La biografia interiore di Rousseau |
Di pochi filosofi si può dire quello che De Ruggiero ha scritto a proposito di Rousseau: "La sua personalità è qualcosa di distinto e di emergente dall'opera ma [...] essa conserverebbe integro il proprio significato e il proprio valore anche se l'opera fosse intellettualmente caduca". Di fatto, si tratta di una personalità ricca, complessa e contraddittoria al punto di apparire, per alcuni aspetti, indecifrabile. "Ho passioni ardentissime e finché mi agitano nulla eguaglia la mia impetuosità; non conosco più né riguardi, né rispetto, né paura, né buona creanza; sono cinico, sfrontato, violento, intrepido; non c'è vergogna che mi freni né rischio che mi spaventi: all'infuori dell'oggetto che mi occupa, il mondo intero non è più niente per me. Ma tutto ciò non dura che un momento, e il momento che segue già mi annienta. Prendetemi nella calma, sono l'indolenza e la timidezza in persona; tutto mi sgomenta, tutto mi ripugna; ho paura del volo di una mosca; dire una parola, fare un gesto spaventa la mia pigrizia; paura e vergogna mi soggiogano al punto che vorrei eclissarmi agli occhi di tutti i mortali. Se occorre agire, non so che fare; se occorre parlare, non so che dire; se mi si guarda, mi smarrisco. Quando mi appassiono, so trovare a volte le parole da dire; ma nelle conversazioni abituali non trovo nulla, proprio nulla; mi riescono insopportabili solo per questo: sono obbligato a parlare." "Due cose pressoché inconciliabili s'uniscono in me senza che io possa spiegarmi come: un temperamento focosissimo, passioni vive, impetuose, e una lentezza a nascere d'idee, impacciate, che non si svegliano mai che a cose fatte. Si direbbe che il mio cuore e la mia intelligenza non appartengano al medesimo individuo. Il sentimento, più rapido del lampo, mi inonda l'animo, ma anziché illuminarmi, mi brucia e mi abbaglia. Sento tutto e non vedo nulla. Sono irruento, ma stupido; mi occorre il sangue freddo per pensare. Lo strano è che mi soccorre, nondimeno, un tatto abbastanza sicuro, penetrazione, persino acume, purché mi si dia tempo: se ne dispongo, sono capace di eccellenti improvvisazioni, ma sull'istante non ho mai fatto né detto nulla che valga." "Così poco padrone della mia mente quando sono solo con me stesso, si giudichi come devo essere nella conversazione, dove per parlare a proposito occorre pensare mille cose insieme e subito. La sola idea di tante convenienze, delle quali già son certo di dimenticarne più d'una, basta per intimidirmi. Non capisco nemmeno come si osi parlare in un circolo, giacché ad ogni parola bisognerebbe passare in rassegna tutti i presenti, bisognerebbe conoscere il carattere di tutti, sapere le loro storie, per essere sicuri di non dire nulla che possa offendere qualcuno. In questo, chi vive in società ha un grande vantaggio: sapendo meglio che cosa tacere, è più sicuro di ciò che dice; eppure accade ugualmente che sfuggano sortite balorde. Si pensi a chi vi piove come dal cielo: gli è quasi impossibile parlare un minuto solo impunemente. A tu per tu, c'è un altro inconveniente che trovo anche peggiore, la necessità di parlare sempre: se l'altro parla si deve rispondere, e se non apre bocca bisogna ravvivare la conversazione. Quest'insopportabile costrizione sarebbe bastata a disgustarmi della mondanità. Non esiste per me imbarazzo più atroce che l'obbligo di parlare a comando e a getto continuo. Non so se questo dipenda dalla mia mortale avversione per ogni sorta di asservimento; ma basta che io debba parlare a tutti i costi perché infallibilmente esca in un'idiozia." "Pur non essendo uno sciocco, sono sovente passato per tale, anche agli occhi di persone capaci di giudizio: tanto più sfortunato quanto la mia fisionomia e il mio sguardo promettono di più, e questa aspettativa frustrata rende più sorprendente il rilevarsi della mia stupidità." Tratte da Le Confessioni, queste citazioni definiscono in maniera esemplare gli aspetti essenziali del modo d'essere introverso: il primato del sentire rispetto alla ragione, che richiede tempi lenti perché le intuizioni si trasformino in idee, lo scarto tra il comportamento sociale, caratterizzato dall’essere impacciato, imbarazzato, inadeguato, e la ricchezza di un mondo interiore fervido e appassionato, l'incoercibile disgusto per il parlare fine a se stesso e una perpetua attività riflessiva. L’estrema introversione permette di comprendere molti aspetti della biografia di Rousseau, ma non la drammaticità della sua parabola umana, esitata in un delirio persecutorio strutturato, né tanto meno le clamorose contraddizioni presenti in tutte le sue opere, che, interpretate diversamente, hanno determinato nella storia della cultura ondate di rousseaufobia e di rousseaufilia. L’analisi delle contraddizioni del pensiero di Rousseau è un’impresa pressoché impossibile. Mi limiterò a dire che esse sono complessivamente riconducibili ad un’avversione radicale nei confronti dello stato di cose esistente nel suo mondo, che sembra protendersi verso una radicale rivoluzione politica, economica, morale e culturale, e la nostalgia di un modo di vivere naturale e virtuoso, che fa riferimento ad una mitica età dell’oro non ancora inquinata dagli sviluppi della civiltà. Si dà insomma un Rousseau radicale, rivoluzionario, avverso alle ingiustizie sociali, critico nei confronti dell’alienazione, e un Rousseau nostalgicamente conservatore, perbenista, moralista e religioso. Due anime incompatibili, che solo la genialità è riuscita a contenere e a valorizzare, sia pure al prezzo di una perpetua ambiguità che consente di comprendere la rousseaufilia e la rousseaufobia. Penso che queste due anime riconoscano entrambe una matrice inerente la biografia interiore del filosofo ginevrino. L’intento di questo lavoro non è però quello di illustrare il modo in cui esse si esprimono nel pensiero di Rousseau, bensì di ricostruirne la genesi e gli sviluppi attraverso la biografia interiore. In quest’ottica l’introversione ha un grande rilievo, ma la scissione cui essa va incontro è riconducibile a tre diverse circostanze che hanno inciso profondamente sulla strutturazione della personalità. La prima, stando alla sua testimonianza, è l'essere vissuto per alcuni anni in un piccolo mondo familiare accogliente, tenero, affettuoso e rispettoso della sua dignità, che paradossalmente lo ha reso incapace di tollerare l'urto con il mondo reale. Il suo conservatorismo, il perpetuo richiamo ad un'età dell'oro dell'umanità, seguita da una lunga decadenza, ha una matrice biografica. L'età dell'oro, vale a dire una situazione ambientale ottimale. Rousseau l'ha effettivamente sperimentata e serbata nostalgicamente dentro di sé. La seconda circostanza è l'essere nato plebeo in un mondo dominato ancora dall'aristocrazia. Dotato di un viscerale senso di giustizia, Rousseau deve tollerare troppo a lungo, per sopravvivere, l'umiliazione di una condizione servile per non rimanerne segnato. Anche quando, riconosciuto il suo valore, alcuni rappresentanti della classe nobiliare lo accolgono tra loro e lo proteggono, l'ambivalenza di Rousseau nei loro riguardi permane. Basta un nonnulla, che sottolinei o solo alluda alla diversa origine sociale, a ferire la sua suscettibilità e a dar luogo ad una rottura. La terza circostanza è legata all'intuizione del suo valore umano, morale e intellettuale, vale a dire della sua genialità, che promuove la pretesa di un riconoscimento sociale. In nome di questa pretesa, Rousseau oscilla di continuo tra il rifugio nella solitudine campestre, dove il suo cuore trova serenità e equilibrio, e l'immersione nella grande città, che lo esaspera e lo porta ad avversare l'umanità. L'unico rimedio che egli trova, per lenire quest'ambivalenza, è la critica radicale del mondo così com'è in nome di un mondo possibile fatto a misura d'uomo. Nella misura in cui tale critica viene recepita come eversiva e sprezzante, non c'è da sorprendersi che il mondo la rifiuti perseguitandolo. L'introversione di Rousseau ha una componente ereditaria. Nato a Ginevra nel 1712 da due esseri "teneri e sensibili", egli ne è pienamente consapevole: "Di tutti i doni che il cielo aveva loro profusi, un cuore sensibile è l'unico che mi trasmisero; ma se esso aveva fatto la loro felicità, per me fu la fonte di tutte le mie sventure." Della madre, morta nel darlo alla luce, serba ricordo attraverso le testimonianze dei parenti. Il rapporto col padre è di una tenerezza struggente: "Non ho mai saputo come mio padre sopportò quella perdita, ma so che non se ne consolò mai. Credeva di rivederla in me, senza poter dimenticare che io gliel'avevo tolta; non mi abbracciò mai senza che io avvertissi dai suoi sospiri, dalle sue strette convulse, che un rimpianto amaro si mescolava alle sue carezze; e che perciò erano anche più tenere. Quando mi diceva: "Jean-Jacques, parliamo di tua madre", io gli dicevo: "Ebbene, padre mio, ora dunque piangeremo" e già questa parola bastava a strappargli le lacrime. "Ah," gemeva, "rendimela, consolami di lei, colma il vuoto che mi ha lasciato nell'anima. Ti amerei così se tu non fossi che mio figlio?"" Tutto l'ambiente familiare che circonda il piccolo Rousseau è ottimale: "I figli dei re non potrebbero essere curati con maggior zelo di quanto lo fui io nei miei primi anni, idolatrato da tutti coloro che mi circondavano e, caso molto più raro, trattato sempre da bambino amato, mai da bambino viziato." "Come avrei potuto divenire cattivo, non avendo sotto gli occhi che esempi di dolcezza, e intorno a me la migliore gente del mondo? Mio padre, mia zia, la mia bambinaia, i miei parenti, i nostri amici, i nostri vicini, il mondo che mi circondava, se è vero che non obbediva a me, nondimeno mi voleva bene, e io altrettanto l'amavo. Al padre Rousseau deve una precoce iniziazione letteraria, che gli rivela l'intensità del suo sentire: "Mia madre aveva lasciato dei romanzi. Ci mettemmo a leggerli dopo cena, mio padre ed io. All'inizio, si trattava solo di esercitarmi alla lettura con qualche libro divertente; ma l'interesse divenne ben presto così vivo che leggevamo alternandoci senza sosta, e in questa occupazione trascorrevamo le notti. Non potevamo staccarcene che a libro finito. Qualche volta mio padre, sentendo le rondini del mattino, diceva tutto vergognoso: "Andiamo a letto, sono più bambino di te." Acquistai in breve tempo, con questo pericoloso metodo, non soltanto una facilità estrema alla lettura e a capire me stesso, ma un'intelligenza delle passioni unica per la mia età. Ancora non avevo idea alcuna delle cose, e già conoscevo tutti i sentimenti. Non avevo concepito nulla, avevo sentito tutto." La precocità del sentire non è, peraltro, che un aspetto di un modo d'essere infantile del tutto particolare: "La mia non fu un'infanzia da fanciullo; pensai, sentii sempre da uomo. Solo crescendo sono rientrato nella normalità; nascendo, ne ero uscito." Un tratto proprio di questo modo d'essere è la fierezza e l' spirito d'indipendenza: "Da queste letture appassionanti, dalle conversazioni che esse occasionavano fra mio padre e me, si formò quello spirito libero e repubblicano, quel carattere indomito e fiero intollerante d'ogni giogo e d'ogni schiavitù, che mi ha tormentato per tutta la vita nelle situazioni meno proprie a dargli slancio." Nato tenero e sensibile, con una spiccata vocazione all'armonia, alimentata dal piccolo mondo familiare, ma, nello stesso tempo, dotato di un senso viscerale della pari dignità tra gli esseri umani, Rousseau, di fatto, è predestinato a soffrire, via via che, nel corso della vita, il bisogno spiccato di appartenenza, che postula un riconoscimento sociale, nonostante tentativi ricorrenti di adattarsi al mondo così com'è, entrerà in conflitto con un bisogno d'individuazione spiccato. Questo infatti determinerà inevitabilmente un atteggiamento critico nei confronti dello stato di cose esistente, e in particolare della disuguaglianza sociale, l'affermazione radicale della libertà di pensiero, il disprezzo nei confronti delle convenzioni e delle mode, l'isolamento orgoglioso. Leggere le Confessioni alla luce di questa chiave, significa rendersi immediatamente conto del destino che incombe su di una natura la cui vocazione sociale viene ad urtare contro una realtà inaccettabile. Discriminare quanto, in questo conflitto, ci sia di oggettivo e di soggettivo, lascia il tempo che trova. La soggettività introversa ha le sue leggi, che s'impongono ad essa con la forza di leggi naturali. Soddisfatta dall'ambiente familiare originario, la vocazione all'armonia si riproduce anche nel nuovo contesto familiare cui Rousseau è affidato dopo che il padre, in seguito ad un violento diverbio con un concittadino politicamente potente, sceglie la via dell'esilio pur di non piegarsi, avendo egli subito l'offesa, all'obbligo di scusarsi. Il nuovo contesto è quello sereno e campestre della casa del ministro del culto Lambercier e di sua sorella. Ivi Rousseau sperimenta la potenza del bisogno di appartenenza: "Essere amato da quanti m'avvicinavano era il mio più vivo desiderio. Ero dolce, mio cugino lo era; e coloro che ci educavano del pari. Durante due intieri anni non fui né testimone né vittima d'un sentimento violento. Tutto nel mio cuore nutriva le disposizioni ricevute dalla natura. Non conoscevo nulla di più affascinante che veder tutti contenti di me e d'ogni cosa… Poco sensibile alle lodi, lo fui sempre molto alla vergogna, e posso qui dire che il timore dei rimproveri della signorina Lambercier mi angosciava meno del timore di rattristarla. Mi rincresceva più deludere che venire punito, e un segno di malcontento m'era più crudele di un castigo corporale." Con il cugino Bernard, affidato egli stesso ai Lambercier, Rousseau scopre anche una vocazione ad un'affettività intima che, laddove si dà un'affinità elettiva, gravita verso la fusione delle anime: "L'abitudine di vivere insieme in una condizione di pace mi unì teneramente a mio cugino Bernard. In poco tempo ebbi per lui sentimenti più affettuosi di quelli nutriti per mio fratello, che non si sono mai più cancellati… I nostri studi, i nostri svaghi, i nostri gusti erano gli stessi: eravamo soli, della stessa età, ciascuno di noi aveva bisogno di un compagno; separarci era, in qualche modo, annientarci. Quantunque avessimo scarse occasioni di metterlo alla prova, il nostro reciproco attaccamento era fortissimo, e non solo non potevamo vivere un istante separati, ma non riuscivamo neppure a immaginare d'esserlo mai. Facili entrambi a cedere alle carezze, compiacenti quando non si voleva costringerci, ci trovavamo sempre d'accordo su tutto." "Sempre inseparabili, bastavamo l'uno all'altro, e non essendo tentati di frequentare i monelli della nostra età, non prendemmo nessuna delle abitudini libertine che l'ozio poteva ispirarci. Ho persino torto di supporci oziosi, poiché mai lo fummo meno, e c'era di buono che i divertimenti ai quali successivamente ci si appassionava, ci tenevano occupati insieme in casa, senza che ci sfiorasse neppure la tentazione di scendere per strada. Costruivamo gabbie, flauti, volani, tamburi, case, cerbottane, balestre… Sentivamo così poco il bisogno di farci dei compagni, che ne trascurammo fino l'occasione. Quando si andava a passeggio, guardavamo passando i loro giochi, senza desiderio, senza nemmeno pensare a prendervi parte. L'amicizia colmava così appieno i nostri cuori, che ci bastava stare insieme perché i gusti più semplici si trasformassero in delizie." In questo contesto ideale, subentra inaspettatamente un banale conflitto che rivela a Rousseau la drammatica intensità del suo senso di giustizia: "Immaginate un carattere timido e docile nella vita ordinaria, ma ardente, fiero, indomabile nelle passioni; un ragazzo sempre guidato dalla voce della ragione, sempre trattato con dolcezza, equità, compiacenza, che nemmeno aveva idea dell'ingiustizia, e che per la prima volta ne subisce una così terribile, e proprio da quelle persone che egli ama e rispetta di più. Che capovolgimento di idee! Che scompiglio di sentimenti! Quale sommovimento nel suo cuore, nella sua mente, in tutto il suo piccolo essere intelligente e morale! Immaginate tutto ciò, se vi è possibile, ripeto, perché, quanto a me, non mi sento capace di spiegare, di seguire la minima traccia di quello che accadeva allora in me… Non ero ancora abbastanza ragionevole per rendermi conto di come le apparenze mi condannassero, e mettermi nei panni degli altri. Mi attenevo al mio punto di vista, e mi colpiva solo il rigore di un castigo intollerabile per una colpa che non avevo commesso. Il dolore fisico, per quanto vivo, lo sentivo poco; sentivo solo l'indignazione, la collera, la disperazione… Quel primo sentimento della violenza e dell'ingiustizia è rimasto così profondamente impresso nel mio animo, che ogni idea che vi si connetta mi riporta la mia prima commozione, e quel sentimento, che nella sua origine riguarda me, ha preso in sé tale consistenza, e s'è talmente distaccato da qualsiasi personale interesse, che il mio cuore si infiamma allo spettacolo o al racconto di ogni azione ingiusta, qualunque sia l'oggetto e dovunque sia commessa, come se l'effetto ricadesse su di me. Quando leggo delle crudeltà di un feroce tiranno, delle sottili perfidie di un prete briccone, correrei volentieri a pugnalare quei miserabili, dovessi cento volte soccombere. Più volte mi son messo in un bagno di sudore per inseguire di corsa oppure a sassate un gallo, una vacca, un cane, un animale che avevo visto tormentarne un altro unicamente perché si sentiva il più forte. Questo impulso può essere in me connaturato, e credo lo sia; ma il ricordo profondo della prima ingiustizia patita vi fu troppo a lungo e troppo fortemente legato per non averlo vieppiù rafforzato…" C'è, in questa rievocazione, una straordinaria sottigliezza psicologica. Scrivendo che non era ancora abbastanza ragionevole per rendersi conto di come le apparenze lo condannassero, Rousseau intuisce che, talvolta, le ingiustizie sono perpetrate in buona fede, tal che basterebbe mettersi nei panni di chi le agisce per limitarne l'impatto emozionale. Intuisce insomma che il senso di giustizia naturale ha una configurazione astratta, che fa riferimento solo al valore violato, anziché alle circostanze che ne promuovono la violazione. Ma quest'intuizione, che, in virtù di una comprensione più profonda degli esseri umani, avrebbe potuto ammorbidire l'interazione conflittuale con il mondo, non ha tempo di maturare. Interviene infatti, quand'egli è ancora adolescente, un'altra circostanza che incide profondamente sul suo carattere. Nel rievocare gli anni sereni dell'infanzia e del soggiorno presso i Lambercier, prima dello spiacevole incidente, Rousseau scrive "Posso giurare che, finché non mi fu imposta la soggezione a un padrone, non ho saputo che cosa fosse un capriccio." Probabilmente è vero. Jean Jacques è stato un bambino d’oro, ma la sua rievocazione dell’ambiente ottimale che lo ha circondato nei primi anni di vita è, presumibilmente, un ricordo di copertura. Già il riferimento all’ambivalenza del padre nei suoi confronti, responsabile di averlo reso vedovo, è una sorta di lapsus. Ma c’è di più. Per quanto è ammissibile che il padre lo abbia avviato alla lettura, che egli sia stato teneramente affettuoso e profondamente legato al figlio è poco probabile dato il suo carattere turbolento e tendenzialmente aggressivo (sperimentato dal povero fratello maggiore di Jean Jacques, ripetutamente picchiato fino al punto di fuggire da casa e scomparire nel nulla), l’abbandono sopravvenuto, sia pure per cause accidentali, quand’egli ha dieci anni, e, soprattutto, il non averlo ripreso nella nuova famiglia che si era costruito pochi anni dopo, quando Jean Jacques era disperatamente solo. Sulla tenerezza della zia e della bambinaia è difficile avere dubbi, ma è un fatto che a dieci anni Jean Jacques viene affidato alla cura di estranei (il pastore Lambercier e sua sorella). Anche a riguardo si dà probabilmente un ricordo di copertura. L’ambiente campestre è sereno e tranquillo. Il sodalizio fusionale che si crea con il cugino Bernard fa pensare, però, a due ragazzi ospitati per pietà, ma non amati. Non è un caso che, non appena matura un’occasione, lo zio decide di avviare Jean Jacques al lavoro (in una condizione di apprendista che, all’epoca, era terribile). La ricostruzione che Rousseau dà della sua età dell’oro è, dunque, poco attendibile. Ci si può chiedere perché egli abbia adottato un ricordo di copertura, vale a dire una ricostruzione mistificata del passato vissuta come se essa fosse vera. La risposta porta al cuore di uno dei misteri dell’introversione. La percezione che l’introverso ha della realtà originaria, della famiglia e dell’ambiente in cui vive, è spesso caratterizzata da un’idealizzazione spiccatissima. Comune a tutti i bambini, tale idealizzazione non solo realizza nell’introverso una sorta di ipnosi, al di sotto della quale si dà però la registrazione emozionale delle cose come stanno; essa, spessissimo si prolunga molto al di là dei primi anni e dura talora sino all’adolescenza. Quando interviene il risveglio, il rendersi conto di come stanno le cose è solitamente traumatico. Al risveglio può seguire uno stato d’animo acccusatorio nei confronti dell’ambiente, incentrato sulla convinzione di essere stato ingannato, o il tentativo di attribuire il risveglio stesso ad una circostanza traumatica attuale, che consente di mantenere il passato avvolto nella luce dell’idealizzazione: di salvaguardare, insomma, una presunta età dell’oro. Penso che questa seconda circostanza si sia realizzata nell’anima di Rousseau. Quando egli scrive che l’uomo nasce buono e l’ambiente lo incattivisce parla del suo dramma a partire dalla caduta dal Paradiso terrestre nell’aspro mondo del lavoro. Il dramma però è presumibilmente più profondo. Per molti aspetti, e nonostante le cure della zia e della bambinaia, Jean Jacques è stato un orfano, un bambino e un ragazzo drammaticamente solo, costretto dalla disperazione a sedici anni a decidere di affrontare il mondo senza sostegno alcuno. Un essere dunque con un cuore tenerissimo, ma indotto dalle circostanze ad indurirsi e ad insensibilizzarsi per reggere l’urto della realtà. I rousseaufobi, l’ultimo dei quali è B. Russell (che, nella Storia della filosofia occidentale, TEA, Milano 1991, tratteggia un ritratto impetoso di Rousseau, giungendo a definirlo un essere “privo di tutte le comuni virtù” p. 658), sottolineano le contraddizioni del filosofo ginevrino, senza tenere conto del fatto che la sua grandezza, prima ancora che dalle opere, è attestata dall’aver mantenuto e coltivato l’aspirazione ad una vita elevata nonostante condizioni originarie oggettivamente disastrose. L’urto traumatico con la realtà, che pone fine all’idealizzazione, si realizza, nel modo peggiore, quando Jean Jacques è ancora adolescente. Mandato dallo zio a lavorare e a vivere come apprendista in un laboratorio d'incisione, egli si trova di fatto assoggettato ad un capo "rustico e violento", il rapporto con il quale riesce in breve tempo - come egli scrive - ad offuscare tutto lo splendore della sua infanzia e ad abbrutire il suo carattere affettuoso e vivace. La rievocazione dell'esperienza rende conto dell'abbrutimento: "Non era il mestiere in sé a dispiacermi: avevo una spiccata inclinazione per il disegno, il lavoro di bulino mi divertiva abbastanza e poiché il talento di incisore da orologeria è assai limitato, speravo di raggiungervi la perfezione. Ci sarei arrivato, probabilmente, se la brutalità del mio padrone e l'eccessiva soggezione non mi avessero disgustato del lavoro. Gli sottraevo il mio tempo per impiegarlo in occupazioni dello stesso genere, ma che avevano per me l'attrattiva della libertà. Incidevo una specie di medaglie che a me e ai miei amici servivano come insegna di un ordine cavalleresco. Il padrone mi sorprese in quel lavoro di contrabbando e mi picchiò di santa ragione, sostenendo che mi esercitavo a battere moneta falsa, poiché le nostre medaglie recavano le armi della Repubblica… La tirannia del mio padrone finì per rendermi insopportabile il lavoro, che avrei amato, e per procurarmi vizi che avrei odiati, quali la menzogna, la poltroneria, il furto. Nulla m'ha insegnato la differenza che corre tra la dipendenza filiale e la schiavitù servile, come il ricordo dei mutamenti prodottisi in me durante questo periodo. Timido e vergognoso per natura, non provai mai tanta ripugnanza per alcun difetto quanto per la sfrontatezza. Ma avevo goduto di una libertà onesta, che sino allora s'era andata solo gradualmente restringendo, ed ora svanì del tutto. Ero ardito in casa di mio padre, libero in quella del signor Lambercier, discreto da mio zio; divenni pavido presso il padrone, e da allora fui un ragazzo perduto. Assuefatto a una perfetta eguaglianza con i miei superiori nel modo di vivere, a non conoscere un piacere che non fosse alla mia portata, a non vedere una pietanza senza averne la mia parte, a non avere un desiderio senza esternarlo, a mettere insomma sulle mie labbra tutti i moti del mio cuore: si giudichi che cosa dovetti diventare in una casa dove non osavo aprir bocca, dove bisognava allontanarsi dalla tavola a un terzo del pasto, e dalla stanza non appena non vi avevo più niente da fare, dove, incatenato senza tregua al lavoro, vedevo solo oggetti di godimento per gli altri e di privazione per me; dove l'immagine della libertà del padrone e dei lavoranti aggravava il peso della mia dipendenza; dove nelle discussioni sugli argomenti che meglio conoscevo non osavo aprir bocca; dove insomma tutto ciò che vedevo diventava per il mio cuore oggetto di cupidigia unicamente perché ero privo di tutto. Addio spigliatezza, allegria, frasi felici che così spesso un tempo m'avevano risparmiato, nei miei errori, il castigo… A forza di subire maltrattamenti, mi resi meno sensibile… Invece di volgere indietro lo sguardo e guardare alla punizione, lo volgevo innanzi e guardavo alla vendetta. Reputavo che picchiarmi come un mascalzone significasse autorizzarmi ad esserlo." In breve: "Le propensioni più vili, la più volgare furfanteria sostituirono i miei svaghi gentili, senza lasciarmene la più lontana idea." Commentando questa trasformazione del carattere, Rousseau scrive sorprendentemente: "Nonostante l'educazione più onesta, dovevo avere una disposizione particolare a degenerare; visto che accadde così rapidamente, senza la minima difficoltà." L'affermazione si spiega sulla base del ricordo di copertura cui ho fatto cenno, ma è comunque particolarmente significativa. E' capitato a Rousseau ciò che capita sempre agli introversi dotati di uno spiccato bisogno d'opposizione, allorché, urtando contro un mondo rozzo e brutale, reagiscono indurendosi, corazzandosi e imponendosi di reagire colpo su colpo. A livello di comportamento, essi possono "degenerare", ma, nel loro intimo, i sensi di colpa diventano divoranti. Tutta l'esperienza successiva di Rousseau è contrassegnata dalla scissione, allora intervenuta, tra una sensibilità sociale vivacissima e una difesa da essa che periodicamente, e spesso inconsapevolmente, lo ha indotto ad agire come un essere insensibile. La circostanza traumatica legata alla prima esperienza lavorativa, destinata, mutatis mutandis, a ripetersi ogniqualvolta Rousseau si troverà in una condizione di dipendenza servile, produce tre conseguenze di diversa portata. La prima è quella di rianimare uno spirito d'indipendenza e una fierezza che non verranno mai meno. Nell'immediato, Rousseau, ancora adolescente, si sottrae al giogo e si avventura da solo nel mondo: "Ragazzo ancora, abbandonare il mio paese, i miei parenti, ogni appoggio, ogni risorsa; piantare a mezzo un apprendistato senza conoscere il mio mestiere abbastanza per viverne; consegnarmi agli orrori della miseria senza intravedere alcun mezzo per uscirne; espormi, nell' età della debolezza e dell'innocenza, a tutte le tentazioni del vizio e della disperazione; cercare lontano i mali, gli errori, le insidie, la schiavitù e la morte, sotto un giogo ben più inflessibile di quello che non avevo potuto sopportare: ecco a che cosa andavo incontro; questa la prospettiva che avrei dovuto affrontare. Com'era diversa quella che mi raffiguravo! L'indipendenza che credevo d'aver acquistato era il solo sentimento che mi dominava. Libero e padrone di me stesso, credevo di poter far tutto: bastava che mi lanciassi per librarmi e volare in aria." La fuga verso l'indipendenza sarà, da questo momento in poi, la reazione costante di Rousseau a tutte le circostanze sociali che egli vive come incompatibili con la sua dignità. La seconda conseguenza è l'adozione, per difesa, di una maschera di cinismo, al di sotto della quale continua vivere un cuore sensibile: "Lanciato mio malgrado nel mondo senza averne il tono, senza essere in grado di acquisirlo e di potermene assoggettare, decisi di assumerne uno tutto mio che me ne dispensasse. Poiché la mia sciocca e grossolana timidezza, che non riuscivo a superare, si fondava sulla paura di trasgredire alle convenienze, presi, per rincuorarmi, il partito di calpestarle. Mi feci cinico e caustico per vergogna; ostentai di disprezzare la cortesia che non sapevo praticare. È vero che questa asprezza, coerente ai miei nuovi principi, si nobilitava nel mio animo, vi assumeva l'intrepidezza della virtù, e su questa angusta base, oso dire, essa si sorresse meglio e più a lungo di quanto non si sarebbe dovuto attendere da uno sforzo così opposto alla mia natura. Eppure, malgrado la reputazione di misantropo che il mio aspetto e qualche battuta appropriata mi dettero nel mondo, è certo che, in privato, sostenni sempre male il mio personaggio; che i miei amici e i miei conoscenti menavano quest'orso tanto feroce come un agnello, e che, limitando i miei sarcasmi a verità dure, ma generali, non ho mai saputo dire una parola offensiva a chicchessia." La terza conseguenza, decisiva per la sua vita, consiste nell'assumere consapevolmente il ruolo, soggettivo prima, sociale poi, di un implacabile giustiziere morale, che denuncia e fustiga le ingiustizie, le miserie e le contraddizioni degli esseri umani. Il mondo in cui s'immerge, il mondo cittadino della metà del '700, offre a tale ruolo materia continua per alimentarsi: "Fin lì ero stato buono: da allora divenni virtuoso, o almeno inebriato di virtù. L'ebbrezza era sgorgata nella mia mente, ma aveva conquistato il mio cuore. Il più nobile orgoglio vi germinò sui resti della vanità sradicata. Non recitai per nulla: divenni realmente quale apparivo, e per almeno quattro anni, quanto durò in tutta la sua forza questo fervore, nulla di grande e di bello può entrare nel cuore d'un uomo che non mi trovassi capace di albergare, tra il cielo e me. Ecco di dove nacque la mia subitanea eloquenza; ecco di dove sgorgò nei miei primi libri il fuoco veramente celeste che m'incendiava, e del quale per quarant'anni non era sfuggita la minima scintilla, poiché non era ancora acceso. Ero veramente trasformato; i miei amici, le mie conoscenze, non mi riconoscevano più. Non ero più l'uomo timido, vergognoso piuttosto che modesto, che non osava presentarsi né parlare; che una parola scherzosa sconcertava, uno sguardo di donna faceva arrossire. Audace, fiero, intrepido, portavo ovunque una sicurezza tanto più ferma quanto era semplice e aveva luogo nel mio animo più che nel mio contegno. Il disprezzo che le mie profonde meditazioni mi avevano ispirato verso i costumi, i principi, e i pregiudizi del mio secolo, mi rendeva insensibile agli scherni di quanti li seguivano, e sbaragliavo le loro misere ironie con le mie sentenze, come avrei schiacciato un insetto fra le dita. Quale cambiamento! Tutta Parigi ripeteva gli acri e mordaci sarcasmi del medesimo uomo che, due anni prima e dieci anni dopo, non seppe mai trovare la cosa che aveva da dire, né la parola che doveva usare. Si cerchi nel mondo la condizione più contraria alla mia natura, e si troverà questa. Chi rammenti uno dei brevi momenti della mia vita in cui diventavo un altro e cessavo d'essere me stesso, lo troverà del pari nel tempo di cui parlo: ma anziché durare sei giorni, o sei settimane, la cosa durò circa sei anni, e durerebbe forse tuttora senza le particolari circostanze che vi misero fine, e mi restituirono alla natura, sulla quale avevo preteso di elevarmi. Il cambiamento iniziò appena lasciato Parigi, dopo che lo spettacolo dei vizi di quella grande città cessò di alimentare l'indignazione che mi aveva ispirato. Come non vidi più gli uomini, smisi di disprezzarli; come non vidi più i malvagi, smisi di detestarli. Il mio cuore, poco portato all'odio, non fece più che deplorare la loro miseria, senza ravvisarne la cattiveria." Il destino è dunque segnato. Allorché Rousseau si avvicina agli uomini, egli non può fare a meno di detestarli; allontanandosi da essi, riesce a comprendere la loro miseria e a tollerarli. Delusa dal mondo, la vocazione all'armonia si rifugia nella solitudine riflessiva e nel contatto con la natura: "L'amore per gli oggetti immaginari e la facilità di occuparmene finirono col nausearmi di quanto mi circondava, e determinarono il gusto per la solitudine che da allora m'è rimasto. Si vedranno in seguito più d'una volta gli effetti bizzarri di questa tendenza così misantropica e ombrosa, in apparenza, ma che in realtà nasce da un cuore troppo affettuoso, troppo amorevole, troppo tenero, il quale, non trovandone di esistenti che gli somiglino, è costretto a nutrirsi d'illusioni." "Da solo, non ho mai conosciuto la noia, nemmeno nell'inoperosità più totale: la mia immaginazione, colmando ogni vuoto, bastava da sé ad occuparmi. L'unica cosa che non ho mai potuto sopportare è il cicaleccio ozioso di salotto, seduti gli uni di fronte agli altri a non muovere che la lingua. Se si cammina, si passeggia, passi ancora; i piedi e gli occhi almeno qualcosa fanno, ma restar lì, a braccia conserte, e parlare del tempo che fa e delle mosche che volano, o, peggio ancora, scambiarsi convenevoli, è un supplizio che non tollero." "Mi sentivo nato per il ritiro e la campagna, mi era impossibile vivere felice altrove. A Venezia, nella tensione dei pubblici affari, nella dignità di una specie di rappresentanza, nell'orgoglio dei progetti di carriera; a Parigi nel vortice della grande società, nella sensualità delle cene, nello splendore degli spettacoli, nei fumi della gloria; sempre i miei boschetti, i miei ruscelli, le mie passeggiate solitarie venivano, col loro ricordo, a distrarmi, a rattristarmi, strappandomi sospiri e desideri. Tutti i lavori ai quali avevo potuto assoggettarmi tutti i progetti d'ambizione che, a tratti, avevano animato il mio zelo, non puntavano ad altra mira che a raggiungere un giorno i felici svaghi campestri cui mi lusingavo, in quel momento, d'essere arrivato." Rousseau, però, non può ripiegarsi totalmente nell'isolamento e nel raccoglimento filosofico. Urge in lui, oltre al bisogno incoercibile di un riconoscimento sociale, il dovere morale di ergersi ad educatore dell'umanità: educatore solitario, indifferente ad ogni alleanza e ad ogni compromesso che imponga di omettere o ammorbidire la verità: "L'avversione mortale per tutto quanto si chiamasse partito, fazione, cabala, mi aveva mantenuto libero, indipendente, senz'altra catena che gli affetti del mio cuore. Solo, straniero, isolato, senza appoggio, senza famiglia, non legato che ai miei principi e ai miei doveri, seguivo intrepidamente la via della rettitudine, né lusingando, né risparmiando mai nessuno a scapito della giustizia e della verità." "La mia vocazione era di dire agli uomini verità utili, ma dure, con sufficiente energia e coraggio; a questo dovevo attenermi. Non ero nato, non dico a lusingare, ma nemmeno a tesser lodi. La goffaggine delle lodi che ho voluto elargire mi ha causato peggior danno che l'asprezza dei censori." Il daimon di Rousseau non è molto diverso da quello socratico. A differenza di Socrate, però, che ama la patria e la critica perché vorrebbe vederla più bella, più saggia, più virtuosa, Rousseau, che si sente cittadino del mondo, non sopporta quasi nulla della realtà storica in cui è immerso. Non sopporta il potere assoluto, l'ipocrisia clericale, la presunzione, l'arroganza, il lusso ostentato dei nobili, l'egoismo, l'avidità di denaro, la mediocrità intellettuale della classe media, la volgarità, la corruzione, la degradazione del popolino. Egli rimane preda del sogno di un mondo possibile di esseri ragionevoli, austeri, sensibili, virtuosi: un mondo che, ingenuamente, proietta nel passato, anziché nella prospettiva dell'avvenire e dell'utopia. Questo sogno, assunto come metro di misura del mondo reale, fomenta di continuo il suo disprezzo, l'insofferenza, l'intolleranza. Paradossalmente, esso promuove anche la rottura con gli Illuministi che, in una certa misura, lo condividono: non solo con Voltaire, troppo integrato e pago di se stesso per capire le inquietudini di Rousseau, ma anche con coloro (Diderot, D'Alembert, ecc.) che, per qualche tempo, lo hanno stimato. Il problema, per questo aspetto, è che essi confidano nella Ragione e hanno lo sguardo rivolto al futuro, mentre Rousseau confida nel sentire e ha lo sguardo rivolto al passato. Basterebbe tutto questo astio nei confronti del mondo reale, che non salva nulla e nessuno, a capire il senso di colpa profondo e radicale che s'insinua, a sua insaputa, nell'anima di Rousseau, e che attiva infine il delirio persecutorio. Invano, peregrinando di paese in paese, negli ultimi dieci anni di vita, egli cerca di decifrare il senso delle insinuazioni, delle accuse, delle diffamazioni che lo investono. Egli scrive: "Nell'abisso di mali in cui sono immerso, sento l'urto dei colpi infertimi, ne scorgo lo strumento immediato, ma non riesco a vedere né la mano che lo dirige né i mezzi che essa mette in opera. Obbrobrio e sciagure piombano su di me come da soli, e senza che ciò appaia. Quando il mio cuore straziato lascia sfuggire qualche gemito, sembra un uomo che si lamenti senza motivo, e gli autori della mia rovina hanno scoperto l'arte inconcepibile di rendere il pubblico complice del loro complotto, senza che esso ne sia consapevole e ne veda l'effetto. Narrando dunque gli eventi che mi riguardano, i trattamenti patiti, e tutto ciò che mi è accaduto, non sono in grado di risalire alla mano motrice, e di indicare le cause nell'esporre i fatti." Un antipsichiatra ha scritto che l'essere affetto da un delirio persecutorio non esclude di per sé che un soggetto sia perseguitato. Se questa formula vale per qualcuno, essa vale sicuramente per Rousseau. Le sue opere di fatto incorrono in provvedimenti repressivi che lo costringono all'esilio e alla peregrinazione, e promuovono (a Parigi e a Ginevra) decreti che destinano al rogo i suoi libri: "Quei due decreti furono il segnale del grido di maledizione che si levò contro di me in tutta Europa con un furore senza precedenti. Tutte le gazzette, tutti i giornali, tutti i libelli suonarono la più terribile campana a martello. I francesi soprattutto, questo popolo così mite, così civile, così generoso, che tanto vanta correttezza e riguardi verso gli infelici, dimenticando di colpo le sue virtù predilette si distinse per il numero e la violenza degli oltraggi con cui si accanì a gara contro di me. Ero un empio, un ateo, un forsennato, un indemoniato, una bestia feroce, un lupo." Cionondimeno, il sentirsi rifiutato e oscuramente minacciato da tutto il mondo, la diffidenza nei confronti di persone sicuramente amiche, il rifugiarsi infine in una solitudine radicale sono l'espressione di un delirio paranoico. Al di là del mondo reale in parte ostile, quali colpe, imputate superegoicamente, vengono proiettate condannando Rousseau a sentirsi inconsciamente degno di un universale rifiuto? Non è facile rispondere a questa domanda. In conseguenza della scissione cui ho fatto riferimento, di sicuro Rousseau ha agito talora come un essere insensibile, pagando ciò a caro prezzo. Due circostanze, rievocate ne Le confessioni, lo attestano. La prima è un atroce debolezza che, a distanza di quarant'anni, ancora lo tormenta: "Mi seguì il lungo ricordo del delitto e il peso insopportabile dei rimorsi, da cui la mia coscienza, a quarant'anni di distanza, è ancora oppressa, e il cui amaro sentimento, anziché affievolirsi, s'inasprisce quanto più invecchio. Chi crederebbe che la colpa di un ragazzo potesse avere conseguenze così crudeli? È di queste più che probabili conseguenze che il mio cuore non potrebbe consolarsi. Ho forse fatto morire nell'ignominia e nella miseria una giovane amabile, onesta, stimabile, e che sicuramente valeva più di me. È ben difficile che una casa si dissolva senza un po' di confusione, e che non vi scompaia una quantità di cose: eppure era tale la lealtà dei domestici e la vigilanza del signore e della signora Lorenzi, che non si trovò nulla di mancante sull'inventario. Solo la signorina Pontal smarrì un nastrino rosa e argento, già vecchio. Tante altre cose migliori erano alla portata della mia mano, ma solo quel nastrino mi tentò, lo rubai, e poiché non lo nascondevo, me lo trovarono subito. Vollero sapere dove l'avessi preso. Mi turbo, balbetto, e alla fine dico, arrossendo, che me l'aveva dato Marion. Marion era una giovane della Moriana, di cui la signora Vercelli aveva fatto la sua cuoca quando, smessi gli inviti a pranzo, aveva licenziato la propria, servendole ormai più i brodi sostanziosi che gli intingoli raffinati. Marion non era solo graziosa, ma aveva una freschezza di colori che si trova solo in montagna e soprattutto un'aria di modestia e di dolcezza che la faceva amare solo a guardarla; buona ragazza, oltre tutto, savia e d'una fedeltà a tutta prova. Perciò si stupirono, quando feci il suo nome. Non mi si dava minor fiducia che a lei, e si decise che occorreva verificare chi dei due fosse il furfante. La chiamarono; l'assemblea era numerosa, anche il conte di La Roque era presente. Arriva, le mostrano il nastro, io l'accuso sfrontatamente; lei resta sbigottita, tace, mi getta uno sguardo che avrebbe disarmato un demonio, e al quale il mio barbaro cuore resiste. Nega, infine, con sicurezza ma senza collera, mi rimprovera, mi esorta a rientrare in me stesso, a non disonorare una ragazza innocente che non ha mai fatto del male; ed io, con impudenza infernale, confermo la mia dichiarazione, e le ripeto in faccia che è stata lei a darmi il nastro. La povera ragazza si mise a piangere, e non mi disse che queste parole: "Ah, Rousseau! E io che vi credevo buono. Mi rendete ben infelice, ma non vorrei essere al vostro posto." Fu tutto. Seguitò a difendersi con semplicità pari alla fermezza, ma senza mai permettersi contro di me la minima invettiva. La sua moderazione, confrontata alla mia sicumera, la tradì. Non sembrava naturale supporre da un lato un'audacia così diabolica e dall'altro una così angelica mitezza. Non parvero decidere in assoluto, ma si propendeva a mio favore. Nelle distrette in cui si era, non persero tempo in indagini; e il conte di La Roque, licenziandoci entrambi, si contentò di dire che la coscienza del colpevole avrebbe a sufficienza vendicato l'innocente. La predizione non fu vana; e non cessa un sol giorno di avverarsi. Ignoro la sorte di quella vittima della mia calunnia; ma non è probabile che, dopo l'accaduto, abbia potuto trovare facilmente un buon posto. Un'accusa crudele pesava, comunque, sul suo onore. Il furto in sé era un'inezia, ma pur sempre un furto e, quel che è peggio, destinato a sedurre un giovanotto: insomma la menzogna e l'ostinazione non lasciavano sperare nulla da colei che assommava tanti vizi nell'animo. Non considero neppure la miseria e l'abbandono come i più gravi pericoli cui l'abbia esposta. Chi può sapere, alla sua età, dove lo sconforto dell'innocenza umiliata abbia potuto trascinarla? Oh, se il rimorso di averla potuta rendere infelice è insopportabile, si giudichi cosa può essere quello d'averla resa peggiore di me! Questo crudele ricordo mi turba a volte e mi sconvolge al punto che rivedo nelle mie insonnie l'infelice ragazza venire a rimproverarmi il mio crimine, come se l'avessi commesso ieri. Finché sono vissuto tranquillo, mi ha tormentato meno; ma nel pieno di una vita tempestosa mi toglie la più dolce consolazione degli innocenti perseguitati: mi fa ben provare quanto credo d'aver detto in qualche opera, che il rimorso dorme nella prosperità e morde nell'avversità." La seconda, vanamente giustificata, è l'abbandono di tutti e cinque i figli all'ospizio. Resa pubblica, con inaudita crudeltà, da Voltaire, essa viene pubblicamente negata da Rousseau. E' una menzogna cosciente, che tende a salvaguardare la sua immagine sociale, di ben poco peso in realtà rispetto al fatto in sé e per sé, che egli ha presente e, nel suo intimo, non riesce a perdonarsi. La prova di ciò è data dalla sua reazione all'intento di una sua protettrice di ritirare dall'ospizio uno dei suoi figli: "Sapeva che avevo fatto mettere una sigla nelle fasce del primogenito; me ne chiese il duplicato e glielo diedi. Ella incaricò della ricerca La Roche, suo cameriere e uomo di fiducia, che effettuò vane investigazioni e non trovò nulla, benché dopo soli dodici o quattordici anni, se i registri dei trovatelli fossero stati tenuti in ordine, o la ricerca ben condotta, la sigla non avrebbe dovuto risultare introvabile. Comunque, fui meno addolorato di quell'insuccesso di quanto non sarei stato se avessi seguito quel figlio dalla nascita. Se grazie a quelle ricerche mi avessero presentato un qualsiasi ragazzo come figlio mio, il dubbio che lo fosse veramente, che non l'avessero sostituito con un altro, mi avrebbe stretto il cuore per l'incertezza, e non avrei assaporato nel suo pieno incanto il sentimento sincero della natura: per sostenersi, almeno durante l'infanzia, quel sentimento ha bisogno di rafforzarsi con l'abitudine. Il distacco prolungato di un figlio, che ancora non si conosce, affievolisce e infine annulla i sentimenti paterni e materni, e non accadrà mai che si ami un figlio mandato a balia quanto uno nutrito sotto i propri occhi. La riflessione che faccio qui può attenuare i miei torti nei loro effetti, ma solo per aggravarli nelle loro cause." Di almeno due altre "colpe", però, Rousseau non si rende assolutamente conto. La prima riguarda non già i nemici, ma coloro che lo proteggono, lo stimano e lo assistono, che appartengono alla classe nobiliare. Rousseau non tollera in alcun modo la dipendenza, anche se ne ha bisogno ed essa viene soddisfatta con benevolenza. Suscettibilissimo per tutto ciò che riguarda la sua dignità, egli coglie qualunque sfumatura che, anche inconsapevolmente, fa riferimento alla diversità di rango, per adombrarsi. Anche quando non si dà una circostanza del genere, i rapporti finiscono però con il deteriorarsi. Il problema è che Rousseau, come accade a tutti gli esseri sensibili che periodicamente s'insensibilizzano, dice e agisce talvolta dei comportamenti che sono oggettivamente inopportuni e talora francamente offensivi. Non avendo alcun controllo su quest'aspetto, egli recepisce solo le risposte, che denotano un radicale cambiamento dello stato d'animo nei suoi confronti, e prende spunto da esse, che gli appaiono incomprensibili e gratuite, per indignarsi e reagire rabbiosamente. L'altra "colpa", ancora più insidiosa, è l'ambivalenza che egli ha nei confronti degli esseri umani. E' vero, come scrive più volte, che ama l'umanità, ma non è meno vero che, nel suo intimo, riconducendosi ad un modello ideale di perfezione, egli di fatto più spesso disprezza gli uomini in carne ed ossa, che vede infinitamente mediocri rispetto ad esso. Io penso che quest'ultimo aspetto sia stato decisivo nel determinare il delirio persecutorio. E' noto, infatti, che nelle anime sensibili, nulla più del disprezzo, essendo incompatibile con la pari dignità che il soggetto rivendica per sé e attribuisce agli altri, è capace di evocare, a livello inconscio, terribili sensi di colpa. Psicologo raffinatissimo, che si è inoltrato con estrema audacia sul terreno dell'esplorazione della propria anima, Rousseau non poteva interpretare la drammatica contraddizione per cui è la stessa sensibilità sociale, esasperata, a produrre l'odio nei confronti del mondo e infine la rappresaglia, immaginaria nella sua universalità, del mondo. Il suo estremo atto di accusa, consegnato a Le passeggiate solitarie, è drammaticamente indiziario di questa confusione: "Ed ora eccomi solo sulla terra, non avendo altro fratello, prossimo, amico che me stesso. Sociabilissimo e amorevolissimo tra gli uomini, io ne fui proscritto per unanime accordo; nella raffinatezza dell'odio, essi hanno cercato quale tormento potesse meglio incrudelire sulla mia sensibile anima, e hanno violentemente spezzato tutti i legami che a loro mi tenevano. Li avrei amati a dispetto di loro stessi, gli uomini; non hanno potuto sottrarsi al mio affetto che rinunciando ad esserlo. Ed eccoli stranieri, sconosciuti, nulli insomma per me, e per averlo voluto. Ma io, distaccato da loro e da tutto, io stesso che sono?"
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