbastanza alla miserabile meschinità di
svaghi a cui si abbandonano gli uomini, al genere di società
e di conversazioni che cercano, non meno che al numero immenso di
fannulloni e di balordi che vanno pel mondo. È principalmente
questo vuoto interno che li spinge alla ricerca d’ogni specie di
riunioni, di divertimenti, di piaceri e di lusso, ricerca che
conduce tanta gente alla dissipazione e finalmente alla miseria.
Nessuna cosa mette in guardia contro tali traviamenti più
sicuramente della ricchezza interna, la ricchezza dello spirito,
perchè questo lascia tanto meno posto alla noia quanto
più avvicina alla superiorità. L’attività
incessante dei pensieri, il loro continuo avvicendarsi in presenza
delle diverse manifestazioni del mondo interno ed esterno, la
potenza e la capacità di combinazioni sempre variate mettono
una testa eminente, salvo nei momenti di fatica, fuori affatto
dall’attacco della noia. Ma d’altronde un’intelligenza superiore ha
per condizione immediata una sensibilità più viva, e
per radice un più grande impeto della volontà e per
conseguenza della passione; dall’unione di queste due condizioni
deriva una intensità più considerevole di ogni
emozione ed una sensibilità esagerata per i dolori morali ed
eziandio pei fisici, come pure una grande intolleranza di faccia al
minimo ostacolo, od anche al minimo sconcerto.
Ciò che contribuisce altresì potentemente a questi
effetti si è la vivacità prodotta dalla forza
dell’immaginazione. Quanto dicemmo si applica, mantenuta ogni
proporzione, a tutti i gradi intermediarî che dividono il
vasto intervallo compreso tra l’imbecillità la più
ottusa ed il più gran genio. In conseguenza, oggettivamente
come pure soggettivamente, ogni individuo si trova tanto più
vicino ad una delle sorgenti delle umane sventure quanto più
è lontano dall’altra. La sua inclinazione naturale lo
porterà dunque, sotto questo rapporto, ad accomodare quanto
meglio possibile l’oggettivo col soggettivo, vale a dire a
premunirsi come meglio potrà contro quella sorgente di dolori
che lo attacca più facilmente. L’uomo intelligente
aspirerà prima d’ogni altra cosa a fuggire qualunque dolore,
qualunque contesa, ed a trovare riposo ed agi; cercherà
dunque una vita tranquilla, modesta, riparata per quanto è
possibile contro gl’importuni; dopo aver mantenuto per qualche tempo
relazioni con ciò che si chiama gli uomini, ei
preferirà una esistenza ritirata, e, se sarà uno
spirito assolutamente superiore, sceglierà la solitudine.
Perocchè più un uomo possiede in sè stesso,
meno ha bisogno del mondo esterno, e meno gli altri possono essergli
utili. Così la superiorità dell’intelligenza conduce
all’insociabilità. Ah! se la qualità della
società potesse esser surrogata dalla quantità,
varrebbe la pena di vivere pur anche nel gran mondo; ma, pur troppo,
cento pazzi messi in mucchio non fanno un uomo ragionevole.
L’individuo collocato all’estremo opposto, non appena il bisogno gli
dà tempo di riprendere fiato, cercherà ad ogni prezzo
passatempi e società; e s’accomoderà con tutto, non
fuggendo che sè stesso. Si è nella solitudine,
là dove ciascuno è ridotto alle sue sole risorse, che
si scorge quanto si ha per sè stessi; là l’imbecille,
sotto la porpora, sospira schiacciato dal peso della sua miserabile
individualità, mentre l’uomo altamente dotato, popola ed
anima co’ suoi pensieri la contrada la più deserta. Seneca
(Ep. 9) disse con ragione: La stupidità dà fastidio a
sè stessa, come pure Gesù figlio di Sirach; La vita
dello stolto è peggior della morte. Così in
conclusione si vede che ogni individuo è tanto più
socievole quanto è più povero di spirito ed in
generale più volgare. Perocchè nel mondo non si ha
guari la scelta che tra l’isolamento e la società. Si
pretende che i negri sieno di tutti gli uomini i più
socievoli, come sono senza dubbio i più limitati nelle
facoltà intellettuali; rapporti mandati dall’America del
Nord, e pubblicati da giornali francesi (Le Commerce, 19 oct. 1837)
raccontano che i negri, senza distinzione fra liberi e schiavi, si
uniscono in gran numero nel locale più ristretto,
perchè non saprebbero vedere mai abbastanza spesso ripetute
le loro faccie nere e camuse.
Nello stesso modo che il cervello ci sembra esser in certo qual modo
il parassita od il dozzinante dell’intero organismo, così gli
agi acquistati da chicchessia, dandogli il libero godimento della
sua coscienza e della sua individualità, sono a questo titolo
il frutto e la rendita di tutta la sua esistenza, la quale, per il
resto, non è che pena e fatica. Ma vediamo un po’ cosa
producono gli agi della maggior parte degli umani!: noia e
sgarbatezza, ogni qual volta l’uomo non trova da occuparsi in
piaceri sensuali od in balordaggini. Ciò che dimostra
abbastanza che tali agi non hanno alcun valore si è il modo
con cui sono impiegati; essi non sono letteralmente che
Ozio lungo d’uomini ignoranti
di cui parla l’Ariosto. L’uomo volgare non si preoccupa che di
passare il tempo, l’uomo di talento che d’impiegarlo. La ragione per
cui le teste povere sono tanto esposte alla noia, si è che il
loro intelletto non è assolutamente altra cosa che
l’intermediario dei motivi per la loro volontà. Se, in un
dato momento, non vi sono motivi da cogliere, allora la
volontà si riposa e l’intelletto resta inerte, perchè
la prima, non meglio del secondo, non può entrare in
attività di suo proprio impulso; il risultato è uno
spaventevole stagnamento di tutte le forze nell’individuo intero —
la noia. Per combatterla si suggerisce piano piano alla
volontà dei motivi piccoli, provvisori, scelti
indistintamente, allo scopo di stimolarla, e di metter con
ciò in attività anche l’intelletto che deve coglierli:
questi motivi sono dunque in rapporto ai motivi reali e naturali
ciò che la carta-moneta è in rapporto al danaro,
perchè il loro valore non è che convenzionale. Tali
motivi sono i giuochi di carte ed altri, inventati precisamente allo
scopo che abbiamo indicato. In loro mancanza l’uomo povero di
sè si metterà a stamburare sui vetri, od a dar colpi
con tutto quanto gli cade sotto mano. Anche il sigaro porge
facilmente di che supplire ai pensieri.
Si è per questo che in tutti i paesi i giuochi di carte sono
arrivati ad essere l’occupazione principale d’ogni società;
cosa che fornisce la misura di ciò che valgono queste
riunioni e che costituisce la bancarotta dichiarata d’ogni pensiero.
Non avendo idee da scambiare, si scambiano carte cercando di
sottrarsi vicendevolmente alquanti fiorini. O razza miserabile!
Tuttavia, per non esser ingiusto nemmeno qui, non voglio ommettere
l’argomento che si può invocare in giustificazione del giuoco
delle carte: si può dire che esso è una preparazione
alla vita del mondo e degli affari, nel senso che vi si impara a
profittare con saggezza da circostanze immutabili, essendo stabilite
le carte dalla sorte, per trarne tutto il partito possibile; a tal
fine si apprende a serbare un contegno corretto facendo buon viso a
cattivo giuoco. Ma, d’altra parte, per questo stesso fatto, i
giuochi di carte esercitano un’influenza demoralizzatrice. In fatti
lo spirito del giuoco consiste nel sottrarre ad altri ciò che
possiede, non importa con quale gherminella o con quale astuzia. Ma
l’abitudine di procedere così, contratta al giuoco, prende
radici, fa invasione nella vita privata, e il giocatore arriva
quindi insensibilmente a proceder nella stessa guisa quando si
tratta del tuo e del mio, ed a considerare come lecito ogni
vantaggio che si ha in mano al momento, poichè lo si
può fare legalmente. La vita ordinaria ne fornisce prove ogni
giorno.
Giacchè gli agi sono, come dicemmo, il fiore o piuttosto il
frutto dell’esistenza di ciascuno, perciocchè solamente essi
lo mettono al possesso del suo proprio io, noi dobbiamo stimare
felici coloro che, guadagnando sè stessi, guadagnano cosa che
ha prezzo, mentre gli agi non apportano alla maggior parte degli
uomini che uno scioccone di cui non sanno che fare, uno scioccone
che s’annoia a morte, e che è di peso a sè stesso.
Congratuliamoci dunque o fratelli d’esser figli non di schiave, ma
di madri libere (Paolo, Ep. ai Galati, 4, 31).
Inoltre come è più felice quel paese che ha meno
bisogno o non ha affatto bisogno d’importazione, così
è felice l’uomo a cui basta la ricchezza interna, e che pei
suoi divertimenti non domanda che poco, od anche nulla, al mondo
esterno, attesochè una tale importazione è costosa,
obbligante, pericolosa; essa espone a disgusti, e, in conclusione,
è sempre un cattivo succedaneo alle produzioni del proprio
suolo. Perocchè non dobbiamo, a nessun titolo, aspettarci
gran cosa dagli altri, e in generale dal di fuori. Ciò che un
individuo può essere per un altro è molto strettamente
limitato; ciascuno finisce col restar solo, e chi è solo?
diventa allora la grande questione. Goethe ha detto in proposito,
parlando in modo generale, che in ogni cosa ciascuno, in
conclusione, è ridotto a sè stesso (Poesia e
verità, vol. III). Oliviero Goldsmith dice egualmente:
Intanto da per tutto, ridotti a noi stessi, siamo noi che facciamo o
troviamo la nostra propria felicità (Il Viaggiatore, v. 431 e
seg.).
Ognuno deve adunque essere e fornire a sè stesso ciò
che v’ha di migliore e di più importante. Quanto più
succederà così, tanto più per conseguenza
l’individuo troverà in sè stesso le sorgenti dei suoi
piaceri, e tanto più sarà felice. Si è quindi
con ragione che Aristotele ha detto: La felicità appartiene a
chi basta a sè stesso (Mor. ad Eudemo, VII, 2). Infatti tutte
le sorgenti esterne della felicità e del piacere sono di lor
natura eminentemente incerte, equivoche, fuggevoli, aleatorie,
quindi soggette ad arrestarsi facilmente pur anche nelle circostanze
più favorevoli, e questo è pure inevitabile,
attesocchè noi non possiamo averle sempre alla mano. Anzi,
con l’età, quasi tutte fatalmente si esauriscono;
perchè allora amore, voglia di divertirsi, passione pei
viaggi e per cavalcare, attitudine a far figura nel mondo, tutto
questo ci abbandona; la morte ci toglie perfino amici e parenti. A
questo momento, più che mai, è importante sapere
ciò che si ha da sè stessi. Non v’ha che questo,
infatti, che resisterà più lungamente. Intanto in ogni
età, senza differenza, ciò è e resta la
sorgente vera, e sola permanente della felicità.
Perocchè non vi è molto da guadagnare a questo mondo:
la miseria ed il dolore lo empiono, e per quelli che hanno sfuggiti
questi mali, la noia è là che li insidia da ogni
banda. Inoltre d’ordinario è la perversità che regna,
e la stoltezza che parla più forte. Il destino è
crudele, e gli uomini sono miserabili. In un mondo siffatto colui
che ha molto in sè stesso è simile ad una camera
dell’albero di Natale, illuminata, calda, gaia, in mezzo alle nevi
ed ai ghiacci d’una notte di dicembre. Per conseguenza, aver
un’individualità ricca e superiore, e sopratutto molta
intelligenza costituisce senza dubbio la sorte più felice
sulla terra, per quanto ciò possa esser differente dalla
sorte la più brillante. Sicchè quanta saggezza
nell’opinione emessa su Descartes dalla regina Cristina di Svezia in
età di appena diciannov’anni: Il signor Descartes è il
più felice di tutti i mortali, e la sua condizione mi sembra
degna d’invidia (Vie de Descartes par Baillet, l. VII, c. 10).
Descartes a quell’epoca viveva da vent’anni in Olanda nella
più profonda solitudine, e la regina lo conosceva solamente
per quanto le era stato raccontato e per aver letto una delle sue
opere. Bisogna solo, e ne era precisamente il caso in Descartes, che
le circostanze esterne sieno abbastanza favorevoli per permettere di
possedersi, e d’esser contenti di sè stessi; per questo
l’Ecclesiaste diceva già: La saggezza è buona con un
patrimonio e ci aiuta a rallegrarci alla vista del sole (7, 12).
L’uomo cui, per un favore della natura o della fortuna, questa sorte
è stata accordata, starà attento con cura gelosa
perchè questa sorgente interna di felicità gli resti
sempre accessibile; per ciò occorrono indipendenza ed agi.
Li acquisterà dunque ben volentieri colla moderazione e col
risparmio, e tanto più facilmente perchè egli non
è ridotto, come gli altri uomini, alle sole sorgenti esterne
dei piaceri. Ed è per questo che la prospettiva delle
cariche, dell’oro, dei favori regali, e l’approvazione del mondo non
lo indurranno a rinunziare a sè stesso per adattarsi alle
vedute meschine od al cattivo gusto degli uomini. Al caso, ei
farà come Orazio nella epistola a Mecenate (L. 1, ep. 7).
È una gran pazzia perdere all’interno per guadagnare
all’esterno, in altri termini abbandonare, in tutto o in parte, il
proprio riposo, gli agi e l’indipendenza per il fasto, il grado, le
pompe, i titoli, gli onori. Goethe però l’ha fatto. In quanto
a me, il mio genio mi ha tratto energicamente nella via opposta.
La verità, qui esaminata, che la sorgente principale della
felicità vien dall’interno, si trova confermata da una giusta
osservazione di Aristotele nella Morale a Nicomaco (I, 7; e VII, 13,
14); egli dice che ogni piacere suppone un’attività, quindi
l’impiego di una forza, e che non può esistere senza di
questa. Tale dottrina aristotelica di far consistere la
felicità dell’uomo nel libero esercizio delle sue
facoltà saglienti è riprodotta egualmente da Stobeo
nell’Esposizione della morale peripatetica (Eclogœ ethicœ, II, c.
7); eccone un passo: idera di nuovo la città e vi ritorna
(L. III, v. 1073 e seg.).
Presso questi signori, finchè sono giovani, devono far le
spese le forze muscolari e genitali. Ma più tardi non restano
più che le forze intellettuali; in loro mancanza, od in
difetto di sviluppo o di materiali per servire alla loro
attività, la miseria è grande. La volontà
essendo la sola forza inesauribile, si cerca allora di stimolarla
coll’eccitare le passioni; si ricorre, per esempio, ai giuochi
d’azzardo in grande, a questo vizio in vero degradante. Del resto
ogni individuo sfaccendato sceglierà, secondo la natura delle
forze in lui predominanti, un divertimento che le impieghi, come il
giuoco delle palle o degli scacchi, la caccia o la pittura, le corse
di cavalli o la musica, i giuochi di carte o la poesia, l’araldica o
la filosofia, ecc.
Possiamo anche trattare questa materia con metodo, riportandoci alla
radice delle tre forze fisiologiche fondamentali: abbiamo dunque da
studiarle qui nel loro esercitarsi senza scopo; esse ci si
presentano allora come sorgenti di tre specie di piaceri possibili,
fra le quali ciascuno sceglierà quelle che gli sono
proporzionate secondo che l’una o l’altra di queste forze
predominano in lui.
Così troviamo anzi tutto le gioie della forza riproduttiva:
esse consistono nel mangiare, nel bere, nella digestione, nel riposo
e nel sonno. Vi sono intere popolazioni a cui si attribuisce di fare
gloriosamente di tali gioie uno spasso nazionale. In secondo luogo i
piaceri dell’irritabilità; essi sono i viaggi, la lotta, il
salto, la danza, la scherma, il cavalcare ed i giuochi atletici
d’ogni specie, come pure la caccia, e veramente anche i
combattimenti e la guerra. In terzo luogo i piaceri della
sensibilità, quali contemplare, pensare, sentire, creare
nella poesia o nell’arte plastica, far musica, studiare, leggere,
meditare, inventare, filosofare, ecc. Vi sarebbero da fare molte
osservazioni sul valore, sull’altezza e sulla durata di queste
differenti specie di piaceri; noi ne lasciamo la cura al lettore. Ma
ciascuno comprenderà che il piacere nostro, motivato
costantemente dall’impiego delle nostre proprie forze, come pure la
nostra felicità, risultato del frequente rinnovarsi di questo
piacere, saranno tanto più grandi quanto più la forza
produttrice sarà di nobile specie. Nessuno potrà
inoltre negare che il primo posto, sotto questo rapporto, tocchi
alla sensibilità il cui predominio deciso stabilisce la
distinzione tra l’uomo e le altre specie animali; le due altre forze
fisiologiche fondamentali, che esistono presso l’animale nello
stesso grado, od in un grado anche più alto che presso
l’uomo, non vengono che in seconda linea. Alla sensibilità
appartengono le nostre forze intellettuali; ed è per
ciò che il suo predominio ci rende atti a gustare i piaceri
che hanno sede nell’intelletto, i piaceri dello spirito; piaceri che
sono tanto più grandi quanto il predominio della
sensibilità è più accentuato. L’uomo normale,
l’uomo ordinario non può prendere vivo interesse ad una cosa
se questa non eccita la sua volontà, se non gli presenta un
interesse personale. Ora ogni eccitamento persistente della
volontà è, per lo meno, di natura mista, quindi
combinato col dolore. I giuochi di carte, occupazione abituale della
buona società di ogni paese, sono un mezzo per eccitare
intenzionalmente la volontà, e ciò mediante interessi
tanto minimi che non possono che occasionare dolori momentanei e
leggeri, non già dolori permanenti e serî:
cosicchè si può considerarli come un semplice
solletico della volontà. L’uomo dotato di forze intellettuali
predominanti, invece è capace d’interessarsi vivamente alle
cose per via dell’intelligenza pura, senza immistione alcuna del
volere; ne prova anzi il bisogno. Tale interesse lo trasporta allora
in una regione in cui il dolore è essenzialmente straniero,
nell’atmosfera per così dire, degli dei dalla vita facile,
Θεῶν ρεία ζωόντων. Mentre l’esistenza del resto degli uomini passa
così nel torpore, e che i sogni e le aspirazioni di essi sono
dirette verso i meschini interessi del benessere personale colle
loro miserie d’ogni sorte; mentre una noia insopportabile li coglie
appena non sono più occupati a coltivare tali progetti, e che
restano ridotti a sè stessi; mentre l’ardore selvaggio della
passione può solo scuotere questa massa inerte, l’uomo dotato
di facoltà intellettuali preponderanti possiede un’esistenza
ricca di pensieri, sempre animata, e sempre importante; oggetti
degni ed interessanti lo occupano non appena ha l’agio di darsi a
loro, ed ei porta con sè una sorgente di gioie le più
nobili. L’impulso esterno gli è fornito dalle opere della
natura e dall’aspetto dell’attività umana, ed inoltre dalle
produzioni così svariate delle menti più elevate di
tutti i tempi e paesi, produzioni che egli solo può realmente
gustare per intero, perchè egli solo è capace di
comprenderli e di sentirli interamente. Si è dunque per lui,
in realtà, che costoro hanno vissuto; si è dunque a
lui, in fatto, che essi hanno indirizzato le loro parole, mentre gli
altri, come uditori d’occasione, non comprendono che qualche poco
qua e là, e solamente a mezzo, È certo che appunto per
questo l’uomo superiore acquista un bisogno di più che gli
altri uomini, il bisogno d’imparare, di vedere, di studiare, di
meditare, di applicarsi; il bisogno quindi di aver tempo
disponibile. Ora, come Voltaire ha giustamente osservato, non
essendovi veri piaceri se non in seguito a veri bisogni, questo
bisogno dell’uomo intelligente è precisamente la condizione
che mette alla sua portata piaceri il cui accesso resta interdetto
per sempre agli altri; per costoro le bellezze della natura e
dell’arte, le opere dell’intelletto d’ogni specie, anche quando se
ne circondano, non sono in fondo se non ciò che le cortigiane
sono per un vecchio. Un ente così privilegiato, a lato della
sua vita personale, vive d’una seconda esistenza, d’una esistenza
intellettuale che arriva grado a grado ad essere il suo vero scopo,
l’altra non essendo più considerata che come mezzo; per il
resto degli uomini si è la loro stessa esistenza, insipida,
vuota e desolata che deve loro servire di scopo. La vita
intellettuale sarà l’occupazione principale dell’uomo
superiore; aumentando senza mai cessare il suo tesoro di senno e di
scienza, essa così acquista costantemente una connessione ed
una gradazione, una unità ed una perfezione sempre più
spiccate, come un’opera d’arte in via di formazione. In cambio che
penoso contrasto fa con questa la vita degli altri, puramente
pratica, diretta solo al benessere personale, vita che non ha
aumento possibile se non in lunghezza senza poter guadagnare in
profondità, e destinata nondimeno a servir loro di scopo per
sè stessa, mentre per l’altro essa è un semplice
mezzo!
La nostra vita pratica, reale, dal momento che le passioni non la
tengono in agitazione, è noiosa e scipita; quando esse la
turbano diventa ben presto dolorosa; si è per questo che sono
felici solamente coloro cui è toccato in sorte una somma
d’intelletto eccedente quella misura che il servizio della loro
volontà reclama. Così a lato della vita effettiva essi
possono vivere d’una vita intellettuale che li occupa e li ricrea
senza dolore, e tuttavia con vivacità. Il semplice agio, vale
a dire un intelletto non occupato al servizio della volontà,
non basta, abbisogna per ciò un eccedente positivo di forza
che solo ci rende atti ad un’occupazione puramente spirituale e non
legata al servizio della volontà. Per lo contrario l’ozio
senza lo studio è morte e sepolcro dell’uomo vivo (Seneca,
Ep. 82). Nella misura di questo eccedente, la vita intellettuale
esistente a lato della vita reale presenterà gradazioni
innumerevoli, dai lavori del raccoglitore che descrive insetti,
uccelli, minerali, monete, ecc., fino alle più alte
produzioni della poesia e della filosofia.
Una tal vita intellettuale protegge non soltanto contro la noia, ma
anche contro le sue perniciose conseguenze. Essa infatti ripara
dalla cattiva compagnia e dai molti pericoli, disgrazie, perdite, e
dissipazioni a cui si espone chi cerca interamente la sua
felicità nella vita reale. Volendo parlare di me, per
esempio, dirò che la mia filosofia non m’ha fruttato, ma mi
ha risparmiato molto.
L’uomo normale invece o limitato, nei piaceri della vita, alle cose
esterne, quali le ricchezze, il grado, la famiglia, gli amici, la
società, ecc.; su esse egli stabilisce la felicità
della sua vita, cosicchè tale felicità crolla, quando
le perde, o quando incontra qualche disinganno. Per disegnare questo
stato dell’individuo possiamo dire che il suo centro di
gravità cade fuori di lui. Si è per ciò che le
sue voglie ed i suoi capricci sono sempre variabili: quando i suoi
mezzi glielo permettono ei comprerà talora una villa, talora
dei cavalli, oppure darà feste, poi intraprenderà dei
viaggi, ma sopra tutto condurrà una vita fastosa, e tutto
ciò precisamente perchè cerca, non importa dove, una
soddisfazione che venga dal di fuori; così un uomo consumato
spera trovare nel brodetto e nelle droghe di farmacia la salute ed
il vigore la cui vera fonte è la forza vitale propria. Per
non passare immediatamente all’estremo opposto, prendiamo ora un
uomo dotato di una potenza intellettuale che senza esser eminente,
oltrepassi tuttavia la misura ordinaria e strettamente sufficente.
Vedremo quest’uomo, quando le sorgenti esterne dei piaceri venissero
a mancare o più non lo soddisfacessero, coltivare da
dilettante qualche ramo delle belle arti, oppure qualche scienza,
come la botanica, la mineralogia, la fisica, l’astronomia, la
storia, ecc., e trovarvi un gran fondo di piacere e di ricreazione.
A questo titolo possiamo dire che il suo centro di gravità
cade già in parte dentro di lui. Ma il semplice dilettantismo
nell’arte è ancora ben lontano dalla facoltà
creatrice; d’altra parte le scienze non oltrepassano i rapporti dei
fenomeni tra loro, esse non possono assorbire l’uomo tutto intero,
colmare tutto il suo essere, nè per conseguenza intrecciarsi
così strettamente nel tessuto della sua esistenza da renderlo
incapace di prender interesse a tutto il resto. Ciò resta
riservato esclusivamente alla suprema altezza intellettuale, a
quell’altezza che si chiama comunemente genio; essa sola può
prender per tema, interamente ed assolutamente, l’esistenza e
l’essenza delle cose; dopo di che tende, secondo la sua direzione
individuale, ad esprimere i suoi profondi concetti coll’arte, colla
poesia o colla filosofia.
Non è che per un uomo di tal tempra che l’occupazione
permanente con sè stesso, coi suoi pensieri e colle sue opere
riesce un bisogno irresistibile; per lui la solitudine è la
ben venuta, gli agi sono il bene supremo; in quanto al resto egli
può farne senza, e quando lo possede esso gli doventa ben di
frequente un peso. Di quest’uomo possiamo dire che il suo centro di
gravità cade tutto intero dentro di lui. Questo ci spiega
nello stesso tempo come succede che tali uomini d’una specie
così rara non portano ai loro amici, alla loro famiglia, al
bene pubblico, l’interesse intimo ed illimitato di cui molti fra gli
altri sono capaci, perocchè alla fin fine essi possono farne
a meno possedendo sè stessi. Esiste adunque di più in
essi un elemento isolante, la cui azione è tanto più
energica in quanto che gli altri uomini non possono soddisfarli
pienamente; così essi non saprebbero vedere affatto negli
altri degli eguali, ed anzi, sentendo continuamente la
dissomiglianza della loro natura in tutto e da per tutto, si
abituano adagio adagio ad essere fra gli umani come individui di una
specie differente, ed a servirsi, quando le loro riflessioni si
portano su di essi, della terza persona plurale in luogo della
prima.
Considerato sotto un tal punto di vista l’uomo il più felice
sarà dunque colui che la natura ha riccamente dotato dal lato
intellettuale, tanto ciò che è in noi ha più
importanza di ciò che è al di fuori; questo, vale a
dire l’oggettivo, in qualunque modo agisca, non agisce mai se non
per l’intermediario dell’altro, vale a dire del soggettivo; l’azione
dell’oggettivo è quindi secondaria. È quanto espresse
in bei versi Luciano: La ricchezza dell’anima è la sola vera
ricchezza; tutti gli altri beni sono fecondi di dolori (Ant. I, 67).
Un uomo ricco siffattamente all’interno non domanda al mondo
esteriore che un dono negativo, cioè gli agi per poter
perfezionare e sviluppare le facoltà del suo spirito, e per
poter godere delle sue ricchezze interne; ei reclama dunque
unicamente la libertà di potere, per tutta la sua vita esser
sè stesso ogni giorno, ed ogni ora. Per l’uomo destinato ad
imprimere la traccia del suo spirito sull’umanità intera, non
esistono che una sola felicità ed una sola infelicità,
e sono di poter perfezionare il suo ingegno e completar le sue
opere, oppure esserne impedito. Tutto il resto per lui non ha
importanza. Ed è per questo che vediamo le grandi menti
d’ogni epoca attribuire il prezzo più alto agli agi,
perocchè tanto vale l’uomo, tanto valgono i suoi agi. Credo
invero che la felicità stia negli agi (ozii), dice Aristotele
(Mor. a Nic. X, 7). Anche Diogene Laerzio riporta che Socrate
vantava gli agi come la più bella ricchezza (II, 5, 31). Si
è sempre ciò che intende Aristotele (Mor. a Nic. X, 7,
8, 9), quando dichiara che la più bella vita è quella
del filosofo. Egli dice egualmente nella Politica (IV, 11):
Esercitare liberamente il proprio genio, ecco la vera
felicità. E Goethe nel Wilhelm Meister; Chi è nato con
un genio, per un genio, trova in esso la sua più bella
esistenza.
Ma posseder agi non è solo fuori della sorte ordinaria, ma
anche fuori della natura ordinaria dell’uomo, perocchè sua
destinazione naturale si è d’impiegare il suo tempo ad
acquistare il necessario per la esistenza sua e per quella della
famiglia. Egli è figlio della miseria, non un’intelligenza
libera. Così gli ozi riescono ben presto ad essere di peso,
poi si fanno tortura per l’uomo ordinario dal momento che egli non
può occuparli con mezzi artificiali e fittizi d’ogni specie,
coi giuochi, con passatempi, e con bagattelle d’ogni forma. Anzi per
questo gli ozi gli procurano anche dei danni, perocchè si
è detto con ragione: «difficilis in otio quies»
è difficile esser tranquilli nell’ozio. D’altra parte
però una intelligenza che oltrepassi di molto la misura
normale è parimenti un fenomeno straordinario, quindi contro
natura. Tuttavia, quando essa è data, l’uomo che ne è
fornito, per trovare la felicità, ha precisamente bisogno di
quegli agi che per gli altri sono qualche volta importuni e qualche
volta funesti; in quanto a lui, senza agi sarà un Pegaso
sotto il giogo; in una parola sarà infelice. Nondimeno se
queste due anomalie, l’una esterna e l’altra interna, si trovano
riunite, la loro unione produce un caso di suprema felicità,
perocchè l’uomo così favorito condurrà allora
una vita d’un ordine superiore, la vita d’un essere sottratto alle
due sorgenti opposte dei dolori umani; il bisogno e la noia; che
egli è del pari sollevato e dalla cura penosa di
affaccendarsi per provvedere alla sua esistenza e
dall’incapacità di sopportare gli ozi (vale a dire
l’esistenza libera propriamente detta); altrimenti un uomo non
può scappare da questi due mali se non se per il fatto che
essi si neutralizzino e si annullino reciprocamente.
Di fronte a tutto ciò che precede, bisogna considerare
d’altra parte che, in seguito ad un’attività preponderante
dei nervi, le grandi facoltà intellettuali producono un
aumento eccessivo dell’attitudine a sentire il dolore sotto tutte le
forme; che inoltre il temperamento passionato che ne è la
condizione, come pure la vivacità e la perfezione più
grande di ogni percezione, che ne sono inseparabili, danno alle
emozioni così prodotte una violenza senza confronto
più forte; ora si sa che le emozioni dolorose sono molto
più frequenti che le piacevoli; finalmente bisogna anche
ricordare che le alte facoltà intellettuali fanno di chi le
possiede un uomo straniero agli altri uomini ed alle loro
agitazioni, visto che più questi possede in sè stesso,
meno può trovare in altrui. Mille oggetti per i quali costoro
prendono un piacere infinito, a lui sembrano insipidi e ripugnanti.
Forse in tal maniera la legge di compensazione che regna dovunque,
domina egualmente qui pure. Non si è forse preteso bene
spesso e non senza qualche apparenza di ragione, che in fondo l’uomo
più povero di spirito è il più felice? Comunque
si sia, nessuno gl’invidierà questa felicità. Io non
voglio antecipare sul lettore per la soluzione definitiva di tale
questione, tanto più perchè Sofocle stesso ha espresso
su ciò giudizi diametralmente opposti: Il sapere è di
molto la porzione più considerevole della felicità
(Antigone). Un’altra volta disse: La vita del saggio non è la
più piacevole (Ajace). I filosofi dell’Antico Testamento non
vanno meglio d’accordo tra loro; Gesù, figlio di Sirac, ha
detto: La vita dello stolto è peggior della morte (22, 12);
l’Ecclesiaste invece (1, 18): Dove molta sapienza, ivi molto dolore.
Frattanto ci tengo a ricordar qui che ciò che si disegna
più particolarmente con una parola propria esclusivamente
della lingua tedesca, Philister (borghese, droghiere, filisteo), si
è precisamente l’uomo che, in seguito alla misura limitata e
strettamente sufficente delle sue forze intellettuali, non ha
bisogni spirituali; tale espressione appartiene alla vita da
studenti, ed è stata messa in uso più tardi in un
rispetto più elevato, ma analogo ancora al suo senso
primitivo, per qualificare colui che è l’opposto d’un figlio
delle Muse, vale a dire un uomo affatto prosaico. Costui infatti
è e resta l’αμουσος ανηρ (l’uomo non iniziato alle Muse).
Ponendomi ad un punto di vista più alto ancora vorrei
definire i filistei dicendo che sono gente costantemente occupata, e
ciò colla più gran serietà del mondo, d’una
realtà che non è realtà. Ma questa definizione,
già d’una natura trascendentale, non sarebbe in armonia col
punto di vista popolare a cui mi son messo in questa dissertazione;
potrebbe quindi non esser compresa da tutti i lettori. La prima
invece ammette più facilmente un commento specifico, e
disegna abbastanza l’essenza e la radice delle proprietà
caratteristiche tutte del filisteo. Costui è dunque, come
dicemmo, un uomo senza bisogni spirituali.
Da ciò derivano molte conseguenze: la prima, in rapporto a
lui stesso, si è che non avrà mai gioje spirituali,
secondo la massima già citata che non vi sono veri piaceri se
non con veri bisogni. Nessuna aspirazione ad acquistar conoscenze e
giudizi nuovi per le cose in sè stesse anima la sua
esistenza: e nessuna aspirazione ai piaceri estetici,
perocchè queste due aspirazioni sono strettamente legate
assieme. Quando la moda o qualche altro stimolo gl’impone tali
piaceri ei se ne sbriga nel modo più breve possibile, come un
galeotto si sbriga del suo lavoro forzato. Soli piaceri per lui sono
i sensuali, su di essi egli prende il suo compenso. Mangiar
ostriche, bever vino di Champagne, ecco per lui l’apice
dell’esistenza; procurarsi tutto quanto contribuisce al benessere
materiale, ecco lo scopo della sua vita. Troppo felice quando tale
scopo lo occupa abbastanza! Perocchè se questi beni gli sono
stati già concessi antecipatamente, ei diventa preda della
noia; per cacciarla prova tutto ciò che si può
immaginare; balli, teatri, società, giuochi di carte, giuochi
d’azzardo, cavalli, donne, ebbrezza, viaggi, ecc. E nullameno tutto
questo non basta quando l’assenza di bisogni intellettuali rende
impossibili i piaceri dello spirito. Così una serietà
fosca e secca, molto simile a quella dell’animale, è propria
del filisteo e lo caratterizza. Niente lo diverte, niente lo scuote,
niente risveglia il suo interesse. I piaceri materiali sono presto
esauriti; la società, composta di filistei suoi pari, gli
viene ben tosto a noia; il giuoco delle carte finisce collo
stancarlo. Gli restano rigorosamente parlando le soddisfazioni della
vanità alla sua maniera: esse consisteranno a sorpassare gli
altri nelle ricchezze, nel grado, nell’influenza o nel potere,
ciò che allora gli vale la loro stima; oppure anche ei
cercherà di potersi almeno fregare intorno a coloro che
brillano per tali vantaggi, e di riscaldarsi ai riflessi del loro
splendore (in inglese questo si chiama snob).
La seconda conseguenza che risulterebbe dalla proprietà
fondamentale che abbiamo riscontrata nel filisteo, si è che
in rapporto agli altri, siccome è privo di bisogni
intellettuali, e limitato ai soli materiali, cercherà gli
uomini che potranno soddisfare questi ultimi, e non coloro che
potrebbero provvedere ai primi. Sicchè non sono certamente le
alte qualità intellettuali che chiede loro; che anzi quando
le incontra eccitano la sua antipatia, e fors’anche il suo odio,
perocchè ei non prova in loro presenza se non un sentimento
importuno d’inferiorità ed un’invidia sorda, secreta, che
nasconde colla più gran cura, che cerca di dissimulare a
sè stesso, ma che giusto per questo cresce talora fino ad una
rabbia muta. Non è mica sulle facoltà dello spirito
che costui penserà mai a misurare la sua stima o la sua
considerazione; ei le riserverà esclusivamente al grado ed
alla ricchezza, al potere ed all’influenza, cose che passano a’ suoi
occhi come le sole qualità vere, le sole in cui può
aspirare di eccellere. E tutto ciò perchè il filisteo
è un uomo privo di bisogni intellettuali. Il suo estremo
soffrire deriva dal fatto che le idealità non gli portano
alcun divertimento, e che, per sfuggire la noia, ei deve sempre
ricorrere alle realtà. Ora queste da una parte sono ben
presto esaurite, ed allora in luogo di far piacere, stancano; e
dall’altra portano con sè sciagure d’ogni fatta, mentre le
idealità sono inesauribili e per sè stesse innocue.
In tutta questa dissertazione sulle condizioni personali che
contribuiscono alla nostra felicità, ebbi in vista le
qualità fisiche, e principalmente le qualità
intellettuali. Si è nella mia memoria sul Fondamento della
morale (§ 22) che ho esposto come la perfezione morale, a sua
volta, influisca direttamente sulla felicità: a quest’opera
invito il lettore.
_____
CAPITOLO III.
___
Di ciò che si ha.
Epicuro, il grande maestro di felicità, ha mirabilmente e
giudiziosamente diviso i bisogni umani in tre classi. Primo, i
bisogni naturali e necessari: quelli che non soddisfatti producono
dolore; essi dunque non comprendono che il victus e l’amictus (cibo
e vesti). Sono facili da soddisfare. — Secondo, i bisogni naturali,
ma non necessari: cioè il bisogno di soddisfazione sessuale,
quantunque Epicuro non lo dica nell’opera di Diogene Laerzio (del
resto riproduco qui, in generale, tutta questa dottrina leggermente
modificata e corretta). Tale bisogno è già più
difficile da soddisfare. — Terzo, quelli che non sono nè
naturali, nè necessarî: e sarebbero i bisogni del
lusso, dell’abbondanza, del fasto e della splendidezza; il loro
numero è infinito, e la loro soddisfazione molto difficile
(Vedi Diogene Laerzio L. X, c. 27, § 149 e 127; — Cicerone, De
fin. I, 13).
Il limite dei nostri desiderî ragionevoli riferendosi ai beni
di fortuna, è difficile, se non impossibile, determinarlo.
Perocchè la soddisfazione di ciascuno a tale riguardo si
fonda non sopra una quantità assoluta, ma sopra una
quantità relativa, vale a dire sul rapporto tra le sue brame
e le sue ricchezze; così queste ultime, considerate in
sè stesse, sono tanto prive di significato quanto il
numeratore di una frazione senza denominatore. La mancanza di beni a
cui un uomo non ha mai sognato d’aspirare, non può affatto
privarlo di qualche cosa; ei sarà perfettamente pago senza di
essi, mentre un altro che possede cento volte di più si
sentirà infelice perchè gli manca il solo oggetto che
brama. Ciascuno ha pure, riguardo i beni a cui gli è permesso
aspirare, un orizzonte tutto proprio, e le sue pretese non vanno
oltre i limiti di quest’orizzonte. Quando un oggetto, collocato
entro questi limiti, gli si presenta in modo ch’ei possa esser certo
di raggiungerlo, si troverà felice; al contrario si
sentirà infelice se, sopravvenendo ostacoli, tale prospettiva
gli è tolta. Ciò che è posto al di là
non ha alcuna azione su di lui. Si è per questo che la
immensa fortuna del ricco non dà molestia al povero, e per
questo pure, d’altra parte, che tutte le ricchezze già
possedute non consolano il ricco quando è deluso in
un’aspirazione. (La ricchezza è come l’acqua salata:
più se ne beve, più cresce la sete; lo stesso succede
della gloria).
Il fatto che dopo la perdita della ricchezza o dell’agiatezza,
appena vinto il primo dolore, il nostro umore abituale non
sarà molto diverso da quello che era per lo avanti, si spiega
riflettendo che, il fattore del nostro avere essendo stato diminuito
dalla sorte, riduciamo subito, da noi stessi, considerevolmente il
fattore delle nostre pretese. Ecco dove sta quanto havvi di
veramente doloroso in una disgrazia; una volta compiuta questa
operazione, il dolore si fa sempre meno sensibile, e finisce collo
sparire; la piaga si cicatrizza. Nell’ordine inverso, in presenza
d’un avvenimento felice, il peso che comprime le nostre pretese
s’innalza e permette loro di dilatarsi: in ciò consiste il
piacere. Ma questo pure non dura che il tempo necessario
perchè l’operazione si compia; noi ci avvezziamo poi alla
scala così aumentata delle pretese, e diveniamo indifferenti
al possesso corrispondente della ricchezza. È quanto esprime
un passo di Omero (Odissea, XVIII, 130-137) di cui presentiamo gli
ultimi versi: Tale invero è lo spirito degli uomini
terrestri, simile ai giorni mutevoli che adduce il padre degli
uomini e degli dei.
La fonte dei nostri dispiaceri sta negli sforzi da noi sempre
rinnovati per elevare il fattore delle aspirazioni, mentre l’altro
fattore colla sua immobilità vi si oppone.
Non bisogna stupirsi di vedere, nella specie umana, povera e piena
di bisogni, la ricchezza più altamente e più
sinceramente apprezzata, fors’anco più venerata, di qualunque
altra cosa; il potere stesso non è tenuto in conto se non
perchè conduce alla fortuna; e neppure bisogna maravigliarsi
nel vedere gli uomini metter da parte, o passar sopra a qualunque
considerazione quando si tratta d’acquistar ricchezze, nel veder per
esempio i professori di filosofia far buon mercato della loro
scienza per guadagnar danaro. Si fa spesso rimprovero agli uomini di
volgere i loro voti specialmente al danaro e di amarlo più
d’ogni altra cosa al mondo. Pure è ben naturale, quasi
inevitabile, di amare ciò che, simile ad un Proteo
instancabile, è pronto ad assumere in ogni momento la forma
dell’oggetto attuale delle nostre voglie sì mobili, o dei
nostri bisogni sì diversi. Ogni altro bene, infatti, non
può soddisfare che un solo desiderio, che un solo bisogno: le
vivande hanno valore solamente per chi ha fame, il vino per chi sta
bene, i medicamenti per chi è malato, una pelliccia durante
l’inverno, le donne per la gioventù, ecc. Tutte queste cose
non sono dunque che αγαθα προς τι, vale a dire relativamente buone.
Il solo danaro è il bene assoluto, perchè esso non
provvede unicamente ad un solo bisogno «in concreto,» ma
al bisogno in generale «in abstracto.»
I beni di fortuna di cui si può disporre devono dunque esser
considerati come un riparo contro il gran numero di mali e di
disgrazie possibili, e non come un permesso, e meno ancora come un
obbligo di aversi da procurare i piaceri del mondo. Le persone che,
senza aver un patrimonio, giungono col loro ingegno, qualunque esso
sia, al punto di guadagnare molto danaro, cadono quasi sempre
nell’illusione di credere che il loro ingegno sia un capitale
stabile, e che il danaro che frutta loro l’ingegno sia per
conseguenza l’interesse del detto capitale. Così non mettono
da canto alcun poco di ciò che guadagnano per farsene una
rendita certa, ma spendono nella stessa misura che prendono. Ne
segue che d’ordinario essi cadono in miseria quando i loro guadagni
ristanno o cessano completamente; infatti il loro talento stesso,
passaggero di sua natura, come lo è per esempio il genio per
quasi tutte le belle arti, si esaurisce, oppure le circostanze
speciali o le occasioni che lo rendevano produttivo spariscono. Gli
artigiani possono a tutto rigore menar una tal vita, perchè
la capacità richiesta per il loro mestiere non si perde
facilmente, o può esser surrogata dal lavoro dei loro operai;
inoltre i loro prodotti sono oggetti di necessità il cui
smercio è sempre assicurato; un proverbio tedesco dice con
ragione: «Ein Handwerk hat einen goldenen Boden» vale a
dire un buon mestiere vale molto oro.
Così non avviene degli artisti e dei virtuosi d’ogni specie.
Ed è giusto per questo che sieno pagati a prezzi così
alti; ma anche per la stessa ragione dovrebbero essi capitalizzare
il danaro che guadagnano; nella loro presunzione lo considerano
invece come se non fosse che l’interesse e vanno incontro
così alla loro rovina.
In cambio la gente che possiede un patrimonio sa molto bene fin da
principio distinguere tra capitale ed interessi. Sicchè la
maggior parte cercherà d’investire il suo capitale nel modo
più sicuro, nè lo rosicchierà in alcun caso,
anzi riserverà, possibilmente, sugl’interessi l’ottava parte
almeno per prevenire ad una crisi eventuale. Costoro si mantengono
così soventi volte nell’agiatezza. Niente di quanto diciamo
si applica ai commercianti; per essi il danaro è per
sè stesso l’istromento del guadagno, l’utensile di
professione per così dire: d’onde segue che anche quando lo
hanno acquistato col loro lavoro, cercheranno nel suo impiego i
mezzi di conservarlo e di aumentarlo. Così la ricchezza
è abituale in questa classe più che in qualunque
altra.
In generale, si troverà che ordinariamente quelli che hanno
già lottato colla vera miseria e col bisogno, li temono
incomparabilmente meno, e sono più portati alla dissipazione
di coloro che non conoscono questi mali se non per averne sentito
parlare. Alla prima categoria appartengono tutti coloro che; non
importa per qual colpo della sorte, o per qualunque talento
speciale, sono passati rapidamente dalla povertà
all’agiatezza; alla seconda quelli che, nati con beni di fortuna, li
hanno conservati. Costoro stanno in apprensione per l’avvenire
più dei primi e sono più economi. Se ne potrebbe
dedurre che il bisogno non è cosa tanto brutta come
sembrerebbe visto da lontano. Però la ragione vera dev’essere
piuttosto la seguente: all’uomo nato con un patrimonio, la ricchezza
appare come qualche cosa d’indispensabile, come l’elemento della
sola esistenza possibile, allo stesso titolo dell’aria; così
ei ne avrà cura come della sua vita istessa, e sarà,
in generale, ordinato, previdente ed economo. Al contrario a colui
che fin dalla nascita visse in povertà, si è questa
che sembrerà la condizione naturale; le ricchezze che gli
potranno toccare più tardi, non importa come, gli pareranno
un superfluo, buono solo per goderne e farne baldoria; egli
dirà a sè stesso che quando saranno nuovamente
sparite, saprà cavarsela senza di esse come per lo avanti, e
che, per per di più, sarà sollevato da un fastidio.
È proprio il caso di dire con Shakespeare: Bisogna che il
proverbio si verifichi: il mendicante a cavallo fa galoppare la
bestia fino alla morte (Enrico VI, P. 3, A. 1).
Aggiungiamo ancora che questa gente possede, non tanto nella testa
quanto nel cuore, una ferma ed eccessiva confidenza da una parte
nella sua buona fortuna e dall’altra nelle sue proprie risorse, che
le hanno di già dato aiuto per cavarsi dalle strettezze e
dall’indigenza; questa gente non considera la miseria, come fanno i
ricchi di nascita, quale un abisso senza fine, ma la crede un
basso-fondo che basta battere col piede per rimontarne alla
superficie. Con questa stessa particolarità umana si
può spiegare perchè le donne, povere prima del loro
matrimonio, sieno molto spesso più esigenti e più
prodighe di quelle che hanno portato con sè una grossa dote;
infatti, quasi sempre, le ragazze ricche non possedono solamente
beni di fortuna, ma anche uno zelo, o, per così dire, un
certo istinto ereditario di conservarli che fa difetto alle povere.
Tuttavia coloro che volessero sostenere la tesi opposta troveranno
autorità nella satira prima dell’Ariosto; in cambio il dottor
Johnson si mette dalla parte mia: «Una donna ricca, essendo
abituata a maneggiar monete, le spende con giudizio; ma quella che
per il suo matrimonio si trova per la prima volta in possesso della
ricchezza, trova tanto gusto nello spendere che getta il danaro con
grande profusione.» (Vedi Boswell, life of Johnson, vol. III,
pag. 199, ediz. del 1821). Io consiglierei per ogni evento, a chi
sposa una ragazza povera, di affidarle non già un capitale,
ma una semplice rendita, e sopratutto di vegliare perchè il
patrimonio dei figli non cada nelle sue mani.
Non credo proprio far cosa indegna della mia penna raccomandando qui
la cura di conservar la propria fortuna, guadagnata od avuta in
eredità; perocchè è un vantaggio inapprezzabile
il possedere tutta fatta una sostanza quand’anche essa non bastasse
a lasciarci vivere agiatamente solo e senza famiglia, in una vera
indipendenza, vale a dire senza aver bisogno di lavorare; ecco
ciò che costituisce il privilegio che affranca dalle miserie
e dai tormenti propri della vita umana; ecco l’emancipazione della
servitù generale che è il destino dei figli della
terra. Non è che con questo favore della sorte che siamo
veramente uomini nati liberi; a questa sola condizione si è
realmente sui juris, padroni del proprio tempo e delle proprie
forze, e si potrà dire ogni mattina: La giornata
m’appartiene. Sicchè tra chi ha una rendita di mille scudi e
chi ne ha una di centomila la differenza è infinitamente
più piccola che tra il primo e chi non ha nulla. Ma la
fortuna patrimoniale arriva al suo più alto valore quando
tocca a colui che, dotato di forze intellettuali superiori, intende
ad uno scopo la cui realizzazione non mira ad un lavoro per vivere;
messo in tali condizioni quest’uomo è doppiamente dotato
dalla sorte; ei può ora vivere a suo genio, e pagherà
al centuplo il suo debito all’umanità producendo ciò
che nessun altro potrebbe produrre, e creando cose che formeranno il
bene e nello stesso tempo l’onore della comunità umana. Un
altro, posto in una situazione altrettanto favorevole, sarà
benemerito dell’umanità per le sue opere filantropiche.
Quanto a chi possedendo un patrimonio, non produce alcunchè
di simile, in qualunque misura si sia, fosse pure a titolo di
saggio, o che con studi seri non si crea almeno la
possibilità di far progredire una scienza, costui non
è che un fannullone spregievole. E nemmeno questi sarà
felice perchè il fatto d’esser liberato dal bisogno lo
trasporta all’altro polo della miseria umana, alla noia, che lo
tortura in tal maniera ch’ei sarebbe assai più contento se il
bisogno gli avesse imposto un’occupazione. La noia lo farà
cadere più facilmente in quelle stravaganze che gli
toglieranno la fortuna di cui non è degno. In realtà
una folla di persone non è nell’indigenza se non per aver
speso il suo danaro, finchè ne aveva, a fine di procurarsi un
sollievo momentaneo alla noia che la opprimeva.
Le cose succedono in tutt’altro modo quando lo scopo a cui si tende
è quello di elevarsi altamente nel servizio dello Stato;
quando si tratta, per conseguenza, d’acquistare favore, amici,
relazioni per mezzo dei quali potersi alzare di grado in grado e
giungere forse un giorno ai posti più eminenti: in tal caso
val meglio, in sostanza, esser venuto al mondo affatto senza beni di
fortuna. Per un individuo sopratutto che non è della
nobiltà, e che ha qualche talento, essere un povero cialtrone
costituisce un vantaggio reale ed una raccomandazione.
Perocchè ciò che ognuno cerca ed ama anzitutto, non
solo nella semplice conversazione, ma anche a fortiori nel servizio
pubblico, si è l’inferiorità degli altri. Ora non v’ha
che un pitocco che sia convinto e penetrato della sua profonda,
intera, indiscutibile, onnilaterale inferiorità, della
sua totale dappocaggine e della sua nullità al punto voluto
dalla circostanza. Un pitocco solamente si china abbastanza spesso
ed abbastanza a lungo, e sa piegare la schiena a riverenze di 90
gradi ben contati; egli solo soffre tutto col sorriso sulle labbra;
egli solo riconosce che i meriti non hanno alcun valore; egli solo
vanta pubblicamente, ad alta voce od a grosso carattere, come
capolavori le inezie letterarie dei suoi superiori, od in generale
degli uomini influenti; egli solo sa l’arte di mendicare; per
conseguenza egli solo può esser iniziato a tempo, vale a dire
fin dalla prima giovinezza, a quella verità nascosta che
Goethe ci ha svelato in questi termini: Che nessuno si lagni della
bassezza, perchè essa è la potenza, checchè se
ne dica (W. O. Divan).
Chi invece ebbe dai genitori una fortuna sufficiente per vivere
sarà d’ordinario recalcitrante; egli è uso a camminare
colla testa alta; egli non ha imparato tutti questi giuochi di
flessibilità; fors’anche egli pensa di giovarsi di quel certo
talento che possede e di cui dovrebbe piuttosto comprendere
l’insufficienza in faccia a ciò che succede con il mediocre e
lo strisciante ; egli è pure capace di notare
l’inferiorità di coloro che sono posti al di sopra di lui, e
finalmente, quando le cose toccano l’indegnità, egli doventa
restìo ed ombroso. Non si va avanti nel mondo così;
alla fine potrà accadergli di dire con Voltaire,
quell’impudente: Non abbiamo che due giorni da vivere, non vale la
pena di passarli strisciando davanti spregevoli bricconi.
Disgraziatamente, sia detto strada facendo, spregevole briccone
è un attributo per il quale esiste in questo mondo un numero
maledettamente grande di soggetti. Possiamo dunque vedere che
ciò che dice Giovenale (Sat. II, v. 164): Non facilmente
emergono coloro al cui merito pone ostacolo la povertà, si
applica piuttosto alla carriera delle persone eminenti che a quella
degli uomini di mondo.
Tra le cose che si possede non ho annoverato moglie e figli
perchè si è piuttosto posseduti da loro. Si potrebbe
più ragionevolmente comprendervi gli amici, ma qui pure il
proprietario deve nella stessa misura essere anche proprietà
dell’altro.
_____
CAPITOLO IV
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Di ciò che si rappresenta.
1. Dell’opinione altrui.
Ciò che rappresentiamo, o, in altri termini, la nostra
esistenza nell’opinione altrui è generalmente, in conseguenza
di una debolezza particolare della nostra natura, troppo apprezzata,
benchè la più piccola riflessione possa insegnarci che
tutto questo per sè stesso non ha importanza alcuna per la
nostra felicità. Sicchè si dura fatica a spiegarsi la
grande soddisfazione interna che prova un uomo quando s’accorge
d’una prova di stima datagli dagli altri, e quando viene lusingata
la sua vanità, non ne importa il come. Tanto infallibilmente
il gatto si mette a ronfare quando gli si carezza il dorso,
altrettanto sicuramente si vede una dolce estasi dipingersi sulla
figura dell’uomo che vien lodato, sopratutto quando la lode tocca il
dominio delle sue pretese, e quand’anche essa fosse una menzogna
palpabile. I segni dell’approvazione altrui lo consolano spesso
d’una sventura reale o della parsimonia colla quale stillano per lui
le due fonti principali di felicità, di cui abbiamo trattato
finora. Dall’altro lato fa stupore il vedere quanto egli sia
infallantemente angosciato e molte volte dolorosamente ferito da
ogni lesione alla sua ambizione, in qualunque senso, a qualunque
grado, o sotto qualunque rapporto si sia, da ogni sdegno, da ogni
trascuranza, dalla più piccola mancanza di riguardi. Servendo
di base al sentimento dell’onore, questa proprietà può
avere un’influenza salutare sulla buona condotta di moltissime
persone, a guisa di succedaneo della loro moralità; ma in
quanto alla sua azione sulla felicità reale dell’uomo, e
sopratutto sulla quiete dell’animo e sull’indipendenza, le due
condizioni sì necessarie alla felicità, essa è
piuttosto perturbatrice e dannosa che favorevole. Si è per
questo, che, dal nostro punto di vista, è prudente metterle
un limite e, con saggie riflessioni e con un giusto apprezzamento
del valore dei beni, moderare questa grande sensibilità
riguardo l’opinione altrui tanto nel caso che carezzi quanto nel
caso che ferisca, perocchè in tutti e due pende dal medesimo
filo. Altrimenti restiamo schiavi dell’opinione e del sentimento
degli altri:
Sic leve, sic parvum est, animum quod laudis avarum
Subruit ac
reficit.
(Talmente tenue, talmente piccolo è ciò che perturba e
riconforta un’anima avida di lode).
Per conseguenza un giusto apprezzamento del valore di ciò che
si e in sè stesso e per sè stesso confrontato con
ciò che si è solamente agli occhi altrui
contribuirà molto alla nostra felicità. Il primo
termine del confronto comprende quanto riempie il tempo della nostra
esistenza, il contenuto intimo di questa, e quindi tutti i beni che
abbiamo esaminati nei capitoli intitolati Di ciò che si
è e Di ciò che si ha. Perocchè il luogo dove si
trova la sfera d’azione di tutto questo è proprio la
coscienza dell’uomo. Invece il luogo di tutto ciò che siamo
per gli altri è la coscienza altrui; è la figura sotto
la quale noi vi appariamo, come pure le nozioni che vi si
riferiscono . Ora queste sono cose che, direttamente, non esistono
affatto per noi; tutto ciò non esiste che indirettamente,
vale a dire se non in quanto stabilisce la condotta degli altri
verso di noi. Ed anche questo non entra realmente in considerazione
che in quanto influisce su ciò che potrebbe modificare quello
che siamo in noi e per noi stessi. Ciò posto, quanto succede
in una coscienza straniera ci è, a tal titolo, perfettamente
indifferente, e, a nostra volta, noi vi diverremo indifferenti a
misura che conosceremo abbastanza la superficialità e la
futilità dei pensieri, i ristretti limiti delle nozioni, la
piccolezza dei sentimenti, l’assurdità delle opinioni e il
numero considerevole di errori che s’incontra nella maggior parte
dei cervelli umani — a misura che impareremo per esperienza con qual
disprezzo si parla, all’occasione, di ciascuno di noi quando non si
teme o non si crede che lo sapremo — ma sopratutto allorquando
avremo inteso una sol volta con qual disdegno una dozzina
d’imbecilli parla dell’uomo il più degno di stima.
Comprenderemo allora che attribuire un alto valore all’opinione
degli uomini è far loro troppo onore.
In ogni caso, è proprio esser ridotti ad una meschina risorsa
il non trovare la felicità nelle due classi di beni di cui
abbiamo già parlato, ed il doverla cercare in questa terza,
o, con altre parole, in ciò che si è non realmente, ma
nell’immaginazione altrui. In tesi generale è la nostra
natura animale che costituisce la base del nostro essere, e per
conseguenza anche della nostra felicità.
L’essenziale per il benessere è dunque la salute, e poi i
mezzi necessari al nostro mantenimento, e per conseguenza una vita
libera da cure moleste. L’onore, il fasto, la grandezza, la gloria,
qualunque valore si attribuisca loro, non possono entrar in
concorrenza con questi beni essenziali, nè surrogarli; ben
altrimenti, toccando il caso, non si esiterebbe un momento solo a
cangiarli con gli altri. Sarà dunque molto utile per la
nostra felicità il conoscere per tempo questo fatto
così semplice che ognuno vive anzitutto ed effettivamente
nella sua propria pelle e non nell’opinione degli altri, e che
allora naturalmente la nostra condizione reale e personale, quale la
determinano la salute, il temperamento, le facoltà
intellettuali, le rendite, la moglie, i figli, l’abitazione, ecc.,
è cento volte più importante per la nostra felicita di
ciò che piace agli altri fare di noi. L’illusione contraria
rende infelice. Esclamare con enfasi: «L’onore vale più
della vita» è dire realmente: «La vita e la
salute sono niente; ciò che gli altri pensano di noi, ecco
l’importante». Tutt’al più questa massima può
esser considerata come una iperbole in fondo alla quale si trova la
prosaica verità che per mantenersi e per andar avanti fra gli
nomini, l’onore, vale a dire la loro opinione a nostro riguardo,
è spesso d’un’utilità indispensabile: ritornerò
più avanti su tale questione. Quando si vede invece come
quasi tutto ciò che gli uomini cercano durante l’intera loro
vita, a prezzo di sforzi incessanti, di mille pericoli e di mille
amarezze, ha per iscopo finale di elevarli nell’opinione altrui,
perocchè non solo le cariche, i titoli e le onorificenze, ma
la ricchezza ancora, o pur anche la scienza e le arti sono, in
sostanza, ricercate principalmente a questo fine, quando si vede che
il risultato definitivo a cui si tende è di ottenere
più rispetto da parte degli altri, tutto ciò non
prova, ahimè! se non la grandezza dell’umana follia.
Annettere troppo valore all’opinione altrui è una
superstizione universalmente dominante; che essa abbia le sue radici
nella nostra stessa natura, o che abbia seguito la nascita della
società e della civiltà, egli è certo che
esercita in ogni caso sulla nostra condotta un’influenza smisurata
ed ostile alla nostra felicità. Possiamo seguire tale
influenza dal punto in cui si mostra sotto la forma d’una deferenza
ansiosa e servile per il che se ne dirà? fino al punto in cui
pianta il pugnale di Virginio in petto alla figlia, oppure in cui
trascina l’uomo a sacrificare alla gloria postuma il suo riposo, la
sua fortuna, la sua salute e perfino la sua vita. Questo pregiudizio
offre, è vero, a chi è chiamato a regnare sugli uomini
od, in generale, a dirigerli, una risorsa comodissima; sicchè
il precetto d’aver da tenere svegliato o stimolato il sentimento
dell’onore occupa il posto principale in ogni ramo dell’arte
dell’educazione; ma riguardo alla felicità dell’individuo, ed
è questo che qui ci occupa, succede tutt’altra cosa, e noi
dobbiamo dunque dissuaderci dall’attribuire un valore troppo alto
all’opinione altrui. Se nondimeno, come ce lo insegna l’esperienza,
il fatto si presenta ogni giorno; se ciò che la maggior parte
degli uomini stima di più si è precisamente l’opinione
altrui a loro riguardo, e se essi se ne preoccupano più che
di quanto, succedendo nella loro propria coscienza, esiste
immediatamente per loro; se dunque, per un rovesciamento dell’ordine
naturale, si è l’opinione altrui che sembra loro esser la
parte reale dell’esistenza, l’altra non apparendo esserne che la
parte ideale; se fanno di ciò che è derivato e
secondario l’oggetto principale, e se l’immagine del loro essere
nella testa degli altri sta loro più a cuore che il loro
essere stesso; tale apprezzamento diretto di ciò che
direttamente non esiste per alcuno costituisce quella follia a cui
si è dato il nome di vanità, «vanitas» per
indicare con questa parola il vuoto ed il chimerico di tale
tendenza. Si può facilmente comprendere anche, per quanto
dicemmo più indietro, che essa appartiene alla categoria di
quegli errori che consistono nell’obliare lo scopo per i mezzi, come
l’avarizia.
In fatti il prezzo che noi annettiamo all’opinione altrui e la
nostra costante preoccupazione a questo riguardo passano quasi ogni
limite ragionevole, talmente che tale preoccupazione può
esser considerata come una specie di mania generalmente diffusa, o
piuttosto innata. In tutto ciò che facciamo, come in tutto
ciò che ci asteniamo di fare, noi prendiamo in considerazione
l’opinione altrui quasi prima d’ogni altra cosa, e si è da
una tal cura che in seguito ad un esame profondo vedremo nascere la
metà circa dei tormenti e delle angoscie che abbiamo provato.
Perocchè è davvero questa preoccupazione che troviamo
in fondo di ogni nostro amor proprio, così spesso offeso
perchè è così morbosamente sensibile, al fondo
di ogni nostra vanità e di ogni nostra pretesa, come pure al
fondo del nostro fasto e della nostra ostentazione. Senza una tale
preoccupazione, senza una tal rabbia, il lusso non sarebbe il decimo
di ciò che è. Su essa è stabilito tutto il
nostro orgoglio, punto d’onore e puntiglio, di qualunque specie si
sia ed a qualunque sfera appartenga, — e quante vittime non fa di
frequente! Essa si mostra già nel fanciullo poi in ogni
stadio della vita, ma raggiunge tutta la sua forza nell’età
avanzata, perchè allora, l’attitudine ai piaceri sensuali
essendo esaurita, vanità ed orgoglio non hanno più a
divider l’impero che con l’avarizia. Un tale furore si osserva
più chiaramente nei Francesi presso i quali essa regna
endemicamente e si manifesta spesso per mezzo dell’ambizione la
più sciocca, della vanità nazionale la più
ridicola, e della millanteria la più spudorata; ma le loro
pretese per ciò stesso si annullano perchè li
espongono al riso delle altre nazioni, ed hanno fatto un nomignolo
grottesco del titolo di grande nation.
Per spiegare più chiaramente tutto ciò che abbiamo
esposto fin qui sulla stoltezza di preoccuparsi fuor di misura
dell’opinione altrui voglio ricordare un esempio davvero
maraviglioso di questa follia radicata nella natura umana; questo
esempio è favorito da un effetto di luce che deriva da
circostanze speciali e d’un carattere appropriato; ciocchè ci
permetterà di ben valutare la forza di questo bizzarro motore
delle azioni umane. Ecco un brano del rapporto dettagliato
pubblicato dal Times del 31 marzo 1846 sulla recente esecuzione di
un certo Thomas Wix, operaio che aveva assassinato il suo padrone
per vendetta: «Nella mattina del giorno fissato per
l’esecuzione, il reverendo cappellano delle carceri si portò
presso di lui. Ma Wix, quantunque assai calmo, non ascoltava le
esortazioni del ministro di Dio; sua sola preoccupazione era quella
di far mostra d’un coraggio estremo in presenza della folla che
stava per assistere alla sua brutta fine. E vi è riuscito.
Arrivato nel cortile che doveva traversare per giungere al patibolo,
innalzato di contro alla prigione, esclamò: «Ebbene,
come diceva il dottor Dodd, conoscerò fra poco il gran
mistero!» Quantunque avesse le braccia legate, salì
senza aiuto la scala della forca; giunto alla cima, fece a dritta e
a manca saluti agli spettatori, e la moltitudine assembrata vi
corrispose, in ricompensa, con formidabili acclamazioni, ecc.»
Aver davanti gli occhi la morte, sotto la forma più
spaventosa, coll’eternità dopo di essa, e non preoccuparsi se
non dell’effetto che si produrrà su quella massa di balordi
accorsi e dell’opinione che si lascierà dopo morte nelle loro
teste, non è forse un saggio unico d’ambizione? Lecomte che,
lo stesso anno, fu ghigliottinato a Parigi per tentato regicidio, si
rammaricava principalmente, durante il processo, di non potersi
presentare davanti la Camera dei pari, vestito convenientemente, ed
anche al momento dell’esecuzione era suo gran dolore che non gli si
avesse permesso di radersi la barba prima di salire il patibolo.
Lo stesso succedeva per lo passato, ciò che potremo vedere
nell’introduzione (declaracion) da cui Mateo Aleman fa precedere il
suo celebre romanzo Guzman d’Alfarache; in essa è detto che
molti delinquenti dal cervello sconcertato tolgono le loro ultime
ore alle cure della salute eterna, a cui dovrebbero impiegarle
esclusivamente, per terminare ed imparare a mente un piccolo
discorso che vorrebbero recitare dall’alto della forca.
Possiamo trovare la nostra propria immagine in simili tratti;
perocchè sono gli esempi di taglia colossale che forniscono
le spiegazioni più evidenti in ogni materia. Per noi tutti,
ben di sovente, le nostre preoccupazioni, i nostri affanni, le cure
angosciose, le nostre collere, le nostre inquietudini, i nostri
sforzi, ecc., hanno in vista quasi interamente l’opinione altrui e
sono tanto assurde quanto quelle dei poveri diavolacci ricordati
più indietro. L’invidia e l’odio partono egualmente, in gran
parte, dalla stessa radice.
Nessuna cosa evidentemente contribuirebbe meglio alla nostra
felicità, composta principalmente di calma dello spirito e di
soddisfazione, del limitare la potenza di un tale motore, e
dell’abbassarla a un grado che la ragione potesse giustificare (a
1/50 per esempio) estraendo così dalle nostre carni questa
spina che le strazia. Ma la cosa è molto difficile; abbiamo a
che fare con una bizzarria naturale ed innata: Anche i saggi si
spogliano per ultimo dalla passion della gloria, dice Tacito (Hist.
IV, 6). Il solo mezzo di liberarci da questa follia universale
sarebbe di riconoscerla distintamente per una follia, e, a tale
scopo, renderci conto ben chiaramente fino a qual punto le opinioni,
nelle teste degli uomini, sieno in massima parte e molto di
frequente false, storte, erronee ed assurde; quanto l’opinione
altrui abbia poca influenza reale su noi nella maggior parte dei
casi e delle cose; quanto in generale essa sia cattiva,
talmentechè non vi sarebbe chi non si ammalerebbe dalla
collera se sentisse in che tono si parla e cosa si dice di lui;
quanto infine l’onore istesso non abbia, propriamente parlando, che
un valore indiretto e non immediato, ecc. Se potremo riuscire ad
ottenere la guarigione di questa pazzia generale, guadagneremo
infinitamente in calma di spirito ed in soddisfazione, ed
acquisteremo nel tempo stesso un contegno più fermo e
più sicuro, e un portamento molto più sciolto e
più naturale. L’influenza affatto benefica d’una vita
ritirata sulla nostra tranquillità d’animo e sulla nostra
soddisfazione proviene in gran parte perchè essa ci sottrae
all’obbligo di vivere costantemente sotto lo sguardo altrui e, per
conseguenza, ci toglie la preoccupazione incessante sulla loro
possibile opinione: ciò che ha per effetto di renderci a noi
stessi. In tal maniera sfuggiremo egualmente a molti mali effettivi
la cui causa unica è questa aspirazione puramente ideale, o,
per dire più correttamente, questa deplorabile demenza; ci
resterà pure la facoltà di prestare maggior cura ai
beni reali, che potremo allora gustare senza essere disturbati. Ma
«Χαλεπα τα καλα» (moleste le cose buone) lo abbiamo
già detto.
Dalla follia della natura umana or ora descritta, germogliano tre
rampolli principali: l’ambizione, la vanità e l’orgoglio. Tra
i due ultimi la differenza consiste in ciò che l’orgoglio
è la convinzione già fermamente acquistata del nostro
alto valore sotto ogni rapporto; la vanità invece è il
desiderio di far nascere questa convinzione negli altri e,
d’ordinario, colla secreta speranza di poter in seguito
appropriarsela. Così l’orgoglio è l’alta stima di
sè, procedente dall’interno, dunque diretta; la vanità
invece è la tendenza ad acquistarla dal di fuori, dunque
indirettamente. Per ciò la vanità rende loquaci,
l’orgoglio taciturni. Ma il vanitoso dovrebbe sapere che l’alta
opinione degli altri, a cui aspira, si ottiene molto più
presto e più sicuramente serbando un continuo silenzio che
parlando, quand’anche s’avesse da dire le più belle cose del
mondo. Non è orgoglioso chiunque lo voglia; tutt’al
più può affettare orgoglio chiunque lo voglia; ma
quest’ultimo si tradirà ben presto nella parte che vuol
rappresentare, siccome in ogni parte presa a prestito.
Perocchè ciò che rende realmente orgoglioso si
è la ferma, l’intima, l’incrollabile convinzione di meriti
eminenti e d’un valore straordinario. Tale convinzione può
essere erronea, oppure basarsi su meriti semplicemente esterni e
convenzionali — ciò poco importa all’orgoglio, purchè
essa sia reale e sincera. Poichè l’orgoglio ha le sue radici
nella convinzione, sarà, come ogni idea, al di fuori della
nostra libera volontà. Il suo peggior nemico, voglio dire il
suo maggior ostacolo, è la vanità che briga
l’approvazione altrui per fondar poi su questa la propria alta stima
di sè stessa, mentre l’orgoglio suppone un’opinione
già fermamente stabilita.
Quantunque l’orgoglio sia generalmente biasimato ed infamato,
nondimeno sono tentato di credere che ciò venga
principalmente da coloro che non hanno di che insuperbirsi. Vista
l’impudenza, e la stupida arroganza della maggior parte degli
uomini, ogni persona che possede meriti di qualsivoglia specie
farà molto bene a metterli in chiara luce da sè
stesso, allo scopo di non lasciarli cadere in un completo oblio;
perocchè colui che benevolmente, non cerca di approfittarsene
e si conduce con la gente come se fosse affatto suo simile, non
tarderà ad esser considerato da essa in tutta
sincerità come un suo pari. Vorrei raccomandare di condursi
in siffatta guisa a coloro sopratutto i cui meriti sono dell’ordine
il più elevato, meriti reali, in conseguenza puramente
personali, attesochè essi non possono esser richiamati ad
ogni momento alla memoria, come le decorazioni e i titoli, da una
impressione dei sensi; altrimenti facendo, vedranno realizzarsi
troppo spesso il sus Minervam (il maiale che ammonisce Minerva).
Un eccellente proverbio arabo dice: Scherza collo schiavo, ed ei ti
mostrerà ben tosto il deretano. Anche la massima di Orazio:
Sume superbiam quaesitam meritis (Assumi la superbia richiesta dai
meriti) non è da disdegnare. La modestia è proprio una
virtù inventata principalmente per uso e consumo dei
mariuoli, perocchè esige che ciascuno parli di sè come
se fosse un mariuolo: ciocchè stabilisce un’eguaglianza di
livello ammirabile e produce la stessa apparenza come se non vi
fosse in generale che della canaglia.
Intanto l’orgoglio a più buon mercato è l’orgoglio
nazionale. Esso tradisce presso chi ne è tocco l’assenza di
ogni qualità individuale di cui potesse andar fiero,
perocchè, se così non fosse, questi non sarebbe
ricorso ad una qualità che divide con tanti milioni
d’individui. Chiunque possede meriti personali distinti
riconoscerà invece più chiaramente i difetti della sua
nazione, poichè l’ha sempre sotto gli occhi. Ma ogni
miserabile imbecille, che non ha al mondo cosa di cui possa andar
superbo, si getta su quest’ultima risorsa, d’esser fiero cioè
della nazione alla quale si trova appartenere per azzardo; si
è con ciò che vuol rifarsi, e, nella sua gratitudine,
è pronto a difendere πνιξ και λαξ (a pugni ed a calci) tutti
i difetti e tutte le sciocchezze proprio alla sua nazione.
Così, su cinquanta inglesi, per esempio, se ne troverà
appena uno solo che leverà la voce per approvarvi quando
parlerete con giusto disprezzo del bigottismo stupido e degradante
della sua nazione; ma questo solo individuo sarà certamente
una buona testa. I Tedeschi non hanno orgoglio nazionale e provano
così quell’onestà di cui hanno la fama; invece provano
tutto il contrario coloro fra i Tedeschi che professano ed affettano
in modo ridicolo tale orgoglio, come fanno principalmente i
deutschen Brüder (fratelli tedeschi) ed i democratici che
adulano il popolo allo scopo di sedurlo. Si pretende bene che i
Tedeschi abbiano inventato la polvere, ma io non sono di
quest’opinione. Lichtenberg presenta la seguente questione:
«Perchè un uomo che non è tedesco si fa molto di
rado passare per tale? e perchè quando vuol farsi passare per
qualche cosa, si dirà ordinariamente francese o
inglese?». Del resto l’individualità, in ogni persona,
è cosa ben altrimenti importante della nazionalità, e
merita mille volte più di questa d’esser presa in
considerazione. Onestamente non si potrà mai dire gran bene
d’un carattere nazionale, poichè nazionale significa che
appartiene al volgo. Si è piuttosto la meschinità
dello spirito, la demenza e la perversità della specie umana
che sole spiccano in ogni paese sotto forma differente, ed è
questo che si chiama carattere nazionale. Stomacati di uno, ne
lodiamo un altro, fino a che anche questo c’ispira lo stesso
sentimento. Una nazione si ride dell’altra, e tutte hanno ragione.
La materia di questo capitolo può esser classificata, come
dicemmo, in onore, grado e gloria.
2. Il grado.
In quanto al grado, per importante che sembri agli occhi del volgo e
dei filistei, e per grande che possa essere la sua utilità
come roteamento nella macchina dello Stato, avremo finito con esso
in poche parole per raggiungere il nostro scopo. Si tratta d’un
valore di convenzione, o, più correttamente, d’un valore di
simulazione; la sua azione ha per risultato una stima simulata, e il
tutto è una commedia per la folla. Le decorazioni sono
cambiali tirate sull’opinione pubblica; il loro valore si basa sul
credito del traente. Intanto, senza parlare del danaro non
indifferente che risparmiano allo Stato sostituendo le ricompense
pecuniarie, esse sono nondimeno un’istituzione delle più
felici, dato che la loro distribuzione sia fatta con discernimento
ed equità. Infatti la folla ha occhi ed orecchie, ma
nient’altro; sopratutto il senno le è infinitamente scarso, e
corta pure la memoria. Certi meriti sono affatto fuori della portata
del suo comprendimento; e ve n’ha di quelli che essa comprende ed
acclama al loro apparire, ma che ben presto dimentica. Ciò
essendo, trovo convenientissimo di gridare, ovunque e sempre, alla
folla coll’organo d’una croce o d’una stella: «L’uomo che
vedete non è vostro pari, egli ha dei meriti!» Per
altro con una distribuzione ingiusta, non ragionevole od eccessiva,
le decorazioni perdono il loro prezzo; sicchè un principe
dovrebbe mettervi tanta circospezione ad accordarle, quanta un
commerciante a segnar cambiali. L’iscrizione «Al merito»
sopra una croce è un pleonasmo; ogni decorazione dovrebbe
essere «pour le merite, ça va sans dire».
3. L’onore.
La discussione sull’onore sarà molto più difficile e
molto più lunga di quella sul grado. Prima di tutto dovremo
definirlo. Se a tal uopo dicessi: «L’onore è la
coscienza esterna, e la coscienza è l’onore interno»,
la definizione potrebbe forse piacere a qualcuno, ma avremmo una
spiegazione piuttosto brillante che netta e ben fondata.
Sicchè direi: «L’onore è, oggettivamente,
l’opinione che hanno gli altri del nostro valore, e,
soggettivamente, il timore che c’ispira tale opinione.» In
quest’ultima qualità esso ha di sovente un’azione molto
benefica, quantunque in morale pura niente affatto fondata,
sull’uomo d’onore.
La radice e l’origine del sentimento dell’onore e della vergogna,
inerente ad ogni uomo che ancora non sia interamente corrotto, ed il
motivo dell’alto prezzo attribuito all’onore, saranno messi in
mostra colle considerazioni seguenti. L’uomo non può, da
sè solo, che assai poca cosa: egli è un Robinson
abbandonato; unicamente in società cogli altri è, e
può molto. Ei si rende conto di questa condizione fino
dall’istante in cui la sua coscienza comincia a svilupparsi un po’,
che subito si sveglia in lui il desiderio di esser annoverato come
un membro utile della società, capace di concorrere
«pro parte virili» all’azione comune, con diritto
così di partecipare ai vantaggi della comunità umana.
Vi riesce soddisfacendo da prima a ciò che si esige e si
aspetta da qualunque uomo in qualunque posizione, e poi a ciò
che si esige e si aspetta da lui nella posizione speciale che
occupa. Ma egli conosce ben presto che ciò che importa non
è d’esser un uomo di tal tempra nella sua propria opinione,
ma bensì in quella degli altri. Ecco l’origine dell’ardore
con cui egli briga favorevole l’opinione altrui, e dell’alto prezzo
che vi annette.
Queste due tendenze si manifestano colla spontaneità d’un
sentimento innato che si chiama sentimento dell’onore e, in certe
circostanze, sentimento del pudore (verecundia). Ecco ciò che
caccia il sangue sulle guancie all’uomo non appena ei si crede
minacciato di perdere nell’opinione altrui, benchè si sappia
innocente, od ancorchè il fallo svelato non sia che
un’infrazione relativa, vale a dire non concerni che un obbligo
assunto gentilmente. D’altra parte nessuna cosa fortifica in lui il
coraggio di vivere meglio della certezza acquistata o rinnovellata
della buona opinione degli altri, perocchè essa gli assicura
la protezione ed il soccorso delle forze riunite dell’insieme,
ciocchè costituisce un riparo contro i mali della vita
infinitamente più gagliardo delle sue sole forze.
Dalle diverse relazioni in cui un uomo può trovarsi con altri
individui e che mettono costoro nel caso di accordargli fiducia, in
conseguenza di avere, come si dice, buona opinione di lui, nascono
diverse specie di onore. Di esse le principali sono il mio ed il
tuo, i doveri a cui si ha preso impegno, e in fine il rapporto
sessuale; vi corrispondono l’onore borghese, l’onore dell’officio e
l’onore sessuale, ciascuno dei quali presenta ancora delle
suddivisioni.
L’onore borghese occupa la sfera la più estesa: consiste
nella presupposizione che noi rispetteremo assolutamente i diritti
di ciascuno e che, per conseguenza, non impiegheremo mai a nostro
vantaggio mezzi ingiusti od illeciti. Esso è la condizione
richiesta per partecipare al commercio pacifico cogli uomini. Basta,
per perderlo, una sola azione che gli sia fortemente e
manifestamente contraria; come conseguenza ogni pena criminale ce lo
toglie egualmente, a condizione però che la pena sia giusta.
Tuttavia l’onore si basa sempre, in ultima analisi, sulla
convinzione dell’immutabilità del carattere morale, in
virtù della quale una sola cattiva azione garantisce una
qualità identica di senso morale in tutte le azioni
ulteriori, non appena si presenteranno ancora circostanze simili;
ciò che indica pure l’espressione inglese
«character» che vuoi dire stima, riputazione, onore. Ed
ecco perchè la perdita dell’onore è irreparabile, a
meno che non sia dovuta alla calunnia od a false apparenze.
Perciò v’hanno leggi contro la calunnia, i libelli, e di
più contro le ingiurie; perocchè l’ingiuria, l’insulto
semplice, è una calunnia sommaria, senza indicazione di
motivi: in greco si potrebbe esprimere questo pensiero così:
«εστι ἡ λοιδορια διαβολη συντομος» (L’ingiuria è
la calunnia abbreviata); tuttavia questa massima non si trova
espressa in alcun luogo.
È un fatto che chi ingiuria non ha niente di reale nè
di vero da produrre contro l’altro, altrimenti lo esprimerebbe come
premessa e lascierebbe tranquillamente a chi ascolta la cura di
tirare la conclusione; ma invece dà la conclusione e resta in
debito della premessa contando sulla presupposizione nello spirito
degli uditori ch’egli proceda in siffatta guisa solamente per
brevità.
L’onore borghese prende, è vero, il nome dalla classe
borghese; ma la sua autorità si estende sopra tutte le classi
indistintamente, senza eccezione pure per le più alte;
nessuno può farne senza; si è proprio un affare dei
più serj, e bisogna guardarsi dal prenderlo alla leggera.
Chiunque viola la fede e la legge rimane per sempre uomo senza fede
e senza legge, checchè faccia e checchè possa essere;
i frutti amari che porta con sè la perdita dell’onore non
tarderanno a mostrarsi.
L’onore ha, in un certo senso, carattere negativo, in opposizione
alla gloria il cui carattere è positivo, perchè
l’onore non è quell’opinione che si riferisce a
qualità speciali, appartenenti ad un solo individuo, ma
è l’opinione che si riferisce a qualità d’ordinario
presupposte, e che l’individuo è tenuto di possedere
egualmente agli altri. L’onore dunque si accontenta di far
testimonianza che questo soggetto non fa eccezione, mentre la gloria
afferma che esso è un’eccezione. La gloria deve quindi esser
acquistata; l’onore al contrario non abbisogna che di non esser
perduto. Per conseguenza la mancanza di gloria è
l’oscurità, una negazione; la mancanza d’onore è
l’onta, una positività. Non bisogna però confondere
questa condizione negativa con la passività; tutto
all’opposto l’onore ha un carattere interamente attivo. Infatti esso
procede unicamente dal suo soggetto; esso è fondato sulla
condotta propria di questi e non sulle azioni d’altri, o su fatti
esterni; esso è dunque «των έφ̉ ημι̃ν» (una
qualità interna). Vedremo bentosto che questo è il
marchio distintivo fra il vero onore, e l’onore cavalleresco o falso
onore. Dal di fuori non v’ha attacco possibile contro l’onore che
colla calunnia; il solo mezzo di difesa ne è il respingerla
colla pubblicità necessaria per smascherare il calunniatore.
Il rispetto che si accorda all’età sembra fondarsi sul fatto
che l’onore dei giovani, quantunque accordato per supposizione, non
è ancora stato messo alla prova e per conseguenza non esiste,
propriamente parlando, che a credito, mentre per gli uomini maturi
si è potuto constatare nel corso della vita se colla loro
condotta hanno saputo serbarlo. Perocchè nè gli anni
per sè stessi — gli animali raggiungendo essi pure
un’età avanzata e forse più avanzata che l’uomo —
nè l’esperienza quale semplice conoscenza più intima
dell’andamento delle cose umane giustificherebbero abbastanza il
rispetto dei giovani per chi conta maggior numero d’anni, rispetto
che tuttavia si esige universalmente; la pura fiacchezza senile
darebbe diritto ai riguardi piuttosto che alla considerazione.
Nondimeno è da notare che vi è nell’uomo un certo
rispetto innato, realmente istintivo, per i capelli bianchi. Le
grinze, segno ben più certo di vecchiezza, non lo ispirano
minimamente. Non si è mai fatto menzione di grinze
rispettabili, si è sempre detto: i venerabili capelli
bianchi.
L’onore non ha che un valor indiretto. Perocchè, come spiegai
al principio del capitolo, l’opinione degli altri a nostro riguardo
non può aver valore per noi che in quanto determini o possa
determinare eventualmente la loro condotta verso di noi. È
vero che ciò succede sempre per quanto a lungo si viva cogli
uomini o fra essi. Infatti, siccome nello stato di civiltà
dobbiamo solo alla società la nostra sicurezza e il nostro
avere, siccome inoltre in ogni impresa abbiamo bisogno degli altri e
ci occorre avere la loro confidenza perchè essi entrino in
relazione con noi, l’opinione loro avrà un alto prezzo agli
occhi nostri; ma questo prezzo sarà sempre indiretto, ed io
non saprei ammettere che essa potesse avere un valore diretto. Tale
è pure il parere di Cicerone (Fin., III, 17): Della buona
fama poi Crisippo e Diogene invero dicevano che, messa da parte
l’utilità, per essa certo non sarebbe da muovere un dito;
ciò che io pure affermo altamente. Anche Elvezio nel suo
capolavoro Dello spirito (Disc. III, cap. 13), sviluppa a lungo
questa verità, e giunge alla conclusione: Noi non amiamo la
stima per sè stessa, ma, unicamente per i vantaggi che
procura. Ora il mezzo non potendo valere più del fine, la
massima pomposa: Prima della vita l’onore, non sarà mai, come
già dicemmo, che un’iperbole.
Ecco quanto sull’onore borghese.
L’onore dell’officio è l’opinione generale che un uomo
investito d’un impiego posseda effettivamente tutte le
qualità richieste, e adempia appuntino ed in ogni circostanza
agli obblighi della sua carica. Quanto più nello Stato la
sfera d’azione di un uomo è importante ed estesa, quanto
più il posto ch’egli occupa è elevato e potente, tanto
più grande deve essere l’opinione che si ha delle
qualità intellettuali e morali che ne lo rendono degno; per
conseguenza dovrà alzarsi il grado dell’onore che gli si
accorda e che si manifesta coi titoli, colle decorazioni, ecc., e
l’umiltà nella condotta degli altri a suo riguardo
s’accentuerà progressivamente. Si è la posizione di un
uomo che, misurata sulla stessa scala, determina costantemente il
grado particolare dell’onore che gli è dovuto; questo grado
tuttavia può esser modificato dalla facilità
più o meno grande delle masse a comprendere l’importanza
della posizione. Ma si concederà sempre maggior onore a chi
avrà obblighi affatto speciali da disimpegnare, come quelli
d’un officio, per esempio, che al semplice borghese, il di cui onore
è stabilito principalmente su qualità negative.
L’onore dell’officio esige inoltre che colui che tiene una carica,
la faccia rispettare a causa dei suoi colleghi e dei suoi
successori; per riuscirvi deve, come dicemmo, soddisfare
puntualmente a’ suoi doveri, ma di più non deve lasciare
impunito nessun attacco contro il posto o contro lui stesso, come
funzionario: non permetterà dunque giammai che si dica
ch’egli non disimpegna scrupolosamente ai doveri del suo officio, o
che questo non è di alcuna utilità per il paese,
dovrà invece, facendo punire il colpevole dai Tribunali,
provare che tali attacchi erano ingiusti.
Come sotto-ordini di questo onore troviamo quelli dell’impiegato,
del medico, dell’avvocato, di ogni pubblico professore, e pur anco
di ogni graduato, in poche parole, di chiunque in virtù d’una
dichiarazione officiale è stato proclamato capace di un
qualche lavoro intellettuale, e per ciò si è impegnato
ad eseguirlo; l’onore finalmente in quella qualità che si
può comprendere sotto la designazione di obbligati pubblici.
In tale categoria bisogna dunque mettere anche il vero onore
militare, che consiste nell’opinione che chiunque si è
impegnato a difender la patria comune, possede realmente le
qualità volute, fra le quali e prima d’ogni altra il
coraggio, il valore e la forza, e che costui è pronto a
difenderla risolutamente fino alla morte, ed a non abbandonare per
nessun prezzo la bandiera a cui ha prestato giuramento. Ho dato
all’onore dell’officio un significato molto largo, perocchè
ordinariamente quest’espressione significa il rispetto dovuto dai
cittadini all’officio stesso.
Mi pare che l’onore sessuale richiegga d’esser esaminato più
da vicino, e che i suoi principi debbano esser rintracciati fino
nella radice; ciò che verrà a confermare nel tempo
stesso che ogni onore si fonda, alla fin fine, sopra considerazioni
di utilità. Considerato nella sua natura l’onore sessuale si
divide in onore delle donne ed in onore degli uomini, e costituisce
d’ambe le parti uno spirito di corpo bene inteso. Dei due il primo
è molto più importante perchè nella vita della
donna il rapporto sessuale è l’affare principale. Così
dunque l’onore femminile è, quando si parla di una ragazza,
l’opinione generale che ella non si sia data all’uomo, e, per la
donna maritata, che ella si sia data a quello solo a cui è
unita in matrimonio. L’importanza di questa opinione si fonda sulle
considerazioni seguenti. Il sesso femminile invoca e si aspetta dal
sesso mascolino assolutamente tutto; tutto ciò che desidera e
tutto ciò che gli è necessario; il sesso mascolino non
domanda all’altro, prima di tutto e direttamente, che un’unica cosa.
Si dovette quindi acconciarsi in maniera tale, che il sesso
mascolino non potesse ottenere questa unica cosa se non a condizione
di prendersi cura di tutto, e per soprammercato dei nascituri; su
tale disposizione di cose è basato il benessere di tutto il
sesso femminile. Perchè la disposizione possa eseguirsi
conviene necessariamente che tutte le donne tengano fermo insieme, e
che mostrino uno spirito di corpo. Esse si presentano allora come un
solo tutto, a schiere serrate, dinanzi la massa intera del sesso
mascolino, come contro un nemico comune che, avendo dalla natura ed
in virtù della preponderanza delle forze fisiche ed
intellettuali, il possesso di tutti i beni terrestri, deve esser
vinto e conquistato allo scopo di giungere, essendone padrone, a
godere nello stesso tempo dei beni terrestri. A tal fine la massima
d’onore di tutto il sesso femminile, si è che la vita in
comune fuori del matrimonio sarà assolutamente interdetta
agli uomini, affinchè ognuno di essi sia costretto al
matrimonio come ad una specie di capitolazione, e che così
siano provvedute tutte le donne. Tale risultato non può
essere ottenuto per intero che coll’osservanza vigorosa della
massima or ora esposta; sicchè il sesso femminile tutto
intero veglia con vero spirito di corpo a che tutti i suoi membri
l’eseguiscano fedelmente. Per conseguenza ogni ragazza che col
concubinato si rende colpevole di tradimento verso il suo sesso,
è scacciata dal corpo intero e notata d’infamia,
perocchè il benessere della comunità correrebbe
pericolo se questo modo di procedere si generalizzasse; allora si
dice: Ella ha perduto il suo onore. Nessuna donna deve più
frequentarla; la si sfugge come un’appestata. La stessa sorte tocca
alla donna adultera, perchè essa ha violato la capitolazione
consentita dal marito, e tale esempio distoglie gli uomini dal
conchiudere sì fatte convenzioni, mentre ne dipende la salute
di tutte le donne. Ed inoltre, siccome una tale azione comprende una
frode ed un volgare mancamento di parola, la donna adultera perde
non solo l’onore sessuale, ma anche l’onore borghese. Per ciò
si può dire, come per scusarla: «una ragazza è
caduta»; non si dirà mai: «una donna è
caduta»; il seduttore può rendere l’onore alla prima
col matrimonio, ma giammai l’adultero alla sua complice, in seguito
a divorzio. Dopo una esposizione così chiara si
riconoscerà che la base del principio dell’onor femminile
è uno spirito di corpo salutare, necessario anzi, ma tuttavia
calcolato giustamente e fondato sull’interesse; si potrà bene
attribuirgli la più alta importanza nella vita della donna,
si potrà accordargli un grande valore relativo, ma non mai un
valore assoluto che oltrepassi quello della vita colle sue sorti;
nè si ammetterà in alcun caso che questo valore arrivi
al punto d’esser pagato a prezzo dell’esistenza stessa. Non si
potrà dunque approvare Lucrezia, nè Virginio nel loro
esaltamento degenerante in una buffonata tragica. La peripezia nel
dramma Emilia Galotti (di W. Lessing), per la stessa ragione ha
qualche cosa talmente ributtante, che si sorte dallo spettacolo
affatto mal disposti. In cambio ed a dispetto dell’onor sessuale non
si può astenersi dal simpatizzare colla Clärchen
dell’Egmont. Tale maniera di spingere agli estremi il principio
dell’onore femminile appartiene, come tante altre, all’oblio del
fine per i mezzi; si attribuisce, con tali esagerazioni, all’onore
sessuale un valore assoluto, quando, non altrimenti d’ogni altro
onore, non ha che un valore relativo; fors’anche si potrebbe esser
condotti a dire che questo valore è puramente convenzionale,
quando si legga «Thomasius, De concubinato»; si scorge
in quest’opera che, fino alla riforma di Lutero, in quasi tutti i
paesi e in ogni tempo, il concubinato fu uno stato di cose permesso
e riconosciuto dalla legge e che la concubina non cessava d’esser
onorevole: senza parlare di Militta Babilonese (vedi Erodoto, I,
199), ecc. Vi hanno pure convenienze sociali che rendono impossibile
la formalità esterna del matrimonio, sopratutto nei paesi
cattolici ove non è ammesso il divorzio; ma in ogni paese
tale ostacolo esiste per i sovrani; a mio avviso, intanto, aver
un’amante è da parte loro un’azione molto più morale
di un matrimonio morganatico; i figli nati da simili unioni possono
levar pretese nel caso in cui la discendenza legittima venisse ad
estinguersi, d’onde risulterebbe la possibilità,
benchè assai lontana, d’una guerra civile. Di più il
matrimonio morganatico, concluso cioè a dispetto di ogni
convenienza esterna, è alla fin fine una concessione fatta
alle donne ed ai preti, due classi di persone a cui si deve
guardarsi, per quanto si può, dal concedere qualche cosa.
Consideriamo ancora che ciascuno, nel suo paese, può sposare
la donna da lui desiderata; ve n’ha uno solo a cui questo diritto
naturale è tolto: questo pover’uomo è il sovrano. La
sua mano appartiene al paese; non la si accorda che in vista di una
ragione di Stato, vale a dire dell’interesse del paese. E tuttavia
questo principe è un uomo che, come gli altri, vorrebbe una
volta seguire l’inclinazione del suo cuore. È ingiustizia ed
ingratitudine, quanto volgarità borghese, il proibire o il
rimproverare al sovrano di vivere colla sua amante, bene inteso
però quando ei non le accordi influenza alcuna sugli affari
del paese. Dal suo lato pure quest’amante, in rapporto all’onore
sessuale, è per così dire una donna eccezionale, fuori
della regola comune, ella non si è data che ad un sol uomo,
lo ama e ne è amata, ed egli non potrà mai prenderla
per moglie. Ciò che prova sopratutto che il principio
dell’onore femminile non ha un’origine puramente naturale si
è il gran numero di sacrifizi sanguinosi che gli vengono
fatti dall’infanticidio e dal suicidio delle madri. Una ragazza che
si dà fuori della legge viola, è vero, la fede verso
il suo sesso; ma da lei questa fede è stata solo tacitamente
accettata, non giurata. E siccome nella maggior parte dei casi
è precisamente il suo stesso interesse che ne soffre nel modo
più diretto, la sua follia è infinitamente più
grande della sua depravazione.
L’onore sessuale degli uomini è provocato da quello delle
donne a titolo di spirito di corpo opposto; ogni uomo che si adatta
al matrimonio, vale a dire ad una capitolazione così
vantaggiosa per la parte avversaria, contrae l’obbligo di vegliare
ormai a che si rispetti la capitolazione, affinchè un tal
patto non venga a perdere della sua saldezza se si prendesse
l’abitudine di non osservarlo che assai negligentemente; non bisogna
che gli uomini, dopo aver accordato tutto, giungano al punto di non
esser nemmeno sicuri della sola cosa che hanno stipulato d’aver in
cambio, cioè del possesso esclusivo della sposa. L’onore del
marito esige che questi vendichi l’adulterio della moglie, e lo
punisca almeno colla separazione. Se egli lo tollera quando ne sia a
conoscenza, la comunità mascolina lo copre di vergogna; ma
questa non è, presso a poco, così profonda come quella
della donna che ha perduto l’onore sessuale. Essa è tutt’al
più una levioris notae macula (una macchia di lieve
impronta), perocchè le relazioni sessuali sono per l’uomo un
affare secondario, vista la moltiplicità e l’importanza delle
altre sue relazioni. I due grandi poeti drammatici dei tempi moderni
hanno preso, ciascuno due volte, per soggetto l’onore maschile:
Shakespeare nell’Otello e nel Racconto d’una notte d’inverno, e
Calderon in El medico de su honra (Il medico del suo onore) e in A
secreto agravio secreta venganza (Ad oltraggio secreto, secreta
vendetta). Del resto questo onore non chiede che il castigo della
donna, e non quello dell’amante; la punizione di quest’ultimo non
è che opus superogationis (affare di soprammercato),
ciò che conferma molto bene che la sua origine sta nello
spirito di corpo dei mariti.
L’onore, quale lo considerai fin qui nelle varie specie e nei suoi
principî, lo si trova regnare in generale presso tutti i
popoli ed in tutte le epoche, quantunque si possa scoprire qualche
modificazione locale o temporanea sui principî dell’onor
femminile. Ma esiste pure un genere di onore interamente diverso da
quello che ha corso generalmente e dovunque, un genere di onore di
cui nè i Greci nè i Romani avevano la menoma idea,
come non l’hanno pure fino ad oggi nè i Chinesi, nè
gl’Indiani, nè i Maomettani. In fatti esso è nato nel
medio evo, e non si è climatizzato che nell’Europa cristiana;
qui pure non è penetrato che in una frazione minima della
popolazione, cioè fra le classi superiori della
società e fra gli emuli di esse. Il suo nome è onore
cavalleresco, o punto d’onore. La base di esso è totalmente
diversa da quella dell’onore di cui abbiamo trattato finora; su
alcuni punti ne è anzi l’opposto, poichè l’uno fa
l’uomo onorevole, e l’altro invece l’uomo d’onore. Vengo dunque ora
ad esporne separatamente i principi sotto forma di codice o specchio
cavalleresco.
1.° L’onore non consiste nell’opinione altrui sul nostro merito,
ma unicamente nelle manifestazioni di quest’opinione; poco importa
che l’opinione manifestata esista realmente, o non esista, e meno
che sia o non sia fondata. Per conseguenza il mondo può avere
la più cattiva opinione sul nostro conto a causa della nostra
condotta; esso può disprezzarci quanto gli accomoda; tutto
ciò non nuoce per niente al nostro onore fino a che qualcuno
non si permette di dirlo ad alta voce. Ma viceversa se pure le
nostre qualità e le nostre azioni forzassero l’universo mondo
a stimarci altamente (perocchè ciò non dipende dal
libero arbitro di esso), basterà che un solo individuo, fosse
pure il più cattivo od il più stupido, dimostri
disprezzo a nostro riguardo, ed ecco d’un tratto leso, fors’anche
perduto per sempre il nostro onore se noi non lo ripariamo. Un fatto
che mostra esuberantemente non trattarsi minimamente dell’opinione
per sè stessa, ma solo della sua manifestazione esterna, si
è che le parole offensive possono esser ritirate, che al caso
si può domandarne perdono, e che allora avviene come se non
fossero state pronunziate; la questione di sapere se l’opinione che
le aveva provocate cangiò nel tempo istesso e perchè
si è cangiata, non ha a che fare; non si annulla che la
manifestazione, ed allora tutto è in regola. Il risultato che
si ha in vista non è dunque di meritare il rispetto, ma di
estorcerlo.
2.° L’onore di un uomo non dipende da ciò che egli fa, ma
da ciò che gli vien fatto, da ciò che gli succede.
Abbiamo studiato più sopra l’onore che regna da per tutto; i
suoi principî ci hanno dimostrato che esso dipende
esclusivamente da ciò che un uomo fa o dice; invece l’onore
cavalleresco risulta da ciò che un altro dice o fa. Esso
è dunque posto nella mano, o semplicemente attaccato
all’estremità della lingua del primo venuto: per poco che
questi vi accenni l’onore è ad ogni istante in pericolo di
perdersi per sempre, a meno che l’offeso non se lo riprenda colla
forza. Parleremo fra poco delle formalità da compiere per
rimetterlo a posto. Per altro questa procedura non può esser
seguita che con pericolo della vita, della libertà, della
fortuna e della quiete dello spirito. La condotta di un uomo, fosse
pure la più onorevole e la più nobile, la sua anima la
più pura e la sua testa la più eminente, tutto
ciò non impedirà che il suo onore non possa esser
perduto non appena piacerà ad un individuo qualunque
d’ingiuriarlo; e, sotto la sola riserva di non aver ancora violato i
precetti dell’onore in questione, questo individuo potrà
essere il più vile briccone, il bruto più stupido, uno
scioperato, un giocatore, un uomo ingolfato nei debiti, in poche
parole un cialtrone nemmeno degno che l’altro lo guardi. E
ordinariamente sarà ad una creatura di siffatta specie che
piacerà insultare, perocchè come Seneca ha giustamente
osservato (De Constantia, 11), quanto più un uomo è
dispregiato e schernito, tanto più ha la lingua sciolta, ed
è contro l’uomo eminente di cui parlammo or ora che un vile
briccone, si scaglierà di preferenza, perchè caratteri
opposti si odiano e perchè la vista di qualità
superiori risveglia di solito una rabbia sorda nell’anima dei
tristi; per questo dice Goethe: (W. O. Divan) Perchè lagnarti
de’ tuoi nemici? Potrebbero mai esser tuoi amici, uomini pei quali
una natura come la tua è secretamele un eterno rimprovero?
Si vede bene quanta riconoscenza tale genia deve al principio
dell’onore, principio che la solleva allo stesso livello di coloro i
quali le sono infinitamente superiori sotto ogni aspetto. Che un
individuo siffatto scagli un’ingiuria, vale a dire attribuisca ad un
altro qualche brutta qualità; se questi non lava tosto nel
sangue l’insulto, questo passerà provvisoriamente per un
giudizio oggettivamente vero e fondato, per un decreto avente forza
di legge; l’affermazione potrà anche restare per sempre vera
e valevole. In altri termini l’insulto rimane (agli occhi di tutti
gli «uomini d’onore») come l’insultatore (fosse pur
l’ultimo degli uomini) lo ha detto, perchè l’insultato
ingoiò l’affronto (è questo il «terminus
technicus»). Da allora gli «uomini d’onore» lo
sprezzeranno profondamente, lo fuggiranno come se avesse la peste;
rifiuteranno, per esempio, altamente e pubblicamente di andare in
una società ove lo si riceve, ecc. Credo poter con certezza
far risalire al medio evo l’origine di questo lodevolissimo
sentimento. Infatti C. W. de Wachter (Contributo alla storia tedesca
particolarmente sul diritto penale, 1845) c’insegna che fino al XV
secolo nei processi criminali non spettava al denunciatore provare
la reità, ma che toccava all’accusato provare la sua
innocenza. Questa prova poteva darsi col giuramento di purgazione,
per il quale occorrevano all’accusato i consacramentales che
giurassero esser convinti ch’egli fosse incapace d’uno spergiuro. Se
l’accusato non poteva trovare garanti, o se l’accusatore li
ricusava, interveniva il giudizio di Dio che consisteva
ordinariamente nel duello. Perocchè «l’accusato»
diveniva allora un «insultato» e doveva purgarsi
dall’insulto. Ecco dunque l’origine della nozione
dell’«insulto» e di tutta quella procedura che viene
praticata, salvo il giuramento, anche oggigiorno fra gli
«uomini d’onore.»
Tutto questo ci spiega anche la profonda indignazione d’obbligo che
commuove gli «uomini d’onore» quando si sentono accusar
di menzogna, e così pure la sanguinosa vendetta che ne
tirano; ciò che pare tanto più strano in quanto che la
menzogna è cosa d’ogni giorno. In Inghilterra sopra tutto la
faccenda si leva all’altezza d’una superstizione fortemente radicata
(chiunque minaccia di morte colui che lo accusa di menzogna
dovrebbe, in realtà, non aver mai mentito in tutta la sua
vita). Nei processi criminali del medio evo v’era una procedura
ancor più sommaria, e consisteva nel replicare dell’accusato
all’accusatore: «Tu hai mentito», dopo di che si faceva
appello immediatamente al giudizio di Dio; da ciò deriva nel
codice dell’onor cavalleresco l’obbligo di ricorrere senza ritardo
alle armi quando si abbia ricevuto l’accusa d’aver mentito. Ecco
quanto concerne l’ingiuria. Ma esiste qualche cosa molto peggiore
dell’ingiuria, qualche cosa talmente orribile che devo domandar
perdono agli «uomini d’onore» d’osare unicamente
ricordarla in questo codice dell’onor cavalleresco; non ignoro che
solo a pensarvi essi ne avranno i brividi e che i capelli si
drizzeranno loro sulla testa, perocchè questa cosa è
il summum malum, di tutti i mali della terra il più grande,
più spaventevole della morte e dell’eterna dannazione.
Può succedere infatti, horribile dictu, può succedere
che un individuo dia uno schiaffo od una percossa ad un altro
individuo: con ciò una spaventevole catastrofe! La morte
dell’onore è allora così completa che, se si
può guarire con un semplice salasso ogni altra lesione
dell’onore, questa per la radicale guarigione esige che si debba
uccidere completamente.
3.° L’onore non si dà pensiero di ciò che possa
esser l’uomo in sè e per sè, e nemmeno della questione
di sapere se la condizione morale d’un individuo possa modificarsi
coll’andar del tempo o d’altre simili pedanterie da scolaretti.
Quando l’onore è stato per un momento intaccato o perduto,
esso può esser prontamente ed interamente ristabilito, ma
alla condizione che vi si provveda al più presto: la panacea
ne è il duello. Se però l’autore dell’affronto non
appartiene alle classi che professano il codice dell’onor
cavalleresco, o s’egli lo ha violato in qualche occasione, havvi,
sopratutto quando l’affronto è stato prodotto da vie di
fatto, ma pur anco quando lo fu solamente da parole, havvi, diciamo,
un’operazione infallibile da intraprendere, ed è, se si ha
un’arma addosso, di passargliela immediatamente od anche, a rigore,
un’ora dopo, attraverso il corpo; in tal maniera l’onore è
riparato. Ma qualche volta si vuole evitare quest’operazione
perchè si teme gl’impicci che ne potrebbero derivare; allora
se non si è ben sicuri che l’offensore si sottometta alle
leggi dell’onore cavalleresco, si ricorre ad un rimedio palliativo
che si chiama pigliar l’avvantaggio. Consiste questo, quando
l’avversario è stato villano, nell’esser notabilmente
più villano di lui; se per ciò le ingiurie non bastano
si viene alle percosse: e qui pure v’ha un climax, una gradazione
nella cura dell’onore: gli schiaffi sono guariti colle bastonate,
queste colle scudisciate; per le scudisciate poi v’è qualcuno
che raccomanda, come rimedio d’efficacia garantita, lo sputare nel
viso. Ma nel caso in cui non si arrivi a tempo con questi rimedi,
bisogna senza fallo ricorrere alle operazioni sanguinose. Un tal
metodo di cura palliativa è basato in sostanza sulla massima
seguente:
4.° Nella stessa maniera che esser insultato è un’onta,
insultare è un onore. Così, che la verità, il
diritto e la ragione sieno pure dalla parte del mio avversario, e
che io lo ingiuri, sull’istante egli non ha che da andare al diavolo
con tutti i suoi meriti: il diritto e l’onore sono dalla mia parte,
ed egli al contrario ha provvisoriamente perduto l’onore fino a che
non lo ristabilisca — col diritto e colla ragione, direte voi?
niente affatto!: colla pistola o colla spada. Dunque dal punto di
vista dell’onore la rozzezza è una qualità che
supplisce o domina tutte le altre: il più villano ha sempre
ragione: quid multa? Qualunque sciocchezza, qualunque sconvenienza,
qualunque infamia si abbia potuto commettere, una villania
grossolana toglie loro questo carattere, e le legittima seduta
stante. Che in una discussione, od in una semplice conversazione una
persona mostri una conoscenza più esatta della questione, un
amore più severo della verità, una mente più
vasta, un raziocinio più giusto, in una parola ch’egli metta
in luce tali meriti intellettuali che facciano cader nell’ombra i
nostri, nondimeno noi potremo d’un sol colpo annullare tutte queste
superiorità, nascondere la nostra pochezza di mente, ed esser
superiori a nostra volta divenendo villani ed offensivi.
Perocchè una villania volgare atterra qualunque argomento ed
eclissa qualunque grande ingegno. Se dunque il nostro avversario non
vuol entrare in partita, e non replica con una villania ancora
più grande, nel qual caso verremo a nobile tenzone per
pigliar l’avvantaggio, saremo noi i vincitori e l’onore
resterà dal nostro lato: verità, istruzione,
raziocinio, intelligenza, ingegno, tutto ciò deve far
fagotto, e fuggire davanti l’arte divina dello svillaneggiare.
Così gli «uomini d’onore», non appena qualcuno
manda fuori una opinione differente dalla loro, o fa mostra di
ragioni migliori di quelle che essi possono mettere in campo,
faranno vista immediatamente d’inforcar gli arcioni di un tal
cavallo da guerra; quando in una controversia mancano di argomenti
da opporre, essi cercheranno qualche insulto grossolano, ciò
che fa lo stesso officio ed è più facile a trovare:
dopo di che se ne andranno tutti trionfanti. Dopo quanto abbiamo
esposto, non si ha forse ragione di dire che il principio dell’onore
nobilita il tono della società?
La massima di cui ci siamo or ora occupati è fondata a sua
volta sulla seguente, che è, a dir vero, il fondamento e
l’anima del presente codice.
5.° La corte suprema di giustizia, quella davanti a cui, in ogni
contesa concernente l’onore, si può appellarsi di qualunque
altro giudizio, si è la forza fisica, vale a dire
l’animalità. Perocchè qualunque villania è,
propriamente parlando, un appello all’animalità nel senso che
essa dichiara l’incompetenza della lotta delle forze intellettuali o
del diritto morale e la surroga con quella delle forze fisiche;
nella specie uomo, che Franklin definisce a toolmaking animal (un
animale che fabbrica degli arnesi), questa lotta si effettua col
duello, per mezzo di arme costruite espressamente allo scopo, e
porta una decisione senza appello. Questa massima fondamentale
è disegnata, come si sa, coll’espressione diritto della
forza, espressione che implica un’ironia come in tedesco la parola
Aberwitz (delirio, demenza), che indica una specie di
«Witz» (spirito) che è ben lungi dall’essere del
«Witz»; nello stesso ordine d’idee l’onore cavalleresco
dovrebbe chiamarsi l’onore della forza.
6.° Trattando dell’onore borghese, lo abbiamo trovato molto
scrupoloso circa i capitoli del tuo e del mio, degli obblighi
contratti e della parola data, invece il codice in questione
professa su tutti questi punti i principî più
nobilmente liberali. Infatti v’ha una sola parola a cui non si deve
mancare: «la parola d’onore» vale a dire la parola dopo
la quale si ha detto: «sul mio onore», donde risulta la
presunzione che si può mancare ad ogni altra parola. Ma anche
nel caso in cui si avesse violato la parola d’onore, l’onore, a un
bisogno, può esser salvato per mezzo della nota panacea, il
duello: siamo tenuti a batterci con chi sostenesse che abbiamo data
la nostra parola d’onore. Inoltre non esiste che un solo debito che
occorra pagare immancabilmente: il debito di giuoco, che, per questo
motivo, si chiama «debito di onore». In quanto agli
altri debiti si rubi pure ad Ebrei ed a Cristiani, che ciò
non nuoce minimamente all’onore cavalleresco.
Qualunque mente di buona fede riconoscerà a prima vista che
un tal codice strano, barbaro e ridicolo dell’onore non può
aver la sua origine nell’essenza della natura umana o in una maniera
sensata di considerare i rapporti degli uomini fra loro. E questo
è quanto conferma pure il dominio molto ristretto della sua
autorità: tale dominio, che ebbe principio solamente nel
medio evo, è limitato all’Europa, ed anche qui non comprende
che la nobiltà, la classe militare ed i loro emuli.
Perocchè nè i Greci, nè i Romani, nè le
popolazioni eminentemente civilizzate dell’Asia, non meglio
nell’antichità che nei tempi moderni, hanno saputo e sanno
una parola di un siffatto onore e dei suoi principi. Tutti questi
popoli non conoscono che ciò che noi abbiamo chiamato l’onore
borghese. Presso di loro l’uomo non ha altro valore che quello
conferitogli dalla sua intera condotta, e non quello fattogli dalle
parole che una mala lingua si diverte a proferire sul suo conto.
Presso tutti questi popoli ciò che dice o fa un individuo
può benissimo annientare il suo proprio onore, ma non mai
quello di un altro. Una percossa, presso tutti questi popoli, non
è altra cosa che una percossa, eguale e forse meno pericolosa
del calcio che può tirare un cavallo od un asino: una
percossa potrà, al caso, suscitar la collera o spingere
immediatamente alla vendetta, ma non ha niente di comune coll’onore.
Queste nazioni non tengono registri ove notare a conto le percosse o
le ingiurie, oppure le soddisfazioni che si ebbe cura, o si
trascurò di ottenere. Per bravura, e per disprezzo della vita
esse non la cedono affatto affatto all’Europa cristiana. I Greci ed
i Romani erano certo eroi perfetti, ma ignoravano completamente il
«punto d’onore». Il duello, presso di loro, non era
privilegio delle classi nobili, ma affare di vili gladiatori, di
schiavi abbandonati, di rei condannati che erano eccitati a
battersi, alternativamente colle bestie feroci, per divertimento del
pubblico. Col Cristianesimo i giuochi dei gladiatori furono aboliti,
ma al loro posto, e regnando sovrana la religione di Cristo, si
istituì il duello, coll’intermedio del giudizio di Dio. Se i
primi erano un sacrifizio crudele offerto alla pubblica
curiosità, il duello è un sacrifizio non meno crudele
al pregiudizio generale, sacrifizio in cui non sono immolati
colpevoli, schiavi o prigionieri, ma uomini liberi e nobili.
Moltissimi tratti che la storia ci ha conservato provano che gli
antichi ignoravano assolutamente questo pregiudizio. Quando, per
esempio, un capo teutono invitò Mario ad un duello, l’eroe
gli fece rispondere che «se era stanco della vita non aveva
che da appiccarsi per la gola», proponendogli tuttavia un
gladiatore dei più valenti con cui potrebbe combattere a suo
piacere (Freinsheim, Supplementi a Tito Livio, 1. LXVIII, c. 12).
Leggiamo in Plutarco (Temistocle, 11) che Euribiade, comandante
della flotta, in una discussione con Temistocle, avrebbe alzato il
bastone per batterlo; non si scorge mica che questi abbia snudata la
spada, ma che disse: «Batti, ma ascolta». Quale
indegnazione il lettore «uomo di onore» deve provare non
trovando menzione in Plutarco che il corpo degli ufficiali ateniesi
non abbia immediatamente dichiarato di non voler più servire
sotto Temistocle! Perciò uno scrittore francese dei nostri
giorni dice con ragione: «Se qualcuno s’immaginasse di dire
che Demostene fu un uomo d’onore si riderebbe per compassione.....
Neppur Cicerone era uomo d’onore.» (Soirées
littéraires, par C. Durand; Rouen, 1828, vol. II, pag. 300).
Inoltre il passo di Platone (De leg., IX, le sei ultime pagine e XI,
pag. 131, ediz. Bipont) sopra le αικια, vale a dire sulle ingiurie
con vie di fatto, prova abbastanza che in quest’argomento gli
antichi non supponevano nemmeno tale sentimento del punto d’onore
cavalleresco. Socrate, in seguito alle sue numerose controversie, si
espose molte volte alle percosse, che sopportava con tutta calma; un
giorno, avendo ricevuto un calcio, non ne fece caso e disse a
qualcuno che si maravigliava di ciò: «Se me lo avesse
dato un asino ne porterei querela?» (Diogene Laerzio, II, 21).
Un’altra volta, siccome qualcuno gli diceva: «Quest’uomo vi
biasima; non vi ingiuria forse?» rispose: «No,
perchè ciò che dice non si riferisce a me»
(Ibid. 36). — Stobeo (Florilegium, ediz. Gaisford, vol. I, pag.
327-330) ci ha conservato un lungo brano di Musonio, brano che ci
lascia scorgere la maniera con cui gli antichi consideravano le
ingiurie: essi non conoscevano altra soddisfazione che quella da
ottenersi per mezzo dei magistrati, e i saggi disdegnavano pur
questa. Si può vedere nel Gorgia di Platone (pag. 86, ediz.
Bipont) che in fatti così aveva luogo l’unica riparazione che
si potesse pretendere per uno schiaffo; noi vi troviamo anche (pag.
133) riportata l’opinione di Socrate in proposito. E ciò
spicca pure da quanto racconta Aulo Gellio (XX, 1) di un certo Lucio
Verazio il quale si divertiva, per malizia e senza motivo alcuno, a
dare uno schiaffo ai cittadini romani che incontrava per istrada;
allo scopo di evitare lunghe formalità egli si faceva
accompagnare da uno schiavo che portava un sacco di moneta di bronzo
e che era incaricato di pagare immediatamente al passeggiero stupito
l’ammenda legale di 25 assi. Crate, il celebre cinico, avendo
ricevuto dal musicista Nicodromo uno schiaffo così forte che
il viso gli si era gonfiato con larga echimosi, si attaccò
alla fronte una tavoletta coll’iscrizione: Nicodromo fece,
ciò che coperse di vergogna il suonatore di flauto che si era
lasciato trasportare ad una tale brutalità (Diogene Laerzio,
VI, 89) contro un uomo che tutta Atene riveriva al pari d’un Dio
Lare (Apulejo, Flor. pag. 126, ediz. Bipont). Abbiamo in argomento
una epistola di Diogene di Sinope a Melesippo nella quale, dopo
avergli detto d’esser stato battuto da alcuni Ateniesi ubbriachi,
aggiunge che di ciò non gli cale (Nota Casaub. ad Diog.
Laert., VI, 33). Seneca nel libro De constantia sapientis, dal
capitolo X fino alla fine, tratta in dettaglio de contumelia per
stabilire che il savio la sprezza. Al capitolo XIV dice: «Ma
il saggio percosso da uno schiaffo che farà? Ciò che
fece Catone, il quale percosso nel viso non si adirò, non
vendicò l’ingiuria e neppure la perdonò, ma
negò che gli fosse stata fatta».
«Sta bene, esclamerete, ma erano savî!»
E voi altri, siete pazzi voi altri? — Ve lo accordo.
Noi vediamo dunque che ogni principio d’onore cavalleresco era
ignoto agli antichi precisamente perchè consideravano, sotto
ogni punto di vista, le cose nel loro aspetto naturale senza
prevenzioni e senza lasciarsi raggirare da ciance empie o funeste.
Sicchè in uno schiaffo non vedevano altra cosa se non
ciò che è in realtà, un piccolo danno fisico,
mentre per i moderni esso è una catastrofe ed un tema da
tragedia, come per esempio nel Cid di Corneille ed in un dramma
tedesco più recente intitolato La forza delle circostanze, ma
che dovrebbe piuttosto chiamarsi La forza del pregiudizio. Se un
dì fosse dato uno schiaffo nell’Assemblea nazionale a Parigi,
l’Europa intera ne rimbomberebbe. Le reminiscenze classiche, e gli
esempi dell’antichità or ora ricordati devono aver mal
disposto gli «uomini d’onore»; noi raccomandiamo loro
come antidoto di leggere in Jacques le fataliste, capolavoro di
Diderot, la storia di Monsieur Desglands; vi troveranno un tipo
nobilmente straordinario dell’onore cavalleresco moderno che
potrà dilettarli e nel tempo stesso edificarli a maraviglia.
Da quanto precede resta provato abbastanza che il principio
dell’onore cavalleresco non è un principio primitivo, basato
sulla natura stessa dell’uomo; invece esso è artificiale, e
la sua origine è facile a scoprire. L’onore cavalleresco
è il figlio di quei secoli in cui i pugni erano esercitati
più che le teste, ed in cui i preti tenevano incatenata la
ragione, del medio evo insomma, del medio evo tanto vantato, e della
sua cavalleria. Allora infatti il buon Dio non aveva la sola
missione di vegliare su noi, ei doveva anche giudicare per noi.
Perciò le cause giudiziarie d’indole delicata si decidevano
per mezzo delle Ordalie o giudizi di Dio, che consistevano, meno
qualche piccola eccezione, in combattimenti singolari, non solamente
tra cavalieri, ma anche tra borghesi come viene provato da un bel
passo dell’Enrico VI di Shakespeare (2a parte, atto 2°, scena
3a). Il combattimento singolare o giudizio di Dio era un’istanza
suprema a cui si poteva appellarsi contro ogni sentenza giudiziaria.
In tal modo, invece della ragione, si era la forza e la destrezza
fisica, altramente detta la natura animale, che si erigeva a
tribunale, e non era mica ciò che un uomo aveva fatto, ma
ciò che gli era accaduto che decideva se egli aveva torto o
ragione, precisamente come procede il principio dell’onore
cavalleresco oggigiorno in vigore. Se qualcuno conservasse ancora
dei dubbi su tale origine del duello e delle sue formalità
non avrebbe, per levarseli intieramente, che a leggere l’eccellente
opera di J. G. Mellingen, The history of duelling, 1849. Ai nostri
giorni ancora, fra le persone che regolano la loro vita su questi
precetti, — già si sa che ordinariamente non sono nè
le più istruite, nè le più ragionevoli — ve
n’ha di quelle per le quali l’esito del duello rappresenta
effettivamente la sentenza divina nelle conseguenze che ha portato
il combattimento; opinione nata evidentemente da una lunga
trasmissione ereditaria e tradizionale.
Fatta astrazione dalla sua origine, il principio dell’onore
cavalleresco ha per iscopo immediato di farsi accordare, colla
minaccia della forza fisica, le testimonianze esterne di quella
stima che si crede troppo difficile, o superfluo d’acquistare
realmente. Presso a poco è la stessa cosa come se qualcuno
scaldasse colla mano il bulbo d’un termometro e volesse provare,
perchè la colonna di mercurio sale, che la sua camera
è bene riscaldata. Volendo considerare la cosa più da
vicino, eccone il principio: nello stesso modo che l’onore borghese,
avendo in vista i rapporti pacifici degli uomini tra loro, consiste
nell’opinione che noi meritiamo piena fiducia perchè
rispettiamo scrupolosamente i diritti altrui, del pari l’onore
cavalleresco consiste nell’opinione che noi siamo da temere
perchè decisi a difendere ad oltranza i nostri diritti. La
massima che val meglio ispirar timore che fiducia non sarebbe
così falsa, visto il pochissimo conto che si può fare
sulla giustizia degli uomini, se vivessimo nello stato di natura in
cui ciascuno deve da sè stesso difendere la sua persona e i
suoi diritti. Ma essa non trova applicazione nella nostra epoca di
civiltà, in cui lo Stato si è preso l’incarico di
proteggere persone e proprietà; essa non esiste più
che come quei castelli e quei torrioni dell’epoca del diritto
feudale, inutili ed abbandonati, frammezzo campi ben coltivati,
quartieri animati, e fors’anche strade ferrate. L’onore
cavalleresco, per la ragione stessa che professa la massima
precedente, è andato a ficcarsi necessariamente in tutte
quelle offese alla persona che lo Stato non punisce che leggermente,
o non punisce affatto in virtù del principio: De minimis lex
non curat, tali delitti non producendo che un danno insignificante,
e non essendo il più delle volte che semplici puntigli. Per
mantenere il suo dominio in una sfera molto elevata, esso ha
attribuito alla persona un valore la cui esagerazione è
affatto sproporzionata con la natura, la condizione ed il destino
dell’uomo; spinge questo valore fino al punto di fare qualche cosa
di sacro dell’individuo, e, trovando del tutto insufficienti le pene
pronunziate dallo Stato contro le piccole offese alla persona, si
prende la briga di punirle esso stesso con punizioni sempre
corporali, ed anche colla morte dell’offensore. Havvi evidentemente,
in sostanza, l’orgoglio più smisurato e l’oltracotanza
più ributtante nell’obbliare la natura reale dell’uomo e nel
pretendere di rivestirlo d’una inviolabilità e d’una
irreprensibilità assolute. Ma ogni uomo che è deciso a
mantenere simili principî colla violenza, e che professa la
massima: chi m’insulta o mi tocca deve morire, merita per ciò
solo d’essere espulso dal paese. È vero che si mette avanti
ogni sorta di pretesti per inorpellare questo orgoglio smisurato. Di
due uomini intrepidi, si dice, nessuno cederà; nella
più leggera collisione essi verranno subito alle ingiurie,
poi alle percosse e finalmente all’omicidio: è dunque
preferibile, in riguardo alle convenienze, di sorpassare i gradi
intermedi, e ricorrere immediatamente alle armi. I dettagli della
procedura sono stati allora formulati in un sistema di rigido
pedantismo, sistema che ha le sue leggi e le sue regole, e che
è davvero la buffonata più lugubre del mondo; vi si
può scorgere, nessuno lo neghi, il Panteon glorioso della
follìa. Ma il punto di partenza istesso è falso; nelle
cose d’importanza minima (gli affari gravi restano sempre deferiti
alla decisione dei tribunali) di due uomini intrepidi ve n’ha sempre
uno, il più saggio, che cede: quando non si tratta che di
opinioni non si vorrà nemmeno occuparsene. Ne troviamo la
prova nel popolo, o, per meglio dire, in tutte quelle numerose
classi sociali che non ammettono il principio dell’onore
cavalleresco; quivi le contese seguono il loro corso naturale e
tuttavia l’omicidio vi è cento volte meno frequente che nella
frazione minima, l/1000 appena, che lo accetta; anche le risse vi
sono rare. Si pretende inoltre che questo principio, coi suoi
duelli, sia la pietra angolare che mantiene il bon ton e le belle
maniere nella società, che sia un baluardo che mette al
riparo dall’urto della brutalità e della rozzezza. Per altro
in Atene, a Corinto, a Roma c’era della buona ed anche della
buonissima società, delle maniere eleganti, del bon ton,
senza che vi fosse bisogno d’impiantarvi l’onore cavalleresco a
guisa di spauracchio. È giusto però il dire che le
donne non regnavano nella società antica come presso di noi.
Oltre il carattere frivolo e puerile che assume con esse la
conversazione, poichè se ne bandisce qualunque soggetto serio
ed ampliamento trattato, la presenza delle donne nella nostra
società contribuisce di certo per una gran parte ad accordare
al coraggio personale il primato su ogni altra qualità,
mentre in realtà esso non è che un merito molto
subordinato, una semplice virtù da sotto-tenente nella quale
gli animali stessi ci sono superiori; infatti non si dice forse:
«coraggioso come un leone?» Ma v’ha di più:
all’opposto dell’asserzione precedentemente riportata, il principio
dell’onore cavalleresco è di sovente il rifugio sicuro della
disonestà e della scelleratezza negli affari gravi, e nello
stesso tempo l’asilo dell’insolenza, della sfacciataggine e della
rozzezza nelle cose di lieve momento, per la semplicissima ragione
che nessuno si vuol prender la briga di castigare queste brutte
qualità a rischio della vita. In prova vediamo il duello
rigogliosamente in fiore, e praticato colla più sanguinaria
serietà, precisamente presso quella nazione la quale, nelle
sue relazioni politiche e finanziarie, ha mostrato mancanza di vera
onestà: a chi ne ha fatto la prova bisognerebbe domandare di
che natura sieno le relazioni private cogli individui di quella
nazione; in quanto poi alle loro maniere civili ed alla loro coltura
sociale, sono cose che da lunga data hanno grande celebrità
come modelli negativi.
Tutti questi motivi che vengono allegati sono adunque privi di
fondamento. Si potrebbe affermare con più ragione che, come
il cane brontola quando lo si irrita e fa vezzi quando lo si
carezza, nello stesso modo è proprio della natura dell’uomo
il rendere ostilità per ostilità e l’essere esacerbato
ed irritato per le manifestazioni dello sprezzo o dell’odio.
Cicerone l’ha già detto: «L’ingiuria ha un certo aculeo
che gli stessi uomini saggi e prudenti difficilmente possono
tollerare», ed infatti in nessuna parte del mondo (fatta
eccezione di alcune sette divote) si sopportano con calma le
ingiurie, o, a più forte ragione, le percosse. Ma la natura
c’insegna di non andar al di là d’una rappresaglia
equivalente all’offesa, non ci dice mica di punir colla morte colui
che ci accusasse di menzogna, di stupidità, o di codardia.
L’antica massima tedesca: «Ad uno schiaffo con uno
stile» è un pregiudizio cavalleresco che muove a
sdegno. In qualunque caso si è alla collera che tocca rendere
o vendicare le offese, e non all’onore od al dovere, ai quali il
principio dell’onore cavalleresco ne impone l’obbligo. È
certo d’altronde che un rimprovero non offende che nella misura con
cui ci colpisce; ciò che lo prova si è che la
più piccola allusione, che batta giusto, ferisce molto
più profondamente di un’accusa assai più grave ma che
non sia fondata. Per conseguenza chiunque ha la coscienza sicura di
non aver meritato un rimprovero, può disdegnarlo e non gliene
calerà. Il principio dell’onore invece gli impone di mostrare
una irritazione che non prova e di vendicare col sangue offese che
non lo hanno colpito. Eppure è veramente aver pochissima
opinione del proprio valore il cercar di soffocare ogni parola che
mostrasse di metterlo in dubbio! La vera stima di sè stesso
darà la calma ed il disprezzo reale delle ingiurie; in
mancanza di essa, la prudenza e la buona educazione ci comandano di
salvare l’apparenza e di dissimulare la nostra collera. Se inoltre
noi giungessimo a spogliarci dal pregiudizio del principio
cavalleresco; se nessuno più ammettesse che un insulto fosse
capace di togliere o di restituire checchessia all’onore; se si
fosse convinti che un torto, una brutalità, una villania non
possono essere giustificati all’istante colla sollecitudine che si
vorrà mettere a darne soddisfazione, cioè a battersi,
allora ognuno arriverebbe a comprendere che quando si tratta
d’invettive e d’ingiurie, si è il vinto che sorte vincitore
dal combattimento, e che, come dice Vincenzo Monti, delle ingiurie
avviene lo stesso come delle processioni sacre, le quali ritornano
sempre al loro punto di partenza. Allora non basterebbe più,
come attualmente, spacciare una insolenza per mettere il diritto
dalla nostra parte; allora il senno e la ragione avrebbero ben altra
autorità, mentre oggidì devono, prima di parlare,
vedere se non urtano in checchessia l’opinione delle menti meschine
e degli imbecilli che irrita ed allarma già la loro sola
apparizione, che altrimenti l’intelligenza può trovarsi nel
caso di giuocare in un colpo di dadi, la testa ove risiede contro il
cervello grossolano ove è alloggiata la stupidità.
Allora la superiorità intellettuale occuperebbe realmente
nella società il primo posto che gli è dovuto e che si
dà oggi, benchè in modo mascherato, alla
superiorità fisica ed al coraggio alla ussara; di più
allora vi sarebbe, per gli uomini eminenti, un motivo di meno per
fuggire la società, ciò che fanno attualmente. Un
mutamento tanto radicale farebbe nascere il vero bon ton e
fonderebbe la vera buona società nella forma in cui, senza
dubbio, ha esistito a Roma, a Corinto ed in Atene. A chi volesse
averne saggio raccomando di leggere il Banchetto di Senofonte.
L’ultimo argomento in difesa del codice cavalleresco sarà
senza dubbio concepito così: «Andiamo dunque! ma allora
un uomo potrebbe, Dio ce ne guardi, percuotere un altro!» A
ciò potrei rispondere, senza frasi reboanti, che il caso si
è presentato ben di frequente in quei 999/1000 della
società presso i quali tale codice non è ammesso,
senza che un solo individuo ne sia morto, mentre che presso coloro
che ne seguono i precetti, ogni percossa, per regola, diventa una
faccenda mortale.
Ma voglio esaminare la questione più in dettaglio. Io mi sono
molto di sovente affaticato la mente per trovare nella natura
animale od intellettuale dell’uomo una qualche ragione valida od
anche solamente plausibile, fondata non su semplici modi di dire, ma
su nozioni distinte, una qualche ragione, ripeto, che possa
giustificare la convinzione, profondamente radicata in una parte
della specie umana, che una percossa è una orribile cosa:
tutte le mie ricerche riescirono vane. Una percossa non è e
non sarà mai che un piccolo male fisico che ogni uomo
può cagionare ad un altro, senza provare con ciò altra
cosa se non che egli è più forte o più destro,
oppure che l’altro non stava in guardia. Dall’analisi di più
non abbiamo. Inoltre io vedo questo stesso cavaliere per il quale,
una percossa ricevuta dalla mano di un uomo sembra il più
grande di tutti i mali, ricevere un colpo dieci volte più
forte dal suo cavallo ed assicurare, trascinando la gamba e
dissimulando il dolore, che non è niente. Allora ho supposto
che ciò dipendesse dalla mano dell’uomo. Vedo però il
nostro cavaliere in un combattimento, ricever dalla mano di un uomo
colpi di punta e di taglio ed assicurare ancora che sono bagattelle
di cui non vale la pena di parlare. Imparò inoltre che i
colpi di lama piatta non sono a un dipresso tanto terribili come i
colpi di bastone, sicchè molto di recente gli allievi delle
scuole militari erano ancora passibili dei primi, e giammai degli
altri. Ma v’ha di più: nella iniziazione di un cavaliere il
colpo col piatto della lama è un grandissimo onore. Ed ecco
esauriti tutti i miei motivi psicologici e morali; ora non mi resta
più che a considerare la cosa come un’antica superstizione,
profondamente radicata, come un nuovo esempio, a lato di tanti
altri, di quanto si può dare ad intendere agli uomini.
Ciò che è provato anche dal fatto ben noto che in
China i colpi di bastone sono una punizione civile impiegata assai
frequentemente anche riguardo a funzionarî d’ogni grado; la
qual cosa dimostra che colà la natura umana, pur anco fra le
persone più civili, non parla come da noi.
Inoltre un esame imparziale della natura umana c’insegna che il
battere è tanto naturale all’uomo quanto il mordere agli
animali carnivori e il dar colpi di testa alle bestie cornute;
l’uomo è, propriamente parlando, un animale percuotitore. Per
questo siamo mossi a sdegno quando sentiamo che un uomo ha morsicato
un altro uomo: dare o ricever colpi invece è per esso un
effetto tanto naturale quanto frequente. Si comprende facilmente
come le persone d’una educazione finita cerchino di sottrarsi a tali
effetti dominando reciprocamente la loro naturale inclinazione. Ma
havvi invero della crudeltà nel voler far credere ad una
intera nazione, od anche solo ad una classe d’individui, che
ricevere una percossa sia una disgrazia spaventevole, che dev’essere
seguita dall’omicidio. Ci sono troppi veri mali a questo mondo
perchè sia permesso d’aumentarne il numero e crearne
d’immaginarî che ne portano pur troppo di reali seco loro,
ciò che fa tuttavia questo sciocco e scellerato pregiudizio.
Come conseguenza io non potrei che disapprovare quei governi e quei
corpi legislativi che gli vengono in aiuto affaticandosi con ardore
per far abolire, tanto nel codice civile che nel militare, le
punizioni corporali. Così facendo essi credono di agire
nell’interesse dell’umanità, quando, al contrario, lavorano
così a consolidare questo traviamento snaturato e funesto a
cui sono già state sacrificate tante vittime. Per ogni colpa,
salvo le più gravi, infliggere alcune bastonate è la
punizione che nell’uomo si presenta per prima alla mente; dunque
è la più naturale; chi non si sottomette alla ragione,
si sottometterà ai colpi. Punire con una leggera bastonatura
colui che non può esser colpito nelle ricchezze quando non ne
ha, e che non può esser privato della libertà, quando
si ha bisogno de’ suoi servigi, è un atto tanto giusto quanto
naturale. Perciò non viene presentata alcuna buona ragione
contro questo principio; gli oppositori si contentano d’invocare la
dignità dell’uomo, maniera di parlare che non si appoggia
sopra una nozione veramente chiara, ma ancora e sempre sul fatale
pregiudizio di cui abbiamo parlato più in alto. Un fatto
recente dei più comici viene a confermare tale stato di cose:
molti Stati hanno or ora sostituito nell’armata le stangate alle
bastonate; le stangate come ogni altro colpo, producono senza dubbio
un dolore fisico, e nondimeno sono tenute per non infamanti,
nè disonoranti.
Stimolando così il pregiudizio che ci tien servi,
s’incoraggia nello stesso tempo il principio dell’onore cavalleresco
e quindi del duello, mentre d’altra parte si fanno sforzi, o
piuttosto si pretende di sforzarsi per abolire colle leggi il
duello. Così vediamo questo frammento del diritto del
più forte, trasportato attraverso il tempo dal medio-evo al
XIX secolo, fare oggi ancora scandalosa mostra di sè in pieno
giorno; è tempo alla fin fine di cacciarlo vergognosamente.
Oggidì, quando è proibito di addestrare con metodo
cani e galli a battersi gli uni contro gli altri (in Inghilterra
almeno questi combattimenti sono puniti), ci è dato veder
creature umane eccitate loro malgrado a lotte mortali: si è
da questo ridicolo pregiudizio, da questo principio assurdo
dell’onore cavalleresco, si è da questi stupidi
rappresentanti e da questi campioni che, per la prima bagattella
insorta, viene imposto agli uomini l’obbligo di battersi fra loro
come gladiatori. Propongo ai nostri puristi tedeschi di rimpiazzare
la parola duell, derivata probabilmente non dal latino duellum, ma
dallo spagnuolo duelo (danno, querela, pena), colla parola
Ritterhetze (lotta di cavalieri, come si dice lotta di galli o di
bull-dogs). Si ha certamente amplio soggetto al riso nel vedere le
formalità pedanti con cui si compiono tutte queste follie.
Non si è per ciò meno mossi a sdegno, riflettendo che
questo principio, col suo codice assurdo, costituisce nello Stato
uno Stato che, non riconoscendo altro diritto se non quello del
più forte, tiranneggia le classi sociali che sono sotto il
suo dominio collo stabilire un tribunale permanente della
Santa-Vehme; ognuno può esser citato da chichessia a
comparirvi; i motivi della citazione, facili a trovare, fanno
l’officio di sbirri del tribunale, e la sentenza pronunzia la pena
di morte contro le due parti. È questo naturalmente il
rifugio dal fondo del quale l’individuo più spregevole, alla
sola condizione di appartenere alle classi soggette alle leggi
dell’onore cavalleresco, potrà minacciare, od anche uccidere
gli uomini più nobili e migliori, che sono precisamente
quelli che odia di necessità. Poichè al giorno d’oggi
la giustizia e la polizia hanno guadagnato presso a poco abbastanza
autorità perchè un briccone non possa più
arrestarci per la strada gridandoci: la borsa o la vita!, sarebbe
tempo che il buon senso assumesse altrettanta autorità
affinchè la prima canaglia venuta non possa più
venirci a turbare nel bel mezzo della nostra esistenza più
pacifica esclamando: l’onore o la vita! Bisogna finalmente liberare
le classi superiori dal peso che le opprime, bisogna affrancarci
tutti dall’angoscia di sapere che possiamo ad ogni momento essere
chiamati a pagare colla nostra vita la brutalità, la
rozzezza, la balordaggine o la cattiveria di tale individuo cui
avrà piaciuto scaricarla contro di noi. È ingiusto,
è vergognoso che due giovani inesperti e senza cervello sieno
tenuti ad espiare col loro sangue la più piccola contesa.
Ecco un fatto che prova a quale altezza si sia levata la tirannia di
questo Stato nello Stato, ed a qual punto sia arrivato il potere di
questo pregiudizio: si è visto spesso persone uccidersi per
la disperazione di non aver potuto ristabilire il loro onore
cavalleresco offeso, sia perchè l’offensore era di troppo
alta o di troppo bassa condizione, sia per tutt’altra causa di
disproporzione che rendeva il duello impossibile; una tal morte non
è proprio tragicomica?
Tutto quanto è falso ed assurdo si rivela alla fine per
ciò che, giunto al suo sviluppo perfetto, porta come fiore
una contraddizione; egualmente nel caso nostro la contraddizione
sboccia sotto la forma della più ingiusta antinomia; infatti
il duello è proibito all’ufficiale, e nondimeno questi
è punito colla destituzione se, dandosene il caso, si
rifiutasse di battersi.
Poichè ci sono, voglio andare ancora più avanti col
mio parlar franco. Esaminata con cura e senza prevenzioni, la grande
differenza, che si fa risuonare tanto forte, tra l’uccidere il
proprio avversario in una lotta alla piena luce del sole e ad armi
eguali oppure in un agguato, è fondata semplicemente su
quanto abbiamo già detto che cioè questo Stato nello
Stato non riconosce altro diritto che quello del più forte e
ne fa la base del suo codice dopo averlo elevato all’altezza di un
giudizio di Dio. Infatti, ciò che si chiama un combattimento
leale non prova altra cosa se non che si è o il più
forte o il più abile. La giustificazione che si cerca colla
pubblicità del duello presuppone dunque che il diritto del
più forte sia realmente un diritto. Ma la circostanza che il
mio avversario sa difendersi male mi dà effettivamente la
possibilità, e non il diritto di ucciderlo; questo diritto,
altrimenti detto la mia giustificazione morale, non può
derivare che dai motivi che io ho di togliergli la vita. Ammettiamo
ora che questi motivi esistino e che sieno soddisfacenti; allora non
v’ha più alcuna ragione di cercar prima chi di noi due
maneggia meglio la pistola o la spada, allora è indifferente
che io lo uccida in tale o tal’altra maniera, per davanti o per di
dietro. Perocchè, moralmente parlando, il diritto del
più forte non ha più peso del diritto del più
scaltro, ed è di quest’ultimo che si fa uso quando si ammazza
a tradimento: qui il diritto del pugno vale esattamente il diritto
della testa. Osserviamo inoltre che anche nel duello sono messi in
pratica i due diritti, perchè ogni finta nella scherma
è un inganno. Se io mi credo moralmente autorizzato a toglier
la vita ad un uomo, farei una sciocchezza col rimettermi alla sorte
s’egli sapesse maneggiare le armi meglio di me, perocchè in
questo caso sarà lui che dopo avermi offeso mi
ucciderà per soprammercato. Rousseau è d’avviso che
bisogna vendicar un’offesa non col duello, ma coll’assassinio; egli
presenta tale sua opinione con molte precauzioni nella 21.a nota,
concepita in termini così misteriosi, del IV libro
dell’Emilio. Ma egli è ancora così fortemente imbevuto
dal pregiudizio cavalleresco che considera il rimprovero d’una
menzogna come giustificazione dell’assassinio, mentre dovrebbe
sapere che ogni uomo ha meritato questo rimprovero innumerevoli
volte, egli stesso per primo ed al più alto grado. È
evidente che il pregiudizio che autorizza ad uccidere l’offensore a
condizione che il combattimento succeda di pieno giorno e ad armi
eguali, considera il diritto della forza come se fosse realmente un
diritto, e il duello come un giudizio di Dio. Almeno l’italiano che
bollente di collera assalta senza complimenti, a colpi di coltello,
l’uomo che lo ha offeso, agisce in modo logico e naturale: egli
è più scaltro, ma non più cattivo del
duellista. Se si volesse oppormi che ciò che mi giustifica
dell’uccisione del mio avversano in duello si è che da parte
sua egli cerca di fare altrettanto, risponderei che provocandolo
l’ho messo nel caso di legittima difesa. Mettersi così
mutuamente e con intenzione nel caso di legittima difesa non
significa altro, in conclusione, se non cercare un pretesto
plausibile per l’omicidio. Si potrebbe meglio trovare una
giustificazione nella massima: «Volenti non fit injuria»
(Non si fa torto a chi v’acconsente), poichè si è di
comune accordo che si rischia la vita; ma a ciò si potrebbe
replicare che volens non è parola esatta, perocchè la
tirannia del principio dell’onore cavalleresco e del suo codice
assurdo è l’alguazilo che ha trascinato i due campioni, o per
lo meno uno di essi, davanti questo tribunale sanguinario della
Santa-Vehme.
Mi sono fermato a lungo sull’onore cavalleresco, ma lo feci con una
buona intenzione e perchè la filosofia è l’Ercole che
solo può combattere sulla terra le mostruosità morali
ed intellettuali. Due cose principalmente distinguono lo stato della
società moderna da quello della società antica, e
ciò a detrimento della prima a cui danno una tinta seria,
tetra, sinistra da cui non era velata l’antichità, ciò
che la fa apparir candida e serena come il mattino della vita.
Queste due cose sono: il principio dell’onor cavalleresco e la
sifilide, par nobile fratrum. A loro due hanno avvelenato νεἰκος και
φιλία della vita (i contrasti e le amicizie della vita). Infatti
l’influenza della sifilide è molto più estesa che non
sembri a prima vista per ciò che tale influenza non è
solamente fisica ma anche morale. Dappoichè la faretra
d’amore porta anche freccie avvelenate s’è introdotto nelle
mutue relazioni dei sessi un elemento eterogeneo, ostile, direi
quasi diabolico, il quale fa che esse sieno pregne d’una tetra e
paurosa diffidenza: gli effetti indiretti d’una tale alterazione nel
fondamento d’ogni comunità umana si fanno sentire egualmente,
a gradi diversi, in tutte le altre relazioni sociali; ma la loro
analisi dettagliata mi trarrebbe troppo lungi. Analoga,
benchè di tutt’altra natura, è l’influenza del
principio d’onore cavalleresco, questa forza di grave conseguenza
che rende la moderna società rigida, cupa ed inquieta
poichè ogni parola fuggitiva vi è scrutata e discussa.
Ma non è tutto. Questo principio è un Minotauro
universale a cui bisogna sacrificare ogni anno un gran numero di
figli di famiglie nobili, presi non in un solo Stato, come per il
mostro antico, ma in tutti i paesi d’Europa. Sicchè è
tempo alla fine d’attaccare coraggiosamente corpo a corpo la
chimera, come ho fatto or ora. Possa il XIX secolo sterminare questi
due mostri dei tempi moderni! Noi non disperiamo di vedere i medici
riuscirvi circa uno di essi col mezzo della profilassia. Ma
appartiene alla filosofia l’annientar la chimera raddrizzando le
idee; i governi non hanno potuto aver buon esito colle leggi, che il
solo ragionamento filosofico può attaccare il male nella
radice. Fino a che questo avvenga, se i governi vogliono seriamente
abolire il duello, e se il piccolissimo successo dei loro sforzi non
dipende che dalla loro impotenza, io vengo a proporre loro una legge
di cui garantisco l’efficacia e che non reclama operazioni
sanguinose, nè patiboli, nè forche, nè prigioni
perpetue. Si tratta invece di un piccolo, di un piccolissimo rimedio
omeopatico dei più facili; eccolo: «Chiunque
manderà o accetterà una sfida riceverà alla
chinese, di pieno giorno, davanti il corpo di guardia dodici colpi
di bastone per mano del caporale; chi portò la sfida, e
così pure i testimoni ne riceveranno sei cadauno. Per le
conseguenze eventuali del duello succeduto si seguirà la
procedura criminale ordinaria». Qualche cavaliere mi
porrà forse l’obiezione che dopo aver subito un tale castigo
molti «uomini d’onore» saranno capaci di bruciarsi le
cervella; a ciò rispondo: Val meglio che un pazzo uccida
sè stesso, piuttosto che un altro uomo. Ma so molto bene che
in sostanza i governi non cercano seriamente l’abolizione dei
duelli. Gli stipendi degli impiegati civili, ma sopra tutto quelli
degli ufficiali (salvo nei gradi elevati) sono molto inferiori al
valore di ciò che producono. Quindi si paga loro la
differenza in onore. Questo è rappresentato dai titoli e
dalle decorazioni, e, sotto un punto di vista più largo e
più generale, dall’onore della funzione. Ora per tale onore
il duello è un eccellente cavallo da maneggio il cui
ammaestramento comincia già nelle Università. Si
è col loro sangue che le vittime pagano il deficit dello
stipendio.
Per non fare alcuna ommissione ricordiamo qui ancora l’onore
nazionale. È desso l’onore di tutto un popolo considerato
come membro della comunità dei popoli. Questa comunità
non riconoscendo altro foro che quello della forza, e ciascun membro
avendo per conseguenza da difendere da sè stesso i suoi
diritti, l’onore di una nazione non consiste solo nell’opinione
fermamente stabilita che essa merita fiducia (il credito), ma di
più che essa è abbastanza forte perchè la si
tema; perciò una nazione non dovrebbe lasciar impunita la
più piccola offesa ai suoi diritti. L’onore nazionale combina
dunque il punto d’onore borghese col punto d’onore cavalleresco.
4. La gloria.
In ciò che si rappresenta ci resta da esaminare per ultimo la
gloria. Onore e gloria sono gemelli, ma alla maniera dei Dioscuri di
cui uno, Polluce, era immortale e l’altro, Castore, mortale: l’onore
è il fratello mortale della gloria immortale. È
evidente che ciò non si deve intendere che della gloria la
più alta, della gloria vera e di buona lega, perocchè
v’hanno pure molte specie effimere di gloria. Inoltre l’onore non si
applica che a qualità che il mondo esige da tutti coloro i
quali si trovano in condizioni simili, la gloria invece si applica a
qualità che non si possono pretendere da alcuno; l’onore si
riferisce a meriti che ciascuno può attribuirsi
pubblicamente, la gloria a meriti che nessuno può attribuirsi
da sè stesso. Mentre l’onore non va oltre i limiti in cui
siamo personalmente conosciuti, la gloria, tutto all’opposto,
precede nel suo volo la conoscenza dell’individuo e se la porta
dietro tanto lontano quanto arriverà ella stessa. Ognuno
può pretendere all’onore; alla gloria le sole eccezioni,
perocchè non la si acquista che con produzioni eccezionali.
Tali produzioni possono essere atti od opere: da ciò due
strade per giungere alla gloria. Un animo grande sovra ogn’altra
cosa ci apre la via degli atti; una mente grande ci rende capaci di
seguir quella delle opere. Ciascuna delle due ha vantaggi ed
inconvenienti suoi propri. La differenza capitale si è che le
azioni passano, e le opere rimangono. L’azione la più nobile
ha sempre un’influenza solamente temporanea, l’opera del genio
invece sussiste ed agisce, benefica e nobilitante, a traverso i
tempi. Delle azioni non resta che la memoria che diventa sempre
grado a grado più piccola, svisata e indifferente; essa
è pur anco destinata a sparire affatto se la storia non la
raccoglie per trasmetterla, pietrificata, alla posterità. Le
opere in cambio sono immortali da per sè stesse, e le opere
scritte sopra tutto possono vivere in ogni tempo. Il nome e la
memoria di Alessandro il Grande sono soli viventi oggidì; ma
Platone, Aristotele, Omero ed Orazio sono presenti essi stessi,
vivono ed agiscono direttamente. I Veda, colle loro Upanishadi sono
là, davanti a noi; ma di tutte le azioni compite nel loro
tempo, non la più piccola nozione è giunta fino a noi
W. Un altro svantaggio delle azioni si è che esse dipendono
dalla occasione che, prima di ogn’altra cosa, deve dar loro la
possibilità di prodursi: d’onde risulta che la grandezza
della loro gloria non è regolata unicamente dal loro valore
intrinseco, ma anche dalle circostanze che danno loro importanza e
splendore. La gloria delle azioni deriva inoltre, quando queste sono
puramente personali, come in guerra, dalla relazione d’un piccolo
numero di testimoni oculari; ora può succedere che non vi
sieno stati testimoni, o che questi sieno ingiusti o mal prevenuti.
D’altra parte le azioni, essendo qualche cosa di pratico, hanno il
vantaggio d’esser alla portata delle facoltà che intendono e
giudicano presso tutti gli uomini; perciò si rende loro
immediatamente giustizia non appena i dati sono esattamente
prodotti, a meno che tuttavia i motivi non ne possano esser
nettamente conosciuti o giustamente apprezzati che più tardi,
perocchè, per ben comprendere un’azione, bisogna conoscerne
il motivo.
Per le opere la cosa è affatto diversa; la loro produzione
non dipende dall’occasione, ma unicamente dal loro autore, ed esse
restano quello che sono in sè stesse e da per sè
stesse per quanto a lungo durino. Qui, in cambio, la
difficoltà consiste nella facoltà di giudicarle, e la
difficoltà è tanto più grande quanto più
le opere sono di qualità eminente; di sovente mancano giudici
competenti; di sovente pure mancano giudici imparziali ed onesti. Di
più non è un tribunale solo che decide della loro
gloria, havvi sempre luogo ad appello. Infatti se, come abbiamo
detto, la memoria delle azioni giunge alla posterità sola, e
quale i contemporanei l’hanno trasmessa, le opere al contrario vanno
ai posteri da per sè stesse, e quali sono, salvo i frammenti
perduti: qui dunque non v’ha la possibilità di snaturare i
dati, e se al loro apparire l’ambiente ha potuto esercitare qualche
influenza dannosa, questa più tardi sparisce. Anzi, per
meglio dire, si è il tempo che produce, uno ad uno, il
piccolo numero di giudici veramente competenti, chiamati, come
esseri eccezionali quali sono, a giudicarne di più
eccezionali ancora: eglino depongono successivamente nell’urna i
loro voti significativi, e con ciò si stabilisce, qualche
volta dopo secoli, un giudizio pienamente fondato e che il
progredire del tempo non può invalidare. Si vede quindi che
la gloria delle opere è assicurata, infallibile. Occorre un
concorso di circostanze esterne ed un azzardo perchè l’autore
arrivi alla gloria durante la vita; il caso sarà tanto
più raro quanto più il genere delle sue opere
sarà difficile ed elevato. Perciò Seneca ha detto (Ep.
79), in un linguaggio incomparabile, che la gloria segue tanto
infallantemente il merito quanto l’ombra il corpo, benchè
essa cammini, come l’ombra, ora davanti ed ora di dietro. Dopo aver
sviluppato questa idea egli aggiunge: «Ancorchè
l’invidia imponesse silenzio su di te a tutti i viventi verrà
chi giudicherà senza odio, senza amore;» questo passo
ci mostra nel tempo stesso che l’arte di soffocare malignamente i
meriti col silenzio e con una finta ignoranza, allo scopo di
nascondere al pubblico ciò che è buono a profitto di
ciò che è cattivo, è stata già messa in
pratica dalla canaglia fin dall’epoca di Seneca, come lo si fa dalla
canaglia ai nostri giorni, e che all’una e all’altra è
l’invidia che chiude la bocca.
D’ordinario la gloria è tanto più tardiva quanto
più sarà durevole, perocchè tutto ciò
che è squisito matura adagio. La gloria chiamata ad esser
eterna è pari alla quercia che cresce lentamente dal seme; la
gloria facile, effimera somiglia alle piante annuali, rapide a
crescere; in quanto poi alla gloria falsa essa è come quelle
cattive erbaccie che nascono a vista d’occhio e che si cerca in
tutta fretta di estirpare. E questo perchè quanto più
un uomo appartiene alla posterità, o con altre parole
all’umanità intiera in generale, tanto più è
straniero alla sua epoca; perocchè ciò che egli crea
non è destinato specialmente a questa come tale, ma come
parte dell’umanità collettiva; perciò queste opere non
essendo tinte del color locale del loro tempo, succede ben di
sovente che i contemporanei le lascino passare inosservate.
Ciò che costoro apprezzano sono piuttosto le opere che
trattano delle cose fuggevoli del giorno, o che servono al capriccio
del momento; queste appartengono loro completamente, vivono e
muoiono con essi. Così la storia dell’arte e della
letteratura c’insegna generalmente che le più alte produzioni
della mente umana sono state accolte, di regola, con disfavore e
sono rimaste in abbandono disdegnate fino al giorno in cui spiriti
elevati, attratti da esse, hanno riconosciuto il loro valore ed
hanno assegnato loro una considerazione che da quel momento
conservarono costantemente. In ultima analisi tutto questo ha
fondamento sul fatto che ciascuno non può realmente
comprendere ed apprezzare se non quanto gli è omogeneo. Ora
l’omogeneo per l’uomo d’ingegno limitato si è ciò che
è limitato; per l’uomo triviale ciò che è
triviale; per una mente vasta ciò che è vasto, e per
l’insensato l’assurdo; quello che ciascuno preferisce è
l’opera sua propria, essendo cosa della stessa natura.
Già il vecchio Epicarmo, il poeta favoloso, cantava
così: «Non è cosa ammirabile ch’io parli
così, e che un simile piaccia al suo simile, e gli sembri
esser nato bello; imperocchè il cane par cosa bellissima al
cane, ed il bue al bue, l’asino all’asino sembra una maraviglia, il
porco al porco». Val bene la pena di tradurre questi versi,
affinchè quanto esprimono non sia perduto per nessuno.
Lo stesso braccio più vigoroso quando lancia un corpo
leggero, non può comunicargli abbastanza moto perchè
vadi lontano e colpisca fortemente; il corpo cadrà inerte da
vicino perchè, mancando di massa materiale propria, non
può ricevere forza dall’esterno; tale sarà la sorte
dei pensieri grandi e belli, dei capolavori del genio, quando, per
esser compresi, non incontrano che cervelli piccoli, teste deboli o
balzane. Ecco quanto i saggi di tutti i tempi hanno ad una voce e
senza posa deplorato. Gesù, figlio di Sirach, per esempio
dice: «Chi parla ad uno stolto parla ad un addormentato;
quando ha finito di parlare l’altro domanda: che hai?» — In
Amleto: «Un discorso sagace dorme nell’orecchio di uno
sciocco». — Goethe a sua volta: «La parola più
felice perde il suo valore quando chi l’ascolta ha l’orecchio di
traverso». Ed anche: «Tu non puoi agire, tutto sta
inerte (ottuso); non te ne affliggere! Il sasso gettato nella palude
non fa cerchî».
Ecco Lichtenberg: «Quando una testa ed un libro urtandosi
danno un suono fesso, dipende ciò sempre dal libro?» Lo
stesso autore disse altrove: «Tali opere sono specchi; quando
vi si mira una scimmia non possono riflettere le sembianze d’un
apostolo».
Riportiamo pure il bello e toccante lamento del vecchio papà
Gellert, che ben lo merita: «Quante volte le migliori
qualità trovano scarsi ammiratori, e quante volte la maggior
parte degli uomini prende il cattivo per buono! È questo un
male che si vede ogni giorno. Ma come evitare tale pestilenza?
Dubito che questa calamità possa esser bandita dal mondo. Non
vi sarebbe a tal uopo che un solo mezzo sulla terra, ma è
infinitamente difficile: che cioè i matti diventassero savi.
Ma che! Ciò non sarà mai. Essi non conoscono il valore
delle cose, giudicano cogli occhi, non colla ragione. Lodano
costantemente ciò che è vile perchè non hanno
mai conosciuto il buono.»
A questa incapacità intellettuale degli uomini la quale fa
che, come disse Goethe, sia meno raro veder nascere un’opera
eminente che non di vederla conosciuta ed apprezzata, viene ad
aggiungersi ancora la loro perversità morale che si manifesta
coll’invidia. Perocchè colla gloria che si acquista, havvi un
uomo di più che si leva sopra gli altri della sua specie;
costoro sono dunque abbassati altrettanto, di modo che ogni merito
straordinario ottiene la sua gloria a spese di coloro che non hanno
meriti: «Quando noi rendiamo onore agli altri dobbiamo
abbassar noi stessi», scrive Goethe (W. O. Divan).
Ecco ciò che spiega perchè, non appena appare un’opera
superiore, di qual genere non importa, tutte le innumerevoli
mediocrità fanno alleanza, e congiurano per impedirle che sia
conosciuta e per soffocarla se è possibile. Loro tacita
parola d’ordine si è: «abbasso il merito». Coloro
stessi che hanno meriti e che sono già al possesso della lor
parte di gloria, non vedono volentieri sorgere una gloria novella di
cui lo splendore diminuirà d’altrettanto lo splendore della
gloria loro. Goethe stesso ha detto: «Se per nascere avessi
atteso che mi si dasse la vita, non sarei ancora di questo mondo;
potete ben comprenderlo vedendo come si arrabattano coloro che, pur
di parer qualche cosa, mi rinnegherebbero volentieri».
Sicchè, mentre l’onore trova molto di sovente giudici retti,
mentre l’invidia non lo attacca e lo si accorda anzi ad ognuno per
antecipazione od a credenza, la gloria, tutto al contrario, deve
esser conquistata con seria lotta, a dispetto dell’invidia, ed
è un tribunale di giudici decisamente sfavorevoli che decreta
la palma. Possiamo e vogliamo divider l’onore con tutti, ma la
gloria acquistata da un altro diminuisce la nostra o ce ne rende la
conquista più penosa. Inoltre la difficoltà d’arrivare
alla gloria colle opere è in ragione inversa del numero
d’individui di cui si compone il pubblico dedicatosi ad esse, e
ciò per motivi facili a comprendere. Sicchè la fatica
è più grande per le opere che hanno per iscopo
l’istruire che non per quelle che son fatte solo per dilettare. Per
i lavori di filosofia la difficoltà è ancora
più grande perchè l’insegnamento che promettono,
dubbio da una parte, senza profitto materiale dall’altra,
s’indirizza, fin da bel principio, ad un pubblico di concorrenti.
Da quanto dicemmo sulle difficoltà di giungere alla gloria
deriva che il mondo vedrebbe nascere molto poche opere immortali, od
anche nessuna, se coloro che possono produrne non lo facessero per
amore stesso di queste opere, per loro propria soddisfazione, e se
avessero bisogno dello stimolante della gloria. Anzi, chiunque
può produrre il buono ed il vero, e fuggire il male,
sfiderà l’opinione delle masse e dei loro organi, dunque li
disprezzerà. Perciò si è fatto giustamente
osservare, da Osorio fra gli altri (De gloria), che la gloria fugge
davanti coloro che la cercano e segue coloro che non se ne curano,
perchè i primi si piegano al gusto dei loro contemporanei,
mentre gli altri lo affrontano.
Tanto è difficile acquistar la gloria quanto è poi
facile conservarla. Anche su ciò essa è in opposizione
coll’onore. Questo è accordato a tutti, anche a credito, e
basta saperlo conservare. Ma l’affare è arduo perchè
una sola azione vituperevole lo fa perdere irrevocabilmente. Al
contrario la gloria non può realmente esser mai perduta,
perocchè l’azione o l’opera che l’ha data resta sempre
compita, e la gloria ne va sempre all’autore quand’anche questi non
aggiungesse nuovi meriti a quelli già acquistati. Se
nondimeno essa si estingue, se l’autore le sopravvive, vuol dire che
si trattava di gloria falsa, vale a dire non meritata; essa
proveniva da una valutazione esagerata e momentanea del merito; era
una gloria del genere di quella di Hegel, di quella gloria che
Lichtenberg descrive, dicendo che era stata «proclamata a
suono di tromba da una brigata di amici e di discepoli e ripercossa
dall’eco dei cervelli vuoti; ma come devono ridere i posteri quando
un giorno, battendo alla porta di questi castelli di parole
smaglianti, di questi avanzi incantevoli d’una moda svanita, di
queste stanze di convenzioni finite, troveranno tutto, assolutamente
tutto vuoto, e non un pensiero che risponda con fiducia:
entrate».
In conclusione, la gloria è fondata su ciò che un uomo
è in confronto degli altri. È dunque in essenza
qualche cosa di relativo, e non può quindi avere che un
valore relativo. Essa sparirebbe totalmente se gli altri divenissero
ciò che è già l’uomo celebre. Una cosa non
può avere un valore assoluto se non se conservando il suo
prezzo in ogni circostanza; nel caso presente ciò che
avrà un valore assoluto sarà dunque ciò che un
uomo è per sè stesso direttamente: ecco per
conseguenza la cosa che costituirà necessariamente il valore
e la felicità d’un gran cuore e d’una gran mente. Ciò
che v’ha di prezioso invero non è la gloria, ma il
meritarsela. Le condizioni che ne rendono degni sono, per
così dire, la sostanza; la gloria non è che
l’accidente; questa agisce sull’uomo celebre come sintomo esterno
che viene a confermare a’ suoi occhi l’alta stima ch’egli ha di
sè stesso; si potrebbe dire che, simile alla luce che non
diviene visibile se non riflessa da un corpo, ogni mente superiore
non acquista la piena coscienza di sè che colla gloria. Ma il
sintomo istesso non è infallibile, visto che esiste pure
gloria senza merito, e merito senza gloria. Su questo argomento
disse Lessing in modo graziosissimo: «Vi sono uomini celebri,
ve ne sono che meriterebbero di esserlo». Sarebbe invero
un’esistenza ben miserabile quella il cui valore o svilimento
dipendesse da ciò che essa appare agli occhi altrui, e tale
sarebbe la vita dell’eroe e dell’uomo di genio se il prezzo della
loro esistenza consistesse nella gloria, vale a dire
nell’approvazione altrui. Ogni individuo vive ed esiste prima di
tutto per suo proprio conto, di conseguenza principalmente in
sè e per sè stesso. Quello che un uomo è, non
ne importa il come, lo è a bella prima e sopra tutto in
sè stesso; se, così considerato, il valore ne è
minimo vuol dire che esso è pure minimo considerato in
generale. L’immagine invece del nostro essere, quale si riflette
nella testa degli altri uomini, è qualche cosa di secondario,
di derivato, di eventuale, non riferendosi che molto indirettamente
all’originale. Inoltre le teste delle masse sono un locale troppo
miserabile perchè la vera felicità vi possa trovare il
suo posto. Non vi si può trovare che una felicità
chimerica. Quale ibrida società non si vede riunita in questo
tempio della gloria universale! Capitani, ministri, ciarlatani,
espilatori, ballerini, cantanti, milionarî ed ebrei:
precisamente così; i meriti di questa gente sono molto
più sinceramente apprezzati, trovano molto maggior sentita
stima che non i meriti intellettuali, sopra tutto quelli d’ordine
superiore, che non ottengono dalla grande maggioranza che una stima
sulla parola. Dal punto di vista eudemonologico la gloria non
è che il boccone più raro e più squisito
presentato al nostro orgoglio ed alla nostra vanità. Ma si
trova una straordinaria soprabbondanza d’orgoglio e di vanità
presso la maggior parte degli uomini benchè queste due
condizioni sieno dissimulate; e fors’anco le s’incontra in
più alto grado presso coloro che possedono, non importa a
qual titolo, diritti alla gloria, e che più di sovente devono
portare ben a lungo nell’animo la coscienza incerta del loro alto
valore, prima d’aver occasione di metterlo alla prova e di farlo poi
conoscere; fino allora essi hanno il sentimento di subire una
secreta ingiustizia. In generale, e come dicemmo in principio del
capitolo, il prezzo annesso all’opinione è del tutto
sproporzionato e fuor di ragione, a tal punto che Hobbes ha potuto
dire in termini molto energici ma giustissimi: «Ogni piacere
dell’animo, ogni soddisfazione viene dal poter avere, mettendosi a
confronto cogli altri, un’alta opinione di sè stesso. (De
Cive, I, 5)». Così si spiega il prezzo grandissimo che
si annette alla gloria, e i sacrifizî che si fa nella sola
speranza di arrivarvi un giorno: «La fama è lo sprone
che spinge le menti superiori (ultima debolezza delle anime nobili)
a sdegnare i piaceri ed a consacrare la loro vita al lavoro».
Come anche:
«Quanto è faticoso l’arrampicarsi su quelle cime ove
brilla il tempio della fama».
Perciò la più vanitosa di tutte le nazioni ha sempre
in bocca la parola «gloria» e la considera come il
motore delle grandi azioni e delle grandi opere. Solo, siccome la
gloria non è incontestabilmente che il semplice eco,
l’immagine, l’ombra, il sintomo del merito, e siccome in ogni caso
ciò che si ammira deve valere più dell’ammirazione, ne
segue che quello che rende veramente felice non sta nella gloria ma
in ciò che ce la procura, nel merito stesso, o, per parlare
più esattamente nel carattere e nelle facoltà che
fondano il merito sia nell’ordine morale, sia nell’ordine
intellettuale. Perocchè ciò che un uomo può
essere di più eccellente, è necessariamente per lui
stesso che deve esserlo; quanto del suo avere si riflette nella
testa degli altri, quanto egli vale nella loro opinione non è
per lui che accessorio e d’un interesse subordinato. Per conseguenza
colui che non fa che meritare la gloria, quand’anche non la ottenga,
possede ampiamente la cosa principale ed ha di che consolarsi se gli
manca l’accessorio, vale a dire la gloria stessa. Ciò che
rende l’uomo degno d’invidia non è l’esser tenuto per grande
da quel pubblico così incapace di giudicare e di sovente
così cieco, ma è l’esser grande; e neppur si è
felicità suprema vedere il proprio nome passar alla
posterità, bensì produrre pensieri che meritino di
esser raccolti e meditati in ogni epoca. Ecco quanto non può
esser tolto «των ἐφ́ ημῖν»; il resto è «τον
οὔκ ἐφ́ ημῖν».
Quando invece l’ammirazione stessa è l’oggetto principale, si
è il soggetto che non ne è degno. Tale infatti
è il caso della falsa gloria, vale a dire della gloria non
meritata. Chi la possede deve contentarsene per ogni suo pasto,
poichè ei non ha quelle qualità di cui questa gloria
non dovrebbe esser che il sintomo, il semplice riflesso. Ma tal
gloria gli verrà molto di sovente a noia: giunge finalmente
il momento in cui a dispetto dell’illusione sul proprio conto che la
vanità gli procura, ei sarà preso dalle vertigini su
quelle altezze per cui non è fatto, od anche si
risveglierà in lui un vago sospetto di non essere che di
bronzo dorato; allora è preso dal timore di essere conosciuto
ed umiliato come lo merita, sopratutto quando già può
legger sulla fronte dei saggi il giudizio dei posteri. Ei
rassomiglia ad un uomo che possede una eredità in
virtù d’un testamento falso.
Il rimbombo della gloria vera, di quella gloria che vivrà a
traverso i tempi che verranno, non arriva mai alle orecchie di chi
ne è l’oggetto, e nondimeno lo si vede felice. Egli è
che sono le facoltà eminenti a cui deve la gloria, l’agio di
poterle svolgere, cioè di agire in conformità della
propria natura, il poter occuparsi degli oggetti che ama o che lo
dilettano, egli è tutto ciò che lo rende felice; e
solo in tali condizioni sono create le opere che condurranno alla
gloria. Si è dunque la sua anima grande, si è la
ricchezza della sua intelligenza, l’impronta della quale nelle sue
opere costringerà all’ammirazione le età future, sono
queste cose che formano la base della sua felicità; vi si
aggiungono ancora i suoi pensieri la cui meditazione sarà
soggetto di studio e sorgente di delizia ai più nobili
spiriti attraverso secoli innumerevoli. Aver meritato la gloria,
ecco ciò che ne costituisce il valore e nel tempo istesso la
propria ricompensa. Che lavori chiamati a gloria immortale l’abbiano
qualche volta già ottenuta dai contemporanei, è tal
fatto dovuto a circostanze fortuite e che non ha grande importanza.
Perocchè gli uomini mancano ordinariamente di giudizio
proprio, e sopra tutto non hanno le facoltà volute per
apprezzare le produzioni di un ordine superiore e difficile;
perciò essi seguono sempre su queste materie
l’autorità altrui, e la gloria suprema è accordata di
pura fiducia da novantanove ammiratori su cento. Per questo
l’approvazione dei contemporanei, per quanto numerose sieno le voci
loro, ha un prezzo assai basso per il pensatore; questi vi distingue
solo l’eco di qualche voce che non è ella stessa che un
effetto del momento. Un virtuoso si sentirebbe molto lusingato dal
plauso approvatore del pubblico se sapesse che, salvo uno o due
individui, l’uditorio è composto affatto da sordi, i quali
per dissimulare scambievolmente la loro infermità,
applaudiscono a tutta forza non appena vedono muover le mani la sola
persona che ha le orecchie sane? Che sarebbe dunque s’egli sapesse
pure che i capi della claque sono stati spesso comprati per
procurare il più splendido successo al più infelice
raschiatore di violino! Questo ci spiega perchè la gloria
contemporanea subisca così di rado la metamorfosi in gloria
immortale: d’Alembert espone la stessa idea nella sua magnifica
descrizione del tempio della gloria letteraria: «L’interno del
tempio non è abitato che dai morti che non vi erano mentre
vivevano, e da pochi viventi che sono messi alla porta, nella
maggior parte, non appena hanno cessato di vivere».
Strada facendo possiam dire che elevare un monumento ad un uomo
ancora in vita è lo stesso che dichiarare che su quanto lo
concerne non si ha fidanza nella posterità. Quando ad onta di
tutto un uomo arriva durante la vita ad una gloria che le
generazioni future confermeranno, ciò non succederà
mai se non in età avanzata; v’ha bene qualche eccezione a
questa regola in favore degli artisti e dei poeti, ma molto di rado
per i filosofi. I ritratti di uomini celebri per le loro opere,
fatti generalmente in un’epoca in cui la loro celebrità era
già stabilita, confermano la regola precedente; essi ce li
presentano ordinariamente vecchi e canuti, sopratutto i filosofi.
Tuttavia dal punto di vista eudemonologico la cosa è
perfettamente giustificata. Aver gloria e gioventù in una
volta sarebbe troppo per un mortale; la nostra esistenza è
così povera che i suoi beni devono essere ripartiti con
più risparmio. La gioventù possede abbastanza
ricchezze sue proprie; essa può tenersene paga. Si è
nella vecchiezza, quando i piaceri e le gioie sono morte, come gli
alberi durante la fredda stagione, che l’albero della gloria viene a
germogliare molto a proposito, come verdura d’inverno; si può
anche paragonare la gloria a quelle pere tardive che si sviluppano
nell’estate, ma che non sono mangiate che d’inverno. Non havvi
più bella consolazione per il vegliardo che di vedere tutta
la forza de’ suoi giovani anni incorporarsi in opere che non
invecchieranno come la sua gioventù.
Esaminiamo ora più davvicino la strada che conduce alla
gloria colle scienze, essendo queste maggiormente a nostra portata;
a loro riguardo potremo stabilire la regola seguente. La
superiorità intellettuale di cui fa testimonianza la gloria
scientifica si manifesta sempre per una combinazione nuova di certi
dati. Questi possono essere di specie assai differenti, ma la gloria
annessa alla loro combinazione sarà tanto più grande e
più estesa quanto più essi stessi saranno più
generalmente conosciuti e più accessibili a tutti. Se questi
dati sono, per esempio, cifre, linee curve, questioni speciali di
fisica, di zoologia, di botanica o di anatomia, passi corrotti di
antichi autori, iscrizioni quasi cancellate o di cui ci manca
l’alfabeto, o punti oscuri della storia, in tutti questi casi la
gloria che si acquisterà nel combinarli giudiziosamente non
si estenderà più lontano della conoscenza stessa di
tali dati e per conseguenza non oltrepasserà il cerchio d’un
piccolo numero di uomini che d’ordinario vivono ritirati, e che sono
gelosi della gloria nella loro speciale professione. Se invece i
dati sono di tale specie che tutto il mondo conosce, per esempio
sulle facoltà essenziali ed universali della mente o del
cuore umano, oppure sulle forze naturali la cui azione succede
costantemente sotto i nostri occhi, od anche sull’andamento, noto a
tutti, della natura in generale, allora la gloria di averli messi
maggiormente in luce con una combinazione nuova, importante ed
evidente, si spargerà col tempo quasi da per tutto fra
l’umanità civilizzata. Perocchè se i dati sono
accessibili a tutti, lo sarà pure in generale la loro
combinazione. Nondimeno la gloria starà sempre in rapporto
colle difficoltà che saranno da superare per conquistarla.
Infatti quanto più gli uomini, a cui i dati sono famigliari,
saranno numerosi, tanto più sarà difficile combinare
questi dati in modo nuovo e giusto ad un tempo, poichè una
infinità di menti vi si saranno già provate ed avranno
esaurito ogni possibile risultato. In cambio i dati inaccessibili al
pubblico volgare, la conoscenza dei quali non si acquista che con
lunghe e faticose ricerche, ammetteranno ancora ben di sovente una
nuova combinazione; studiandoli con mente fredda e con sano
criterio, si può con facilità aver la sorte di
arrivare a cose inaspettate e tuttavia razionali. Ma la gloria
così ottenuta avrà, presso a poco, per limite il
cerchio stesso della conoscenza di questi dati. Perocchè la
soluzione dei problemi di siffatta natura esige per verità
molto lavoro e molto studio; d’altra parte i dati per i problemi
della prima specie, con cui si può acquistare precisamente la
gloria più alta e più vasta, sono da tutto il mondo
conosciuti senza sforzo; ma se basta poca fatica per conoscerli,
occorrerà tanto più talento e fors’anche il genio per
combinarli. Ora non v’ha lavoro che, per valore proprio o per quello
che gli si attribuisce, possa sostenere il confronto col talento o
col genio.
Da tutto ciò risulta che coloro i quali si sanno dotati di
una ragione solida e di un raziocinio giusto, senza aver pertanto il
sentimento di possedere un’intelligenza fuori dell’ordinario, non
devono indietreggiare di fronte a lunghi studi ed a faticose
ricerche; essi potranno con ciò levarsi sopra quegli uomini
alla cui portata stanno i dati universalmente noti, e raggiungere
quelle regioni discoste, che sono accessibili solamente
all’attività del dotto. Imperocchè quivi il numero dei
concorrenti è infinitamente più piccolo, ed una mente
un po’ superiore troverà ben presto l’occasione di una
combinazione nuova e razionale; il merito della sua scoperta
potrà pure aver per base la difficoltà di giungere
alla conoscenza dei dati. Ma la moltitudine sentirà solamente
da lontano lo strepito degli applausi che questi lavori procureranno
all’autore da parte de’ suoi confratelli di scienza, soli
conoscitori nella materia. Seguitando fino alla fine la strada qui
indicata, si può anche determinare il punto in cui i dati,
per l’estrema difficoltà di acquistarli, bastano a sè
stessi, senza bisogno di combinazione, per stabilire una gloria.
Tali sono i viaggi in paesi molto lontani e poco visitati:
così si diviene celebri per quello che si è veduto,
non per quello che si è pensato. Questo sistema ha pure un
grande vantaggio, il poter cioè comunicare agli altri
più facilmente le cose vedute che non quelle pensate, mentre
il pubblico stesso comprende le prime meglio delle seconde; si trova
pure in tal modo un numero più grande di lettori.
Perocchè, come disse già Asmus: «Dopo un lungo
viaggio si hanno molte cose da raccontare».
Ma ne risulta pure che quando si fa conoscenza personale cogli
uomini celebri per siffatte gesta, si ricorda spesso l’osservazione
di Orazio:
Coelum, non animum, mutant qui trans mare corrunt
(Cangiano cielo, ma non cangiano l’animo coloro che vanno al di
là dei mari).
(Ep. I, 11, v. 27).
Su quanto concerne l’uomo dotato di alte facoltà, dirò
che solamente chi può osare di darsi alla soluzione di quei
grandi e difficili problemi che trattano di cose generali ed
universali, farà bene da una parte di allargare quanto
più sia possibile il proprio orizzonte, ma d’altra parte
dovrà estenderlo egualmente in tutte le direzioni, senza
abbandonarsi troppo addentro in qualcuna di quelle regioni speciali
note solo a pochi; in altre parole, non andar troppo avanti nei
dettagli speciali d’una sola scienza, e molto meno ancora far della
micrologia in qualsivoglia ramo della scienza. Perchè non
occorre che egli si dedichi a cose difficilmente accessibili per
innalzarsi sopra la folla dei concorrenti; ciò che è
alla portata di tutti gli fornirà precisamente materia a
risultati nuovi, importanti e veri. Ma anzi per questo il suo merito
potrà esser apprezzato da tutti coloro che conoscono i dati,
vale a dire dalla maggior parte del genere umano. Ecco la ragione
dell’immensa differenza tra la gloria serbata ai poeti ed ai
filosofi e quella accessibile agli eruditi in fisica, chimica,
anatomia, geologia, zoologia, filologia, storia ed altre scienze.
________________
CAPITOLO V.
Parenesi e massime.
Qui meno che altrove ho la pretesa d’esser completo, che altrimenti
dovrei ripetere le numerose ed in parte eccellenti regole per la
vita date dai pensatori di tutte le epoche da Teognide e dal
pseudo-Salomone fino a La Rochefoucault, e non potrei evitare di
ripetere molte cose volgari, notissime, già ampiamente
trattate. Ho pure rinunziato quasi interamente a qualunque ordine
sistematico. Che il lettore se ne consoli, perocchè in
materie siffatte un trattato completo e ordinato rigorosamente
sarebbe riuscito senza dubbio noiosissimo. Ho messo giù
quello che mi è venuto in mente alla bella prima, quello che
mi parve degno d’esser comunicato, e quello che, per quanto me ne
ricordava, non era ancora stato detto, od almeno non era stato detto
così completamente, e sotto questa forma; non faccio dunque
che spigolare nel vasto campo ove altri ha già mietuto.
Tuttavia per mettere un po’ d’ordine nella grande varietà
d’opinioni e di consigli relativi al mio soggetto, li
classificherò in massime generali ed in massime concernenti
la nostra condotta verso noi stessi da prima, poi verso gli altri e
finalmente di faccia all’andamento delle cose ed alla sorte in
questo mondo.
1. Massime generali.
1.° Considero regola suprema d’ogni saggezza nella vita la
proposizione espressa da Aristotele nella Morale a Nicomaco (VII,
12): «ὁ φρονιμος το αλυπον διωκει, ου το ἡδυ,»
ciò che si può tradurre: Il saggio cerca l’assenza del
dolore, non il piacere. La verità di tale sentenza è
basata sul fatto che ogni piacere ed ogni felicità sono
negativi per natura, mentre è positivo il dolore. Ho svolta e
provata questa tesi nella mia opera principale, vol I, § 58.
Voglio nondimeno spiegarla ancora con un fatto d’osservazione
giornaliera. Quando il nostro corpo tutto intero è sano ed
intatto, salvo una piccola parte ferita o dolorosa, la coscienza
cessa dal sentire la salute del tutto; l’attenzione si dirige
interamente sul dolore della parte lesa, ed il piacere, determinato
dal sentimento totale dell’esistenza, sparisce. Similmente quando
tutti i nostri affari vanno a gonfie vele, salvo uno solo che riesce
a male, si è proprio questo, fosse pure di minima importanza,
che ci gira continuamente per il cervello, si è su questo che
si portano sempre i nostri pensieri, e di rado su altre cose di
maggior rilievo che vanno a seconda dei nostri desideri. In ambo i
casi è lesa la volontà, la prima volta come si
oggettiva nell’organismo, la seconda negli sforzi dell’uomo; noi
vediamo nei due casi che il suo soddisfacimento è sempre
negativo, e che per conseguenza non è provato direttamente
dall’individuo intero; tutto al più arriverà alla
coscienza per riflessione. Ciò che v’ha di positivo invece si
è l’impedimento della volontà, il quale si manifesta
pure direttamente. Ogni piacere consiste nel sopprimere tale
impedimento, nel liberarsene, e non può esser quindi che di
breve durata.
Ecco dunque ov’è basata l’eccellente regola d’Aristotele or
ora citata, d’aver cioè da dirigere la nostra attenzione non
sulle gioie e sui divertimenti della vita, ma sui mezzi di sfuggire
per quanto è possibile ai mali innumerevoli di cui è
seminata. Se questa via non fosse la vera, l’aforismo di Voltaire:
«La felicità non è che un sogno e il dolore
è reale» sarebbe così falso come è giusto
in realtà. Però quando si vuole far il bilancio della
propria esistenza dal punto di vista eudemonologico bisogna
stabilire le partite non sui piaceri gustati, ma sui mali a cui si
potè sottrarsi. Inoltre l’eudemonologia, vale a dire un
trattato sulla vita felice, deve cominciare dall’insegnarci che il
suo nome stesso è un eufemismo, e che per «vita
felice» bisogna intender solo una «vita meno
infelice», in poche parole un’esistenza sopportabile. E
infatti havvi la vita non perchè se ne goda, ma perchè
la si subisca, perchè si soddisfi ai doveri che impone;
ciò che indicano molto bene le espressioni: «degere
vitam, vitam defungi» in latino; «si scampa
così» in italiano; «man muss suchen
durchzukommen», «er wird schon durch die Welt
kommen» in tedesco, ed altre simili. Sì! è una
consolazione per la tarda età l’aver dietro di sè una
vita laboriosa. L’uomo più felice è dunque colui che
conduce un’esistenza senza dolori troppo forti sia nel morale, sia
nel fisico, e non colui che ebbe per sua parte le gioie più
vive ed i piaceri più grandi. Voler misurare su questi la
felicità di un’esistenza si è ricorrere ad una scala
falsa. Perocchè i piaceri sono e rimangono negativi: credere
che essi rendano felici è una illusione che l’invidia tien
viva e colla quale punisce sè stessa. I dolori invece sono
sentiti positivamente, ed è la loro assenza che forma la
scala della felicità nella vita. Se ad uno stato libero dal
dolore viene ad aggiungersi ancora l’assenza della noia, allora si
raggiunge sulla terra la felicità in ciò che v’ha di
essenziale, perocchè il resto non è più che una
chimera. Ne segue che non bisogna mai procurarsi piaceri a prezzo di
dolori, anzi nemmeno a prezzo della loro sola minaccia, visto che
sarebbe pagare cose negative e chimeriche con cose positive e reali.
In cambio havvi vantaggio nel sacrificare i piaceri allo scopo di
evitare dolori. Nell’uno e nell’altro caso è indifferente che
i dolori seguano o precedano i piaceri. Non v’ha davvero maggior
follia del voler trasformare questo teatro di miserie in un luogo di
delizie, e dell’ andar cercando gioie e piaceri in luogo di procurar
di sfuggire alla maggior somma possibile di dolori. Quanta gente per
altro non cade in tale follia! L’errore è infinitamente
più piccolo presso colui che, con occhio troppo triste,
considera questo mondo come una specie d’inferno e non si occupa se
non di procurarsi una stanza a prova di fuoco. Il pazzo corre dietro
ai piaceri della vita e non trova che disinganni; il saggio evita i
mali. Se ad onta de’ suoi sforzi non raggiunge lo scopo, la colpa
è del destino, non della sua follia. Ma per poco che vi
riesca non avrà mai delusioni perchè i mali a cui
sarà sfuggito sono sempre reali. Nel caso stesso in cui
avesse fatto per evitarli un giro troppo grande, od avesse
sacrificato inutilmente qualche piacere, egli in realtà nulla
ha perduto perocchè i piaceri sono chimerici, e desolarsi per
la perdita di essi sarebbe una meschinità o piuttosto una
ridicolaggine.
Disconoscendo tale verità in favore dell’ottimismo, la
sorgente di molte calamità è aperta. Infatti, nei
momenti in cui siamo liberi da dolori, inquiete brame fanno brillare
a’ nostri occhi le chimere d’una felicità che non ha
esistenza reale, e c’inducono ad andarne in cerca; con ciò ci
procuriamo il dolore che è incontestabilmente reale. Allora
rimpiangiamo quello stato franco da dolori che abbiamo perduto e che
si trova ormai dietro di noi come un paradiso che abbiamo lasciato
scappare, e vorremmo inutilmente che non fosse accaduto quanto noi
stessi abbiamo fatto succedere. Pare così che un cattivo
demonio sia costantemente occupato a toglierci coi miraggi
ingannatori dei nostri desideri, da quello stato senza dolore, che
è vera e suprema felicità. Il giovane s’immagina che
quel mondo ch’egli non ha ancora veduto esista perchè lo si
goda, che sia la sede d’una felicità positiva la quale sfugge
solo a coloro che non hanno l’abilità di saperla afferrare.
Lo fortificano nella sua credenza i romanzi e le poesie, e
quell’ipocrisia che governa il mondo, sempre e dovunque, colle
apparenze esterne. Ritornerò fra breve su tale argomento.
D’ora innanzi la sua vita sarà una caccia alla
felicità positiva, caccia condotta più o meno
prudentemente; e questa felicità positiva è calcolata,
ad un tal titolo, esser composta di piaceri positivi. In quanto ai
pericoli a cui si rischia di esporsi, ebbene, che fare? bisogna bene
adattarvisi! Questa caccia trascina in cerca di selvaggina che non
esiste in alcun modo, e finisce d’ordinario col condurre ad una
infelicità troppo reale e positiva. Dolori, sofferenze,
malattie, perdite, passioni, affanni, povertà, disonore e
mille altre pene, ecco sotto quali forme si presenta il risultato di
essa. Il disinganno giunge sempre troppo tardi. Se invece si
obbedisce alla regola da noi qui riportata, se si stabilisce il
piano della propria vita in modo da evitare i dolori, vale a dire di
allontanare il bisogno, le malattie ed ogni altro affanno, allora lo
scopo è reale; si potrà così ottener qualche
cosa, e tanto più facilmente perchè il piano
sarà stato meno disturbato dalla ricerca di quella chimera
che è la felicità positiva. Ciò si accorda con
quello che Goethe, nelle affinità elettive, fa dire a Mittler
il quale è sempre occupato della felicità degli altri:
«Chi vuole liberarsi da un male sa sempre cosa vuole: invece
chi cerca quello che non ha è cieco come colui che è
affetto da cateratta». Queste parole ricordano il bell’adagio:
«il meglio è nemico del bene» Da tutto ciò
si può anche dedurre l’idea fondamentale del cinismo, come
l’ho esposta nella mia grande opera, tomo II, capitolo 16°. Cosa
è infatti che portava i cinici a respingere tutti i piaceri,
se non il pensiero dei dolori che tosto o tardi li accompagnano?
Evitare questi sembrava loro molto più importante che non
procurarsi i primi. Profondamente penetrati e convinti della
condizione negativa di ogni piacere e positiva di ogni dolore, essi
dirigevano ogni loro sforzo allo scopo di sfuggire ai mali, e per
ciò giudicavano necessario di respingere interamente ed
intenzionalmente i piaceri che consideravano insidie tese per
mettere l’uomo in balia del dolore.
Certamente noi nasciamo tutti in Arcadia, come dice Schiller, vale a
dire cominciamo la nostra vita pieni di aspirazioni alla
felicità, al piacere, e coltiviamo la folle speranza di
giungervi. Ma, regola generale, arriva ben presto il destino il
quale ci afferra rozzamente e c’insegna che niente è nostro,
che tutto è suo, nel senso che egli ha diritto incontestabile
non solamente su quanto possediamo ed acquistiamo, sopra moglie e
figli, ma anche sopra le nostre braccia e le nostre gambe, sopra i
nostri occhi e le nostre orecchie, e perfino sopra quel naso che
portiamo in mezzo alla faccia. In qualunque caso non passa gran
tempo che l’esperienza verrà a farci comprendere che
felicità e piacere sono una «fata morgana» la
quale, visibile solo da lontano, sparisce quando la si avvicina, ma
che in cambio pena e dolore hanno una realtà, e che si
presentano immediatamente e per sè stessi senza prestarsi ad
illusioni o ad aspettazioni lusinghiere. Se la lezione porta i suoi
frutti, allora cessiamo dal correr dietro alla felicità ed al
piacere, e ci mettiamo piuttosto a chiudere, per quanto è
possibile, ogni accesso al dolore ed agli affanni. Conosciamo
così che ciò che il mondo può offrirci di
migliore si è un’esistenza senza pene, tranquilla,
sopportabile e ad una tal vita limiteremo le nostre esigenze allo
scopo di poterne godere più sicuramente. Perocchè per
non diventare infelicissimi, il mezzo più certo si è
di non domandare d’esser felicissimo. È quanto riconobbe
Merck, l’amico di giovinezza di Goethe, quando scrisse:
«Questa brutta pretesa alla felicità, sopra tutto nella
misura in cui la sogniamo, rovina tutto in questo basso mondo. Chi
può liberarsene non domandando che ciò che ha davanti
a sè, potrà farsi strada nella mischia»
(Corrispondenza di Merck). È dunque cosa prudente abbassare
ad una misura assai modesta le proprie pretese ai piaceri, alle
ricchezze, al grado, agli onori, ecc., perocchè le disgrazie
più grandi sono attirate su di noi precisamente da essi, da
questa lotta per la felicità, per lo splendore e per il
piacere. Ma una tale condotta è già saggia ed accorta
per ciò solo che è molto facile essere estremamente
infelice, e che è invece, non difficile, ma affatto
impossibile essere molto felice. Il cantore della saggezza ha detto
con ragione: «Colui che ama un’aurea mediocrità, sta
lontano, sagace, dal tetto frusto per sordidezza, sta lontano,
prudente, dai palazzi che destano invidia. Più forte è
scosso dai venti il pino gigante: e le alte torri cadono con
più fragore: le folgori poi colpiscono le cime più
elevate» (Orazio, Libro II, ode 10).
Colui il quale essendosi imbevuto degli insegnamenti della mia
filosofia, sa che la nostra esistenza è una cosa che dovrebbe
meglio non essere e che la suprema saggezza consiste nel negarla, e
nel francarsene, costui non fonderà mai grandi speranze sopra
soggetto, nè situazione alcuna, non agognerà con
passione ad una cosa qualunque in questo mondo, e non alzerà
grandi lamenti in seguito a qualche delusione, ma conoscerà
la verità di ciò che disse Platone (Rep. X, 604):
«Nessuna cosa umana è degna di considerazione», e
l’altra verità enunciata dal poeta persiano: «Hai tu
perduto l’imperio del mondo? Non te ne affliggere; chè non
è niente. Hai tu acquistato l’imperio del mondo? Non te ne
rallegrare; chè non e niente. Dolore e felicità, tutto
passa, passa nel mondo (nel tempo) e non è niente»
(Anwari Soheili). (Si veda il motto del Gulistan di Saadi, trad.
ted. di Graf.).
Ciò che aumenta particolarmente la difficoltà di
assimilare idee tanto saggie, si è quell’ipocrisia di cui ho
parlato più sopra, e nessuna cosa sarebbe più utile
che lo svelarla per tempo alla gioventù. La magnificenza
è quasi sempre cosa di pura apparenza, come le decorazioni
dei teatri; le manca l’essenza. Così e i vascelli ornati a
festa, e i colpi di cannone, e le illuminazioni, e le musiche, e i
gridi d’allegrezza, ecc., tutto ciò è l’insegna, la
mostra, il geroglifico della gioia; ma il più delle volte la
gioia non c’è: essa sola ha mancato d’intervenire alla festa.
Laddove è presente in realtà, la gioia arriva e non si
fa invitare, nè annunciare, viene da sè senza
cerimonie, introducendosi in silenzio, spesso per motivi i
più insignificanti e i più futili, nelle occasioni
più comuni, qualche volta anche in circostanze che sono
tutt’altro che brillanti o gloriose. Come l’oro in Australia, essa
si trova sparpagliata qua e là secondo il capriccio del caso,
senza regola e senza legge, più di sovente in fina polvere,
molto di raro in grandi masse. Ma pure, di tutto le manifestazioni
di cui abbiamo or ora parlato, solo scopo si è il far credere
agli altri che nella festa c’è la gioia, e solo intento il
produrre l’illusione nel cervello altrui.
Come della gioia, così della tristezza. Con quale andamento
melanconico s’avanza questo lungo e lento convoglio! La fila delle
vetture è interminabile. Ma guardate un po’ nell’interno:
esse sono tutte vuote, e il defunto non è realmente condotto
al cimitero che dai cocchieri della città. O immagine
parlante dell’amicizia e della considerazione a questo mondo! Ecco
quello che io chiamo falsità, vanità ed ipocrisia
dell’umana condotta. Noi abbiamo anche un esempio nei ricevimenti
solenni con numerosi invitati in abito da festa; questi sono
l’insegna della nobile e dell’alta società: ma in luogo suo
si avrà malessere, affettazione, riservatezza, noia:
perocchè ove son molti convitati v’ha sempre della canaglia,
fossero pure tutti i petti coperti da decorazioni. Infatti la vera
buona società è, da per tutto e necessariamente, assai
ristretta. In generale le feste, le solennità portano sempre
con sè qualche cosa che dà un suono vuoto, o per dir
meglio un suono falso, precisamente perchè contrastano colla
miseria e colla povertà della nostra esistenza e
perchè ogni confronto fa meglio spiccare la verità. Ma
visto dal di fuori tutto ciò produce bell’effetto, e
così è raggiunto lo scopo. Chamfort dice in modo
graziosissimo: «La società, i circoli, i saloni,
ciò che si chiama il mondo, sono una meschina commedia, un
povero melodramma senza interesse che si sostiene un momento per i
meccanismi, i costumi, e le decorazioni.» Le accademie e le
cattedre di filosofia sono egualmente l’insegna, il simulacro
esterno della saggezza; ma il più delle volte essa non
è della festa, e, a cercarla, la si troverebbe in ben altri
luoghi. Lo sbatacchiare delle campane, i vestimenti sacerdotali, il
contegno pietoso, le smorfie da bacchettone, sono la mostra, la
falsa apparenza della devozione, e così di seguito. Ed
è per ciò che a questo mondo tutte le cose possono
esser dette nocciuole vuote; la mandorla è rara per sè
stessa, e più raramente ancora è posta nel suo guscio.
Occorre cercarla in tutt’altra parte, e d’ordinario non la si trova
che per caso.
2.° Quando si volesse valutare la condizione di un uomo dal
punto di vista della sua felicità, bisognerebbe prender
notizie non su ciò che lo diverte, ma su ciò che lo
attrista, perocchè quanto più saranno insignificanti
per sè stesse le cose che lo affliggono, tanto più
l’uomo sarà felice; occorre un certo stato di benessere per
divenir sensibile a bagattelle che nella sventura non si
sentirebbero affatto.
3.° Bisogna guardarsi dallo stabilire il benessere della propria
vita sopra una base larga coll’elevare alte pretese alla
felicità: posto sopra un tale fondamento esso crolla
più facilmente, perocchè in allora fa nascere senza
fallo molte sventure. L’edificio della felicità si comporta
dunque sotto tale rapporto alla rovescia degli altri che sono tanto
più solidi quanto più la loro base è grande.
Tenere le pretese il più basso possibile in proporzione colle
proprie risorse d’ogni specie, ecco la via più sicura per
evitare grandi guai.
In generale è una follia delle più grandi e delle
più diffuse il prendere, in qualunque maniera si sia, vaste
disposizioni per la propria esistenza. Perocchè prima di
tutto, per farlo, si conta sopra una durata della vita piena ed
intera, a cui invece arrivano molto pochi. Inoltre quand’anche si
vivesse tanto a lungo, l’esistenza sarebbe sempre troppo corta in
relazione ai piani prestabiliti; la loro esecuzione reclama sempre
più tempo che non si avesse supposto; essi sono talmente
soggetti, come tutte le cose umane, alle vicende della sorte e ad
ostacoli d’ogni natura, che si può ben di rado condurli a
compimento. Finalmente anche allora che si è riusciti a
conseguire tutto quello che si desiderava, si scorge che si è
trascurato di tener conto delle modificazioni che il tempo produce
in noi stessi; non si è riflettuto che, nè per creare
nè per godere, le nostre facoltà non restano
invariabili nell’intera vita. Ne risulta che lavoriamo sovente per
acquistare cose che, una volta ottenute, non si trovano più
adatte alla nostra taglia; succede pure che nei lavori preparatori
di un’opera impieghiamo anni che nel frattempo ci tolgono le forze
necessarie per arrivare a buon fine. Medesimamente le ricchezze
acquistate a prezzo di lunghe fatiche e di numerosi pericoli non
possono più esserci utili, e troviamo di aver lavorato per
gli altri; ed avviene ancora che non siamo più in caso di
occupare un posto ottenuto finalmente dopo avervi aspirato ed ambito
per lunghi anni. Le cose sono giunte troppo tardi per noi, o,
viceversa, siamo noi giunti troppo tardi per esse, sopratutto
allorchè si tratta di opere o di produzioni; il gusto
dell’epoca ha cangiato; si è maturata una nuova generazione
che non prende alcun interesse a queste materie; oppure altri ci ha
preceduto per strade più corte, e così di seguito.
Quanto abbiamo esposto in questo terzo paragrafo era già
stato compendiato da Orazio nei versi:
Quid aeternis minorem
Consiliis animum fatigas?
(L. II, O. 11, v. 11 e 12).
(Perchè stanchi una mente debole con eterni progetti?)
Tale errore così comune è determinato dall’inevitabile
illusione ottica degli occhi dello spirito, illusione che ci fa
apparire la vita come senza fine, o come troppo corta secondo che la
vediamo dall’ingresso o dal termine della nostra carriera. Essa
però ha il suo buon lato: senza di lei produrremmo
difficilmente qualche cosa di grande.
Ma in generale ci succede nella vita ciò che succede al
viaggiatore: a misura che egli avanza, gli oggetti prendono forme
differenti da quelle che mostravano da lungi e si modificano per
così dire di mano in mano che va loro vicino. Così
avviene dei nostri desideri. Troviamo spesso ben altra cosa, qualche
volta anche meglio che non cerchiamo; di sovente pure incontriamo
quanto desideriamo per tutt’altra via di quella inutilmente percorsa
fino allora. Certe volte laddove crediamo trovare un piacere, una
gioia, una soddisfazione, in loro luogo ci si presenta un
ammaestramento, una spiegazione, una cognizione, vale a dire un bene
duraturo e reale che si offre a noi invece di un bene passaggero e
fallace. Si è un tale pensiero che corre, come base
fondamentale, a traverso tutto il Wilhelm Meister, romanzo
intellettuale, superiore precisamente per ciò a tutti gli
altri, anche a quelli di Walter Scott, che sono tutti solamente
opere morali, ossia che non osservano la natura umana che dal lato
della volontà! Nel Flauto magico, geroglifico grottesco, ma
espressivo e molto significante, ci si presenta egualmente questo
stesso pensiero fondamentale simbolizzato a grandi e larghi tratti
come quelli delle decorazioni teatrali; il simbolo sarebbe anzi
perfetto se nello scioglimento Tamino, invece d’essere spronato dal
desío di posseder Tamina, non domandasse e non ottenesse che
l’iniziazione nel tempio della Saggezza; in cambio Papageno,
l’opposto necessario di Tamino, otterrebbe la sua Papagena. Gli
uomini superiori e veramente nobili assimilano subito questo
ammaestramento del destino e vi si adattano con sommessione e con
riconoscenza: comprendono che a questo mondo si può bene
trovare istruzione, ma non felicità; si abituano a cambiare
le speranze colle cognizioni; ne vanno contenti e dicono alla fin
fine col Petrarca
Altro diletto che ’mparar non provo.
Possono anche arrivare al punto di non dar seguito ai loro desideri
ed alle loro aspirazioni che in apparenza per così dire, e
per ischerzo, mentre in realtà e nella serietà del
loro interno non attendono che all’istruzione; ciò che li
adorna di una tinta pensosa, geniale e nobile. In questo senso si
può dire che succede di noi come degli alchimisti, i quali
mentre non cercavano che oro, hanno trovato la polvere da fuoco, la
porcellana, le medicine e perfino molte leggi naturali.
2. Circa la nostra condotta verso noi stessi.
4.° Il manovale che aiuta a fabbricare un edifizio, non ne
conosce il progetto, o non l’ha sempre sotto gli occhi; tale
è pure la posizione dell’uomo mentre è occupato a
dividere uno per uno i giorni e le ore della sua esistenza in
rapporto all’insieme della sua vita ed al carattere fondamentale di
essa. Quanto più questo carattere sarà nobile,
considerevole, espressivo e individuale, tanto più
sarà necessario e benefico per l’individuo il gettare di
tempo in tempo uno sguardo sul piano prestabilito della propria
vita. È vero che per ciò ei deve aver fatto già
un primo passo col «conosci te stesso»: deve dunque
sapere ciò che vuole realmente, principalmente e prima d’ogni
altra cosa; deve conoscere quello che è essenziale alla sua
felicità, e quello che viene solo in seconda o terza linea;
deve rendersi conto sommariamente della sua vocazione, della parte
che ha da rappresentare nel mondo, e de’ suoi rapporti colla gente.
Se tutto ciò sarà importante ed elevato, allora
l’aspetto del piano prestabilito della sua vita gli darà
forza, lo sosterrà, lo innalzerà più che
qualunque altra cosa; questo esame lo incoraggierà al lavoro
e lo terrà lontano da quei sentieri che potrebbero fargli
smarrire la dritta via.
Solamente quando arriva sopra un’altura il viaggiatore abbraccia a
colpo d’occhio e riconosce l’insieme del cammino percorso, colle sue
svolte e co’ suoi giri; così pure non è che al termine
d’un periodo della nostra esistenza, e qualche volta sul finir della
vita, che conosciamo il vero nesso delle nostre azioni, dei nostri
lavori, e delle nostre produzioni, il loro preciso legame, il loro
concatenamento e il loro valore. Infatti fino a che siamo immersi
nella nostra attività noi operiamo solo secondo le
proprietà inconcusse del nostro carattere, sotto l’influenza
dei motivi e nella misura delle nostre facoltà, vale a dire
per assoluta necessità; noi non facciamo in un dato momento
che quello che in quel momento ci sembra giusto e conveniente.
Solamente in seguito ci sarà permesso d’apprezzare il
risultato, e lo sguardo gettato sulle cose passate ci darà
contezza del come e del perchè. Per questo quando compiamo le
più grandi azioni, o quando diamo al mondo opere immortali,
non abbiamo coscienza della loro vera natura: esse non ci sembrano
che quello che v’ha di più appropriato al nostro scopo
d’allora, e di meglio corrispondente alle nostre intenzioni; non
riceviamo altra impressione se non quella d’aver fatto precisamente
ciò che bisognava fare in quel momento; non è che
più tardi che il nostro carattere e le nostre facoltà
spiccano in piena luce da quell’insieme e dal suo concatenamento;
per mezzo dei dettagli vediamo allora come abbiamo preso la sola
vera fra tante strade false quasi per ispirazione e guidati dal
nostro genio. Tutto quanto abbiamo detto or ora è vero e in
teoria e in pratica, e si applica egualmente ai fatti inversi, vale
a dire al male ed alla falsità.
5.° Un punto di molta importanza per la saggezza nella vita si
è la proporzione con cui dobbiamo dividere la nostra
attenzione tra il presente e l’avvenire affinchè l’uno non
porti nocumento all’altro. V’hanno molte persone che vivono troppo
nel presente: le frivole; altre troppo nell’avvenire: le timorose e
le inquiete. Di rado si conserva la giusta misura. Quegli uomini
che, mossi dai loro desideri o dalle loro speranze, vivono
unicamente nell’avvenire, gli occhi sempre diretti in avanti, che
corrono con impazienza incontro al futuro, perocchè, pensano,
questo è per portar loro fra breve la vera felicità,
mentre intanto lasciano passare il presente, che non curano, senza
goderlo: costoro somigliano a quegli asini a cui in Italia si fa
sollecitare il passo per mezzo d’un fascetto di fieno attaccato ad
un bastone davanti la testa: essi vedono il fieno davanti e sempre
vicino ed hanno ognora la speranza d’arrivarvi. Tali persone infatti
s’ingannano da sè stesse per tutta la loro esistenza non
vivendo perpetuamente che ad interim fino alla morte. Perciò
invece di occuparci incessantemente ed esclusivamente di piani e di
progetti per l’avvenire, o, viceversa, abbandonarci a rimpiangere il
passato, dovremmo non dimenticar mai che il presente solo è
reale e certo, e che l’avvenire, al contrario, si presenta quasi
sempre ben diverso da quello che pensavamo, come pure fu del
passato; ciò che in conclusione fa che avvenire e passato
hanno molto minor importanza che non sembri. Perocchè la
lontananza che impiccolisce gli oggetti per l’occhio, li ingrandisce
per il pensiero. Il presente solo è vero ed effettivo; esso
è il tempo realmente impiegato, e su di esso esclusivamente
è fondata la nostra esistenza. Perciò deve meritar
sempre agli occhi nostri benevole accoglienza; noi dovremmo gustare,
con la piena coscienza del suo valore, ogni ora sopportabile e
libera da affanni e da dolori attuali, vale a dire non turbarla col
viso rattristato dalle speranze cadute per lo passato o dalle
apprensioni per l’avvenire. Si può dare stoltezza più
grande del respingere una buona ora presente o di guastarla
malamente coll’inquietudine dell’avvenire o coi dispiaceri del
passato? Diamo il tempo dovuto alle cure, se non al pentimento; ma
poi, in quanto ai fatti compiuti, bisogna dirsi:
«Abbandoniamo, benchè a malincuore, tutto ciò
che è passato all’obblio; è necessario soffocar l’ira
nel nostro seno.» E in quanto all’avvenire: «Tutto
ciò sta sulle ginocchia degli dei». In cambio circa il
presente è bene pensare come Seneca: Singulas dies, singulas
vitas puta (Considera ciascun giorno come una vita separata), e
rendersi questo solo tempo reale tanto gradevole quanto meglio
è possibile.
I soli mali futuri che devono con ragione preoccuparci sono quelli
il cui arrivo ed il cui momento di arrivo sono certi. Ma v’ha ben
poca gente che si trovi in questo caso, perocchè i mali sono
o semplicemente possibili o tutt’al più verosimili, oppure
sono certi, ma è incerto il tempo del loro arrivo. Ad
allarmarsi per queste due specie di mali non si avrebbe un solo
istante di riposo. In conseguenza, allo scopo di non perdere la
tranquillità della nostra vita per mali la cui esistenza o la
cui epoca sono ignote, conviene abituarci a riguardare gli uni come
se non dovessero mai arrivare, e gli altri come se non dovessero di
certo arrivare in un tempo vicino.
Ma quanto più la paura ci lascia in riposo, tanto più
siamo agitati da desideri, da voglie sfrenate e da strane pretese.
La canzone, così nota, di Goethe: «Io ho collocato le
mie brame nel nulla» significa, in fondo, che solo quando si
sarà liberato da tutte le sue pretese e si sarà
ridotto all’esistenza tale quale è realmente nuda e spoglia,
l’uomo potrà acquistare quella calma di spirito che è
la base dell’umana felicità, perocchè tale calma
è indispensabile per godere del presente della vita, e
dell’avvenire. A tal uopo dovremmo pure ricordarci che il giorno
d’oggi non viene che una sola volta, e più mai. Ma invece noi
c’immaginiamo che ritornerà domani: però domani
è un altro giorno che anch’esso non viene che una volta.
Dimentichiamo che ciascun giorno è una porzione integrante,
dunque irreparabile, della vita, e lo consideriamo come contenuto
nella vita, nello stesso modo che gl’individui sono contenuti nella
nozione dell’insieme. Di più apprezzeremmo e gusteremmo molto
meglio il presente se nei giorni di benessere e di salute
conoscessimo a qual punto, durante la malattia o l’afflizione, il
ricordo ci presenta come infinitamente invidiabile ogni ora libera
da dolori o da privazioni; che questa ci appare quale un paradiso
perduto, od un amico disconosciuto. Ma al contrario noi viviamo i
nostri bei giorni senza prestar loro alcuna attenzione, e solamente
quando arrivano i cattivi vorremmo richiamare gli altri. Lasciamo
passare da canto, senza goderne e senza accordar loro un sorriso,
mille ore serene e piacevoli, e più tardi nel tempo triste,
portiamo verso di esse le nostre vane aspirazioni. In luogo di
condurci così, dovremmo rendere omaggio a quelle
attualità sopportabili, fossero pure le più comuni,
che lasciamo fuggire con tanta indifferenza, che fors’anche
respingiamo con impazienza; dovremmo ricordarci sempre che questo
presente precipita ad ogni momento in quell’apoteosi del passato in
cui ormai, risplendente della luce delle cose non periture, è
conservato dalla memoria, per ripresentarsi agli occhi nostri come
l’oggetto della nostra più ardente aspirazione allorquando,
sopratutto nelle ore d’affanno, il ricordo viene ad alzare il velo
dinanzi le cose che furono.
6.° Il limitarsi rende felici. Quanto più il nostro
cerchio di visione, di azione e di contatto è ristretto,
tanto più siamo felici; e più esso è vasto,
più ci troviamo tormentati ed inquieti. Perocchè
insieme ad esso aumentano e si moltiplicano le pene, i desideri e le
apprensioni. Ed è per tale motivo che i ciechi non sono tanto
infelici come potremmo crederlo a priori; è facile
convincersene all’aspetto della calma dolce, quasi allegra, delle
loro sembianze. Questa regola ci spiega anche in parte perchè
la seconda metà della nostra vita sia più triste della
prima. Infatti nel corso dell’esistenza, l’orizzonte delle nostre
vedute e delle nostre relazioni va allargandosi. Nell’infanzia esso
è limitato ai dintorni più prossimi ed alle relazioni
più strette; nell’adolescenza si estende in modo
considerevole; nell’età virile abbraccia tutto il corso della
nostra vita ed arriva anche a relazioni lontanissime, perfino con
Stati e con popoli diversi; nella vecchiezza comprende le
generazioni future. Ogni limitazione invece, anche nelle cose dello
spirito, giova alla nostra felicità. Perocchè quanto
meno sarà eccitata la volontà, tanto meno vi saranno
dolori, e noi sappiamo che il dolore è positivo e la
felicità semplicemente negativa. Il limitare il cerchio
d’azione toglie alla volontà le occasioni esterne
d’eccitamento; il limitare lo spirito, le occasioni interne.
Quest’ultimo ha solo l’inconveniente di aprir l’accesso alla noia
che diviene sorgente indiretta d’innumerevoli patimenti
perchè si ricorre a qualunque mezzo per scacciarla; si mette
a prova infatti e riunioni, e divertimenti, e il giuoco, e il lusso,
e la crapula, e mille altre cose; da ciò danni, rovine e
disgrazie d’ogni specie. Difficilis in otio quies (è
difficile la pace nell’ozio). In cambio, per dimostrare quanto il
limitarsi esternamente giovi alla felicità umana, per quello,
bene inteso, che può giovare una cosa qualunque, non abbiamo
che da ricordarci come il solo genere di poesia che intende a
dipingere le genti felici, l’idillio, le rappresenti sempre poste
essenzialmente in una condizione ed in un ambiente dei più
ristretti. Questo stesso sentimento produce pure il piacere che
troviamo in ciò che si chiama quadri di genere. Per
conseguenza avremo felicità nella maggior possibile
semplicità delle nostre relazioni ed anche nella
uniformità del genere di vita fino a che una tale
uniformità non ci dia in braccio alla noia: a questa
condizione sopporteremo più facilmente la vita ed il suo peso
inseparabile; l’esistenza scorrerà, come un ruscello, senza
tempeste e senza vortici.
7.° Quello che importa, in ultima analisi, per la nostra
felicità o per la nostra infelicità si è
ciò che riempie ed occupa la coscienza. Ogni lavoro puramente
intellettuale apporterà in totalità alla mente capace
di dedicarvisi risorse maggiori che non le apporterebbe la vita
reale colle sue alternative costanti di buono e cattivo esito, colle
sue scosse e co’ suoi tormenti. È vero d’altronde che
ciò esige disposizioni di spirito non comuni. Conviene
inoltre osservare che da una parte l’attività esterna della
vita ci distrae e ci allontana dallo studio, e toglie allo spirito
la tranquillità ed il raccoglimento all’uopo necessari, e che
d’altra parte l’occupazione continua dello spirito ci rende
più o meno incapaci di star in mezzo all’andamento ed al
tumulto della vita reale; è dunque saggia cosa sospendere una
tale occupazione quando una circostanza qualunque necessita
un’attività pratica ed energica.
8.° Per vivere con prudenza perfetta e per trarre dalla propria
esperienza tutti gl’insegnamenti ch’essa contiene, è
necessario portarsi spesso indietro col pensiero e ricapitolare
ciò che nella vita si è veduto, fatto, appreso e
sentito nello stesso tempo; bisogna pure confrontare il proprio
giudizio d’altre volte colle idee, progetti ed aspirazioni attuali,
col loro risultato, e colla soddisfazione dataci da tale risultato.
L’esperienza ci serve così da maestro speciale che viene a
darci lezione privatamente. La si può anche considerare come
il testo, costituendone il commento le cognizioni e il raziocinio.
Molto raziocinio e copiose cognizioni somiglierebbero a quei libri
le cui pagine presentano due linee di testo e quaranta di chiose.
Molta esperienza accompagnata da poco raziocinio e da scarso sapere
ricorda quelle edizioni di Deux-Ponts che non hanno annotazioni e
che lasciano così molti passi del testo inintelligibili.
Si è a tali precetti che si riferisce la massima di Pitagora,
di passare in rivista cioè, la sera, prima di addormentarsi,
quanto si ha fatto nella giornata. L’uomo che se ne va nel tumulto
degli affari e dei piaceri senza mai rinvangare il suo passato, e
che si contenta di aggomitolare la matassa della vita, perde ogni
ragione chiara delle cose; il suo spirito diventa un caos, e ne’
suoi pensieri s’infiltra una certa confusione di cui fa
testimonianza il suo modo di conversare sconnesso, a scatti, a
frammenti, e, per così dire, sottilmente sminuzzato. Tale
stato sarà messo tanto più in rilievo quanto
più sarà grande l’agitazione esterna, la somma delle
impressioni, e quanto più sarà piccola
l’attività interna dello spirito.
Qui osserviamo pure come dopo un certo periodo di tempo da che le
relazioni e le circostanze che agirono su noi sono sparite, non
possiamo più far ritornare e rivivere la disposizione e la
sensazione prodotte già in noi; ma ciò che possiamo
benissimo ricordarci si è le nostre manifestazioni in
quell’occasione. Ora queste sono il risultato, l’espressione e la
misura delle sensazioni e dello stato che esse produssero in noi. La
memoria quindi, o la carta dovrebbero conservare con ogni cura le
traccie delle epoche importanti della nostra vita. Perciò
tener un giornale sarà cosa molto utile.
9.° Bastare a sè stesso, esser per sè stesso tutto
in tutto, e poter dire: «Omnia mea mecum porto» (porto
con me tutte le cose mie), ecco certamente la condizione più
favorevole per la nostra felicità; perciò non si
saprà mai ripeter abbastanza la massima di Aristotele:
«La felicità è per coloro che bastano a se
stessi» (Mor. ad Eud. 7, 2). (In fondo è lo stesso
pensiero, presentato in modo graziosissimo, che esprime la sentenza
di Chamfort messa per epigrafe a questo trattato: «La
felicità non è cosa facile a conquistare: è
difficile trovarla in noi, affatto impossibile poi trovarla
altrove»). Perocchè da una parte non si può
contare con sicurezza che sopra sè stessi; e d’altra parte le
fatiche e gl’inconvenienti, i pericoli e gli affanni che la
società porta seco, sono innumerevoli ed inevitabili.
Non v’ha strada che più ci allontani dalla felicità
della vita alla grande, della vita dei conviti e dei festini, di
quella vita che gl’inglesi chiamano high life, perocchè
cercando di trasformare la nostra miserabile esistenza in una
successione continua di gioie, di piaceri e di divertimenti, non si
può mancare d’incontrar il disinganno, senza tener conto
delle menzogne reciproche di cui si fa scambio in quel mondo e che
ne sono l’accompagnamento obbligato.
Ed anzitutto qualunque società esige necessariamente un
adattamento reciproco, un temperamento: quindi quanto più
sarà numerosa, tanto più diverrà scipita. Non
si può esser veramente sè stesso, se non quando si
è solo; dunque chi non ama la solitudine non ama la
libertà, perchè non si è liberi che essendo
soli. Ogni società ha per compagna inseparabile la
riservatezza e reclama sacrifizî che costano tanto più
cari quanto più la propria individualità è
spiccata. Per conseguenza ognuno fuggirà, sopporterà o
cercherà la solitudine in proporzione esatta del valore del
suo io. Perocchè è proprio qui che il povero sente
tutta la sua povertà, ed una gran mente tutta la sua
grandezza; in breve, ciascuno vi si pesa al suo giusto valore.
Inoltre un uomo è tanto più essenzialmente e
necessariamente isolato quanto più alto è il posto che
occupa nel libro genealogico della natura. Allora per un tal uomo si
è una vera gioia che l’isolamento fisico sia in rapporto col
suo isolamento intellettuale: se ciò non può essere il
frequente avvicinarglisi di persone eterogenee turba, gli diviene
fors’anche funesto, perocchè gli toglie il suo io, e non ha
niente da offrirgli in compenso. Di più mentre la natura ha
messo la più grande dissomiglianza, nel morale come
nell’intelletto, fra gli uomini, la società non ne tiene
alcun conto, li fa tutti eguali, o piuttosto alla diversità
naturale sostituisce distinzioni e gradi artificiali di condizione e
di rango, che stanno sempre diametralmente in opposizione con
quell’ordine scalare stabilito dalla natura. Coloro che la natura ha
posto in basso, si trovano molto bene vantaggiati da un tale
accomodamento sociale, ma il piccolo numero degli individui che
stanno in alto non ci ha il suo tornaconto; perciò costoro si
tolgono ordinariamente dalla società: d’onde risulta che non
appena questa diventa numerosa vi predomina la volgarità.
Ciò che agli animi grandi fa venir a noia la società
si è l’uguaglianza dei diritti e delle pretese che ne deriva,
di fronte alla disparità delle facoltà e delle
produzioni (sociali) degli altri. La così detta buona
società apprezza i meriti di qualsivoglia specie, salvo i
meriti intellettuali; questi anzi non vi entrano che di
contrabbando. Essa impone l’obbligo di dimostrare una pazienza senza
limiti per ogni sciocchezza, per ogni follia, per ogni
assurdità, per ogni stupidezza; i meriti personali invece
devono mendicare il loro perdono o nascondersi, perchè la
superiorità intellettuale, senza concorso della
volontà, offende colla sua sola esistenza. Inoltre, questa
pretesa buona società non ha solo l’inconveniente di metterci
in contatto con gente che non possiamo approvare nè amare, ma
di più non ci permette d’esser noi stessi, d’esser quali
conviene alla nostra natura; essa ci obbliga piuttosto, allo scopo
di metterci allo stesso diapason degli altri, a raggrinzarci per
così dire, se non a difformarci addirittura. Discorsi
sanamente spiritosi o motti arguti non convengono che ad una
società di persone d’ingegno; nella società ordinaria
essi sono cordialmente detestati, perocchè per piacere alle
persone che la compongono bisogna essere assolutamente triviali e
dappoco. In tali riunioni si deve, con penosa annegazione di
sè stessi, abbandonare tre quarti della propria
personalità per assomigliarsi agli altri. È vero che
in cambio si guadagna tutti costoro, ma quanto più si ha di
valore in sè tanto più si scorgerà che il
guadagno non copre la perdita e che il contratto finisce a nostro
danno, perocchè le persone generalmente sono insolvibili,
vale a dire non hanno cosa alcuna nel loro magazzino che possa
indennizzarci delle noie, delle fatiche e dei fastidi che esse
procurano, e del sacrificio di sè che impongono; d’onde
risulta che quasi tutta la società è di tale
qualità che chi la baratta colla solitudine fa un affare
eccellente. A ciò si aggiunge che la società, allo
scopo di supplire alla superiorità vera, vale a dire
all’intellettuale, che essa non vuol sopportare e che è rara,
ha adottato senza motivo una superiorità falsa,
convenzionale, fondata su leggi arbitrarie, una superiorità
che si propaga per tradizione fra le classi alte, e che nello stesso
tempo si cambia come una parola d’ordine: vogliam dire il bon ton
«fashionableness». Tuttavia quando succede che siffatta
specie di superiorità entra in collisione colla
superiorità genuina, la meschinità di essa non tarda a
mostrarsi. Inoltre «quand le bon ton arrive, le bon sens se
ritire».
In tesi generale non si può essere in perfetto unisono che
con sè stessi; non si può esserlo coll’amico, non si
può esserlo con la donna amata, perchè le differenze
dell’individualità e dell’umore producono sempre una
dissonanza, sia pur piccolissima. Così la pace del cuore vera
e profonda, e la perfetta tranquillità dello spirito, beni
supremi sulla terra dopo la salute, non si trovano che nella
solitudine, e non saranno permanenti se non nell’isolamento
assoluto. Allora, quando l’io è grande e ricco, si gusta la
condizione più felice che sia possibile trovare in questo
povero mondo. Sì! diciamolo apertamente: per quanto
strettamente l’amicizia, l’amore e il matrimonio uniscano gli umani,
non si vuol bene, interamente e di buona fede, che a sè
stessi, o tutt’al più al proprio figlio. Meno si avrà
bisogno, in seguito a condizioni oggettive e soggettive, di mettersi
a contatto cogli uomini, meglio ci troveremo. La solitudine,
l’isolamento permettono d’abbracciare d’un solo sguardo tutti i
propri mali, od anche di non provarli in un colpo solo; la
società invece è insidiosa; essa nasconde mali
immensi, di sovente irreparabili, dietro un’apparenza di passatempi,
di conversazioni, di divertimenti di società, e d’altre
simili cose. Sarebbe per gli uomini uno studio importante l’imparar
di buon’ora a sopportare la solitudine, questa sorgente di
felicità e di quiete intellettuale.
Da quanto abbiamo esposto deriva che ha una parte molto migliore
colui che non conta che su sè stesso e che può in
tutto esser tutto a sè stesso. Cicerone ha detto «Colui
che basta a se stesso e che mette in sè solo tutte le cose
sue non può non esser felicissimo» (Paradox. II).
Inoltre più un uomo ha in sè, meno gli altri possono
essergli qualche cosa. Si è un tal sentimento, di poter esser
sufficiente a sè stesso, che impedisce all’uomo di vaglia e
ricco all’interno, di fare alla vita comune quei grandi
sacrifizî che essa esige, e molto meno ancora di ricercarla a
prezzo d’una notevole annegazione di sè stesso. Si è
il sentimento opposto che rende gli uomini ordinari così
socievoli e così trattabili: infatti è loro più
facile sopportar gli altri che sè stessi. Notiamo pure che
ciò che ha un valore reale non è apprezzato nel mondo,
e che ciò che è apprezzato non ha valore. Ne troviamo
la prova e la conseguenza nella vita ritirata d’ogni persona di
merito e di distinzione. Ne segue che sarà per l’uomo
eminente far atto positivo di saggezza il limitare, se occorre, i
bisogni, non fosse altro per poter conservare ed estendere la
propria libertà, e il contentarsi del meno possibile per la
propria persona quando il contatto cogli altri individui fosse
inevitabile.
Ciò che d’altra parte rende gli uomini sociabili si è
che essi sono incapaci di sopportare la solitudine e di sopportare
sè stessi quando sono soli. Ed è dal loro vuoto
interno e dalla stanchezza di sè stessi che sono spinti a
cercare la società, a correre paesi stranieri e ad
intraprendere viaggi continuamente. Il loro spirito, mancando della
forza necessaria per comunicarsi un movimento proprio, cerca di
accrescersela col vino, e molti così finiscono col divenire
ubbriaconi. A questo scopo essi hanno pure bisogno dell’eccitamento
continuo che viene dal di fuori e specialmente di quello prodotto da
individui della loro specie, che è il più energico fra
tutti. In mancanza di tale irritazione esterna il loro spirito si
accascia sotto il proprio peso e cade in grave letargia. Si potrebbe
dire egualmente che ciascuno di essi non è che una piccola
frazione dell’idea dell’umanità, e che ha quindi bisogno di
essere addizionato con molti de’ suoi simili per costituire in certo
modo una coscienza umana intera; invece l’uomo completo, l’uomo per
eccellenza, non è una frazione, ma rappresenta una
unità intera e di conseguenza basta a sè stesso. Si
può, in questo senso, paragonare la società ordinaria
a quell’orchestra russa composta esclusivamente di corni, nella
quale ogni stromento non dà che una nota; non è che
colla loro coincidenza precisa che si produce l’armonia musicale.
Infatti lo spirito della maggior parte delle persone è
monotono come quel corno che non produce che un suono solo: costoro
sembrano in realtà non aver mai che un solo e medesimo
soggetto nella mente, ed essere incapaci di contenerne un altro.
Ciò spiega dunque in una volta come succeda che essi siano
tanto nojosi e tanto sociabili, e perchè vadino ben
volentieri in gregge: «The gregariousness of mankind».
La monotonia della loro propria natura è insopportabile a
ciascuno di essi: «Omnis stultitia laborat fastidio
sui». (Qualunque stupidezza opprime colla nausea di sè
stessa). Non è che uniti e colla loro riunione che essi sono
qualche cosa precisamente come i sonatori di corno russo. L’uomo
intelligente invece può esser paragonato ad un virtuoso che
eseguisce da sè solo il suo concerto, oppure anche ad un
pianoforte. Simile a questo, che è da per sè una
piccola orchestra, egli è un piccolo mondo, e ciò che
gli altri non sono che nell’azione dell’insieme, ei lo presenta
nell’unità d’una sola coscienza. Come il pianoforte, ei non
è una parte della sinfonia, ma è fatto per l’a solo e
per la solitudine; quando deve prender parte al concerto cogli altri
ciò non può essere che come voce principale con
accompagnamento, ancora come il pianoforte, o per dare il tono nella
musica vocale, sempre come il pianoforte. Chi ama andar di tempo in
tempo nel mondo potrà cavare dalla comparazione precedente la
regola che ciò che manca in qualità alle persone con
cui si è in relazione deve esser supplito fino ad un certo
punto dalla quantità. La società di un solo uomo
intelligente potrà bastargli, ma se non trova che mercanzia
di qualità ordinaria sarà buona cosa averne in
abbondanza, perchè la varietà e l’azione combinate
producano qualche effetto, in analogia coll’orchestra dei corni
russi, già ricordata: e che il cielo gli accordi la pazienza
di cui avrà bisogno!
Egli è ancora a questo vuoto interno ed a questa
nullità della gente che si deve attribuire il fatto che
quando gli uomini di miglior stoffa si uniscono in vista di qualche
scopo nobile ed ideale, il risultato sarà quasi sempre il
seguente: si troverà qualche membro di quella plebe
dell’umanità che, simile agl’insetti schifosi, pullula ed
invade ogni cosa in ogni luogo, sempre pronta ad impadronirsi di
tutto indistintamente per alleviare la propria noja, o qualche volta
la propria miseria, — si troverà, dico, qualcuno che
s’insinuerà nell’assemblea, o vi entrerà a forza di
molestie, ed allora o distruggerà ben presto tutta l’opera,
oppure la modificherà al punto che l’esito ne verrà
presso a poco all’estremo opposto dello scopo prefisso.
Si può ancora considerare la sociabilità presso gli
uomini come un mezzo per scaldarsi reciprocamente lo spirito,
analogo al modo con cui si riscaldano scambievolmente il corpo
quando, nei grandi freddi, si ammucchiano e si serrano gli uni
contro gli altri. Ma chi possede in sè molto calorico
intellettuale non ha bisogno di tali accumulamenti. Si
troverà nel 2° vol. di questa raccolta, nel capitolo
finale, un apologo immaginato da me su questo soggetto. Conseguenza
di tutto ciò si è che la sociabilità di
ciascuno è in ragione inversa del valore intellettuale; dire
di qualcuno: «Egli è «molto insociabile»
significa press’a poco: «Costui è un uomo dotato di
facoltà eminenti».
La solitudine offre all’uomo altolocato intellettualmente due
vantaggi: il primo d’esser con sè, il secondo di non esser
con gli altri. Si apprezzerà grandemente quest’ultimo
riflettendo a tutto ciò che il commercio col mondo porta seco
in fatto di riservatezza forzata, di tormenti, ed anche di pericoli.
«Ogni nostro male deriva dal non poter esser soli» ha
detto La Bruyère. La sociabilità appartiene ai
caratteri pericolosi e perniciosi, perocchè ci mette in
contatto con individui i quali in grande maggioranza sono moralmente
cattivi ed intellettualmente limitati o pervertiti. L’uomo
insociabile è colui che non ha bisogno di siffatta gente.
Aver abbastanza in sè per poter fare a meno della
società è già una grande felicità, per
ciò stesso che quasi tutti i nostri mali derivano dal mondo,
e perchè la tranquillità dello spirito, che dopo la
salute forma l’elemento più essenziale del nostro benessere,
vi è messa in pericolo e non può esistere senza lunghi
periodi di solitudine. I filosofi cinici rinunziarono ai beni d’ogni
specie per godere la felicità che procura la quiete
intellettuale: rinunziare alla società allo scopo, di
arrivare allo stesso risultato, si è scegliere il mezzo
più saggio. Bernardin de Saint-Pierre dice con ragione ed in
modo graziosissimo: «La dieta degli alimenti ci dà la
salute del corpo, e quella degli uomini la tranquillità
dell’anima». Perciò colui che si è assuefatto di
buon’ora alla solitudine, e che vi ha preso gusto, possiede una
miniera d’oro. Ma questo non è dato a tutti. Perocchè
nella stessa guisa che la miseria, da prima, avvicina gli uomini,
così, più tardi allontanato il bisogno, vi è la
noja che li raccoglie. Senza questi due motivi, ciascheduno
resterebbe probabilmente in disparte, non foss’altro perchè
solo nell’isolamento l’ambiente che ci circonda corrisponde a
quell’importanza esclusiva che ognuno possede a’ suoi occhi, ma che
l’andazzo tumultuoso del mondo riduce a niente, visto che ad ogni
passo riceve una dolorosa smentita. In questo senso la solitudine
è anzi lo stato naturale a ciascuno; essa lo rimette, novello
Adamo, nella condizione primitiva di felicità, nella
condizione appropriata alla sua natura.
Sì! ma Adamo non aveva padre nè madre! Ed è per
questo, d’altra parte, che la solitudine non è naturale
all’uomo, poichè al suo arrivo nel mondo ei non si trova
solo, ma in mezzo a parenti, a fratelli, a sorelle, con altre parole
in seno d’una vita in comune.
Per conseguenza l’amore della solitudine non può esistere
come inclinazione primitiva; esso deve nascere come risultato
dell’esperienza e della riflessione, e prodursi sempre in rapporto
collo sviluppo della forza intellettuale ed in proporzione col
progredire degli anni: ne segue che alla fin fine l’istinto sociale
d’ogni individuo sarà in rapporto inverso dell’età
sua. Il bambino strilla dalla paura e si lamenta non appena è
lasciato solo, fosse pure per qualche momento. Per i fanciulli il
dover starsene soli è un severo castigo. I giovani si
uniscono volentieri fra loro; non v’hanno che quelli dotati d’una
natura più nobile e d’uno spirito più elevato che
cercano già qualche volta la solitudine; nondimeno passar
soli tutta la giornata è loro ancora difficile. Per l’uomo
fatto la cosa è facile; ei può rimanere a lungo
isolato, e tanto più a lungo quanto più progredisce
nella vita. Al vecchio poi, unico sopravvivente delle generazioni
sparite, morto da una parte alle gioje della vita, e dall’altra
ormai al di sopra di esse, la solitudine è il vero suo
elemento. Ma, in ogni individuo considerato separatamente, i
progressi dell’inclinazione al ritiro ed all’isolamento saranno
sempre in ragione diretta del valore intellettuale. Perocchè,
come già dicemmo, non è questa un’inclinazione
puramente naturale, provocata in modo diretto dalla
necessità, è piuttosto solamente l’effetto
dell’esperienza acquistata e meditata; vi si arriva soprattutto dopo
essersi bene convinti della miserabile condizione morale ed
intellettuale della maggior parte degli uomini, e ciò che
v’ha di peggio in tale condizione si è che le imperfezioni
morali dell’individuo cospirano colle imperfezioni intellettuali e
si ajutano a vicenda; si producono allora i fenomeni più
schifosi che rendono ripugnante, e fors’anco insopportabile, il
commercio colla grande maggioranza degli uomini. Ecco perchè,
sebbene vi siano tante brutte cose a questo mondo, la società
è ancora più brutta: lo stesso Voltaire, francese
sociabile, si spinse fino a dire: «La terra è coperta
da gente tale che non meriterebbe nemmeno che le si rivolgesse la
parola». Il tenero Petrarca, che ha così vivamente e
con tanta costanza amato la solitudine, ce ne spiega egualmente il
perchè:
Cercato ho sempre solitaria vita
(Le rive il sanno, e le campagne, e i boschi),
Per fuggir quest’ingegni storti e loschi
Che la strada del ciel hanno smarrita.
Ei ci presenta gli stessi motivi nel suo bel libro De vita
solitaria, che sembra aver servito di modello a Zimmermann per la
celebre opera Della solitudine. Chamfort, co’ suoi modi sarcastici,
esprime precisamente questa origine secondaria e indiretta
dell’insociabilità quando scrive: «Si dice qualche
volta di un uomo che vive solo: Ei non ama la società. Spesso
è la stessa cosa come se si dicesse d’un uomo che egli non
ama il passeggiare perchè non va a spasso volentieri la sera
nella foresta di Bondy». Saadi nel Gulistan parla nel medesimo
senso: «Da questo momento, prendendo congedo dal mondo, noi
abbiamo seguito la via dell’isolamento, perocchè la sicurezza
sta nella solitudine». Angelo Silesius, anima dolce e
cristiana, dice la stessa cosa nel suo linguaggio speciale e affatto
mistico: «Erode è un nemico, Giuseppe è la
ragione a cui Dio rivela in sogno (in ispirito) il pericolo. Il
mondo è Betleme, l’Egitto la solitudine: fuggi, anima mia!
fuggi, o tu muori di dolore». Egualmente Giordano Bruno:
«Tanti uomini che in terra hanno voluto gustare vita celeste,
dissero ad una voce: ecce elongevi fugiens et mansi in
solitudine» (ecco, m’allontanai fuggendo, e rimasi nella
solitudine). Saadi, il persiano, parlando di sè nel Gulistan
dice anche: «Stanco degli amici a Damasco mi ritirai nel
deserto vicino a Gerusalemme per cercare la società degli
animali». In poche parole tutti coloro che Prometeo ha
fabbricato colla migliore argilla si sono espressi nello stesso
senso. Quali piaceri infatti possono provare questi esseri
privilegiati nel commercio con creature colle quali non possono aver
relazioni per stabilire una vita in comune se non per mezzo della
parte più bassa e più vile della loro natura, vale a
dire di tutto ciò che v’ha in essa di volgare, di triviale,
d’ignobile? Tali individui ordinarî non potendosi levare
all’altezza dei primi, non hanno altra risorsa, come non si
prenderanno altro cómpito, se non quello di abbassarli al
loro livello. Da questo punto di vista si è davvero un
sentimento aristocratico quello che alimenta l’inclinazione
all’isolamento ed alla solitudine. Tutti i cialtroni sono tanto
sociali da far pietà: in cambio, a ciò solo si vede
che un uomo è di qualità più nobile, quando non
trova alcun piacere cogli altri, quando alla loro società
preferisce ognor più la solitudine, acquistando
insensibilmente coll’età la convinzione che salvo rare
eccezioni non v’ha scelta nel mondo tra l’isolamento e la
volgarità. Per quanto dura sembri, questa massima è
stata espressa da Angelo Silesius stesso, ad onta di tutta la sua
carità e tenerezza cristiana: «La solitudine è
penosa: però non esser volgare, e tu potrai isolarti in
qualunque luogo».
Specialmente in quanto concerne gli spiriti eminenti, è ben
naturale che questi veri educatori del genere umano provino anche
tanta poca inclinazione a mettersi di frequente in rapporto cogli
altri, quanta ne può sentire il pedagogo ad unirsi ai giochi
rumorosi della schiera di fanciulli che lo contorna.
Perocchè, nati per guidare gli altri uomini sull’Oceano dei
loro errori verso la verità, per trarli dall’abisso della
loro rozzezza e della loro volgarità, per innalzarli verso la
luce della civilizzazione e del progresso, essi devono, è
vero, vivere in mezzo a gente siffatta, ma senza però
appartenerle realmente; si sentono quindi fino dalla giovinezza
creature sensibilmente differenti; ma in questo riguardo la
convinzione ben chiara non giunge loro che insensibilmente a misura
che vanno avanti cogli anni; allora hanno cura di aggiungere la
distanza fisica alla distanza intellettuale che li separa dal resto
degli uomini, e vegliano perchè nessuno, a meno che non sia
più o meno affrancato dalla volgarità generale, li
accosti troppo da vicino.
Da tutto ciò si deduce che l’amore della solitudine non
apparisce direttamente ed allo stato d’istinto primitivo, ma che si
sviluppa indirettamente e progressivamente specie negli spiriti
eminenti, non senza dover vincere l’inclinazione naturale alla
socialità, ed anche combattere all’occasione qualche
suggerimento mefistofelico: «Cessa dal giocare col tuo
cordoglio che, pari ad un avoltojo, ti rode la vita: la più
vile compagnia ti fa sentire che sei uomo con gli uomini.»
La solitudine è il retaggio delle menti superiori; qualche
volta succederà loro che se ne rammarichino, ma la
sceglieranno sempre come il minore dei mali. Col progresso
dell’età nondimeno il sapere aude doventa in questo riguardo
sempre più facile ed omogeneo; verso la sessantena
l’inclinazione alla solitudine arriva ad essere affatto naturale, e
quasi istintiva. Infatti tutto si unisce allora per favorirla. Le
forze che spingono più gagliardamente alla socialità,
cioè l’amor delle donne e l’istinto sessuale, non agiscono
più a quel momento; anzi lo sparire del sesso fa nascere nel
vecchio una certa capacità di bastare a sè stesso, che
a poco a poco assorbe totalmente l’inclinazione alla società.
Si è ormai ritornati in sè da mille illusioni e da
mille stoltezze; d’ordinario la vita d’azione è cessata; non
si ha più cosa alcuna da aspettare, nessun piano o progetto
da concepire; la generazione a cui si appartiene realmente non
esiste più; attorniati da una razza straniera si è di
già oggettivamente ed essenzialmente isolati. Con tutto
ciò il cammino del tempo si è accelerato, e lo si
vorrebbe inoltre impiegare per l’intelletto. Perocchè a
quell’ora, ammesso che la testa abbia conservato tutte le sue forze,
gli studi d’ogni sorta sono resi più che mai facili ed
interessanti dalla grande somma di esperienza e di conoscenze
acquistate, dalla meditazione progressivamente più
approfondita di qualunque pensiero, come pure dalla maggior
attitudine all’esercizio di tutte le facoltà intellettuali.
Si vede chiaro in molte cose che altra volta erano in certo modo
avviluppate da densa nebbia, si ottiene eccellenti risultati, e si
sente interamente la propria superiorità. In seguito alla
lunga esperienza si ha cessato dall’aspettarsi gran cosa dagli
uomini, poichè, tutto considerato, essi non guadagnano ad
esser conosciuti più da vicino; si sa piuttosto che,
eccettuata qualche rara probabilità favorevole, non
s’incontreranno nella natura umana se non esemplari molto difettosi
che è meglio non toccare. Non si è più esposti
alle illusioni ordinarie, si vede a colpo d’occhio ciò che un
uomo vale, e non si proverà che molto di rado la voglia di
entrare in più intimi rapporti con lui. Infine, quando nella
vita solitaria si riconosce un’amica d’infanzia, l’abitudine
dell’isolamento e del commercio con sè stesso prende piede, e
diventa una seconda natura. Perciò l’amor della solitudine,
qualità che fino a quel punto bisognava conquistare con la
lotta contro l’istinto della socialità; è ormai
semplice e naturale; si sta perfettamente bene da soli come il pesce
nell’acqua. Ogni uomo superiore, quindi, che ha
un’individualità non somigliante all’altrui, e che per
conseguenza occupa un posto a parte, si sentirà beato da
vecchio in tale posizione interamente isolata, benchè abbia
potuto trovarsene infastidito durante la sua gioventù.
Certamente ciascuno non possederà la sua parte di questo
privilegio reale dell’età se non nella misura delle sue forze
intellettuali; si è dunque lo spirito eminente che lo
acquisterà prima d’ogni altro, ma ad un grado minore tutti vi
arriveranno. Non v’ha che le nature le più povere e le
più volgari che saranno nella vecchia età così
socievoli come per lo innanzi: esse stanno allora a carico di quella
società a cui non sono più adatte; ma tutt’al
più arriveranno a farsi tollerare, e non saranno mai cercate
come altre volte.
Si può ancora trovare un lato teleologico in questo rapporto
inverso di cui or ora tenemmo parola, tra il numero degli anni e il
grado di socialità. Quanto più l’uomo è giovane
tanto più ha da imparare ancora in tutte le direzioni; ora la
natura non gli ha riservato che quel mutuo insegnamento che
ciascheduno riceve dalle relazioni co’ suoi simili,
quell’insegnamento reciproco per cui la società umana
potrebbe chiamarsi una grande casa d’educazione Bell-Lancasteriana,
visto che i libri e le scuole sono istituzioni artificiose, ben
lontane dal piano della natura. È molto utile all’uomo il
frequentare l’istituto naturale di educazione tanto più
assiduamente quanto più è giovane.
«Nihil est ab omni parte beatum»
non v’ha in questa vita beatitudine perfetta, dice Orazio, e
«Nessun loto senza stelo» ripete un proverbio indiano;
similmente la solitudine a lato di tanti vantaggi ha pure i suoi
leggeri inconvenienti e i suoi piccoli fastidi, che però sono
minimi riguardo a quelli della società, a tal punto che colui
il quale ha un valore proprio, troverà sempre cosa più
facile far senza degli uomini, piuttostochè mantenersi in
relazione con essi. Fra gl’inconvenienti ve n’ha uno del quale non
si può facilmente rendersi conto come degli altri; ed
è il seguente: nello stesso modo che a forza di starsene
continuamente in una camera il nostro corpo diventa così
sensibile ad ogni impressione esterna che la più piccola
corrente d’aria lo colpisce morbosamente, così il nostro
umore si fa talmente sensibile nella solitudine e nell’isolamento
prolungato che ci sentiamo inquieti, afflitti od offesi dai fatti
più insignificanti, da una parola, fors’anco dalla semplice
apparenza, mentre chi è costantemente in mezzo al tumulto del
mondo non presta affatto attenzione a tali bagattelle.
Potrebbe darsi che un uomo, specialmente in gioventù, e ad
onta che la giusta avversione per i suoi simili l’abbia già
fatto fuggire di sovente nell’isolamento, non sappia a lungo andare
sopportarne il vuoto; io gli consiglio di abituarsi a portar seco
nella società una parte della sua solitudine; apprenda
così ad esser solo, fino ad un certo punto, anche fra la
gente, per conseguenza non comunichi subito agli altri ciò
che pensa, d’altra parte non annetta troppo valore a ciò che
dice il mondo, e meglio ancora non si aspetti da esso gran cosa, sia
dal lato morale sia dall’intellettuale, e quindi attenda a
fortificare in sè questa indifferenza riguardo all’opinione
altrui, mezzo sicurissimo per praticare costantemente una lodevole
tolleranza. In siffatta guisa, benchè in mezzo agli uomini,
ei non sarà interamente nella loro società, ed
avrà riguardo ad essi un’attitudine più puramente
oggettiva, ciò che lo proteggerà contro un contatto
troppo intimo colla gente, e quindi contro ogni contaminazione, e
meglio ancora contro ogni offesa. Esiste una descrizione drammatica
degna di nota d’una tale società attorniata da barriere e da
trinceramenti, nella commedia «El café, o sea la
comedia nueva» di Moratin; la si troverà nel
personaggio di Don Pedro, sopratutto nelle scene 2a e 3a del primo
atto.
In quest’ordine d’idee possiamo paragonare la società ad un
fuoco innanzi a cui il saggio si riscalda senza però toccarlo
come fa il pazzo il quale, dopo essersi scottato, fugge nella fredda
solitudine e si lamenta perchè il fuoco brucia.
10° L’invidia è naturale all’uomo, e tuttavia costituisce
in un tempo stesso un vizio ed un’infelicità. Dobbiamo dunque
considerarla come un nemico della nostra felicità, e cercar
di soffocarla come un cattivo demone. Seneca ce lo comanda con
queste belle parole: «Le cose nostre ci dilettano senza
confronto: non sarà mai felice quegli a cui darà
angoscia il desio di maggior bene» (De ira, III, 30). Ed
altrove: «Quando poni mente a quanta gente ti precede, pensa
pure a quanta gente sta dietro di te» (Ep. 15); bisogna dunque
considerare piuttosto coloro la cui condizione è peggiore
della nostra che non quelli che ci pare stieno meglio di noi. Quando
ci colpiscono disgrazie reali, la consolazione più efficace,
quantunque derivata dalla stessa sorgente dell’invidia, sarà
la vista di mali più grandi dei nostri, ed a lato di
ciò il frequentare persone che si trovino nello stesso caso
nostro, i nostri compagni di sventura.
Ecco quanto sul lato attivo dell’invidia. Circa il lato passivo
havvi da osservare che nessun odio è così implacabile
come l’invidia; perciò invece d’esser incessantemente
occupati ad eccitarla, faremmo assai meglio di rifiutarci, come
molti altri, anche questo piacere, viste le sue funeste conseguenze.
Si danno tre aristocrazie: la quella della nascita e del rango; 2a
quella del danaro; 3a quella dello spirito. Quest’ultima è
realmente la più nobile, e si fa anche conoscere per tale
dato che gliene si lasci il tempo: lo stesso Federico il Grande non
ha detto: «Le anime privilegiate stanno al medesimo livello
dei sovrani»? Egli indirizzava queste parole al suo
maresciallo di Corte, il quale si trovava offeso perchè
Voltaire era chiamato a prender posto in una tavola riservata
unicamente ai sovrani ed ai principi della famiglia, mentre i
ministri ed i generali pranzavano a parte con lui. Ognuna di queste
aristocrazie è attorniata da un’armata speciale d’invidiosi,
segretamente stizziti contro ciascuno de’ suoi membri, ed occupati,
quando credono non aver da temere, a fargli capire in tutti i modi:
«Tu non sei niente più di noi». Ma tali sforzi
tradiscono precisamente la loro convinzione del contrario. La linea
di condotta che devono scegliere gl’invidiati consiste nel tenere a
distanza tutti coloro che compongono tali bande, e nell’evitare
qualunque contatto con essi in modo da restarne separati da un largo
abisso; quando la cosa non è fattibile devono tollerare colla
maggior calma possibile gli sforzi dell’invidia, la cui sorgente si
troverà così esaurita. Questo è quanto vediamo
succedere ogni giorno. In cambio, i membri di una delle aristocrazie
nominate s’intenderanno ordinariamente molto bene e senza provar
invidia colle persone che fanno parte d’ognuna delle altre due, e
questo perchè ciascheduno mette nella bilancia il proprio
merito come equivalente a quello degli altri.
11° È necessario meditare maturatamente ed a molte
riprese un progetto avanti di metterlo in esecuzione, e, dopo averlo
pesato scrupolosamente, bisogna pure calcolare la parte debole per
l’insufficienza di ogni sapere umano; visti i limiti delle nostre
cognizioni, possono sempre esservi circostanze che è stato
impossibile scrutare o prevedere, e che potrebbero venir ad alterare
il risultato di tutte le nostre speculazioni. Tale riflessione
metterà sempre un peso nel piatto negativo della bilancia, e
ci porterà negli affari importanti a non muover cosa senza
necessità: «Quieta non movere.» Ma, una volta
presa la decisione e messo mano all’opera, quando ogni cosa
può seguire il suo corso, e quando noi non abbiamo più
che da aspettare il risultato, non bisogna ormai tormentarsi con
replicate considerazioni su ciò che è fatto, e con
sempre nuove inquietudini sui possibili pericoli; è
necessario invece scaricarsi completamente lo spirito da tale
affare, chiudere affatto questo scompartimento del pensiero, e
rimaner tranquilli nella convinzione d’aver tutto pesato maturamente
a suo tempo. Ciò è quanto consiglia pure di fare il
proverbio italiano: «Legala bene e poi lasciala andare».
Se, ad onta di tutto, l’esito non corrisponde, si è
perchè tutte le cose umane sono soggette alla sorte ed
all’errore. Socrate, il più saggio degli uomini, aveva
bisogno d’un demone tutelare per discernere il vero, od almeno per
evitare il falso ne’ suoi affari personali; non è questa una
prova che la ragione umana non vi basta? Perciò questa
sentenza, attribuita ad un papa, che siamo noi stessi, almeno in
parte, colpevoli delle disgrazie che ci colpiscono, non è
vera, nè sempre, nè senza riserve, quantunque lo sia
nella maggior parte dei casi. Si è un tal sentimento che
sembra condurre gli uomini a nascondere per quanto è
possibile i loro mali, ed a cercare, come meglio possono riuscirvi,
di aggiustarsi un aspetto soddisfatto. Essi temono che la sventura
sia attribuita alla colpa.
12.° In faccia d’un avvenimento funesto, già compito, che
per conseguenza non si può più modificare, bisogna non
abbandonarsi nemmeno all’idea che forse avrebbe potuto succedere
altrimenti, e meno ancora riflettere a quanto avrebbe avuto la
possibilità di stornarlo; perocchè si è questo
precisamente che porta la gradazione del dolore fino al punto in cui
diviene insopportabile, e fa dell’uomo un «ἑαυτοντιμο
ρουμενος». Facciamo piuttosto come il re Davide, che assediava
incessantemente Jéhova con preghiere e suppliche durante la
malattia di suo figlio, e che, non appena questi fu morto, fece
scoppiettare le dita e non vi pensò più oltre. Colui
che non ha un carattere abbastanza leggero per condursi nello stesso
modo, deve rifugiarsi sul terreno del fatalismo, e convincersi
pienamente di quest’alta verità che tutto quello che succede,
succede necessariamente, dunque è inevitabile.
Tuttavia questa regola non ha valore che in un solo senso. Essa
giova a consolarci ed a calmarci immediatamente in caso di sventura;
ma quando, come avviene più di sovente, devesi attribuire la
colpa, almeno in parte, alla nostra negligenza od alla nostra
temerità, allora la meditazione ripetuta e dolorosa dei mezzi
che avrebbero potuto prevenire il funesto avvenimento è una
mortificazione salutare, propria a servirci di lezione e di
ammendamento per l’avvenire. Sopratutto non bisogna cercar di
scusare, colorire o impiccolire ai propri occhi i falli di cui si
è colpevoli evidentemente; è necessario confessarseli
e presentarseli in tutta la loro estensione, allo scopo di poter
prendere la ferma decisione di evitarli in seguito. È vero
però che così si viene a procurarsi il dolorosissimo
sentimento della scontentezza di sè, ma «l’uomo
impunito non s’instruisce.»
13.° In tutto ciò che concerne la nostra felicità
o la nostra miseria bisogna imbrigliare la fantasia: quindi,
anzitutto non fabbricare castelli in aria: essi ci costano troppo
cari, perocchè ci è forza, subito dopo, demolirli con
molti sospiri. Ma dobbiamo guardarci ben di più dal darci
angoscia rappresentandoci vivacemente mali che sono solamente
possibili. Che se essi poi fossero completamente immaginarî od
anche possibili solo in una eventualità molto lontana,
sapremmo immediatamente al nostro svegliarci da tal sogno, che tutto
questo non era che illusione; in conseguenza ci sentiremmo assai
più contenti della realtà che si trova esser migliore,
e ne trarremmo forse avvertimento per accidenti lontani, quantunque
possibili. Ma la nostra fantasia non gioca facilmente con simili
immagini; essa non fabbrica mai per puro divertimento se non
prospettive ridenti. La stoffa de’ suoi sogni foschi è
fornita dai mali che, quantunque lontani, ci minacciano
effettivamente in una certa misura; ecco gli oggetti che essa
ingrandisce, ecco gli oggetti di cui avvicina la possibilità
alla verità e che dipinge coi colori più terribili.
Allo svegliarci, non possiamo scuotere un tal sogno come facciamo
delle visioni ridenti, perchè queste sono smentite senza
indugio dalla realtà, e non lasciano dietro di sè che
una debole speme di realizzazione. In cambio, quando ci
abbandonìano ad idee nere (blue devils), avviciniamo immagini
che non si staccano da noi tanto facilmente, perocchè la
possibilità dell’avvenimento, in generale, è vera, e
noi non siamo sempre in istato di misurarne con esattezza il grado;
essa allora si trasforma ben presto in probabilità ed eccoci
così in preda all’inquietudine. Si è per questo che
dobbiamo considerare ciò che interessa il nostro bene o la
nostra infelicità coi soli occhi della ragione e del
raziocinio; bisogna riflettere prima seccamente e freddamente, e poi
non operare che su nozioni ed in abstracto. L’immaginazione non deve
entrar in giuoco, perchè non sa giudicare; essa non
può che presentare agli occhi immagini che commuovono l’anima
senza vero motivo, e spesso molto dolorosamente. Si è alla
sera che questa regola dovrebbe essere più strettamente
osservata. Perocchè se l’oscurità ci rende paurosi e
ci fa veder da per tutto figure spaventevoli, l’indecisione delle
idee, che le è analoga, produce lo stesso risultato; infatti
l’incertezza genera la mancanza di sicurezza: perciò gli
oggetti della nostra meditazione, quando riguardano i nostri
interessi, prendono facilmente di sera un’apparenza minacciosa e
diventano spauracchi; a quell’ora la fatica ha rivestito lo spirito
ed il raziocinio d’oscurità soggettiva, l’intelletto è
accasciato e «θορυβουμενος» (turbato), e non è
capace d’un esame profondo. Questo succede più di sovente la
notte, a letto; lo spirito essendo interamente allentato, il
raziocinio non ha più la sua piena potenza d’azione, mentre
la fantasia è ancora attiva. La notte allora copre ogni
essere ed ogni cosa della sua tinta fosca. Quindi i nostri pensieri,
nel momento d’addormentarci o se ci svegliamo durante la notte, ci
fanno apparire gli oggetti sfigurati ed inverosimili come in sogno;
li vedremo così tanto più neri e terribili quanto
più riguardano davvicino circostanze personali. Al mattino
tali spauracchi svaniscono, proprio come i sogni: è quanto
significa il proverbio spagnuolo: Noche tinta, blanco ed dia (La
notte è colorata, bianco il giorno). Ma di sera, non appena
è acceso il lume, la ragione, del pari dell’occhio, vede meno
chiaramente che nel giorno; perciò quell’ora non è
favorevole a meditazioni su soggetti seri, e specialmente su
soggetti spiacevoli. Si è il mattino favorevole a ciò,
come in generale, senza eccezione, ad ogni lavoro: lavoro
dell’intelletto o lavoro manuale. Perchè il mattino è
la giovinezza del giorno: tutto è gaio, fresco e facile al
mattino e noi ci sentiamo vigorosi in quell’ora, e possiamo disporre
di tutte le nostre facoltà. Non bisogna abbreviarlo levandosi
tardi, nè sprecarlo in occupazioni od in discorsi volgari; ma
invece è necessario considerarlo come la quintessenza della
vita e, per così dire, come qualche cosa di sacro. In cambio
la sera è la vecchiezza del giorno: noi siamo abbattuti,
ciarlieri e storditi. Ciascun giorno è una piccola vita, lo
svegliarsi e l’alzarsi una piccola nascita, ogni fresco mattino una
piccola giovinezza, e il coricarsi colla sua notte di sonno una
piccola morte.
Ma, generalmente parlando, lo stata di salute, il sonno, il cibo, la
temperatura, il tempo, l’ambiente, e mille altre condizioni esterne
influiscono considerevolmente sulla nostra disposizione, e questa, a
sua volta, sui nostri pensieri. Ne viene che il nostro modo di
considerar le cose, come pure l’attitudine a produrre qualche opera,
sono fino ad un certo punto subordinate al tempo ed anche al luogo.
Goethe ha detto: «Afferrate la buona disposizione
perocchè essa viene di rado». Non è solo per le
concezioni oggettive e per i pensieri originali che ci è
necessario attendere se e quando piaccia loro di venir a noi, ma
anche la meditazione profonda d’una faccenda personale non riesce
mai nell’ora fissata precedentemente e nel momento in cui vogliamo
dedicarvici; essa pure sceglie da sè il suo tempo, e lo fa
quando una conveniente figliazione delle idee si sviluppa spontanea,
e quando possiamo seguirla con intera efficacia.
Per meglio tener in freno la fantasia, come noi lo raccomandiamo,
occorre non permetterle di ricordare e di colorire vivamente i
torti, i danni, le perdite, le offese, le umiliazioni, le
vessazioni, ecc., subíte per lo passato, perocchè con
questo agitiamo nuovamente l’indegnazione, la collera, e tante altre
odiose passioni assopite da lungo tempo, passioni che tornano ad
imbrattare l’anima nostra. Secondo un bel confronto del neoplatonico
Proclo, come in ogni città a lato dei nobili e della gente
civile s’incontra la plebaglia d’ogni specie (οχλος), così in
qualunque uomo, fosse pure il più nobile ed il più
eminente, si trova l’elemento basso e volgare della natura umana,
anzi qualche volta si potrebbe dire della natura bestiale. Questa
plebaglia non deve esser eccitata al tumulto; nè bisogna
permetterle di mostrarsi alla finestra, perchè la vista ne
è molto brutta. Ora quelle produzioni della fantasia, di cui
parlammo adesso, sono i demagoghi del popolaccio. Aggiungiamo che la
più piccola contrarietà, provenga pure dagli uomini o
dalle cose, se ci occuperemo costantemente a ruminarla ed a
dipingerla sotto colori vistosi ed a grossa scala, può
ingrandirsi fino a diventare un mostro che ci faccia perdere il
senno. È necessario invece accogliere molto prosaicamente e
molto freddamente tutto ciò che è dispiacevole allo
scopo di affliggersene il meno possibile.
Nella stessa guisa che gli oggetti piccoli tenuti troppo da presso
all’occhio diminuiscono il campo della visione e nascondono il
mondo, così gli uomini e le cose che ci contornano più
da vicino, quand’anche fossero dappoco ed indifferenti al più
alto grado, occuperanno spesso la nostra attenzione ed i nostri
pensieri al di là d’ogni convenienza, e svieranno idee ed
affari d’alta importanza. Conviene reagire contro una tale tendenza.
14.° Alla vista di beni che noi non possediamo, ci diciamo molto
volentieri: «Ah! se questa cosa fosse mia!» ed un tal
pensiero ce ne rende sensibile la privazione. Invece dovremmo spesso
domandarci: «Che succederebbe se questa cosa non mi
appartenesse?» Con ciò intendo che dovremmo qualche
volta sforzarci d’immaginare i beni che possediamo come ci
apparirebbero dopo averli perduti; e parlo dei beni d’ogni specie:
ricchezze, salute, amico, amante, sposa, figlio, cavallo e cane,
perocchè il più di sovente si è la perdita
delle cose che ce ne insegna il valore. Al contrario il metodo che
raccomandiamo avrà per primo risultato di fare che il loro
possesso ci renderà immediatamente più felice che per
lo avanti, ed in secondo luogo c’indurrà a premunirci con
tutti i mezzi contro la loro perdita; sicchè non rischieremo
i nostri averi, non irriteremo gli amici, non esporremo alla
tentazione la fedeltà della moglie, avremo la massima cura
della salute dei figli, e così di seguito. Noi cerchiamo
spesso di rallegrare la tinta smorta del presente con speculazioni
sulla possibilità di buona fortuna, ed immaginiamo ogni sorta
di speranze chimeriche ciascuna delle quali è piena di
delusioni; perciò queste non mancano di arrivare non appena
le speranze vengono a rompersi contro la dura realtà.
Bisognerebbe piuttosto sceglier per tema delle nostre speculazioni
la cattiva sorte; ciò che ci porterebbe a prendere
disposizioni allo scopo di allontanarla, e ci procurerebbe talora
gradite sorprese quando essa non si realizza. Non si è forse
più allegri dopo sortiti da qualche angoscia? È anche
salutare rappresentarci in mente certe grandi sventure che
potrebbero eventualmente venire a colpirci; questo gioverà a
farci sopportare più facilmente mali meno gravi quando in
fatto siano su di noi, perocchè allora ci consoliamo
ritornando col pensiero su quelle disgrazie ben più terribili
che non si sono realizzate. Ma praticando questa regola bisogna aver
cura di non trascurare la precedente.
15.° Gli avvenimenti e gli affari che ci risguardano si
producono e si succedono isolatamente, senza ordine, e senza mutuo
rapporto, in sorprendente contrasto gli uni cogli altri, e senza
altro legame che quello di riferirsi a noi; ne risulta che i
pensieri e le cure necessarie dovrebbero essere altrettanto
nettamente distinte, al fine di corrispondere agli interessi che le
hanno provocate. In conseguenza quando intraprendiamo una cosa,
bisogna condurla a termine facendo astrazione da qualunque altro
affare, allo scopo di compiere, gustare o subire ogni cosa a suo
tempo senza cure moleste di tutto il resto; dobbiamo avere nei
nostri pensieri, per così dire, degli scompartimenti per non
aprirne che un solo mentre gli altri resteranno chiusi. Vi troveremo
il vantaggio di non guastare ogni piccolo piacere attuale e di non
perdere il riposo per la preoccupazione di qualche grande affanno;
guadagneremo ancora perchè un pensiero non ne caccierà
un altro, e perchè la cura d’un affare importante non ce ne
farà dimenticare molti di piccoli, ecc. Ma sopratutto l’uomo
capace di pensieri nobili ed elevati non deve lasciare che il suo
spirito sia assorbito dagli affari personali e preoccupato da basse
cure al punto che sia chiuso l’accesso alle più alte
meditazioni, perocchè sarebbe veramente «propter vitam,
vivendi perdere causas» (per la vita perdere le cause del
vivere). È indubitato che per far eseguire al nostro spirito
tutte queste manovre e contromanovre ci abbisogna, come in molte
altre circostanze, esercitare una violenza su noi stessi; tuttavia
dovremmo attingerne la forza nella riflessione che l’uomo subisce
dal mondo esterno numerose e potenti tirannie alle quali nessuna
esistenza può sottrarsi, ma che un piccolo sforzo esercitato
su sè stessi ed applicato a tempo e luogo opportuno,
può ovviare sovente ad una grande pressione esterna; allo
stesso modo nel cerchio un piccolo taglio vicino al centro
corrisponde ad un’apertura talvolta centupla alla periferia. Nessuna
cosa ci sottrae alla tirannia del di fuori meglio della nostra
soggezione a noi stessi: ecco il significato della sentenza di
Seneca: «Se vuoi che le cose tutte sieno a te sottomesse,
sottometti te stesso alla ragione» (Ep. 37). Inoltre una tale
soggezione a noi stessi è sempre in nostro potere, e in un
caso estremo, o quando essa posasse sovra il punto più
sensibile, noi abbiamo la facoltà di rallentarla un poco,
mentre la pressione esterna non ci risparmia mai, ed è per
noi senza riguardi e senza pietà. Per ciò è
cosa saggia prevenir questa con quella.
16.° Limitare i propri desideri, frenare le brame, domare la
collera, ricordandoci incessantemente che ogni individuo non
può conseguir mai se non una parte infinitamente piccola di
ciò che è desiderabile, e che in cambio mali senza
fine devono colpire tutti gli umani; in una parola «απεχειν
και ανεχειν, abstinere et sustinere» (contenersi e
sostenersi), ecco la regola senza l’osservanza della quale nè
ricchezza nè potere potranno impedirci di sentire la nostra
miserabile condizione. Orazio disse in proposito: «In ogni
cosa leggi ed interroga i dotti; in tal modo cerca di condur vita
felice, affinchè non ti agiti e non ti strazi la cupidigia
sempre povera, oppure il timore e la speranza di cose invero
mediocremente utili». (Ep. I, 18, 96-99).
17.° Ο βιος ἐν τη κινησει ἐστι, la vita sta nel movimento, ha
detto con ragione Aristotele: come la nostra vita fisica consiste
unicamente nel movimento, così la nostra vita interna,
intellettuale, richiede un’occupazione costante, un’occupazione in
qualunque cosa, sia per mezzo dell’azione, sia per mezzo del
pensiero; ecco quanto prova quella manìa che ha la gente
oziosa di mettersi a stamburare colle dita o col primo oggetto che
cade loro sotto mano. L’agitazione infatti è l’essenza della
nostra vita; una inazione completa diviene ben presto insopportabile
perocchè genera la noia più orribile. E regolando tale
istinto si può soddisfarlo metodicamente e con più
frutto. L’attività è indispensabile per esser felici;
è necessario che l’uomo agisca, che compia, se ciò gli
è possibile, qualche lavoro, od almeno che impari qualche
cosa; le sue forze domandano il loro impiego ed egli stesso non
chiede che di vederle produrre un risultato qualsiasi. In questo
rapporto la sua soddisfazione più grande consiste nel
lavorare a qualche cosa, paniere o libro; ma ciò che gli
apporta una felicità immediata si è il vedere, giorno
per giorno, crescere l’opera propria sotto le mani facendosi grado a
grado più perfetta. Una creazione artistica, uno scritto od
anche un semplice lavoro manuale producono interamente questo
effetto; bene inteso che quanto più la natura dell’opera
è nobile tanto più il piacere è elevato. A
questo riguardo i più felici sono gli uomini altamente dotati
che si sentono capaci di produrre le opere più importanti,
più grandiose e più fortemente ragionate. Ciò
sparge su tutta la loro esistenza un interesse d’ordine superiore e
le comunica un sapere che fa difetto negli altri uomini; ne viene
che la vita di questi ultimi è insipida in confronto
dell’altra. Infatti per le persone eminenti la vita ed il mondo, a
lato dell’interesse comune, materiale, ne hanno un altro più
elevato e formale, che è quello di contenere la stoffa delle
loro opere; si è quindi a raccoglier questi materiali che
esse attivamente si occupano durante il corso del viver loro, non
appena la loro parte di miserie terrestri le lascia un momento in
riposo. Il loro intelletto è anche, fino ad un certo punto,
doppio: una parte giova per gli affari ordinarî (oggetti della
volontà) e somiglia a quella comune a tutti; l’altra invece
serve per la concezione puramente oggettiva delle cose. Questi
uomini vivono così d’una vita doppia, spettatori ed attori in
una volta, mentre gli altri non sono che attori. Bisogna tuttavia
che ciascheduno si occupi in qualche cosa, nella misura delle sue
facoltà. Si può constatare l’influenza perniciosa
dell’assenza d’attività regolare, d’un lavoro qualsiasi,
durante i lunghi viaggi di piacere, quando di tempo in tempo ci
sentiamo infelici per la sola ragione che, privati di qualunque
occupazione reale, ci troviamo, per così dire, strappati dal
nostro elemento naturale. Faticare e lottare contro le resistenze
è un bisogno per l’uomo, come per la talpa scavar buchi.
L’immobilità che sarebbe prodotta dalla soddisfazione
completa d’un godere continuo gli riescirebbe insopportabile.
Vincere gli ostacoli costituisce il colmo del piacere nell’esistenza
umana, sieno gli ostacoli di natura materiale come nell’azione e
nell’esercizio, oppure si riferiscano allo spirito come nello studio
e nelle ricerche: si è la lotta e la vittoria che rendono
l’uomo felice. Se l’occasione gli manca, ei se la crea come
può: secondo lo comporta la sua individualità
andrà a caccia o giuocherà alla trottola, oppure,
spinto dall’inclinazione inconscia della sua natura,
susciterà contese, ordirà intrighi, macchinerà
inganni o non importa quale altra disonestà, al solo scopo di
mettere un termine allo stato d’immobilità che non può
sopportare. «Difficilis in otio quies» (È
difficile la calma nell’ozio).
18.° Non sono le immagini della fantasia, ma nozioni nettamente
concette che bisogna prendere per guida nei propri lavori. Il
contrario succede molto di frequente. Bene esaminando, si scorge che
ciò che nelle nostre determinazioni viene in ultima istanza a
render decisiva la sentenza, non sono ordinariamente le nozioni ed i
giudici, ma lo è bensì un’immagine della fantasia che
le rappresenta e le sostituisce. Non so più in quale romanzo
di Voltaire o di Diderot la virtù appare sempre all’eroe,
posto come Ercole adolescente al bivio della vita, sotto l’aspetto
del suo vecchio ajo che moralizza tenendo la tabacchiera nella mano
sinistra ed una presa di tabacco nella destra; il vizio invece colle
sembianze della cameriera di sua madre. Si è particolarmente
durante la giovinezza che lo scopo della nostra felicità si
fissa sotto la forma di certe immagini che volteggiano davanti noi e
che persistono spesso durante la metà, e qualche volta
durante tutto il corso della vita. Sono esse veri folletti che ci
tormentano, perchè appena raggiunte svaniscono e l’esperienza
viene ad insegnarci che non mantengono affatto ciò che
promettevano. Di questo genere sono le scene speciali della vita
domestica, civile, sociale o rurale, le idee sull’abitazione e sulla
nostra società, le decorazioni cavalleresche, le
testimonianze di rispetto, ecc., ecc.; «chaque fou a sa
marotte» (ogni pazzo ha la sua impresa); anche l’immagine
dell’innamorata ne è una. È ben naturale che sia
così, perocchè ciò che si vede, essendo
l’immediato, agisce sulla nostra volontà più
facilmente della nozione, il pensiero astratto, che non dà
che il generale senza il particolare; ora è proprio
quest’ultimo che contiene il reale: la nozione non può dunque
agire sulla volontà se non mediatamente. E tuttavia non v’ha
che la nozione che mantenga quanto promette: è quindi prova
di coltura intellettuale porre in essa sola tutta la propria fede.
Di tratto in tratto si farà certamente sentire il bisogno di
dare una spiegazione o di fare una parafrasi col mezzo di qualche
immagine, ma soltanto «cum grano salis.»
19.° La regola precedente fa parte di quest’altra massima
più generale che bisogna sempre saper dominare l’impressione
di tutto ciò che è presente e visibile. Questo in
riguardo al semplice pensiero, alla conoscenza pura, è
incomparabilmente più forte, non in virtù della
materia e del valore, che sono spesso insignificanti, ma in
virtù della forma, vale a dire della visibilità e
dell’attualità diretta le quali penetrando nello spirito ne
turbano il riposo o ne rendono incerte le risoluzioni. Infatti
ciocchè è presente, ciocchè è visibile,
potendo facilmente esser abbracciato d’uno sguardo, agisce sempre
d’un colpo solo, e con tutta la sua potenza; invece i pensieri e le
ragioni, dovendo esser meditate pezzo per pezzo, richiedono e tempo
e tranquillità, e non possono essere ad ogni momento ed
interamente presenti allo spirito. Si è per questo che una
cosa gradevole a cui la riflessione ci ha fatto rinunziare ci
alletta ancora colla sua vista; così pure una opinione di cui
conosciamo l’assoluta incompetenza tuttavia ci offende; un oltraggio
ci irrita benchè sappiamo che esso non merita se non
disprezzo, nello stesso modo dieci ragioni contro l’esistenza d’un
pericolo, sono vinte dalla falsa apparenza della sua comparsa, ecc.
In tutte queste circostanze prevale la irragionevolezza originale
del nostro essere. Le donne sono ben di frequente soggette a tali
impressioni, e pochi uomini hanno una ragione abbastanza
preponderante per non aver a soffrire dai loro effetti. Quando non
possiamo dominarle interamente col solo pensiero, ciò che di
meglio possiamo fare si è di neutralizzare un’impressione
coll’impressione contraria: per esempio l’impressione di un’offesa
con visite alle persone che ci stimano, l’impressione di un pericolo
che ci minaccia colla vista reale dei mezzi proprî ad
allontanarlo. Un italiano, di cui Leibnitz ci racconta la storia,
(Saggi critici, L. I, c. II, § 11), riescì perfino a
resistere ai dolori della tortura: a ciò, con ferma
risoluzione presa prima, impose alla sua immaginazione di non
perdere di vista un solo istante la figura della forca a cui lo
avrebbe senza dubbio condannato qualunque sua confessione;
sicchè ei gridava di tratto in tratto: «Ti vedo»,
parole che, come spiegò più tardi, si riferivano al
patibolo. Per la stessa ragione quando tutti intorno a noi sono
d’un’opinione differente della nostra e si conducono
conseguentemente ad essa, è difficile non lasciarsi smuovere
dalle nostre idee quand’anche si fosse convinti che gli altri sono
nell’errore. Per un re fuggitivo, inseguito e che viaggia seriamente
incognito, il cerimoniale di ossequio che il suo compagno e
confidente osserverà quando sono a quattr’occhi deve essere
un cordiale quasi indispensabile perchè lo sventurato non
giunga a dubitare della sua stessa esistenza.
20.° Dopo aver fatto spiccare fino dal secondo capitolo l’alto
valore della salute come condizione prima, ed importantissima fra
tutte, della nostra felicità, voglio indicare alcune regole
di condotta molto generali per conservarla e fortificarla.
Per farsi robusti è necessario, finchè si è in
buona salute, sottoporre il corpo nel suo insieme, come pure in
ciascuna delle sue parti, a sforzi ed a fatiche, e abituarsi a
resistere a tutto quello che può male impressionarlo, per
quanto bruscamente ciò possa succedere. Non appena, invece,
si manifesta uno stato morboso sia del tutto, sia d’una parte, si
dovrà ricorrere immediatamente al procedimento contrario,
vale a dire risparmiare e curare in ogni maniera il corpo o la parte
malata: perocchè chi è sofferente o snervato non
è suscettibile di esser aspramente invigorito.
I muscoli si fortificano; al contrario i nervi s’indeboliscono per
un forte uso. Conviene dunque esercitare i primi con tutti gli
sforzi convenienti e risparmiare invece qualunque sforzo ai secondi;
in conseguenza difendiamo gli occhi dalla luce troppo viva
specialmente quando è riflessa, dalla fatica della
semioscurità e del guardare a lungo oggetti troppo piccoli;
preserviamo egualmente le orecchie dagli strepiti troppo forti, ma
sopratutto evitiamo al cervello qualunque applicazione forzata,
sostenuta troppo a lungo od intempestiva; lo si lasci quindi
riposare durante la digestione perocchè allora quella stessa
forza vitale che, nella testa, forma i pensieri, lavora con tutti i
suoi sforzi nello stomaco e negli intestini a preparare il chimo ed
il chilo; esso deve egualmente riposare durante e dopo un lavoro
muscolare considerevole. Perocchè per i nervi motori come per
i nervi sensitivi le cose procedono nello stesso modo, e, come il
dolore provato in un membro leso ha la vera sua sede nel cervello,
così non sono le braccia e le gambe che faticano e camminano,
ma il cervello, cioè quella parte di esso che, per mezzo
della midolla allungata e della midolla spinale, eccita i nervi di
questi membri e li fa muovere. Perciò la fatica che proviamo
alle gambe od alle braccia ha la sua sede reale nel cervello; ed
è per questo che le membra il cui movimento è
sottomesso alla volontà, ossia ha impulso dal cervello, sono
i soli che si stancano, mentre quelli il cui lavoro è
involontario, come per esempio, il cuore, sono instancabili.
Evidentemente adunque sarà nuocere al cervello l’esiger da
esso un’attività muscolare energica e una grande tensione
dello spirito, sia simultaneamente, sia soltanto dopo un intervallo
di tempo troppo corto. Ciò non è per nulla in
contraddizione col fatto che al termine d’una passeggiata od in
generale dopo un breve cammino si prova un aumento
nell’attività dello spirito, perocchè in questo caso
non v’ha per anco fatica delle parti respettive del cervello, e
d’altra parte una leggera attività muscolare, accelerando la
respirazione, favorisce il salire del sangue arterioso, per di
più meglio ossigenato, al cervello. Ma bisogna sopratutto
dare ad esso la piena misura del sonno necessario al suo ristoro,
perchè il sonno è per la macchina umana ciò che
il caricamento della molla è per l’oriuolo. (Si veda Il mondo
come volontà e come fenomeno II, 217. — 3a ed. II, 240). Tale
misura dovrà esser tanto più grande quanto più
il cervello sarà sviluppato ed attivo; però
oltrepassarla sarebbe semplicemente uno sprecare il tempo,
perocchè allora il sonno perde in intensità ciò
che guadagna in estensione. (Si veda Il mondo come volontà e
come fenomeno II, 247. — 3a ed. II, 275). In generale persuadiamoci
bene del fatto che il nostro pensare non è altro che la
funzione organica del cervello, e che quindi esso si conduce, in
quanto riguarda la fatica e il riposo, in modo analogo a quello di
qualunque altra attività organica. Uno sforzo eccessivo
stanca il cervello come stanca gli occhi. Si è detto con
ragione: Il cervello pensa come lo stomaco digerisce. L’idea di
un’anima immateriale, semplice, essenzialmente e costantemente
pensante, quindi instancabile, che sarebbe come allogata a pigione
nel cervello, e che non avrebbe bisogno di cosa alcuna al mondo, una
tale idea ha certamente spinto più di qualcheduno ad una
condotta insensata, condotta che ha rintuzzato le sue forze
intellettuali; Federico il Grande, per esempio, non ha tentato una
volta di disavvezzarsi totalmente dal sonno? I professori di
filosofia dovrebbero bene non incoraggiare simili illusioni, dannose
anche in pratica, col loro sistema ortodosso di filosofia da
connocchia (Katechismusgerechtseynwollende Rocken-Philosophie).
Bisogna apprendere a considerare le forze intellettuali quali
funzioni fisiologiche allo scopo di saperle usare, risparmiare od
affaticare a proposito; si deve ricordarsi che ogni dolore, ogni
disagio, ogni disordine in una parte qualunque del corpo,
impressiona lo spirito. Per convincersi pienamente di tale
verità bisogna leggere: Cabanis, I rapporti del fisico e del
morale nell’uomo.
Si è per aver trascurato di seguire questo consiglio che
molte menti sublimi e molti grandi scienziati, sono caduti da vecchi
nell’imbecillità, nell’infanzia e insino nella follia. Se,
per esempio, celebri poeti inglesi del nostro secolo, quali Walter
Scott, Wordsworth, Southey, e vari altri, giunti a tarda età,
e pur anche fino dalla sessantina, sono divenuti intellettualmente
ottusi ed inetti, e talvolta imbecilli, senza dubbio bisogna
attribuirlo al fatto che sedotti da stipendi elevati, hanno tutti
esercitato la letteratura come un mestiere scrivendo per del danaro.
Un tal mestiere conduce ad una fatica contro natura: chiunque
sottomette il proprio Pegaso al giogo e spinge avanti la Musa colla
frusta dovrà espiarne la colpa nella stessa maniera di colui
che ha reso un culto forzato a Venere. Io credo che lo stesso Kant,
in età avanzata, già divenuto celebre, si sia dato ad
un lavoro eccessivo ed abbia provocato così quella seconda
infanzia in cui passò i suoi ultimi quattro anni di vita.
Ogni mese dell’anno ha un’influenza speciale e diretta, vale a dire
indipendente dalle condizioni meteorologiche, sulla nostra salute,
sullo stato generale del nostro corpo, ed insino sullo stato del
nostro spirito.
3. Circa la nostra condotta verso gli altri.
21.° Per mettersi fra la gente è utile portar seco una
buona provvista di circospezione e d’indulgenza; la prima ci
garantirà dai danni e dalle perdite, l’altra dalle contese e
dagli alterchi.
Chi è chiamato a vivere fra gli uomini non deve respingere in
modo assoluto alcuna individualità dal momento che essa
è già determinata e data dalla natura, fosse pure
l’individualità la più malvagia, la più
miserabile o la più ridicola. Ei deve piuttosto accettarla
come una immutabilità che, in virtù d’un principio
eterno e metafisico, deve essere quale è; e nel peggior dei
casi dirà a sè stesso: «Bisogna bene che vi sia
pure qualcuno di questa specie.» Che se prendesse la cosa
altrimenti, commetterebbe un’ingiustizia e provocherebbe l’altro ad
una lotta di vita e morte. Perocchè non v’ha uomo che possa
modificare la propria individualità, vale a dire il carattere
morale, le facoltà intellettuali, il temperamento, la
fisonomia, ecc. Se dunque condanniamo senza eccezione il suo essere,
non gli resterà che a combattere in noi un nemico mortale dal
momento che noi non vogliamo riconoscergli il diritto di esistere se
non alla condizione di diventare altra cosa da ciò che
è immutabilmente. Ed è per questo che, quando si vuol
stare fra gli uomini, bisogna lasciar vivere ciascheduno ed
accettarlo coll’individualità, qualunque essa sia, che gli
è toccata in sorte, occupandosi unicamente di utilizzarla in
quanto la sua qualità e la sua organizzazione lo permettono,
ma senza sperare di modificarla e senza condannarla puramente e
semplicemente così come è. Ecco il vero significato
del detto: «Vivere e lasciar vivere,» Tuttavia il
cómpito non è così facile come è giusto;
si chiami felice colui al quale è dato di poter evitare per
sempre certe individualità. Intanto, per imparar a sopportare
gli uomini, è buona cosa esercitare la pazienza sugli oggetti
inanimati che, in virtù d’una necessità meccanica o di
qualunque altra necessità fisica, contrariano ostinatamente
la nostra azione; a ciò fare abbiamo occasione ogni giorno.
Si apprende poi a trasportare sugli uomini la pazienza così
acquistata, e si finisce coll’avvezzarsi all’idea che anch’essi,
tutte le volte che ci sono di ostacolo, lo sono per forza maggiore,
in virtù d’una necessità naturale così rigorosa
come quella per cui agiscono le cose inanimate: che per conseguenza
è cosa tanto insensata sdegnarsi della loro condotta quanto
stizzirsi contro la pietra che viene a rotolare sui nostri passi.
Riguardo molte persone sarà più saggio dirsi:
«Non le cambierei, dunque voglio utilizzarle».
22.° È sorprendente il vedere a qual punto si manifesti
nella conversazione l’omogeneità o l’eterogeneità di
spirito e di carattere fra gli uomini; esse divengono sensibili alla
più piccola occasione. Tra due persone, di natura
essenzialmente diversa, che discorreranno sopra soggetti i
più indifferenti, i più strani, ogni frase dell’una
dispiacerà più o meno all’altra, e forse un solo detto
la farà montare in collera. Quando esse invece si
rassomiglino, sentono immediatamente ed in ogni cosa un certo
accordo che, quando l’omogeneità è molto spiccata, si
fonde in un’armonia perfetta, e può giungere insino
all’unissono. Con ciò si spiega in primo luogo perchè
gl’individui molto triviali sono tanto sociabili e trovano
così facilmente dappertutto quell’eccellente compagnia che
chiamano «buona e brava gente amabilissima». Succede
precisamente il contrario agli uomini che non sono volgari, ed essi
saranno tanto meno sociabili quanto più sono eminenti,
talmente che qualche volta nel loro isolamento potranno provare un
vero piacere nello scoprire presso un’altra persona una fibra
qualunque, fosse pur piccolissima, della loro stessa natura.
Perocchè ogni uomo non può essere per un altro se non
ciò che questi stesso è per lui. Come l’aquila, gli
spiriti realmente superiori vagano per le altezze, solitarî.
Ciò spiega, in secondo luogo, come gli uomini che hanno le
stesse inclinazioni si trovino così presto riuniti assieme,
come si attirino magneticamente: le anime sorelle si salutano da
lontano. Si potrà osservar questo più di frequente
presso gl’individui di sentimenti bassi o di scarsa intelligenza; ma
è unicamente perchè costoro si chiamano legione,
mentre gli animi buoni e nobili sono e si chiamano esseri d’alta
rarità. Sicchè succederà, per esempio, che in
qualche vasta associazione fondata in vista di risultati effettivi,
due bricconi matricolati si riconosceranno scambievolmente tanto
presto come se portassero una coccarda, e si avvicineranno subito
per immaginare qualche abuso o qualche tradimento. Medesimamente
supponiamo, per impossibile, una società numerosa composta
affatto da uomini intelligenti e di spirito, ma della quale
facessero parte pure due imbecilli; questi ultimi si sentirebbero
attratti simpaticamente l’uno verso l’altro, e ben presto ciascuno
di loro sarebbe contento nel suo cuore d’aver finalmente trovato
almeno una persona ragionevole. È in verità degno di
nota il vedere coi propri occhi come due esseri, principalmente fra
coloro che stanno ad un basso livello dal lato morale ed
intellettuale, si conoscono a prima vista, tendono ardentemente ad
avvicinarsi, si salutano con amore e con gioia, e corrono uno
incontro all’altro siccome vecchie conoscenze; tutto questo è
tanto maraviglioso che si è tentati d’ammettere, secondo la
dottrina buddistica della metempsicosi, che costoro si erano
già legati d’amicizia in una vita anteriore.
V’ha però un fatto che, anche nel caso della massima armonia,
mantiene gli uomini lontani gli uni dagli altri e che giunge fino a
creare tra loro una dissonanza transitoria: sarebbe esso la
differenza della disposizione del momento, disposizione che è
quasi sempre diversa per ogni persona secondo la sua situazione
momentanea, l’occupazione, l’ambiente, lo stato del corpo, il corso
attuale dei pensieri, ecc. Ecco quanto produce dissonanze fra
individualità che pure vanno d’accordo magnificamente bene.
Sforzarsi continuamente a correggere ciò che fa nascere
questi dissensi ed a stabilire l’eguaglianza della temperatura
ambiente, sarebbe l’effetto di una suprema coltura intellettuale. Si
avrà la misura di ciò che può produrre per la
società l’eguaglianza dei sentimenti dal fatto che i membri
d’una riunione, anche molto numerosa, saranno portati a comunicarsi
reciprocamente lo loro idee, a prender parte sinceramente
all’interesse ed al sentimento generale, non appena qualche causa
esterna, un pericolo, una speranza, una notizia, la vista d’una cosa
straordinaria, uno spettacolo, un trattenimento musicale, o non
importa quale altra cosa, viene ad impressionarli tutti nel medesimo
istante e nella stessa maniera. Perocchè questi motivi
soggiogano qualunque interesse particolare e creano in cotal guisa
l’unità perfetta di disposizione. In mancanza d’una tale
influenza oggettiva si ricorre d’ordinario a qualche espediente
soggettivo, ed allora si è la bottiglia che viene chiamata
abitualmente a procurare una disposizione comune alla compagnia. Il
tè ed il caffè sono del pari impiegati a tale effetto.
Ma quello stesso disaccordo che la diversità d’umore
introduce così facilmente in ogni società, porge anche
la spiegazione parziale del fatto che ciascuno apparisce come
idealizzato, qualche volta anzi trasfigurato nel ricordo, quando
questo non è più sotto l’impero dell’influenza
momentaneamente perturbatrice di cui tenemmo parola, o di qualunque
altra consimile. La memoria agisce nello stesso modo della lente
convergente nella camera oscura: essa riduce tutte le dimensioni, e
produce così un’immagine molto più bella
dell’originale. Ogni assenza ci procura parzialmente il vantaggio
d’esser veduti sotto un tale aspetto. Perocchè sebbene il
ricordo idealizzatore richieda un tempo considerevole, nondimeno il
suo lavoro comincia immediatamente. Per questo sarà buona e
saggia cosa non mostrarsi ai propri conoscenti ed amici che a lunghi
intervalli; si osserverà, nel rivedersi, che il ricordo ha
già lavorato.
23.° Nessuno può vedere al di là di sè
stesso. Voglio dire con ciò che non si può scorgere in
altri più di quello che si è in sè stessi,
perocchè ciascuno capisce e comprende un altro solamente
nella misura della sua propria intelligenza. Se questa è
della specie più bassa, tutti i doni intellettuali più
eminenti non lo impressioneranno affatto, ed egli non vedrà
nell’uomo così altamente dotato se non ciò che v’ha di
più basso nell’individualità, cioè tutte le
debolezze e tutti i difetti di temperamento e di carattere. Ecco di
che il grand’uomo sarà composto agli occhi suoi. Le alte
facoltà intellettuali dell’uno esistono così poco per
l’altro come i colori per i ciechi. E ciò viene perchè
qualunque genio resta invisibile per chi ne è privo; e
perchè qualunque valutazione rappresenta il prodotto del
valore dello stimato per la sfera d’apprezzamento dello stimatore.
Ne segue che quando si discorre con qualcuno si va a mettersi sempre
al suo livello, poichè tutto ciò che si ha al di sopra
sparisce, e di più il sacrifizio di sè stesso che
esige un tale aggiustamento rimane perfettamente disconosciuto. Se
dunque si rifletterà quanto la maggior parte degli uomini
abbia sentimenti e facoltà di bassa lega, in una parola
quanto essi sieno triviali, si vedrà che è cosa
impossibile parlare con loro senza diventare a sua volta triviale
durante questo intervallo (in analogia colla distribuzione
dell’elettricità); si comprenderà allora il
significato effettivo e la verità dell’espressione tedesca
«sich gemein machen» (rendersi famigliare), e si
cercherà di evitare qualunque compagnia colla quale non si
possa comunicare se non mediante la partie honteuse (la parte
più brutta) della propria natura. Si capirà egualmente
che in presenza di imbecilli o di pazzi non v’ha che una sola
maniera di mostrare che si è forniti di ragione: cioè
non parlare con essi. Ma è pur vero che allora, in
società, più di qualcheduno potrebbe trovarsi nella
situazione di un ballerino che entrasse in un ballo ove non ci
fossero che degli attrappiti: con chi danzerebbe egli?
24.° Io accordo tutta la mia stima, come ad un eletto fra cento
individui, a colui che essendo disoccupato, perchè aspetta,
non si mette immediatamente a dar colpi od a battere il tempo con
tutto ciò che gli viene in mano, bastone, coltello, forchetta
od altro oggetto qualunque. È probabile che quest’uomo pensi
a qualche cosa. Si conosce alla cèra della maggior parte
degli uomini che presso di essi la vista surroga interamente il
pensiero; costoro cercano di accertarsi della loro esistenza facendo
strepito, a meno che non abbiano in bocca un sigaro, ciò che
rende loro lo stesso servizio. Si è per la medesima ragione
che essi stanno costantemente cogli occhi e colle orecchie tese per
attendere a tutto quello che succede loro d’intorno.
25.° La Rochefoucauld ha molto giustamente osservato che
è difficile nello stesso tempo stimare ed amare assai un
uomo. Avremo dunque la scelta di brigare l’amore o la stima della
gente. L’amore è sempre interessato, benchè a titoli
diversi. Di più le condizioni con cui lo si acquista non sono
sempre tali da rendercene fieri. E prima di tutto ci faremo amare
nella misura a cui abbasseremo le nostre pretese di trovare spirito
e cuore presso gli altri, ma ciò seriamente, senza finzioni,
e non in virtù di quell’indulgenza che ha la sorgente nel
disprezzo. Per completare le premesse che ajuteranno a tirar la
conclusione, ricordiamo anche la sentenza così vera di
Helvetius: «Il grado di spirito necessario per piacerci
è una misura assai precisa del grado di spirito che abbiamo
noi stessi». Succede tutto il contrario quando si tratta della
stima degli uomini: non la si può ottenere che loro malgrado,
quasi strappandola; essi la tengono anche il più delle volte
nascosta. Ed è per tale ragione che questa ci procura una
soddisfazione interna molto più grande; essa è in
proporzione col nostro valore, ciò che non è vero
direttamente dell’amore della gente, perocchè l’amore
è soggettivo, mentre è oggettiva la stima. Ma il primo
ci è di certo più utile.
26.° Gli uomini, nella maggior parte, sono talmente personali
che, in sostanza, nessuna cosa ha interesse agli occhi loro se non
essi stessi, e ciò affatto esclusivamente. Ne risulta che,
qualunque sia l’argomento di cui si parla, essi pensano tosto a
sè stessi, e che tutto quello che, per azzardo e pur
lontanamente, si riferisce a cosa che li riguardi, attira e si
cattiva tanto completamente la loro attenzione che essi non hanno
più la libertà di capire la parte oggettiva del
discorso; medesimamente non v’hanno per loro ragioni valevoli dal
momento che queste contrariano il loro interesse o la loro
vanità. Perciò sono costoro così facilmente
distratti, così facilmente feriti, offesi ed afflitti che,
quando pure si parlasse con essi dal punto di vista soggettivo, non
importa su cosa, non si saprà mai guardarsi abbastanza da
tutto ciò che potrebbe nel discorso aver un rapporto
possibile, forse ingrato, col prezioso e delicato io che si ha
davanti; niente fuori di questo io, li interessa, e mentre non hanno
sensi nè sentimento per quanto v’ha di vero e di notevole, o
di bello, di fine, di spiritoso nelle parole altrui, possedono la
più squisita sensibilità per tutto ciò che, pur
da lontano ed in modo indiretto, può toccare la loro meschina
vanità o riferirsi svantaggiosamente, in qualsivoglia modo,
al loro inapprezzabile io. Somigliano davvero, nella loro
suscettibilità, a quei botoli sulle cui zampe è
così facile camminare per inavvertenza e di cui bisogna poi
sopportare il guaire, od anche ad un malato coperto di piaghe e di
lividure che si deve con ogni cura evitar di toccare. Ve n’ha di
quelli presso i quali la cosa arriva ad un tal punto che sentono
precisamente come un’offesa lo spirito ed il senno che si mostra o
che non si nasconde abbastanza nel parlar con loro; non lo danno a
vedere, è vero, al momento, ma in seguito colui che non ha
abbastanza esperienza rifletterà e si lambiccherà
inutilmente il cervello per sapere con che si abbia potuto attirare
il rancore e l’odio loro. Però è altrettanto facile
carezzarli e guadagnarseli. La loro sentenza quindi è
d’ordinario comperata: essa non è che un decreto in favore
del loro partito o della loro classe, e non un giudizio oggettivo ed
imparziale. Ciò viene perchè presso di essi la
volontà sorpassa di molto l’intelligenza, e perchè il
loro debole intelletto è affatto sommesso al servigio della
volontà da cui non può francarsi un solo istante.
Tale miserabile soggettività degli uomini che li fa riferire
tutto a sè stessi, e ritornare immediatamente e in dritta
linea da qualunque punto di partenza alla loro persona, è
provata sovrabbondantemente dall’astrologia, che rapporta il cammino
dei grandi corpi dell’universo al vilissimo io e che trova una certa
relazione tra le comete in cielo e le contese e le miserie sulla
terra. Ma così fu sempre, anche nei tempi più antichi
(si veda per esempio Stobeo, Egloghe, L. I, c. 22, 9, pag. 478).
27.° Non bisogna disperare ad ogni assurdità che si dice
in pubblico o in società, che si stampa nei libri e che
è bene accolta od almeno che non è confutata; e
nemmeno bisogna credere che essa rimarrà accettata per
sempre. Si sappia, a propria consolazione, che più tardi e
insensibilmente la cosa sarà ruminata, lucidata, meditata,
pesata, discussa, e il più delle volte finalmente giudicata,
di modo che, dopo uno spazio di tempo variabile in ragione della
difficoltà della materia, la gente quasi tutta finirà
col capire ciò che una mente chiara aveva scorto a prima
vista. È certo che nell’intervallo bisogna pazientare.
Perocchè l’uomo di senno fra persone che sono nell’errore
somiglia a colui che avesse l’orologio perfettamente giusto in una
città in cui tutti gli orologi fossero mal regolati. Ei solo
conosce l’ora precisa, ma che giova? Tutti prenderanno sempre norma
dai pubblici quadranti che indicano un’ora falsa: tutti, anche colui
che sapesse per caso come solamente l’orologio del primo segni l’ora
vera.
28.° Gli uomini somigliano ai fanciulli che prendono brutte
maniere quando sono viziati; non si deve quindi esser troppo
indulgenti o troppo amabili verso alcuno. Come ordinariamente non si
perderà un amico per avergli rifiutato un prestito, ma
piuttosto per averglielo accordato, così non lo si
perderà per un atteggiamento altero e per un po’ di
negligenza, ma piuttosto per un eccesso d’amabilità e di
cortesia: con ciò ei diviene arrogante, insopportabile, e la
rottura non tarda a predarsi. È sopratutto l’idea che si ha
bisogno di loro che gli uomini non possono assolutamente sopportare;
essa è sempre seguita inevitabilmente da arroganza e da
presunzione. Presso alcuni tale idea nasce già per questo
solo che una persona è in relazione e discorre di sovente e
famigliarmente con loro: s’immaginano tosto che bisogna mostrarsi
condiscendenti, e cercheranno di estendere i limiti della
gentilezza. Per questo havvi così scarsa gente da poter
frequentare con un po’ d’intimità; sopratutto poi si deve
guardarsi da qualunque domestichezza con esseri di basso grado. Che
se per disgrazia un individuo di questa specie s’immagina che io
abbia bisogno di lui assai più che egli non ne abbia di me,
proverà immediatamente un sentimento quale se io gli avessi
rubato qualche cosa: allora cercherà di vendicarsi e di
riacquistare la sua proprietà. Non aver mai ed in alcun modo
bisogno degli altri e farlo veder loro, ecco assolutamente la sola
maniera di mantenere la propria superiorità nelle relazioni.
Per conseguenza è cosa saggia far sentire a tutti, uomini e
donne, che si può benissimo star senza di loro; ciò
fortifica l’amicizia: è anche utile di lasciar qualche volta
introdursi un granellino di disdegno nel nostro atteggiamento verso
la maggior parte degli amici; essi non faranno che valutare a
più alto prezzo la nostra amicizia. «Chi non istima
vien stimato» dice finemente un proverbio italiano. Ma se
qualcuno avesse realmente un gran valore ai nostri occhi
bisognerebbe dissimularglielo come un delitto. Ciò che
davvero non è proprio piacevole, ma in cambio è
verissimo. A mala pena i cani sopportano una grande benevolenza; ben
altrimenti gli uomini.
29.° Le persone della specie più nobile e dotate delle
più alte facoltà tradiscono, specialmente in
gioventù, una mancanza sorprendente di conoscenza degli
uomini e di saper fare; si lasciano anche facilmente ingannare o
traviare, mentre esseri inferiori sanno molto meglio e molto
più prontamente vivere nel mondo; ciò succede
perchè, in mancanza d’esperienza, si deve giudicare a priori
e perchè in generale nessuna esperienza vale l’a priori. Alla
gente di calibro ordinario questo a priori è fornito dal loro
stesso io, mentre non lo è a coloro che hanno una nobile e
degna natura, perocchè è precisamente in questo che
costoro differiscono dagli altri. Valutando quindi i pensieri e gli
atti degli uomini ordinari secondo i loro proprî, il conto non
torna.
Ma anche quando un tal uomo avrà finalmente imparato a
posteriori, vale a dire dalle lezioni altrui e dalla propria
esperienza, ciò che deve aspettarsi dagli uomini; anche
quando avrà compreso che i cinque sesti di essi, tanto dal
lato morale quanto dal lato intellettuale, sono fatti in modo che
chi non è forzato dalle circostanze ad entrar in relazione
con loro, farà cosa molto buona evitandoli fin da bel
principio e tenendosi per quanto è possibile lontano dal loro
contatto, anche allora quest’uomo non potrà, ad onta di
tutto, avere una conoscenza sufficiente della loro piccolezza e
della loro meschinità; egli avrà per tutta la vita da
estendere e da completare questa nozione, ma fino allora farà
pur sempre calcoli falsi a suo svantaggio. Inoltre, benchè
imbevuto degli insegnamenti ricevuti, gli succederà qualche
volta ancora, trovandosi in una società di persone che non
conosce, di sentirsi meravigliato nello scorgere che tutti paiono
ragionevoli, leali, sinceri, onesti e virtuosi, e fors’anco
intelligenti e spiritosi. Ma che ciò non lo tragga dalla
buona strada, perchè deriva semplicemente dal fatto che la
natura non procede come i cattivi poeti i quali, quando devono
presentare un briccone od un pazzo, lo fanno così goffamente
e con un’intenzione così accentuata che si vede spuntare, per
così dire, dietro ognuno di questi personaggi l’autore a
sconfessarne costantemente il carattere e i discorsi, ed a gridar
forte in modo d’avvertimento: «costui è una canaglia,
quest’altro è un matto; non prestate fede a quello che
dicono». La natura invece agisce alla maniera di Shakespeare e
di Goethe: nelle opere di costoro, ogni personaggio, fosse pure il
diavolo stesso, per tutto il tempo in cui sta sulla scena, parla
come ragione vuole che parli; esso è concepito in modo
così oggettivamente reale che ci attrae e ci costringe a
prender parte a’ suoi interessi; simile alle creazioni della natura,
è lo sviluppo di un principio interno in virtù del
quale i suoi discorsi e i suoi atti appariscono come naturali e per
conseguenza necessari. Colui che crede che nel mondo i diavoli non
vadano mai senza corna e i pazzi senza sonagli sarà sempre
loro preda o loro zimbello. Aggiungiamo ancora a tutto questo che
nelle loro relazioni, gli umani fanno come la luna ed i gobbi, non
ci mostrano, cioè, che una sola faccia; essi hanno un talento
innato per trasformare con abile mimica il viso in una maschera che
rappresenta molto esattamente ciò che dovrebbero essere in
realtà; questa maschera tagliata esclusivamente sulla misura
della loro individualità, si adatta e conviene così
perfettamente bene ad essi che l’illusione è completa.
Ciascuno se l’applica ogni qual volta gli possa giovare per
insinuarsi con arti lusinghiere. Non bisogna fidarsi di essa
più che d’una maschera di tela cerata ricordando
quell’eccellente proverbio italiano: «Non è sì
tristo cane che non meni la coda».
Guardiamoci bene, in ogni caso, dal formarci un’opinione molto
favorevole di un uomo appena fattane la conoscenza; saremmo
d’ordinario disingannati a nostra confusione e forse pure a nostro
danno. Ancora una osservazione degna di nota: si è
precisamente nelle piccole cose, nelle quali non pensa a badare al
proprio contegno, che l’uomo svela il suo carattere; si è
nelle azioni insignificanti, qualche volta nelle semplici maniere,
che si può facilmente osservare quell’egoismo illimitato,
senza riguardo per alcuno, che non si smentirà mai in seguito
nelle cose grandi, ma che solamente sarà dissimulato. Che
occasioni simili non sieno perdute per noi! Quando un individuo si
conduce senza discrezione alcuna nei piccoli incidenti giornalieri,
nei piccoli affari della vita, ai quali si applica il motto:
«De minimis lex non curat» (La legge non si occupa di
piccolezze), quando ei non cerca nelle occasioni che il suo
interesse o i suoi comodi a danno degli altri, o si appropria
ciò che deve servire a tutti, ecc., questo individuo, siatene
pur certi, non ha in cuore il sentimento del giusto; ei sarà
un furfante anche nelle grandi circostanze ogni qual volta la legge
o la forza non gli legheranno le braccia; non permettete a
quest’uomo di passare la soglia di casa vostra. Sì, lo
affermo, colui che viola senza scrupolo le regole del suo club,
violerà egualmente le leggi dello Stato non appena
potrà farlo senza pericolo.
Quando un uomo col quale siamo in rapporti più o meno stretti
ci fa qualche cosa che ci dispiace o ci sdegna, noi non abbiamo che
da chiederci se egli ha o se non ha agli occhi nostri abbastanza
valore perchè accettiamo da parte sua una seconda volta ed a
riprese sempre più frequenti un trattamento simile, e
fors’anco più accentuato (perdonare o dimenticare significano
gettare dalla finestra l’esperienza acquistata a caro prezzo). Nel
caso affermativo, tutto è detto; perocchè
semplicemente parlare non servirebbe a nulla: bisogna allora lasciar
passare la cosa con o senza ammonizione; ma dobbiamo ricordarci che
in tal modo ce ne attireremo benevolmente la ripetizione. Nella
seconda alternativa è necessario, immediatamente e per
sempre, rompere ogni relazione col caro amico, o, se si tratta d’un
servo, congedarlo. Imperciocchè ei farà, rinnovandosi
il caso, inevitabilmente ed esattamente la stessa cosa, o qualche
cosa affatto analoga, quand’anche al momento ci giurasse ben
altamente e sinceramente il contrario. Si può tutto
dimenticare, tutto, eccetto sè stessi, eccetto il proprio
essere. Infatti il carattere è assolutamente incorreggibile,
perchè tutte le azioni umane partono da un principio intimo,
in virtù del quale un uomo deve sempre agire nella stessa
guisa trovandosi nelle stesse circostanze, e non può condursi
altrimenti. Leggete la mia memoria, premiata, sulla pretesa
libertà della volontà e cacciate ogni illusione.
Riconciliarsi con un amico col quale si aveva rotta l’amicizia
è dunque una debolezza che si dovrà espiare quando,
alla prima occasione, questi ricomincierà a fare precisamente
ciò che aveva determinato la rottura, e lo farà per di
più con maggior sicurezza, perchè ha la coscienza
secreta di esserci indispensabile. Tutto questo si applica
egualmente ai domestici congedati che riprendiamo al nostro
servizio. Dobbiamo ancor meno, e per gli stessi motivi, aspettarci
di veder che un uomo si comporti nello stesso modo della volta
precedente quando le circostanze sono cangiate. Chè invece la
disposizione e la condotta degli uomini cangiano altrettanto presto
quanto il loro interesse: le intenzioni che li muovono tirano le
loro lettere di cambio a vista così corta che bisognerebbe
veder corto ben di più per non lasciarle protestare.
Supponiamo ora che volessimo sapere come si condurrà una
persona in una situazione in cui abbiamo intenzione di metterla; per
ciò non bisognerà contare sulle sue promesse e sulle
sue asserzioni. Perocchè anche ammettendo che ne parli
sinceramente, essa parla pur sempre di una cosa che ignora. Si
è dunque dall’apprezzamento delle circostanze in cui
sarà per trovarsi, e del conflitto di queste col suo
carattere, che noi potremo renderci conto del suo agire futuro.
In tesi generale per acquistare la comprensione netta, profonda e
così necessaria della vera e triste condizione degli uomini,
è eminentemente istruttivo l’impiegare, qual commentario
della condotta e dei raggiri loro sul terreno della vita pratica, la
condotta ed i raggiri loro nel dominio della letteratura e
viceversa. Ciò è molto utile per non cadere in errore
su sè stessi, nè su loro. Ma nel corso di tale studio
qualunque tratto di grande infamia o stoltezza che potessimo
incontrare sia nella vita, sia in letteratura, non dovrà
prestarci soggetto per affliggerci o per metterci in collera; esso
dovrà servire unicamente alla nostra istruzione offrendoci un
lato complementare del carattere della specie umana, che sarà
buona cosa non dimenticare. In tal maniera osserveremo la faccenda
come il mineralogista esamina un saggio bene caratterizzato d’un
minerale cadutogli sotto la mano. V’ha delle eccezioni, ve n’ha pure
di incomprensibilmente grandi, e le differenze tra le
individualità sono immense; ma, preso in massa, lo si
è detto da lungo tempo, il mondo è cattivo; i selvaggi
si mangiano tra loro, e i popoli civili s’ingannano a vicenda, e
questo si chiama l’andamento delle umane cose. Gli Stati, coi loro
ingegnosi meccanismi diretti contro il di fuori e il di dentro, e
coi loro mezzi di coazione, cosa sono dunque se non misure stabilite
per mettere un limite alla illimitata perversità degli
uomini? Non vediamo forse in ogni storia, ciascun re, non appena
è solidamente assiso sul trono e non appena il suo paese gode
di qualche prosperità, profittarne per piombare colla sua
armata, come una banda di briganti, sugli Stati vicini? Tutte le
guerre non sono forse in sostanza atti di brigantaggio? Nella remota
antichità e così pure durante una parte del medio evo,
i vinti diventavano schiavi dei vincitori, ciò che, alla fin
fine, vuol dire che quelli dovevano lavorare per questi; ma coloro
che pagano contribuzioni di guerra devono fare altrettanto, ossia
dare il prodotto del lavoro già fatto: In tutte le guerre non
si tratta che di rubare, scrisse Voltaire, e che i Tedeschi se lo
tengano per detto.
30.° Nessun carattere è tale che si possa abbandonarlo a
sè stesso e lasciarlo andare liberamente; esso ha bisogno di
esser guidato con nozioni e massime. Che se, spingendo la cosa
all’estremo, si volesse fare del carattere non il risultato della
natura innata, ma unicamente il prodotto d’una deliberazione
ragionata, per conseguenza un carattere del tutto acquisito ed
artificiale, si vedrebbe tosto verificarsi la sentenza latina:
Naturam expelles furca, tamen usque recurret.
(Caccia a forza la natura, nullameno essa ritornerà sempre di
volo).
Infatti si potrà molto bene vedere od anche scoprire e
formulare perfettamente una regola di condotta verso gli altri, e
nondimeno nella vita reale si peccherà fin dal bel principio
contro di essa. Tuttavia non si deve per ciò perdere coraggio
e credere che sia impossibile il dirigere la propria condotta nella
vita sociale secondo regole e massime astratte, e che quindi valga
meglio lasciarsi andare alla buona. Perocchè di queste
succede come di tutte le istruzioni e direzioni pratiche;
comprendere la regola è una cosa, e saperla applicare
un’altra. La prima si acquista ad un tratto per mezzo
dell’intelligenza, la seconda a poco a poco per mezzo
dell’esercizio. All’allievo si son fatti vedere i tasti
dell’istromento, le parate e i colpi di fioretto; ma in pratica egli
s’inganna immediatamente malgrado la più buona volontà
e s’immagina allora che ricordarsi queste lezioni nella
rapidità della lettura musicale o nell’ardore d’un assalto
sia cosa quasi impossibile. E tuttavia un po’ per volta, a forza
d’inciampare, di cadere e di rialzarsi, l’esercizio finisce
coll’insegnargliele; lo stesso succede per le regole della
grammatica quando si apprende a leggere ed a scrivere in latino. Non
è altrimenti che un mascalzone diviene cortigiano; una testa
calda, un personaggio eminente; l’uomo aperto, abbottonato; il
nobile, sarcastico. Tuttavia questa educazione di sè,
ottenuta siffattamente con lunga abitudine, agirà sempre come
uno sforzo venuto dal di fuori, cui la natura non cesserà mai
dall’opporsi, e ad onta del quale finirà qualche volta
coll’irrompere da un varco inaspettato. Perocchè qualunque
condotta che abbia per motore massime astratte si riferisce ad una
condotta decisa dalla inclinazione primitiva ed innata, come un
meccanismo alla mano dell’uomo: per esempio un orologio, ove la
forma e il movimento sono imposti ad una materia che è
estranea ad essi, si riferisce ad un organismo vivente in cui forma
e materia si compenetrano scambievolmente e non formano che una cosa
sola. Tale rapporto tra il carattere acquisito e il carattere
naturale conferma il pensiero espresso dall’imperatore Napoleone:
«Tutto ciò che non è naturale è
imperfetto.» Questo è vero in tutto e per tutti, sia
nel fisico che nel morale; e la sola eccezione che io ricordi alla
regola si è la venturina naturale che non vale l’artificiale.
Guardiamoci quindi da qualunque affettazione. Essa provoca sempre il
disprezzo: prima di tutto è un inganno e come tale una
vigliaccheria, perchè si fonda sulla paura; e in secondo
luogo implica condanna di sè stesso per mezzo di sè
stesso, imperocchè si vuol parere ciò che non si
è, e si crede questo esser migliore di ciò che si
è. Il fatto d’affettare una qualità, di vantarsene,
è confessare di non possederla. Quanta gente si gloria, di
coraggio o di dottrina, d’intelligenza o di spirito, di successi
colle donne o di ricchezze o di nobiltà o d’altro, e si
potrà invece concludere che è precisamente su tale
capitolo che manca loro qualche cosa! Perocchè colui che
possede realmente e completamente una qualità non si pensa di
farne mostra e di affettarla; egli è perfettamente tranquillo
su tale rapporto. È questo che vuol dire il proverbio
spagnuolo: «Herradura que chacolotea clavo le falta» (A
ferratura crocchiante manca un chiodo). Non si deve certo, l’abbiamo
già detto, abbandonare affatto le redini e mostrarsi
interamente quali si è; perchè la parte cattiva e
bestiale della nostra natura è considerevole ed ha bisogno
d’esser velata; ma ciò non legittima che l’atto negativo, la
dissimulazione, e niente affattissimo il positivo, la simulazione.
Bisogna pure sapere che si scopre l’affettazione in un individuo
prima ancora di capir chiaro ciò ch’egli voglia precisamente
affettare. Infine la cosa non può durare a lungo, e la
maschera un giorno finirà col cadere: «Nessuno
può portare per lungo tempo la maschera; le cose finte ben
presto ritornano alla propria natura» (Seneca, De clementia,
L. I, c. 1).
31.° Nella stessa guisa che si porta il peso del proprio corpo
senza avvertirlo mentre si sentirebbe il peso di qualunque oggetto
estraneo che si volesse muovere, così non si scorgono che i
difetti e i vizî degli altri e non i proprî. In cambio
però ciascuno possede in altrui uno specchio nel quale
può vedere distintamente i suoi proprî vizî, i
suoi difetti, e le sue maniere grossolane e antipatiche. Ma
d’ordinario si fa come il cane che abbaja contro lo specchio
perchè non sa esser sè stesso ch’ei vede e s’immagina
invece d’aver davanti un altro cane. Chi critica gli altri lavora
alla correzione di sè medesimo. Coloro dunque che hanno una
tendenza abituale a sottoporre tacitamente nel loro fòro
interno ad una critica attenta e severa le maniere degli uomini, ed
in generale tutto ciò che questi fanno o non fanno, costoro
intendono a correggere ed a perfezionare sè stessi:
perocchè avranno abbastanza equità od almeno
abbastanza orgoglio e vanità per evitare ciò che hanno
tante volte e così rigorosamente biasimato in altrui.
L’opposto succede per i tolleranti, cioè: «Hanc veniam
damus petimusque vicissim.» (Concediamo il perdono e lo
chiediamo a nostra volta). Il vangelo moralizza mirabilmente bene su
coloro che scorgono la pagliuzza nell’occhio del vicino, e che non
vedono la trave nel proprio; ma la natura dell’occhio non gli
permette di guardare che al di fuori ed esso non può quindi
veder sè medesimo; per questo, notare e biasimare i difetti
degli altri è un mezzo opportunissimo per farci sentire i
nostri. Ci occorre uno specchio per correggerci. Questa regola
è buona ugualmente quando si tratta dello stile e del modo di
scrivere; chi in tali materie ammira qualunque nuova pazzia,
anzichè biasimarla, finirà col farsene imitatore.
Perciò in Germania siffatto genere di follia si diffonde
tanto presto. I Tedeschi sono tolleranti: lo si scorge benissimo.
Hanc veniam damus petimusque vicissim, ecco la loro impresa.
32.° L’uomo di specie nobile, in gioventù, crede che le
relazioni essenziali e decisive, che creano veri legami tra gli
uomini, sieno quelle di natura ideale, vale a dire quelle fondate
sulla conformità del carattere, della piega dello spirito,
del gusto, dell’intelligenza, ecc.; ma si avvede più tardi
che sono invece le reali, cioè quelle che sono stabilite su
qualche interesse materiale. Sono esse che formano la base di tutti
i rapporti, e la maggioranza degli uomini ignora che ve ne sieno
d’altra specie. Per conseguenza ciascuno è scelto in ragione
del suo ufficio, della sua professione, del suo paese o della sua
famiglia, in generale dunque secondo la posizione e la parte
attribuitagli dalla convenzione; si è con tale concetto che
viene scompartita e classificata, come articoli di fabbrica, la
gente. Invece ciò che un individuo è in sè e
per sè, come uomo, in virtù delle qualità sue,
non è preso in considerazione se non a piacimento, per
eccezione; ciascuno mette queste cose da un lato non appena gli
convien meglio, e le dimentica. Quanto più un uomo
avrà un valore personale, tanto meno potrà convenirgli
una tale classificazione; cercherà quindi di sottrarvisi.
Osserviamo tuttavia che tale maniera di trattare è fondata
sul fatto che nel mondo, in cui regnano la miseria e l’indigenza, i
mezzi che servono a tenerle lontane sono la cosa essenziale e
necessariamente predominante.
33.° Come la carta monetata circola sul mercato in luogo del
danaro, così invece della stima e dell’amicizia genuine sono
la loro dimostrazione esterna ed il loro atteggiamento imitati
quanto più naturalmente è possibile, che hanno corso
nel mondo. Si potrebbe, è vero, domandarsi se havvi proprio
gente che meriti stima ed amicizia. Checchè ne sia ho
più fiducia in un bravo cane quando dimena la coda che in
tutte queste dimostrazioni e cerimonie. La vera, la sincera amicizia
presuppone che, fra amici, l’uno prenda una parte vivissima,
puramente oggettiva ed affatto disinteressata, alla felicità
ed alle disgrazie dell’altro, e tale associazione suppone a sua
volta un reale identificarsi con l’amico. L’egoismo della natura
umana è talmente opposto a questo sentimento che l’amicizia
vera fa parte di quelle cose circa le quali s’ignora, come per il
gran serpente di mare, se appartengano al regno delle favole o se
esistano in qualche luogo. Tuttavia si danno qualche volta fra gli
uomini certe relazioni le quali, benchè fondate in essenza su
motivi segretamente egoistici di molteplice natura, sono condite
nullameno d’un grano di amicizia genuina e sincera, ciò che
basta a dar loro una tale impronta di nobiltà che possono, in
questo mondo delle imperfezioni, portare con qualche diritto il nome
d’amicizia. Tali relazioni si levano altamente sopra gli
avvicinamenti d’ogni giorno; questi sono di tale natura che noi non
rivolgeremmo più mai la parola alla maggior parte delle
nostre buone conoscenze se intendessimo ciò che esse dicono
di noi in nostra assenza.
A lato dei casi nei quali si ha bisogno di serî soccorsi e di
sacrifizî considerevoli, la migliore occasione per mettere
alla prova la sincerità d’un amico si è il momento in
cui gli annunciate una disgrazia che vi ha improvvisamente colpito.
Vedrete allora dipingersi sul suo viso un’afflizione vera, profonda
e schietta, od al contrario colla sua calma imperturbabile, con uno
sberleffo d’un istante confermerà la massima di La
Rochefoucauld: «Nelle sventure dei nostri migliori amici
troviamo sempre qualche cosa che non ci dispiace.» Coloro che
sono detti abitualmente amici possono appena, in tali occasioni,
reprimere il piccolo fremito, il leggero sorriso di soddisfazione.
V’hanno poche cose che mettano la gente così indubitatamente
di buon umore come il racconto di qualche calamità che ci ha
colpito recentemente od anche la confessione sincera che si fa loro
di qualche debolezza personale. È cosa invero caratteristica.
La lontananza e la lunga assenza portano danno a qualunque amicizia,
sebbene non lo si confessi volentieri. Le persone che non vediamo
più, fossero pure nostri carissimi amici, insensibilmente col
passar del tempo svaniscono fino allo stato di nozioni astratte,
ciò che fa che il nostro interesse per loro diventi sempre
più un semplice affare di ragionamento, anzi di tradizione;
il sentimento vivo e profondo resta serbato per coloro che abbiamo
davanti gli occhi, quand’anche non fossero che gli animali
prediletti. Siffattamente la natura umana è guidata dai
sensi. Qui ancora Goethe ha ragione di dire: Il presente è
una divinità grandissima (Tasso, atto IV, scena IV).
Gli amici di casa sono d’ordinario ben chiamati con questo nome,
perchè sono più attaccati alla casa che al padrone di
essa; costoro somigliano ai gatti piuttosto che ai cani.
Gli amici si dicono sinceri: solamente i nemici sono sinceri;
perciò si dovrebbe, per imparare a conoscere sè
stesso, approffittarsi del loro biasimo come d’una medicina amara.
Sono rari gli amici nel bisogno? Al contrario! Appena si è
fatto amicizia con un uomo, ecco che questi è tosto in
bisogno e che vi chiede a prestito denaro.
34.° Come bisogna esser novizî per credere che il far
mostra di spirito e di senno sia un mezzo per riescire ben visti in
società! Chè, ben al contrario, ciò suscita
presso la maggior parte della gente un sentimento di odio e di
rancore tanto più amaro in quanto che chi lo prova non
è autorizzato a dichiararne il motivo; anzi lo dissimula pure
a sè stesso. Ecco dettagliamente come succede la faccenda:
fra due interlocutori non appena uno osserva e sente una grande
superiorità nell’altro, ne conchiude tacitamente e senza
averne la coscienza ben chiara che costui pure osserva e sente nel
medesimo grado l’inferiorità e lo spirito limitato di chi gli
sta davanti. Tale contrasto eccita al più alto grado il suo
odio, il suo rancore, la sua rabbia. Perciò Graciano dice con
ragione: «Il solo mezzo che valga per rimaner tranquilli si
è il vestire la pelle del più semplice fra gli
animali». Mettere in luce spirito e senno è un modo
indiretto di rimproverare agli altri l’incapacità e la
stupidezza. Una natura volgare s’irrita all’aspetto della natura
opposta; motore secreto dello stizzirsi è l’invidia.
Perocchè soddisfare alla propria vanità è, come
lo si può scorgere ogni momento, un piacere che presso gli
uomini passa avanti ogni altro, ma che però non è
possibile se non in virtù d’un confronto fra sè stessi
e gli altri. E non si danno meriti di cui gli uomini sieno
più fieri che di quelli dell’intelligenza, visto che su di
essi è fondata la loro superiorità riguardo gli
animali. È dunque una grandissima temerità il mostrar
loro una spiccata superiorità intellettuale, sopratutto
davanti testimoni. Ciò provoca la loro vendetta, e
d’ordinario essi cercheranno d’esercitarla colle ingiurie,
perocchè passano così dal dominio dell’intelligenza a
quello della volontà nel quale siamo tutti eguali. Se dunque
la posizione e le ricchezze possono sempre contare in società
sulla considerazione, le qualità intellettuali non devono
aspettarsela; ciò che può loro toccare di meglio si
è che non si faccia loro attenzione; che altrimenti saranno
considerate come una specie d’impertinenza o come un bene che
è stato acquistato per vie illecite e di cui il proprietario
ha l’audacia di gloriarsi; per questo ciascuno si propone
tacitamente di infliggergli in appresso qualche umiliazione su tale
proposito, e allo scopo non attende che l’occasione favorevole.
Appena con umilissimo atteggiamento si riescirà a strappare,
come una elemosina, il perdono della propria superiorità
intellettuale. Dice Saadi nel Gulistan: «Sappiate che si trova
presso l’uomo irragionevole cento volte più d’avversione per
il ragionevole di quello che questi non ne provi per il
primo.» L’inferiorità intellettuale invece equivale ad
un vero titolo di raccomandazione. Perocchè il sentimento
benefico della superiorità è per lo spirito ciò
che il calore è per il corpo; ciascuno s’avvicina
all’individuo che gli procura tale sensazione per lo stesso istinto
che lo spinge ad avvicinarsi alla stufa o ad andarsi a mettere sotto
i raggi del sole. Ora a ciò non v’ha che l’individuo
assolutamente inferiore, nelle facoltà intellettuali per gli
uomini, in bellezza per le donne. Conviene confessare che per
lasciar scorgere, in presenza di certa gente, una inferiorità
non simulata bisogna possederne una buona dose. In cambio vedete con
quale amabile cordialità una ragazza mediocremente bella va
incontro ad una essenzialmente brutta. Il sesso maschile non annette
grande valore ai vantaggi fisici, benchè si preferisca meglio
trovarsi a lato d’una persona più piccola piuttosto che di
una più grande di sè stessi. Per conseguenza fra gli
uomini sono gli sciocchi e gl’ignoranti che riescono graditi e
cercati dovunque, fra le donne le brutte; si fa loro immediatamente
la riputazione d’aver un cuore eccellente, visto che ciascheduno ha
bisogno d’un pretesto per giustificare le proprie simpatie agli
occhi di sè stesso e degli altri. Per la medesima ragione
qualunque superiorità di spirito ha la proprietà
d’isolare: la si fugge, la si odia e per aver un pretesto a
ciò si prestano a chi la possede difetti d’ogni sorta. La
bellezza produce esattamente lo stesso effetto tra le donne; le
ragazze, quando sono molto belle, non trovano amiche e nemmeno
compagne. Che esse non s’immaginino di cercare in qualche parte un
posto di damigella di compagnia; non appena si presenteranno, il
viso della dama presso la quale sperano entrare si farà
scuro; perocchè, sia per suo conto, sia per le sue figlie,
essa non ha affatto bisogno del risalto d’una bella figura. Avviene
invece ben altrimenti quando si tratta dei vantaggi del grado,
perchè questi non agiscono, come i meriti personali, per
effetto del contrasto e del rilievo, ma per riverbero, come i colori
circonvicini quando si riflettono sul viso.
35.° La pigrizia, l’egoismo e la vanità hanno molto
spesso la parte più grande nella confidenza che noi
concediamo ad altri: la pigrizia, quando per non esaminare, curare,
operare da noi stessi, preferiamo confidarci ad un’altra persona;
l’egoismo, quando il bisogno di parlare degli affari nostri ci porta
a fare qualche confidenza ad alcuno; la vanità quando questi
affari sono tali da rendercene gloriosi. Ma ad onta di ciò
non pretendiamo meno che si apprezzi la nostra confidenza. Noi al
contrario non dovremmo mai essere irritati per la diffidenza,
perchè essa racchiude un complimento all’indirizzo della
probità ed è la confessione sincera della sua estrema
scarsezza la quale fa sì che essa appartenga a quelle cose di
cui si mette in dubbio l’esistenza.
36.° Ho presentato nella mia Morale, p. 201 (2a ed. 198). una
delle basi della compitezza, virtù cardinale presso i
Chinesi; l’altra è la seguente. La compitezza è
stabilita sopra una convenzione tacita di non osservare gli uni
presso gli altri la miseria morale ed intellettuale della condizione
umana e di non rinfacciarsela reciprocamente; d’onde risulta che
essa appare meno facilmente con vantaggio d’ambo le parti.
Compitezza è prudenza; scortesia dunque è
balordaggine; farsi dei nemici senza necessità e senza motivo
colla rozzezza è follia: la stessa cosa come se si dasse
fuoco alla propria casa. Perocchè la cortesia è, come
i gettoni, moneta notoriamente falsa: risparmiarla è prova di
demenza, usarne con liberalità, di senno. Tutte le nazioni
terminano le lettere colla formola: «Votre très-humble
serviteur, Your most obedient servant, Suo devotissimo servo»;
solo i Tedeschi sopprimono il «Diener» (servo),
perchè non è vero, dicono. Chi invece spinge la
compitezza fino al sacrifizio d’interessi reali, somiglia all’uomo
che desse monete d’oro per gettoni. Nella stessa guisa che la cera
dura e fragile per sua natura, diviene per mezzo d’un po’ di calore
così malleabile da prendere quella forma qualunque che
piacerà darle, così pure si può, con un
granellino di cortesia e di amabilità, render pieghevoli e
compiacenti perfino uomini burberi ed ostili. La compitezza è
dunque per l’uomo ciò che il calore è per la cera.
Però davvero è questo un grave compito, nel senso che
c’impone testimonianze di stima per tutti, quando la maggior parte
della gente non ne merita punto; esige inoltre che abbiamo da
fingere il più vivo interesse, quando dovremmo invece
starcene beati di non sentirne affatto. Mettere insieme la politezza
e la dignità è un colpo da maestro.
Le offese, consistendo sempre alla fin fine in manifestazioni di
mancanza di considerazione, non ci metterebbero così
facilmente fuori di noi se, da una parte, non nutrissimo una
opinione molto esagerata del nostro alto valore e della nostra
dignità, ciò che è proprio d’un orgoglio
smisurato, e se, d’altra parte, ci rendessimo conto di quello che
ordinariamente ognuno, in fondo al cuore, crede e pensa riguardo gli
altri. Quale stonante contrasto pertanto tra la
suscettibilità della maggior parte degli uomini per la
più leggera allusione critica diretta contro di loro, e
ciò che i medesimi dovrebbero udire se potessero sorprendere
quanto dicono di essi le loro conoscenze! Faremmo ottima cosa
ricordandoci sempre che la compitezza non è che una maschera
beffarda; in tal modo non ci metteremmo a strillare come pavoni ogni
volta che la maschera si sposta un po’, o che viene smessa per un
momento. Quando un individuo diventa apertamente villano è la
stessa cosa come se si spogliasse delle sue vesti e si mostrasse in
puris naturalibus. Certamente apparirebbe molto brutto, come la
maggior parte della gente in tale stato.
37.° Non bisogna modellarsi sopra un altro per quello che si
vuol fare o non fare, perchè le situazioni, le circostanze,
le relazioni non sono mai le stesse e perchè anche la
differenza di carattere dà tutt’altra tinta all’azione; per
questo «duo cum faciunt idem, non est idem» (quando due
persone fanno la stessa cosa, questa tuttavia non risulta la
stessa). Occorre, dopo matura riflessione, dopo seria meditazione,
agire conformemente al proprio carattere. L’originalità
è dunque indispensabile anche nella vita pratica; senza di
essa ciò che si fa non s’accorda con ciò che si
è.
38.° Non combattete l’opinione altrui; pensate che se si volesse
correggere la gente di tutte le assurdità a cui crede non si
avrebbe finito quand’anche si vivesse gli anni di Matusalem.
Asteniamoci inoltre nel conversare da qualunque osservazione
critica, quando pure questa fosse fatta nella migliore intenzione,
perciocchè offendere gli uomini è cosa facile,
difficile invece, se non impossibile, correggerli.
Quando in una conversazione le assurdità che sentiamo
cominciano a metterci in collera, dobbiamo immaginare d’assistere ad
una scena di commedia tra due pazzi: «Probatum est.»
L’uomo nato per istruire il mondo sugli argomenti più
importanti e più seri può chiamarsi fortunato quando
se ne tira sano e salvo.
39.° Chi vuole che la sua opinione trovi credito deve enunciarla
freddamente e spassionatamente. Perocchè qualunque impeto
procede dalla volontà; è dunque a questa, non alla
ragione, che è fredda di sua natura, che sarebbero attribuiti
i giudizi espressi. Infatti essendo la volontà nell’uomo il
principio radicale, ed essendo la ragione solo secondaria e venuta
accessoriamente, si considererà il raziocinio come nato dalla
volontà eccitata, piuttosto che l’eccitazione della
volontà come prodotta dal raziocinio.
40.° Non si deve abbandonarsi a lodare sè stessi,
quand’anche se ne avesse tutto il diritto. Imperocchè la
vanità è cosa tanto comune, e il merito tanto raro,
che ogni qual volta sembrerà che ci lodiamo, per quanto
indirettamente ciò avvenga, ciascuno scommetterà cento
contro uno che per mezzo della nostra bocca ha parlato solo la
vanità, perchè essa non ha abbastanza buon senso per
capire la ridicolaggine della millanteria. Nondimeno Bacone da
Verulamio potrebbe non affatto aver torto quando pretende che il
«semper aliquid haeret» (ne resta sempre qualche cosa)
non sia vero solamente della calunnia, ma anche della lode di
sè, e quando raccomanda quest’ultima a dosi moderate.
41.° Quando sospettate qualcuno di menzogna, fingete
credulità; allora ei diverrà sfrontato, mentirà
più spudoratamente, e sarà smascherato. Se invece
scorgete che una verità che vorrebbe dissimulare, gli sfugge
in parte, fate l’incredulo affinchè, provocato dalla
contraddizione, ei metta fuori tutta la riserva.
42.° Consideriamo tutti i nostri affari personali quali secreti;
al di là di ciò che i nostri buoni conoscenti veggono
coi proprî occhi, conviene restar loro del tutto ignoti.
Imperciocchè quello che essi saprebbero circa le cose le
più innocenti può, a tempo ed a luogo, esserci
funesto. In generale val meglio manifestare il proprio senno con
ciò che si tace piuttosto che con ciò che si dice.
Effetto di prudenza nel primo caso, di vanità nel secondo. Le
occasioni di tacersi e quelle di parlare si presentano in numero
eguale, ma noi preferiamo spesso la momentanea soddisfazione che
procurano le ultime al profitto durabile che ricaviamo dalle prime.
Si dovrebbe rifiutarsi perfino quel sollievo che si prova parlando
qualche volta ad alta voce con sè stessi, ciò che
tocca facilmente alle persone di gajo umore, per non prenderne
l’abitudine; perocchè con questo il pensiero diventa l’anima
ed il fratello della parola a tal punto che insensibilmente
arriviamo a parlare anche cogli altri come se pensassimo ad alta
voce, mentre la prudenza raccomanda di mantenere un largo fosso
sempre aperto tra il pensiero e la parola.
Ci sembra talora che gli altri non possano assolutamente credere ad
una cosa che ci riguarda, mentre invece non pensano minimamente a
dubitarne; se però ci avviene di risvegliare in essi un tal
dubbio, allora infatti non potranno più prestarvi fede. Ma
noi ci tradiamo unicamente coll’idea che è impossibile che
non lo si noti; ci precipitiamo così da noi stessi da
un’altezza per effetto del capogiro vale a dire del pensiero che non
sia possibile di restare solidamente a quel posto e che l’angoscia
di esser là sia così straziante che valga meglio
abbreviarla: tale illusione si chiama vertigine.
D’altra parte bisogna tener a mente che tutti, anche coloro che
altrove non fanno mostra di perspicacia, sono eccellenti algebristi
quando si tratta degli affari personali altrui; su quest’argomento,
data una sola quantità, essi sciolgono i più
complicati problemi. Se, per esempio, si racconta loro una storia
passata sopprimendo i nomi e tutte le altre indicazioni sulle
persone, bisogna guardarsi bene dall’introdurre nella narrazione il
più piccolo dettaglio positivo e speciale, come la
località, o la data, o il nome d’un personaggio secondario, o
qualunque cosa che avesse connessione anche lontanissima
coll’affare, perocchè essi troverebbero subito una grandezza
stabilita positivamente, per mezzo della quale il loro talento
algebrico dedurrebbe tutto il resto. L’esaltamento della
curiosità in questo caso è tale che col suo ajuto la
volontà mette gli sproni sui fianchi dell’intelletto, il
quale, spinto in siffatta guisa, giunge ai risultati più
lontani. Perciocchè tanto gli uomini hanno scarsa attitudine
e curiosità per le verità generali, quanto sono avidi
delle verità individuali.
Ecco perchè il silenzio è stato così
istantemente raccomandato da tutti i maestri di saggezza cogli
argomenti più svariati in appoggio. Non occorre quindi che io
insista più a lungo; mi limiterò a riportare alcune
massime arabe molto efficaci e poco note: «Non dire all’amico
ciò che non deve sapere il nemico». — «È
necessario che io custodisca il mio secreto, esso è mio
prigioniero; non appena me lo lascio sfuggire, divento io suo
prigioniero». — «Dall’albero del silenzio pende per
frutto la tranquillità».
43.° Non v’ha danaro meglio impiegato di quello che ci siamo
lasciato rubare, imperciocchè esso ci ha servito
immediatamente a comperare della prudenza.
44.° Non conserviamo, per quanto sia possibile, animosità
contro alcuno; contentiamoci di notar con cura il
«procedere» di chi ci avvicina, e ricordiamocene per
stabilire con ciò il valore di ciascheduno almeno su quanto
ci riguarda, e per regolare in conseguenza il nostro atteggiamento e
la nostra condotta verso la gente; si sia sempre ben convinti che il
carattere non cangia mai: dimenticare un tratto villano è un
gettare dalla finestra danaro guadagnato penosamente. Ma seguendo la
mia raccomandazione si sarà protetti contro la pazza
confidenza, e contro la pazza amicizia.
«Non aver amore nè odio» compendia metà
della più alta saviezza; «non dir verbo e non credere
in cosa alcuna», ecco l’altra metà. Davvero che si
volterà ben volentieri la schiena ad un mondo che rende
necessarie regole come queste e come le seguenti.
45.° Mostrar odio o collera nelle parole o nelle fattezze
è inutile, è dannoso, imprudente, ridicolo, volgare.
Non si deve palesare odio o collera che cogli atti. In questa
seconda maniera si otterrà un effetto tanto più sicuro
quanto meglio si seppe guardarsi dalla prima. Gli animali a sangue
freddo soli sono velenosi.
46.° «Parler sans accent»: questa vecchia regola
della gente di mondo insegna che si deve lasciare all’intelligenza
altrui la cura di decifrare ciò che si è detto; la
facoltà di comprendere è lenta, e, prima che si sia
svolta interamente, voi siete lontani. Invece «parler avec
accent» significa indirizzarsi al sentimento, e allora tutto
è rovesciato. Havvi tal gente a cui, con gesto cortese ed in
tuono amichevole, si può dire in realtà delle
sciocchezze senza pericolo immediato.
4. Circa la nostra condotta
di faccia all’andamento del mondo ed alla sorte.
47.° Qualunque aspetto presenti l’umana esistenza, gli elementi
ne sono sempre eguali; perciò l’essenza rimane la stessa si
viva pure in una capanna od alla Corte, in convento o nell’armata.
Ad onta della loro varietà gli avvenimenti, le avventure, i
casi lieti o tristi della vita somigliano agli articoli del
confettiere; le figure sono svariate e numerose, ve n’ha di
circolari o di screziate, ma tutto esce dalla stessa pasta, e gli
accidenti toccati ad una persona sono molto più simili a
quelli avvenuti ad un’altra che questa sentendone il racconto non
pensi. I casi della nostra vita hanno anche simiglianza colle figure
del caleidoscopio: ad ogni giro vediamo qualche combinazione nuova
mentre in realtà abbiamo sotto gli occhi sempre la stessa
cosa.
48.° Tre potenze dominano il mondo, dice molto acutamente un
antico: «συνεσις, κρατος, και τύχη,» prudenza, fortezza
e fortuna. Io credo che quest’ultima sia la maggiore.
Imperciocchè il cammino della vita possa esser paragonato al
corso di un bastimento. La sorte, la τύχη, la secunda aut adversa
fortuna, fa la parte del vento che rapidamente spinge da lontano,
avanti o indietro, mentre contro di essa poco valgono i nostri
sforzi e le nostre cure. Si è ufficio di queste il servire da
remi; quando, dopo molte ore di lungo lavoro ci hanno portato in
avanti d’un tratto di via, ecco che un colpo improvviso di vento ci
respinge indietro d’altrettanto. Se all’incontro il vento è
favorevole, ci manda avanti così bene che possiamo fare a
meno di remo. Un proverbio spagnuolo esprime con energia
incomparabile questa potenza della sorte: «Da ventura a tu
hijo, y echa lo en el mar» (dà fortuna al figliuolo tuo
e buttalo in mare).
Ma il caso è una malvagia potenza, cui dobbiamo fidarci il
meno possibile. Eppure qual’è, fra tutti i dispensatori di
beni, il solo che quando ci dà, ci dimostra nel tempo stesso
chiaramente che non abbiamo diritto ai doni suoi e che non ne
dobbiamo render grazie al nostro merito, ma alla sua bontà ed
al suo favore, e che in conseguenza ci è permesso di nutrire
la gioconda speranza di ottenere in seguito, umilmente sottomessi,
nuovi regali, altrettanto poco meritati? E il caso: il caso che sa
l’arte sovrana di far comprendere luminosamente che di faccia al suo
favore ed alla sua grazia qualunque merito è privo di forza e
di valore.
Quando si getta indietro uno sguardo sul cammino della vita, e
quando, abbracciando nell’insieme il suo corso tortuoso e perfido
come un laberinto, si scorge la felicità tante volte fallita,
la sventura tante volte tirataci addosso, allora si sarà
facilmente condotti a passar la misura dei rimproveri verso
sè stessi. Perocchè il corso della nostra esistenza
non è unicamente semplice opera nostra; bensì il
prodotto di due fattori, cioè la serie degli avvenimenti e la
serie delle nostre decisioni, che si compenetrano e si modificano
scambievolmente. Di più avviene che in ambedue questi fattori
il nostro orizzonte è sempre assai circoscritto, non potendo
noi di lontano predire le nostre decisioni, nè ancor meno
prevedere gli avvenimenti, ma solo di questi e di quelle conoscere
veramente ciò che è presente al momento. Ne segue che
non possiamo, finchè la meta è lontana, nemmeno una
volta dirigere diritto su essa il nostro timone; ma solo in via
approssimativa e dietro congetture volgere per quel verso la nostra
direzione; spesso dunque ci conviene bordeggiare. Infatti tutto
quello che ci è dato di poter fare si è di deciderci
ogni volta secondo le circostanze presenti, nella speranza di
coglier abbastanza giusto per raggiungere lo scopo principale. In
questo senso gli avvenimenti e le nostre risoluzioni più
importanti sono ordinariamente da paragonare a due forze che
agiscono in direzioni differenti e di cui la diagonale rappresenta
il corso della vita nostra. Terenzio ha detto: «Succede della
vita degli uomini come di una partita di dadi: se non si ottiene il
punto di cui si ha bisogno, è necessario saper tirar partito
da quello che la sorte ha dato»; Terenzio in questo punto deve
aver avuto in vista una specie di tric-trac. Più brevemente
possiamo dire: la sorte distribuisce le carte e noi giuochiamo. Ma
l’esempio che segue è il più adatto a spiegare la
presente mia osservazione. Nella vita le cose passano come nel
giuoco degli scacchi; noi ci facciamo un piano: questo però
rimane subordinato a quanto piacerà fare nella partita
all’avversario, e nella vita al destino. Le modificazioni che il
nostro piano subisce sono, molto spesso, così grandi che
nell’esecuzione esso è appena riconoscibile da qualche linea
fondamentale.
Del resto nel corso della nostra vita havvi qualche cosa ancora che
sta sopra a tutto ciò. È infatti una verità
volgare e troppo sovente confermata che noi siamo spesso più
pazzi che non si creda; in cambio l’essere più savi che non
si supponga è tale scoperta che solo possono fare, e per di
più ben tardi, coloro che si sono trovati in questo caso.
Qualche cosa c’è in noi di più accorto della testa.
Vale a dire che nei grandi momenti, nei passi più importanti
della nostra vita noi operiamo non tanto secondo la nozione chiara
del giusto quanto in virtù di un impulso interno, impulso che
potremmo chiamare istinto proveniente dalle profondità intime
dell’esser nostro: dopo di che il nostro operare viene alterato da
un concetto delle cose chiaro bensì, ma meschino, anzi
accattato da regole generali, da esempi altrui, e così di
seguito, senza che sia ponderato il detto: «quello che giova
ad uno non giova a tutti»; in siffatta guisa diveniamo
facilmente ingiusti verso noi medesimi. Alla fine si conosce chi ha
avuto ragione, e solo la vecchiaia raggiunta felicemente è
soggettivamente ed oggettivamente in condizione di giudicare la
quistione.
Forse cotesto impulso interno è diretto, senza che noi ce ne
avvediamo, da sogni profetici, dimenticati allo svegliarci, sogni
che appunto così danno alla nostra vita quell’intonazione
armonica e quell’unità drammatica che non le potrebbe
procurare la coscienza cerebrale così spesso vacillante e
fallace, e così facilmente variabile; per ciò forse
avviene, per esempio, che l’uomo chiamato a produrre grandi opere in
un ramo speciale, ne ha, fino dalla giovinezza, il sentimento intimo
e secreto, e lavora in vista di tale risultato come l’ape alla
costruzione del suo alveare. Ma per ogni uomo, ciò che lo
spinge si è quella forza che Baldassare Graciano chiama
«la grande sinderesi», vale a dire la cura istintiva ed
energica di sè stesso, senza di cui l’essere va a rovina.
Agire secondo principî astratti è cosa malagevole, e
non riesce che dopo lunga pratica, e non sempre; spesso anche tali
principi sono insufficienti. All’incontro ognuno possede certi
principî innati e concreti, che sono per lui sangue e vita,
perchè risultato di tutto il suo pensare, del suo sentire e
del suo volere. Il più delle volte non li conosce in
abstracto; solamente portando lo sguardo sulla sua vita passata,
scorge che ha sempre obbedito loro, e che fu da essi guidato come da
un filo invisibile. Secondo le loro qualità, essi lo
condurranno al bene suo, od al suo male.
49.° Bisognerebbe aver sempre davanti gli occhi l’azione del
tempo e la mutabilità delle cose; per conseguenza in tutto
quello che accade attualmente, poter immaginare l’opposto:
rappresentare dunque a sè con vivi colori nella sventura la
felicità, nell’amicizia la nimistà, nel tempo sereno
la cattiva stagione, nell’amore l’odio, nella fiducia e
nell’espansione il tradimento e il pentimento, e viceversa.
Troveremmo così una fonte perenne di vera filosofia pratica
su questa terra, perocchè saremo sempre cautamente avveduti,
nè così facilmente soggetti ad inganni. Del resto nei
casi più frequenti non avremo con ciò che anticipato
sull’azione del tempo. Ma forse per nessun’altra conoscenza umana
è tanto necessaria l’esperienza quanto per il giusto
apprezzamento dell’instabilità e del mutare delle cose.
Siccome ogni situazione, nel tempo della sua durata, esiste
necessariamente e quindi di pieno diritto, sembra che ogni anno,
ogni mese ed ogni giornata varranno finalmente a conservarci un tale
diritto per l’eternità. Ma nessuna cosa dura, la
mutabilità sola è veramente esistente e positiva.
Saggio è colui che non è ingannato dall’apparente
stabilità delle cose, e che inoltre sa prevedere il nuovo
indirizzo che sarà preso nel prossimo cambiamento. Che gli
uomini in via ordinaria tengano come permanente lo stato momentaneo
delle cose o la direzione del loro corso, deriva da ciò, che
essi pure avendo sotto gli occhi l’effetto non ne comprendono le
cause; eppure sono queste che racchiudono in sè il germe dei
mutamenti futuri, mentre gli effetti, che soli esistono per costoro,
non contengono nulla di simile. Si tengono al risultato nella
presupposizione che le cause ignote che ebbero il potere di
produrlo, saranno pure in condizione di mantenerlo. Hanno in questo
il vantaggio, quando sbagliano, di sbagliare all’unisono; ne segue
dunque che la sventura, da cui sono colpiti in conseguenza
dell’errore, è sempre generale, mentre il pensatore, quando
s’inganna, si trova per di più isolato. Incidentalmente
dirò come si abbia in questo una conferma della mia massima
che l’errore procede sempre da una conclusione di effetto a causa.
(Si veda Il mondo come volontà e come rappresentazione, v. I,
p. 90).
Tuttavia solo in via teoretica, e prevedendo la sua azione, dobbiamo
anticipare sul tempo: non in via pratica; ciocchè vuol dire
che non si deve commettere usurpazioni sull’avvenire domandando
prima del tempo quello che solamente col tempo ci può esser
dato. Chiunque agisce così, esperimenterà presto che
non v’ha davvero peggior usuraio, nè più irremissibile
del tempo; e che esso, se costretto ad imprestiti, esige interessi
più gravi che forse non farebbe un ebreo. Si può, ad
esempio, con calce viva e calore spingere la vegetazione d’un albero
per modo che nel termine di pochi giorni metta foglie, fiori e
frutta; ma poi esso muore. Se il giovinetto vuole esercitare, anche
solo per pochi giorni, la potenza virile dell’uomo, e fare a
dicianov’anni ciò che gli sarebbe facile a trenta, il tempo
gliene concederà bene il prestito, ma una parte della forza
degli anni avvenire, forse una parte della sua stessa vita,
servirà d’interesse. Vi sono malattie dalle quali
radicalmente non si guarisce se non lasciando ad esse il loro corso
naturale; dopo di che spariscono da sè medesime senza lasciar
traccia. Ma se si esige pronta guarigione, proprio sul momento
preciso, anche in questo caso il tempo dovrà dare a prestito;
la malattia sarà vinta, ma il frutto da pagare sarà
costituito da debolezza e da mali cronici per tutta la vita.
Allorchè in tempo di guerra o di agitazioni popolari, si
vuole valersi di danaro, e subito, proprio nel momento stesso, si
è costretti a vendere per il terzo del loro valore, e forse
per meno ancora, i beni immobili o le carte dello Stato, di cui si
avrebbe l’intero prezzo se si lasciasse tempo al tempo, ossia se si
volesse aspettare qualche anno; ma invece si costringe il tempo ad
un imprestito. Ovvero si abbisogna di una somma per un viaggio
lontano: in capo ad uno o due anni si potrebbe avere il danaro
necessario risparmiando sulle proprie rendite. Ma non si vuole
aspettare: si cercherà dunque quanto occorre a credenza, o lo
si toglierà dal capitale; in altre parole ecco il tempo
costretto ad un nuovo prestito. Qui l’interesse sarà un
disordine di cassa sempre maggiore, un deficit permanente e
crescente da cui non ci libereremo mai. Tale l’usura del tempo;
tutti coloro che non sanno aspettare saranno sue vittime. Non havvi
impresa più arrischiata del voler affrettare il corso
misurato del tempo. Guardiamoci dunque dall’essergli debitori
d’interessi.
50.° Tra i cervelli ordinarî ed i sensati havvi una
differenza caratteristica che si produce assai spesso nella vita
privata, ed è che i primi quando riflettono sopra un pericolo
possibile di cui vogliono apprezzare la grandezza, non cercano e non
considerano se non ciò che può già esser
avvenuto di simile; mentre gli altri pensano da sè stessi
ciò che può accadere, ricordandosi del proverbio
spagnuolo che dice: «Quello che non succede nel termine di un
anno, succede in capo a pochi momenti». Del resto la
differenza di cui parlo è affatto naturale, perocchè
per abbracciare collo sguardo quanto può accadere, si
richiede l’intelletto, e per vedere quello che è successo
bastano i sensi.
Sia nostra massima: Sacrifichiamo agli spiriti maligni! Il che
significa che non dobbiamo indietreggiare di fronte ad un certo
consumo di cure, di tempo, d’incomodi, di difficoltà, di
danaro o di privazioni, quando si può così chiudere
l’accesso alla eventualità d’una disgrazia e fare che quanto
più il pericolo è grave tanto più la
possibilità ne divenga piccola, lontana ed inverosimile. La
dimostrazione più evidente di questa regola è il
premio d’assicurazione. Esso è un sacrifizio pubblico e
generale sull’altare degli spiriti cattivi.
51.° Nessun avvenimento deve farci prorompere in grida esagerate
d’allegrezza o di lamento, in parte a cagione della
mutabilità delle cose che può ad ogni momento
cangiarne l’aspetto, e in parte a cagione della fallacia dei nostri
giudizi su ciò che per noi può riescire di vantaggio o
di pregiudizio; così succede a tutti, almeno una volta in
vita, di gemere per ciò che più tardi fu provato
essere loro vero e maggior bene, ovvero di rallegrarsi di ciò
che divenne poi per essi fonte di immensi guai. Il sentimento
raccomandato or ora o presentato da Shakespeare nella bella
espressione: «Ho provato tante scosse di gioja e di dolore che
mai, al primo aspetto di essi, mi lascio trasportare qual
femminuccia verso l’uno o l’altro» (Tutto è bene....
atto 3°, scena 2a).
In generale colui che rimane serenamente tranquillo dinanzi ad ogni
sventura, mostra di conoscere quanto colossali e moltiformi sieno i
mali possibili della vita, per cui considera la disgrazia
sopraggiuntagli come una piccolissima parte di ciò che
potrebbe accadergli: è questo il sentimento stoico
conformemente al quale l’uomo non deve esser mai conditionis humanae
oblitus (dimentico della condizione umana), ma invece aver sempre in
mente quanto sia triste e deplorevole il destino dell’umana vita,
quanto innumerevoli i guai a cui è esposta. A tener vivo tale
sentimento basta gettare dovunque uno sguardo solo intorno a
sè; e da per tutto si avrà tosto sotto gli occhi
lotte, angoscie, crucci per un’esistenza misera, nuda,
insignificante. Allora s’imparerà a moderare le proprie
esigenze, allora si saprà adattarsi all’imperfezione di tutte
le cose e di ogni stato, ed aspettare le disgrazie per poterle
scansare o sopportarne il peso. Perocchè le sventure, grandi
e piccole, sono l’elemento della nostra vita. Ecco ciò che
dovremmo sempre aver presente allo spirito senza per questo, da veri
δυσκολος (uomini difficili), lamentarsi e andar in convulsioni con
Beresford in causa delle miseries of human life, e meno ancora in
pulicis morsu Deum invocare (invocar Dio per la puntura d’una
pulce); bensì, da ευλαβης, (uomini circospetti) spingere
tanto oltre la prudenza nel prevenire o nel metter argine alle
sventure, sia che vengano dalle persone sia dalle cose, e
perfezionarsi siffattamente in quest’arte, che si possa, quali volpi
astute, scansare gentilmente qualunque piccolo o grande accidente
(che ordinariamente non è che un’inettitudine mascherata).
La ragione principale per cui un avvenimento doloroso ci riesce meno
grave a sopportare quando lo abbiamo già considerato come
possibile, e che, come si dice, vi ci siamo preparati, deve esser la
seguente: quando pensiamo con calma ad una disgrazia prima che ci
colga, come ad una semplice possibilità, ne abbracciamo
l’estensione chiaramente e da ogni lato, e così la
riconosciamo circoscritta e definibile; di maniera che, quando essa
succede, non potrà esercitare i suoi effetti oltre la sua
vera ed intrinseca gravità. Se all’incontro non abbiamo preso
queste precauzioni, se saremo colti all’impensata, allora lo spirito
turbato non può, al primo momento, misurare esattamente la
grandezza della disgrazia, e siccome non la vede a colpo d’occhio,
se la rappresenta immensurabile, od almeno molto maggiore che in
fatto non sia. Nella stessa guisa l’oscurità e l’incertezza
ingrandiscono ogni pericolo. Naturalmente a ciò si aggiunge
che noi, prevedendo come possibile una sventura, abbiamo nel tempo
stesso considerato i motivi di conforto ed i rimedi, o per lo meno
ci siamo abituati all’immagine di essa.
Ma nulla vale a renderci meglio atti a sopportare tranquilli e
dignitosi i casi tristi che ci colgono, quanto il convincimento di
quella verità che ho fermamente stabilito, e svolta fino ne’
suoi primi principi, nella mia opera premiata sopra Il libero
arbitrio, dove dissi a pag. 62 (60 della 2a ed.): «Tutto
quello che accade, dalle più grandi alle più piccole
cose, accade necessariamente». Perocchè
nell’inevitabile necessità l’uomo sa raccapezzarsi presto, e
la conoscenza della nozione or ora esposta fa sì che egli
consideri tutti gli avvenimenti, anche quelli prodotti dai casi
più strani, come altrettanto necessari quanto quelli che
derivano da leggi notissime e che si conformano alle più
esatte previsioni. Rimando dunque il lettore a ciò che ho
detto (si veda Il mondo come volontà e come rappresentazione.
V. I, pag. 345 e 346 [361 della 3a ed.]) sull’influenza calmante che
esercita la nozione dell’inevitabile e del necessario. Chiunque se
ne sarà ben penetrato farà da prima tutto ciò
che può fare, soffrirà poi coraggiosamente ciò
che deve soffrire.
Le piccole traversie che ad ogni ora ci molestano, si possono
considerare come destinate a tenerci in esercizio perchè la
forza necessaria a sopportare le grandi sventure non abbia da
infiacchirsi nei giorni felici. Contro gl’impicci quotidiani, i
disgusti leggeri del commercio cogli uomini, le difficoltà
insignificanti, le sconvenienze sgarbate, le chiacchere e simili
cose ancora, si deve essere invulnerabili, vale a dire non solamente
non curarsene e non macchinarci sopra, ma nemmeno avvertirli; non
lasciamoci toccare da essi, cacciamoli col piede come i sassi della
strada, e non ammettiamoli in nessun modo nell’intimo secreto delle
nostre riflessioni e deliberazioni.
52.° D’ordinario sono semplicemente le loro stesse stupidaggini
che la gente chiama destino. Dunque non si potrà mai prendere
abbastanza in seria considerazione il bel passo di Omero (Iliade,
XXIII, v. 313 e seg.), là dove ei raccomanda la μητις,
cioè la circospezione. Perocchè se anche le
malvagità nostre venissero espiate soltanto nell’altro mondo,
si è proprio in questo che si paga il fio delle balordaggini,
benchè di tempo in tempo possa accadere che ci venga fatta
grazia in luogo di giustizia.
Non è il carattere violento, ma la prudenza che fa apparire
terribili e minacciosi; tanto il cervello dell’uomo è arma
più formidabile dell’artiglio del leone.
L’uomo di mondo più perfetto sarebbe colui che non rimanesse
mai paralizzato nell’indecisione, nè mai si lasciasse vincere
dalla precipitazione.
53.° Il coraggio è, dopo la prudenza, una condizione
essenziale per la felicità nostra. Certamente non si
può dare a sè medesimi nè l’una nè
l’altra di queste qualità, che si eredita la prima dal padre,
e la seconda dalla madre; tuttavia con proponimenti fermamente presi
e coll’esercizio si arriva ad aumentare quella parte che già
si possede. In questo mondo in cui
Cadon qual ferro della sorte i dadi,
è necessario un carattere di ferro, corazzato contro il
destino ed armato contro gli uomini. Perchè tutta la vita
è lotta, ogni passo ci viene disputato, e Voltaire dice con
ragione: «A questo mondo non si va avanti che colla punta
della spada, e si muore coll’arma in mano». È quindi
anima codarda quella che al primo accavallarsi di nuvole, od anche
solo al loro presentarsi sull’orizzonte, si ripiega sopra di
sè, sbigottisce, e si querela. Sia piuttosto nostra impresa:
Tu ne cede malis, sed contra audentior ito.
(Non ceder all’avversità, ma va arditamente contro di essa).
Finchè l’esito di una cosa pericolosa è ancora dubbio,
finchè rimane la possibilità d’un risultato
favorevole, non vi disanimate, ma pensate alla resistenza, nello
stesso modo che non si deve disperare del bel tempo fino a che resta
ancora un lembo azzurro nel cielo. Occorre saper dire:
Si fractus illabatur orbis,
Impavidum ferient ruinae.
(Se il mondo crollasse infranto, le sue ruine (mi) colpirebbero
impavido).
Nè l’intera vita istessa, nè con più ragione, i
suoi beni, meritano alla fin fine tanto codardo timore e tante
angoscie:
Quocirca vivite fortes,
Fortiaque adversis opponite pectora rebus,
(Per la qual cosa vivete da forti, ed opponete gagliardo il petto
all’avversità).
Eppure anche qui l’eccedere è possibile: il coraggio
può degenerare in temerità. Però il timore, in
una certa misura, è necessario alla conservazione della
nostra esistenza sulla terra; la codardia non è che
l’esagerazione di esso. Ciò ha espresso acutamente Bacone da
Verulamio nella sua spiegazione etimologica del terror panicus,
spiegazione che si lascia molto addietro l’altra più antica
dovuta a Plutarco (De Iside et Osir., c. 14). Bacone fa derivare il
terror panicus da Pane, come dalla natura personificata, ed
aggiunge: «La natura ha messo il sentimento della paura e del
terrore in tutto ciò che è vivo per conservare la vita
e la sua essenza, e per evitare ed allontanare i pericoli.
Però questa stessa natura non sa conservare la misura: ma
confonde sempre le paure salutari colle vane ed inutili, talmente
che troveremmo (se ci fosse dato di vederne l’interno) tutti gli
esseri, e specialmente le creature umane, invasi sempre da timori
panici» (De sapientia veterum, VI). Del resto ciò che
caratterizza il timor panico si è che esso non è
chiaramente consapevole della sua causa; la presuppone più
che non la conosca, e, occorrendo, fa valere la paura stessa come
fondamento alla paura.
_________
CAPITOLO VI.
___
Sulla differenza delle età della vita.
Voltaire ha detto mirabilmente bene:
Qui n’a pas l’esprit de son âge
De son âge a tout le malheur.
Converrà dunque che, per chiudere queste considerazioni
eudemonologiche, gettiamo uno sguardo sulle modificazioni che
l’età porta in noi.
In tutto il corso della nostra vita, possediamo soltanto il
presente, e niente di più, colla sola differenza che, in
primo luogo, da principio vediamo un lungo avvenire dinanzi a noi e
verso la fine un lungo passato dietro di noi; e che, in secondo
luogo, il nostro temperamento, mai il carattere, percorre una serie
di modificazioni conosciute, ciascuna delle quali dà al
presente una tinta differente.
Ho esposto nella mia opera principale (V. II, C. 31, p. 394 [451
della 3a ediz.]) come e perchè nell’infanzia siamo assai
più portati verso la conoscenza che non verso la
volontà. Precisamente su ciò è stabilita quella
felicità del primo quarto della vita la quale lo fa apparire
più tardi dietro di noi come un paradiso perduto. Noi non
abbiamo, durante l’infanzia, che relazioni poco numerose e bisogni
limitati, quindi scarsa eccitazione della volontà: la parte
maggiore del nostro essere è impiegata a conoscere.
L’intelletto, come il cervello, che a sette anni raggiunge tutta la
sua grandezza, si sviluppa di buon’ora, benchè non diventi
maturo che più tardi, e studia questa esistenza ancora nuova
in cui tutto, assolutamente tutto, è rivestito della
brillante vernice che gli è data dall’incanto della
novità. Per questo i nostri anni d’infanzia sono poesia non
interrotta. Perocchè l’essenza della poesia, e così di
tutte le arti, consiste nello scorgere in ogni cosa isolata l’idea
platonica, vale a dire l’essenziale, ciò che è comune
a tutta la specie; ciascun oggetto ci appare così come il
rappresentante di tutto il suo genere, e un caso ne vale mille.
Quantunque sembri che nelle scene della nostra giovane età
noi non siamo occupati se non dell’oggetto o dell’avvenimento
attuale, e ciò anche solamente perchè la nostra
volontà del momento vi si è interessata, in sostanza
non è così. Infatti la vita, con tutta la sua
importanza, si offre a noi ancora così nuova, così
fresca, con impressioni così poco affievolite da un frequente
rinnovarsi, che, con tutto il nostro fare infantile, ci occupiamo,
in silenzio e senza marcata intenzione, a scoprire nelle scene e
negli avvenimenti isolati, l’essenza stessa della vita, i tipi
fondamentali delle sue forme e delle sue immagini. Noi vediamo, come
lo esprime Spinoza, gli oggetti e le persone sub specie
æternitatis. Quanto più siamo giovani, tanto più
ogni cosa isolata rappresenta per noi il suo genere tutto intero.
Tale effetto va diminuendo gradatamente di anno in anno; ed è
per questo che si determina quella differenza così
considerevole fra l’impressione che è prodotta su noi dagli
oggetti nell’infanzia e quella che ne riceviamo nell’età
avanzata. Le esperienze e le cognizioni acquistate durante
l’infanzia e la prima gioventù divengono poi i tipi costanti
e le rubriche di tutte le esperienze e cognizioni ulteriori, le
categorie, per così dire, alle quali aggiungiamo, senza
averne sempre coscienza precisa, tutto ciò che incontriamo
più tardi. Così si forma, fino dai primi anni di vita
la base solida del nostro modo, superficiale o profondo, di
concepire il mondo; in seguito si sviluppa e si completa, ma non
cangia più ne’ suoi punti principali. In virtù dunque
di questa maniera di veder le cose, puramente oggettiva, per
conseguenza poetica, essenziale all’infanzia, in cui è
mantenuta dal fatto che la volontà è ancora ben
lontana dal manifestarsi con tutta la sua energia, il fanciullo si
occupa molto più a conoscere che a volere. Da ciò
quello sguardo serio, contemplativo, di certi ragazzi, dal quale
Raffaello ha tratto partito così felicemente per i suoi
angeli, sopra tutto nella Madonna della Cappella Sistina. Per
ciò egualmente gli anni d’infanzia sono tanto felici che il
loro ricordo va sempre unito ad un doloroso rimpianto. Mentre da una
parte noi ci consacriamo così, con tutta serietà, alla
conoscenza intuitiva delle cose, dall’altra parte l’educazione si
occupa a procurarci nozioni. Ma le nozioni non ci danno l’essenza
stessa delle cose; questa, che costituisce il fondo e il vero
contenuto di tutte le nostre cognizioni, è stabilita sulla
comprensione intuitiva del mondo. La quale però può
essere acquistata soltanto da noi stessi, e non potrebbe in alcuna
guisa esserci insegnata. Ne deriva che il nostro valore
intellettuale, proprio come il morale, non entra in noi dal di
fuori, ma sorte dal nostro proprio essere, e che tutta la scienza
pedagogica d’un Pestalozzi non arriverà mai a fare un
pensatore di un uomo nato imbecille: no! mille volte no! chi
è nato imbecille, imbecille deve morire. Tale comprensione
contemplativa del mondo esterno esposto di recente alla nostra
vista, spiega anche perchè tutto quello che si è
veduto ed appreso in giovinezza s’imprima così fortemente
nella memoria. In fatti vi ci siamo occupati esclusivamente, niente
ci ha distratti, ed abbiamo considerate le cose che vedevamo come
uniche della loro specie, anzi come le sole esistenti. Più
tardi il numero considerevole di cose conosciute ci toglie il
coraggio e la pazienza. Se si vorrà ricordar ciò che
ho esposto nel secondo volume della mia opera principale (p. 372
[423 della 3a ediz.]), cioè che l’esistenza oggettiva di
tutte le cose, vale a dire nella rappresentazione pura, è
sempre gradevole, mentre la loro esistenza soggettiva, che sta nel
volere, è unita in buona dose a dispiaceri e dolori, allora
si ammetterà facilmente, come espressione riassuntiva del
fatto, la proposizione seguente: Tutte le cose sono belle a vedersi
e orribili nel loro essere (alle Dinge sind herrlich zu sehn, also
schrecklich zu seyn). Da quanto precede risulta che, durante
l’infanzia, gli oggetti ci sono ben più noti dal lato della
vista, della rappresentazione cioè, dell’oggettività,
che non dal lato dell’essere, che è nello stesso tempo quello
della volontà. Siccome il primo è il lato gradevole, e
che il soggettivo ed orribile ci resta ancora ignoto, il giovane
intelletto prende tutte le immagini che la realtà e l’arte
gli presentano per altrettante cose eccellenti: egli s’immagina che
come sono belle a vedersi, così ed anche di più, lo
sieno nel loro essere. Perciò la vita gli appare come un
eden: è questa quell’arcadia in cui noi tutti siamo nati. Ne
deriva un po’ più tardi la sete della vita reale, il bisogno
urgente di agire e di soffrire che ci caccia irresistibilmente nel
tumulto del mondo. Quivi impariamo a conoscere l’altra faccia delle
cose, quella dell’essere, vale a dire della volontà, che
tutto viene ad attraversare ad ogni passo. Allora a poco a poco
s’avvicina il grande disinganno; quando è giunto si dice:
«L’età delle illusioni è passata», e pure
il disinganno si fa sempre più grande e diventa sempre
più completo. Sicchè possiamo dire che nell’infanzia
la vita si presenta come una decorazione da teatro veduta da
lontano, nella vecchiaia come la stessa decorazione veduta da
vicino.
Ecco pure un sentimento che contribuisce alla felicità
dell’infanzia: come nei primi giorni di primavera qualunque fogliame
ha lo stesso colore e quasi la stessa forma, così nella prima
giovinezza ci rassomigliamo tutti, e andiamo d’accordo
perfettamente. Non è che colla pubertà che comincia la
divergenza, la quale va sempre aumentando, pari a quella dei raggi
d’un cerchio.
Ciò che turba, ciò che rende infelici gli anni di
giovinezza, il rimanente di questa prima metà della vita
tanto preferibile alla seconda, si è la caccia alla
felicità intrapresa nel fermo convincimento che la si possa
trovare nell’esistenza. Ecco la fonte della speranza sempre delusa,
che genera a sua volta lo scontento. Le immagini ingannatrici d’un
vago sogno di felicità volano davanti gli occhi nostri sotto
forme capricciosamente scelte, e noi cerchiamo invano il loro tipo
originale. Perciò siamo durante la giovinezza quasi sempre
mal soddisfatti del nostro stato e del nostro ambiente qualunque si
siano, perocchè ad essi attribuiamo ciò che dovremmo
sempre riferire alla inanità od alla miseria della vita
umana, colle quali allora facciamo conoscenza per la prima volta,
dopo esserci aspettati ben altra cosa. Si guadagnerebbe molto nel
toglier di buon’ora, con adatti insegnamenti, questa illusione,
propria alla gioventù, che vi siano grandi cose da trovare
nel mondo. Ma succede invece che la vita si fa conoscere a noi per
mezzo della poesia prima di rivelarsi colla realtà.
All’aurora della nostra giovinezza le scene che l’arte ci dipinge si
spiegano brillanti sotto i nostri occhi, ed eccoci tormentati dal
desiderio di vederle realizzate, di afferrare l’arco baleno. Il
giovane si aspetta la vita sotto la forma d’un romanzo interessante.
Così nasce quell’illusione che ho descritta nel secondo
volume della mia opera già citata (p. 374 [428 della 3a
ediz.]). Perocchè ciò che presta il loro incanto a
tutte queste immagini si è il fatto che esse sono
precisamente immagini e non realtà, e che contemplandole noi
ci troviamo nello stato di calma e di soddisfazione perfetta della
conoscenza pura. Realizzarle vuol dire essere occupato dalla
volontà, e questa porta con sè infallibilmente il
dolore. Qui pure devo rimandar il lettore, cui l’argomento
interessa, al secondo volume del mio libro (p. 427 [488 della 3a
ediz.]).
Se dunque carattere della prima metà della vita è
un’aspirazione insaziata alla felicità, carattere dell’altra
metà è il timore della sventura. Perocchè a
quell’ora si ha conosciuto più o meno nettamente che ogni
bene è chimerico, ogni dolore, invece, reale. Allora gli
uomini, quelli almeno il cui giudizio è sensato, in luogo
d’aspirare al piacere non cercano più che uno stato franco da
dolori e da inquietudini. Quando nei miei anni di gioventù
sentiva battere alla mia porta, io era tutto allegro perchè
mi dicevo: «Ah! finalmente!» Più tardi, nella
medesima situazione, ne ricevevo un’impressione piuttosto vicina al
terrore, e pensavo: «Ahimè ! di già!» Gli
esseri eminenti e largamente dotati, coloro che, per ciò
stesso, non appartengono del tutto al resto degli uomini e si
trovano più o meno isolati in proporzione dei loro meriti,
provano pure riguardo la società umana questi due sentimenti
opposti: in giovinezza spesso quello di esserne abbandonati,
nell’età matura quello d’esserne liberati. Il primo, che
è penoso, deriva dalla loro ignoranza: il secondo, gradevole,
dalla conoscenza del mondo. Ne segue che la seconda metà
della vita, come la seconda parte d’un periodo musicale, ha meno
foga e più quiete della prima: e succede così
perchè la gioventù s’immagina meraviglie immense circa
la felicità ed i piaceri che si possono incontrare sulla
terra e crede che la difficoltà stia solo nel raggiungerli,
mentre la vecchiezza sa che non v’ha cosa alcuna da cercare;
tranquilla su tale proposito, essa gusta qualunque attualità
sopportabile, e prende piacere perfino alle cose più piccole.
L’uomo maturo coll’esperienza della vita ha guadagnato anzitutto
l’assenza di prevenzioni, per cui vede il mondo in una maniera
diversa dall’adolescente e dal giovane. Egli, per la prima volta,
comincia a veder le cose semplicemente ed a prenderle per quello che
sono, mentre agli occhi di lui giovane e fanciullo un’illusione
formata da vaneggiamenti creati da sè stessi, da pregiudizi
ereditati, e da strane fantasticherie, velava o deformava il mondo
reale. Primo lavoro che l’esperienza trova da compiere si è
quello di liberarci dalle chimere e dalle false nozioni accumulate
durante la giovinezza. Garantirne i giovani sarebbe certamente la
migliore educazione che si potesse dar loro, benchè essa sia
semplicemente negativa; ma è questo un affare assai
difficile. Occorrerebbe a questo scopo cominciare col mantener
l’orizzonte del fanciullo ristretto quanto più è
possibile, non procurargli in questo limite che nozioni chiare e
giuste, e non allargarglielo che gradatamente quando egli avesse la
conoscenza esattissima di tutto quello che vi è compreso,
avendo cura che non vi resti all’oscuro, o che non sia intesa
incompletamente o falsamente cosa alcuna. Ne risulterebbe che le sue
nozioni sulle faccende e sulle relazioni umane, benchè ancora
ristrette e semplicissime, sarebbero tuttavia distinte e vere in
modo da richiedere ormai solamente estensione e non indirizzo; si
continuerebbe così fino a che il fanciullo non si fosse fatto
uomo. Questo metodo esige sopra tutto che non si permetta la lettura
di romanzi; vi saranno sostituite biografie scelte con giusti
criterî, come per esempio la vita di Franklin, o la storia di
Antonio Reiser di Moritz, ed altri simili libri.
Finchè siamo giovani c’immaginiamo che avvenimenti e
personaggi importanti appariranno nella nostra esistenza coi tamburi
e colle trombe; nell’età matura uno sguardo al passato ci fa
scorgere che essi vi sono entrati senza strepito, per la porta
secreta, e quasi inavvertiti.
Si può anche, sotto il punto di vista che ci occupa,
paragonare l’esistenza ad un drappo ricamato di cui ciascuno
vedrebbe, nella prima metà della vita, il solo diritto, e,
nella seconda, il solo rovescio; questo lato è meno bello, ma
più istruttivo perchè permette di conoscere
l’intreccio dei fili.
La superiorità intellettuale, anche la più grande, non
farà valere pienamente la sua autorità nel conversare
che dopo il quarantesimo anno. Perocchè la maturità
propria dell’età ed i frutti dell’esperienza possono essere
benissimo sorpassati di molto, ma giammai surrogati
dall’intelligenza; queste condizioni forniscono, anco all’uomo
più volgare, un contrappeso da opporre alla forza della mente
più grande, fino a che questa è giovane. Parlo qui
solamente della personalità, non delle opere.
Nessun uomo un po’ superiore, nessuno di coloro che non appartengono
alla maggioranza dei 5/6 degli umani così scarsamente dotati
dalla natura, potrà andar franco da una certa tinta di
melanconia quando avrà passato la quarantina.
Perocchè, come era naturale, egli aveva giudicato gli altri
secondo sè stesso, ed è ora uscito d’inganno; ha
compreso che essi sono ben indietro rapporto a lui sia per il
cervello, sia per il cuore, molto spesso anzi per l’uno e l’altro, e
che non potranno mai equilibrare il conto; eviterà quindi
ogni commercio con essi, come del resto qualunque uomo amerà
oppure odierà la solitudine, vale a dire la società,
in proporzione del suo valore intellettuale. Kant tratta pure di
questo genere di misantropia nella sua Critica della ragione verso
la fine della nota generale al § 29 della prima parte.
È un brutto sintomo, così dal lato morale come
dall’intellettuale, per un giovane il raccapezzarsi facilmente in
mezzo alla confusione delle vicende umane, il trovarvisi bene, e il
mettervisi dentro quasi vi fosse stato preparato anticipatamente;
ciò indica volgarità. Invece un’attitudine confusa,
esitante, imbarazzata e a controsenso è in tale circostanza
indizio di nobile specie.
La serenità e il coraggio in cui si rimane vivendo durante la
gioventù dipendono anche in parte dal fatto che salendo il
monte non possiamo scorgere la morte, la quale sta ai piedi
dell’altro versante. Una volta passata la cima, la vediamo coi
nostri occhi, mentre fino allora non la conoscevamo che per bocca
altrui, e, siccome in quel momento le forze vitali cominciano a
declinare, il nostro coraggio s’infiacchisce nel tempo stesso; una
serietà pensosa scaccia allora la petulanza giovanile, e
s’imprime sulle nostre sembianze. Finchè siamo giovani
crediamo senza fine la vita, checchè ce ne venga detto, ed
usiamo del tempo in conseguenza. Quanto più invecchiamo,
tanto più facciamo economia di esso. Perocchè, in
età avanzata ogni giorno che vola via, produce in noi quel
sentimento che prova un condannato ad ogni passo che lo avvicina al
patibolo.
Considerata dal punto di vista della gioventù l’esistenza
è un avvenire infinitamente lungo: da quello della vecchiezza
un passato assai corto, cosicchè essa si offre ai nostri
sguardi, sul principio come le cose guardate dalla parte
dell’obbiettivo d’un cannocchiale da teatro, e sul finire come
quando sono viste dall’oculare. Occorre esser vecchi, vale a dire
aver vissuto lungamente, per conoscere come la vita sia corta.
Quanto più si va avanti coll’età, tanto più le
cose umane, qualunque si siano, ci appariscono piccole; la vita, che
durante la gioventù era là, davanti a noi, ferma e
quasi immobile, ci sembra ora una rapida fuga d’apparizioni
effimere, e ci diventa manifesta la nullità d’ogni cosa su
questa terra. Il tempo stesso, nella giovinezza, cammina d’un passo
più lento; sicchè il primo quarto della vita è
non solamente il più felice, ma anche il più lungo;
esso lascia dunque molti più ricordi, e ciascuno potrebbe
all’occasione raccontare di questo primo quarto maggiori avvenimenti
che non degli altri due. Nella primavera della vita come nella
primavera dell’annata i giorni finiscono talvolta col divenire d’una
lunghezza molesta. Nell’autunno della vita, come nell’autunno
dell’annata, i giorni sono corti, ma sereni e più costanti.
Perchè mai in vecchiaja la vita che si ha dietro di
sè, pare così breve? Si è perchè noi la
stimiamo così corta come il ricordo che ne conserviamo.
Infatti tutto ciò che in essa vi fu d’insignificante ed una
gran parte di ciò che vi fu di penoso, sfuggirono dalla
nostra memoria; vi è dunque rimasto ben poca cosa.
Perocchè nella stessa guisa che la nostra mente è in
generale molto imperfetta, così succede pure della nostra
memoria: bisogna che teniamo in esercizio le nostre cognizioni e che
rinvanghiamo il nostro passato, senza di che tutto ciò
sparirà nell’abisso dell’oblio. Ma noi non ritorniamo
volentieri col pensiero sulle cose insignificanti, nè,
ordinariamente, sulle sgradevoli, ciò che tuttavia sarebbe
indispensabile per conservarle nella memoria. Ora le cose
insignificanti divengono sempre più numerose, perchè
molti fatti che a prima vista ci sembrano importanti perdono
qualunque interesse ripetendosi; il ripetersi, da principio, non
è frequente, ma in seguito succede spessissimo. Per questo
ricordiamo i nostri giovani anni meglio di quelli che vennero poi.
Quanto più lungamente viviamo, tanto meno si danno
avvenimenti che ci sembrino abbastanza gravi od abbastanza
significanti per meritare d’essere ripassati col pensiero,
ciocchè è l’unico mezzo per conservarne il ricordo;
appena trascorsi, li dimentichiamo. Ed ecco perchè il tempo
fugge lasciando di meno in meno traccia dietro di sè.
Ma neppure ritorniamo volentieri sulle cose sgradite, sopra tutto
quando esse feriscono la nostra vanità; ed è questo il
caso più frequente, perocchè pochi disgusti ci toccano
senza nostra colpa. Noi dimentichiamo dunque egualmente molte cose
penose. Si è coll’eliminazione di queste due categorie
d’avvenimenti che la nostra memoria diviene così corta, e lo
diviene, in proporzione, quanto più la stoffa è lunga.
Come gli oggetti situati sulla riva si fanno sempre più
piccoli, indeterminati e indistinti a misura che la nostra barca se
ne allontana, così svaniscono gli anni passati, colle nostre
avventure e colle nostre azioni. Succede inoltre che la memoria e
l’immaginazione ci presentino talora una scena della nostra vita,
obliata da lungo tempo, con tanta vivacità che ci sembri
avvenuta il giorno prima, e ci apparisca affatto vicina. E
ciò perchè ci è impossibile rappresentarci in
una volta il lungo spazio di tempo che è scorso tra il
passato e il presente, ed abbracciarlo collo sguardo in un solo
quadro; di più gli avvenimenti compiti in questo intervallo
sono in gran parte dimenticati, e non ce ne resta più che
un’idea generale, in abstracto, una semplice nozione e non
un’immagine. Allora questo passato lontano ed isolato si presenta
tanto vicino da parer successo jeri; il tempo intermedio è
sparito, e la nostra intera esistenza ci sembra d’una brevità
incomprensibile. Qualche volta pure, nella vecchiaja, il lungo
passato che abbiamo dietro di noi può ad un certo momento
parerci favoloso; ciò che viene principalmente perchè
vediamo sempre davanti a noi lo stesso presente immobile. In
sostanza tutti questi fenomeni interni sono fondati non su
ciò che è il nostro essere per sè stesso, ma
sulla sua immagine visibile, che esiste sotto la forma del tempo, e
sul fatto che il presente è il punto di contatto tra il mondo
esterno e noi, tra l’oggetto e il soggetto.
Si può ancora domandarsi perchè, in gioventù,
la vita sembri estendersi davanti noi a perdita d’occhio. Ciò
dipende da prima perchè ci occorre il posto da mettere le
speranze illimitate di cui la popoliamo, e per la cui realizzazione
Matusalem sarebbe morto troppo giovane; poi perchè prendiamo
per scala della sua misura il piccolo numero d’anni che abbiamo
già dietro a noi; ma il ricordo di essi è ricco in
materiali, e per conseguenza lungo, perchè la novità
ha dato importanza a tutti gli avvenimenti che vi si compierono;
perciò vi ritorniamo volentieri col pensiero, li richiamiamo
spesso in mente, e finiamo col fissarveli.
Ci sembra qualche volta di desiderare ardentemente di trovarci in un
luogo lontano, mentre in realtà non facciamo che rimpiangere
il tempo che vi abbiamo passato quando eravamo più giovani e
più freschi. Ecco in qual maniera il tempo ci trae in inganno
sotto la maschera dello spazio. Portiamoci sul luogo tanto bramato e
ci renderemo conto dell’illusione.
Vi sono due vie per arrivare ad un’età avanzata, a condizione
sine qua non tuttavia di possedere una costituzione senza difetto;
per spiegarci, prendiamo l’esempio di due lampade che ardono: una
brucierà a lungo perchè, con poco olio, ha lo stoppino
assai sottile; l’altra perchè anche avendo un lucignolo molto
grosso ha pure molto olio: l’olio è la forza vitale, lo
stoppino ne è l’impiego applicato a qualsivoglia uso.
Sotto il rapporto della forza vitale possiamo paragonarci, fino al
nostro trentesimosesto anno, a coloro che vivono coll’interesse d’un
capitale; ciò che si spende oggi, si trova rimesso
l’indomani. A partire di qui, somigliamo ad un capitalista che
comincia a toccare il suo capitale. In sul principio la cosa non
è sensibile; la più gran parte della spesa viene
ancora a supplire a sè stessa, e il piccolissimo deficit che
ne risulta passa inosservato. Ma a poco a poco esso ingrandisce,
diviene apparente e il suo stesso accrescimento cresce ogni giorno,
e c’invade di continuo in grado maggiore; l’oggi è sempre
più povero del giorno che lo precedette, e non v’ha speranza
che la faccenda si arresti. Come la caduta dei corpi, la perdita si
accelererà velocemente fino alla scomparsa totale. Il caso
più triste è quello in cui tutte e due, forza vitale e
ricchezza, questa non come termine di confronto, ma in
realtà, sono in via di sparire simultaneamente; per questo
l’amore al danaro aumenta coll’età. In cambio nei nostri
primi anni fino alla età maggiore, ed anche un po’ al di
là, noi siamo, sotto il rapporto della forza vitale, simili a
coloro che sugl’interessi aggiungono ancora qualche cosa al
capitale: non solo ciò che si spende si rimette da sè,
ma il capitale stesso aumenta. Questo succede qualche volta anche
per il danaro in grazia delle cure previdenti d’un tutore
galantuomo. O gioventù fortunata! O triste vecchiaja!
Bisogna, ad onta di tutto ciò, risparmiare le forze della
gioventù. Aristotele osserva (Politica, Libro ultimo, Cap. 5)
che fra i lottatori ai giuochi Olimpici, non se ne sono trovati che
due o tre i quali, vincitori una volta da giovani, abbiano trionfato
anche come uomini, perchè gli sforzi prematuri che esigono
gli esercizi preparatori, esauriscono talmente le forze che
più tardi, nell’età virile, esse fanno difetto. Se
ciò è vero per la forza muscolare lo è assai
maggiormente per la forza nervosa, manifestazione della quale sono
tutte le produzioni intellettuali: ecco perchè gli ingenia
praecocia, i fanciulli-prodigio, questi frutti d’un allevamento di
serra calda, che fanno stupire nella loro prima età,
diventano — in seguito — teste perfettamente volgari. È anche
possibilissimo che un eccesso d’applicazione precoce e forzata nello
studio delle lingue antiche sia la causa che ha fatto cadere
più tardi tanti eruditi in uno stato di paralisia e
d’infanzia intellettuale.
Ho notato che presso la maggior parte degli uomini il carattere
sembra essere più particolarmente adattato ad una delle
età della vita, di modo che in tale età essi
presentansi sotto la luce più favorevole. Gli uni sono
giovanotti amabili, e poi è finito; altri nella loro
maturità si mostrano uomini energici ed attivi, ma in tarda
età perderanno ogni valore; e altri infine appariscono
più vantaggiosamente in vecchiaja, durante la quale sono
più cari perchè hanno maggior esperienza e maggior
calma: è questo il caso più frequente presso i
Francesi. Così deve avvenire perchè il carattere ha
per sè stesso un certo che di giovanile, di virile o di
senile in armonia coll’età corrispondente, o corretto da
essa.
Nella stessa guisa che sopra una nave non ci rendiamo conto del suo
cammino se non perchè vediamo gli oggetti situati sulla riva
allontanarsi e quindi farsi più piccoli, così non ci
avvediamo di divenir vecchi, sempre più vecchi, se non per il
fatto che persone d’una età ognora più avanzata ci
sembrano giovani.
Abbiamo già esaminato più indietro come e
perchè, a misura che si entra nella vecchiaja, tutto
ciò che si ha veduto, e tutte le azioni e tutti gli
avvenimenti della vita lascino nello spirito traccie sempre meno
numerose. Così considerata la giovinezza è la sola
età in cui si viva con intera coscienza; la vecchiezza non ha
che una mezza coscienza della vita. Col progredire dell’età
tale coscienza diminuisce gradatamente; gli oggetti passano
rapidamente davanti a noi senza farci impressione, simili a quelle
produzioni artistiche che non ci colpiscono più quando le
abbiamo viste parecchie volte; si fa ciò che si aveva da
fare, e non si sa poi nemmeno d’averlo fatto. Mentre la vita diviene
sempre più automatica, mentre cammina a gran passi verso
l’incoscienza completa, per questo stesso fatto la fuga del tempo si
accelera. Durante l’infanzia la novità delle cose e degli
avvenimenti fa sì che tutto s’imprima nella nostra coscienza;
perciò i giorni sono d’una lunghezza immensa. Per la medesima
ragione lo stesso ci succede in viaggio, che un mese ci pare
più lungo di quattro passati a casa nostra. Malgrado la
novità, il tempo, che ci sembra più lungo
nell’infanzia ed in viaggio, molto spesso ci diviene anche in fatto
più lungo che non nella tarda età o nel nostro paese.
Ma a poco a poco l’intelletto s’intorpidisce talmente colla lunga
abitudine delle stesse percezioni che di grado in grado tutto
finisce col passare sopra di esso senza lasciarvi impressione; ne
viene che i giorni diventano sempre più insignificanti e per
conseguenza sempre più corti; le ore del fanciullo sono
più lunghe delle giornate del vecchio. Vediamo adunque che il
tempo della vita possede un movimento accelerato come quello d’una
sfera che rotola sopra un piano inclinato; e, nella stessa guisa che
sopra un cerchio girante un punto qualunque corre tanto più
veloce quanto più è lontano dal centro, così
per ogni uomo il tempo passa più presto e sempre più
presto nella proporzione della sua distanza dal principio
dell’esistenza. Si può dunque ammettere che la lunghezza di
un anno, quale è valutata dalla nostra disposizione del
momento, sia in rapporto inverso del quoziente di esso per
l’età; quando per esempio l’anno è la quinta parte
dell’età, ci sembrerà dieci volte più lungo di
quando non ne sia che la cinquantesima. Tale differenza nella
rapidità del tempo ha un’influenza assai decisiva su tutto il
nostro modo di essere in ogni età della vita. Prima d’ogni
altra cosa per essa l’infanzia, quantunque non comprenda che
quindici anni appena, è il periodo più lungo
dell’esistenza, e conseguentemente anche il più ricco di
memorie; per essa poi noi siamo soggetti in tutto il corso della
vita alla noja nel rapporto inverso dell’età. I fanciulli
hanno sempre bisogno di passare il tempo sia nel gioco, sia nel
lavoro; se l’occupazione manca, essi sono tosto assaliti da immensa
noja. Gli adolescenti vi sono pure fortemente esposti, e temono
assai le ore d’ozio. Nell’età virile la noja sparisce ognora
più: e per i vecchi il tempo è sempre troppo breve e i
giorni volano colla rapidità d’una freccia. Bene inteso che
io parlo di uomini e non di bruti invecchiati. L’accelerarsi del
cammino del tempo sopprime dunque il più delle volte la noja
nell’età avanzata; d’altra parte le passioni coi loro
tormenti cominciano a tacersi; ne viene che in sostanza, dato che la
salute sia in buono stato, il peso della vita è realmente
più leggero che durante la gioventù: per questo
l’intervallo che precede l’apparizione della debolezza e delle
infermità proprie alla vecchiaja è chiamato gli anni
migliori. E forse lo è in fatto dal punto di vista del nostro
contento; ma in cambio gli anni di giovinezza, quando tutto fa
impressione, quando ogni cosa entra nella coscienza, hanno il
vantaggio d’essere la stagione fertilizzante dello spirito, la
primavera che fa spuntare i germogli. Infatti le verità
profonde si acquistano per intuizione e non colla speculazione, vale
a dire che la loro prima percezione è immediata e provocata
dall’impressione momentanea: essa non può dunque prodursi che
fino a quando l’impressione è forte, viva e profonda. Tutto
dunque dipende, sotto tale rapporto, dall’impiego dei giovani anni.
Più tardi possiamo agire meglio sugli altri, fors’anco sul
mondo intero, perocchè noi stessi siamo finiti e completi, e
non apparteniamo più all’impressione; ma il mondo agisce meno
su noi. Questi anni sono dunque l’epoca dell’azione e della
produzione: i primi invece quelli della comprensione e della
conoscenza intuitiva.
In gioventù domina la contemplazione, e nell’età
matura la riflessione; l’una è il tempo della poesia, l’altra
piuttosto quello della filosofia. In pratica egualmente si è
per mezzo della percezione e della sua impressione che ci
determiniamo a qualunque cosa durante la giovinezza; più
tardi invece per mezzo della riflessione. Ciò succede in
parte perchè nell’età matura le immagini si sono
presentate e riunite intorno a nozioni abbastanza numerose per dar
loro importanza, peso e valore e così pure per moderare nello
stesso tempo coll’abitudine l’impressione delle percezioni. Al
contrario l’impressione di tutto ciò che è visibile,
dunque del lato esterno delle cose, è talmente preponderante
in gioventù, specialmente nelle menti vivaci e ricche
d’immaginazione, che i giovani considerano il mondo come un quadro;
e si preoccupano della figura e dell’effetto che vi fanno piuttosto
che della disposizione interna che esso risveglia in loro. Lo si
scorge dalla vanità della loro persona, e dal loro civettare.
La più grande energia e la più alta tensione delle
forze intellettuali si manifestano senza dubbio durante la
gioventù e fino al trentacinquesimo anno alla più
lunga: poi decrescono, quantunque insensibilmente. Nondimeno
l’età virile ed anche la vecchiezza non sono senza compensi
intellettuali. Allora l’esperienza e l’istruzione hanno acquistato
tutta la loro ricchezza: allora si è avuto il tempo e
l’occasione di considerare le cose sotto tutti gli aspetti e di
meditarvi sopra; avendole avvicinate le une alle altre si è
scoperto i punti in cui si toccano, le parti in cui si uniscono;
allora, per conseguenza, si può comprenderle bene e nel loro
concatenamento completo. Tutto si mette in piena luce. Per questo si
conoscono più a fondo quelle stesse cose che erano mal note
quando si era giovani, perchè si ha per ogni nozione maggior
numero di dati. Ciocchè si credeva sapere durante la
giovinezza, si comprende realmente nell’età matura; inoltre
si sa effettivamente di più, e si possedono conoscenze
ragionate in tutte le direzioni, e per ciò stesso solidamente
concatenate, mentre in gioventù la nostra scienza è
difettosa e frammentata. L’uomo che è giunto ad una
età molto avanzata avrà solo un’idea completa e giusta
della vita, perchè l’abbraccia collo sguardo nel suo insieme
e nel suo corso naturale, e sopratutto perchè non la vede
più, come gli altri, unicamente dalla parte dell’ingresso, ma
anche dalla parte dell’uscita; così collocato ei ne comprende
pienamente la nullità, mentre gli altri sono ancora il
trastullo dell’illusione costante che «è proprio adesso
che sta per succedere quanto v’ha di veramente buono». In
cambio nell’età giovanile è maggiore la facoltà
di concepire; ne segue che si è in caso di produrre di
più col poco che si sa; più tardi v’ha maggior dose di
raziocinio, di penetrazione e di fondo. Durante la giovinezza si
raccolgono i materiali delle proprie nozioni, delle proprie vedute
originali e fondamentali, vale a dire di tutto ciò che uno
spirito privilegiato deve per destino dare in dono al mondo; ma non
è che dopo molti anni che esso diviene padrone del suo
soggetto. Si troverà che il più delle volte i
più grandi scrittori non hanno creato i loro capolavori che
verso il cinquantesimo anno. Ma non per questo la gioventù
non resta pur sempre la radice dell’albero della conoscenza,
benchè sia la corona dell’albero che porta i frutti. Ma nella
stessa guisa che ogni epoca, anche la più miserabile, si
crede più saggia di tutte quelle che la precedettero,
così l’uomo in ogni età si crede superiore a quello
che era per lo avanti; tutti e due sono spesso in errore. Durante
gli anni di crescimento fisico, quando noi aumentiamo egualmente le
forze intellettuali e le cognizioni, l’oggi per costume guarda con
disprezzo l’ieri. Tale abitudine prende radice, e persiste anche
quando è cominciata la decadenza delle forze mentali,
allorchè l’oggi dovrebbe piuttosto guardare l’ieri con
rispetto: a quell’ora sono troppo disprezzate le produzioni e i
giudizî degli anni giovanili.
Conviene osservare sopra tutto che quantunque la testa e
l’intelletto siano, circa le loro proprietà fondamentali,
altrettanto innati quanto il cuore o il carattere, nondimeno
l’intelligenza, non resta così invariabile come il carattere:
essa, è soggetta a molte modificazioni le quali, alla grossa,
si producono pur anche regolarmente, perocchè derivano dal
fatto che da una parte la base dell’intelligenza è fisica, e
che dall’altra la sua stoffa è empirica. Ciò essendo,
la sua forza propria cresce continuamente fino al punto culminante,
e diminuisce poi di grado in grado fino all’imbecillità. Ma
d’altronde la stoffa su cui si esercita tutta questa forza e che la
mantiene in attività, vale a dire il contenuto dei pensieri e
del sapere, l’esperienza, le cognizioni, l’esercizio del raziocinio
e la perfezione che ne deriva, tutta questa materia è una
quantità che aumenta costantemente fino al momento in cui,
sopravvenendo la fiacchezza definitiva, l’intelletto lascia scappare
ogni cosa. Tale condizione dell’uomo d’esser composto d’una parte
assolutamente immutabile (il carattere) e d’un’altra che varia
regolarmente e in due direzioni opposte (l’intelletto), spiega la
diversità d’aspetto sotto cui egli si manifesta, e la
differenza del suo valore nelle varie età della vita.
In un senso più largo si può anche dire che i quaranta
primi anni di vita danno il testo, e i trenta seguenti il commento,
che solo ce ne fa ben comprendere il vero senso, e la connessione,
unitamente alla morale con tutte le sue sottigliezze.
Ma particolarmente verso la sua fine la vita somiglia ad un ballo
mascherato, quando sono tolte le maschere. A quell’ora si vede cosa
erano in realtà coloro con cui si ebbe contatto durante la
vita. In fatti i caratteri si sono messi in piena luce, le azioni
hanno portato i loro frutti, le opere hanno trovato il loro giusto
apprezzamento, e tutte le fantasmagorie sono svanite.
Perocchè ci abbia voluto il tempo a ciò. Ma quello che
v’ha di più strano si è che non si comprende bene e
sè stesso, e il proprio scopo, e le proprie aspirazioni,
sopra tutto in ciò che riguarda i rapporti col mondo e cogli
uomini, se non verso il finire dell’esistenza. Spesso, non sempre
però, si dovrà classificarsi più basso che non
si credesse per lo avanti, ma qualche volta si accorderà a
sè stesso un posto superiore: il qual ultimo caso succede
perchè non si aveva una conoscenza sufficente della bassezza
del mondo, e perchè lo scopo della vita si trovava in tal
modo collocato troppo in alto. S’impara a conoscere, presso a poco,
ciò che valga ciascuno.
Si usa chiamar la giovinezza il tempo beato, e la vecchiaja il tempo
triste della vita. Ciò sarebbe vero se le passioni rendessero
felici. Ma sono esse che tengono trabalzata la gioventù con
poca gioja e molto dolore. Non agitano invece la fredda età,
la quale assume tosto una tinta contemplativa: perocchè la
conoscenza diviene libera ed ha il sopravvento. Ora la conoscenza
è da per sè stessa esente da dolori; per conseguenza
quanto più predominerà nella coscienza, tanto
più questa sarà felice. Non si ha che da riflettere
che ogni gioja è negativa di sua natura, mentre è
positivo il dolore, per comprendere che le passioni non saprebbero
rendere felici e che la tarda età non è da compiangere
perchè alcuni piaceri le sono vietati; qualunque piacere non
è che la soddisfazione d’un bisogno, e non si è
più disgraziati perdendo il piacere nello stesso tempo del
bisogno, di quello che non lo si sia per non poter più
mangiare dopo aver pranzato, o dormire dopo una notte di sonno
profondo. Platone (nell’introduzione alla Repubblica) ha ben ragione
di stimar felice la vecchiaja perchè è liberata
dall’istinto sessuale che per lo innanzi turbava l’uomo senza
tregua. Si potrebbe quasi sostenere che le fantasie diverse ed
incessanti generate dall’istinto sessuale, e così pure le
emozioni che ne derivano, mantengono nell’uomo una pazzia benigna e
costante per tutto quel tempo in cui egli è sotto l’influenza
di questo incentivo, o di questo diavolo da cui è
continuamente invasato, al punto da non essere affatto ragionevole
se non dopo essersene liberato. Tuttavia è cosa positiva che,
in generale e senza tener conto delle circostanze tutte e delle
condizioni individuali, un’aria di melanconia e di tristezza
è propria della gioventù, ed una certa serenità
della vecchiaja; e ciò perchè il giovane è
ancora sotto la potestà, o piuttosto sotto la tirannia di
questo demonio che difficilmente gli accorda un’ora di
libertà e che è anzi l’autore, diretto od indiretto,
di quasi tutti i mali che colpiscono o minacciano l’uomo.
L’età matura ha la serenità di colui che, liberato da
catene portate lungamente, gode ormai della libertà de’ suoi
movimenti. D’altra parte però si potrebbe dire che una volta
estinte le voglie sessuali, il vero midollo dell’esistenza è
consumato, e che non ne resta più che l’involucro, oppure che
la vita somiglia ad una commedia, la rappresentazione della quale,
cominciata da uomini vivi, sarebbe finita da automi rivestiti dei
medesimi costumi.
Checchè ne sia, la giovinezza è il momento
dell’agitazione, l’età matura quello del riposo: ciò
basta per giudicare dei loro rispettivi piaceri. Il bambino tende
avidamente le mani nello spazio dietro quegli oggetti, così
screziati e così vari, che si vede davanti gli occhi; tutto
questo lo eccita perocchè il suo sensorio è ancora
tanto fresco e tanto nuovo. Lo stesso avviene, ma con maggior
energia, per il giovane. Il mondo dai colori smaglianti, e dalle
figure moltiformi lo eccita del pari, ed anzi egli ben presto nella
sua immaginazione vi annette più valore che esso non abbia.
Per questo la gioventù è piena di esigenze e di
aspirazioni a cose vaghe, ciocchè le toglie quel riposo senza
di cui non v’ha felicità. Coll’età tutto si calma, sia
perchè il sangue si è raffreddato e perchè
l’eccitabilità del sensorio è diminuita, sia
perchè l’esperienza, illuminandoci sul valore delle cose e
sull’essenza dei piaceri, ci ha francati a poco a poco dalle
illusioni, dalle chimere e dai pregiudizi che velavano o deformavano
fino allora l’aspetto libero e netto delle cose, che ormai sono
conosciute tutte più giustamente e più chiaramente; a
quell’ora noi le prendiamo per quello che sono, ed acquistiamo in
maggior o minor grado, la convinzione della nullità d’ogni
cosa sulla terra. Da ciò quasi tutti i vecchi, anche coloro
d’un’intelligenza assai volgare, ricevono una certa tinta di
saggezza che li distingue dalle persone più giovani. Ma tutto
questo produce principalmente la calma intellettuale che è
l’elemento importante, direi anzi la condizione e l’essenza della
felicità. Mentre l’uomo giovane crede di poter conquistare in
questo mondo immense meraviglie se solamente sapesse ove trovarle,
il vecchio è penetrato dalla massima
dell’Ecclesiaste:«Tutto e vanità», e sa bene che
le noci sono vuote quantunque dorate.
Solo in un’età avanzata l’uomo arriva interamente al nil
admirari di Orazio, vale a dire alla convinzione diretta, sincera e
ferma della vanità d’ogni cosa quaggiù, e della
inanità di qualunque pompa: le chimere sono svanite. Ei non
si pasce più dell’illusione che in qualche parte, palazzo o
capanna, risieda una felicità speciale più grande di
quella di cui gode egli stesso dovunque, quando è per
l’appunto libero da ogni dolore fisico e morale. A’ suoi occhi non
v’ha più distinzione tra le cose grandi e le piccole, tra le
nobili e le vili, misurate sulla scala del nostro mondo. Ciò
dà al vecchio una calma di spirito affatto particolare, la
quale gli permette di guardare sorridendo il vano prestigio di
quaggiù. Egli è completamente disingannato; sa che la
vita umana, checchè si faccia per adornarla e metterla in
arnese, non tarda a mostrarsi in tutta la sua miseria a traverso i
suoi orpelli da fiera; sa che, qualunque sforzo si faccia per
dipingerla ed abbellirla, essa è in sostanza sempre la stessa
cosa, vale a dire un’esistenza di cui bisogna stimare il valore
effettivo sull’assenza del dolore e non sulla presenza del piacere,
e meno ancora del fasto (Orazio, Epist., L. I, 12, v. 1-4).
Carattere fondamentale della vecchiajà è il
disinganno; in essa non più di quelle illusioni che davano
alla vita una bellezza incantevole ed all’attività uno
stimolo; si ha conosciuto la nullità e la vanità in
questo basso mondo di qualunque magnificenza, specialmente della
pompa, dello splendore e d’ogni apparenza di grandezza: si ha avuto
prova dell’infimità di ciò che sta in fondo di quasi
tutte queste cose che destano così vivo il desiderio, e di
questi piaceri a cui si aspira con tanto ardore; e così a
poco a poco si è giunti a convincersi della povertà e
della vacuità dell’esistenza. Soltanto nel settantesimo anno
di vita sono ben compresi i primi versi dell’Ecclesiaste. Ma
è anche questo che da alla vecchiaja una certa tinta di
tristezza.
Si crede comunemente che infermità e noja sieno la condizione
dell’età. La prima non le è essenziale,
particolarmente quando si ha la prospettiva di arrivare ad una
vecchiaja molto avanzata, perocchè crescente vita, crescit
sanitas et morbus. E in quanto alla noja ho dimostrato più
indietro come la vecchiezza abbia a temerla meno della
gioventù: e neppure la noja è la compagna necessaria
della solitudine, verso la quale infatti ci spinge l’età per
motivi facili a comprendere; essa non segue che coloro i quali hanno
conosciuto solamente le gioje dei sensi ed i piaceri della
società e che non hanno avuto cura di arricchire il loro
spirito, e di sviluppare le loro facoltà. È vero che
in un’età avanzata anche le forze intellettuali
s’intorpidiscono; ma laddove furono potentemente copiose, ne
resterà sempre abbastanza per combattere la noja. Inoltre,
come abbiamo dimostrato, la ragione guadagna forza coll’esperienza,
colle cognizioni, coll’esercizio e colla riflessione; la mente
diviene più acuta, e il concatenamento delle idee più
chiaro; in ogni materia si acquista, in grado sempre maggiore,
vedute d’insieme sulle cose: le combinazioni poi sempre variate
delle cognizioni che già si possedono, i nuovi acquisti che
vengono ad aggiungervisi, favoriscono il progresso continuo in tutte
le direzioni del nostro sviluppo intellettuale, in cui lo spirito
trova in una volta la sua occupazione, il suo soddisfacimento e la
sua mercede. Tutto questo compensa fino ad un certo punto
l’indebolimento delle facoltà mentali di cui abbiamo parlato.
Sappiamo inoltre che nella vecchiezza il tempo corre più
rapidamente; così è neutralizzata la noja. In quanto
poi allo infiacchirsi delle forze fisiche, ciò non è
un danno, salvo il caso in cui si avesse bisogno di esse per la
professione che si esercita. La povertà in vecchiaja è
una immensa disgrazia. Se si ha saputo tenerla lontana e se si ha
conservato la salute, la tarda età può essere una
parte sopportabilissima della vita. L’agiatezza e la sicurezza sono
i suoi principali bisogni: per questo si ama allora più che
mai il danaro perocchè esso supplisce alle forze che mancano.
Abbandonati da Venere, si cercherà volentieri di confortarsi
con Bacco. Il bisogno di vedere, di viaggiare, d’apprendere è
sostituito dal bisogno di insegnare e di parlare. È una
felicità per il vecchio l’aver conservato l’amore dello
studio, o della musica, o del teatro, e in generale la
facoltà di essere impressionato fino ad un certo grado dalle
cose esterne: questo succede per qualcuno fino all’età
più avanzata. Ciò che l’uomo ha da per sè
stesso non gli profitta mai meglio che nella vecchiaja. Ma è
vero d’altronde che nella maggior parte le persone essendo state in
ogni tempo ottuse di mente, diventano ognora più automi
avanzando in età: pensano, dicono e fanno sempre nella stessa
guisa, e nessuna impressione esterna può cangiare il corso
delle loro idee, o far loro produrre qualche cosa di nuovo. Parlare
a vecchi siffatti si è scrivere sulla sabbia: l’impressione
si cancella quasi istantaneamente. Una vecchiaja di tale natura non
è più, senza dubbio, che il caput mortuum della vita.
Pare che la natura abbia voluto simbolizzare la venuta di tale nuova
infanzia con quella terza dentizione, che si dichiara in qualche
raro caso nei vecchi. L’indebolimento progressivo di tutte le forze
a misura che s’invecchia è certamente una cosa tristissima,
ma necessaria ed anche benefica: altrimenti la morte, di cui
è il preludio, sarebbe troppo penosa. Perciò il
principale vantaggio che procura un’età avanzata è
l’eutanasia, vale a dire la morte eminentemente facile, senza
malattia che la preceda, senza convulsioni che l’accompagnino, una
morte per la quale non si sente di morire. Ne ho dato una
descrizione nel secondo volume della mia opera, al capitolo 41, pag.
470 (536 della 3a ed.). Perocchè per quanto a lungo si viva
non si possede niente al di là del presente indivisibile; ma
anzi la memoria perde ogni giorno coll’obblio più che non si
arrichisca per l’aggiungervisi di cose nuove.
La differenza fondamentale tra la gioventù e la vecchiaja
rimane sempre questa: la prima ha in prospettiva la vita, la seconda
la morte; per conseguenza una possede un passato corto ed un lungo
avvenire, e l’altra l’opposto. Senza dubbio il vecchio non ha
più che la morte davanti a sè, quando il giovane ha la
vita; ora si tratta di sapere quale delle due prospettive offra
maggiori inconvenienti, e se, tutto calcolato, sia preferibile aver
la vita dietro di sè o davanti; non ha già detto
l’Ecclesiaste: «Il giorno della morte val meglio che ’l giorno
della nascita» (7, 1)? In qualunque caso domandare di vivere
lungamente è un desiderio temerario. Perocchè
«quien larga vida vive mucho mal vide» (chi vive a lungo
vive molto male) dice un proverbio spagnuolo.
Non è, come pretendeva l’astrologia, la esistenza
individuale, ma bensì l’andamento della vita umana in
generale che si trova scritto nei pianeti, nel senso che, nel loro
ordine, ognuno corrisponde ad un’età, e che quindi la vita
è governata successivamente da ciascuno di essi. — Mercurio
regge il decimo anno. Come questo pianeta, l’uomo si muove con
rapidità e facilità in un’orbita molto limitata; la
più piccola bagattella è per lui causa di
perturbazione; ma egli apprende molto e facilmente, sotto la
direzione del dio dell’astuzia e dell’eloquenza. — Col ventesimo
anno comincia il regno di Venere: l’amore e le donne possedono
interamente l’uomo. — Nel trentesimo anno domina Marte: a
quell’età l’uomo è violento, forte, audace, bellicoso
e fiero. — A quarantanni governano i quattro piccoli pianeti: il
campo della vita aumenta: è frugi, cioè consacrato
all’utile per virtù di Cerere; ha il suo focolare domestico
da Vesta; sa ciò che deve sapere per influenza di Pallade, e,
simile a Giunone, presso di esso regna sovrana la sposa. — Nel
cinquantesimo anno domina Giove: l’uomo è già
sopravvissuto alla maggior parte de’ suoi contemporanei, e si sente
superiore alla generazione attuale. Mentre possede il pieno
godimento delle sue forze, è ricco di esperienza e di
cognizioni: ha pure (nella misura della sua individualità o
della sua posizione) un’autorità su coloro che lo avvicinano.
Non intende più di lasciarsi ordinare: vuole comandare a sua
volta. Si è proprio adesso che nella sua sfera egli è
maggiormente atto ad esser guida e dominatore. Così culmina
Giove e, come lui, l’uomo di cinquant’anni. — Ma dopo, nel
sessantesimo anno, giunge Saturno e con lui la pesantezza, la
lentezza e la tenacità del piombo: «Ma molti vecchi
hanno l’aria d’esser già morti; essi sono pallidi, lenti,
pesanti ed inerti come il piombo» (Shakespeare, Romeo e
Giulietta, Atto 2°, Scena 5a). — Finalmente viene urano:
è il momento di volare in cielo, come si dice. — Non voglio
tener conto di Nettuno (così pur troppo lo si è
chiamato con grave spensieratezza) dal momento che non posso dargli
il suo vero nome, che sarebbe Eros. Se così non fosse avrei
voluto dimostrare come il principio si lega colla fine, e in qual
maniera Eros sia misteriosamente in connessione colla Morte,
connessione in virtù della quale l’Orco, o l’Amenti degli
Egiziani (secondo Plutarco, De Iside et Osir., C. 29), è il
«λαμβανων και διδους», per conseguenza non solo
«Colui che prende» ma anche «Colui che
dà» e la Morte il grande réservoire (serbatojo)
della vita. Da lì, dunque, da lì, dall’Orco viene ogni
cosa, e lì è stato tutto ciò che adesso ha
vita: — se solamente fossimo capaci di comprendere il giuoco con cui
succede la faccenda, allora tutto sarebbe chiaro.
FINE.