Jean-Jacques RousseauDiscorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza fra gli uominiIn Opere, a cura di P. Rossi, Sansoni, Firenze 1972 |
1. Tenendo conto del celeberrimo incipit della Seconda Parte (“Il primo che, avendo cinto un terreno, pensò di affermare: questo è mio, e trovò persone abbastanza semplici per crederlo, fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, guerre, omicidi, quante miserie ed orrori non avrebbe risparmiato al genere umano colui che, strappando i piuoli e colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: «Guardatevi dall'ascoltare questo impostore; siete perduti se dimenticate che i frutti sono di tutti, e che la terra non è di nessuno!» p. 60) e dell’insistenza con cui Rousseau riconduce allo Stato e al diritto di proprietà che esso tutela l’origine della disuguaglianza tra gli esseri umani, non c’è da soprendersi che il Discorso sia stato a lungo assunto come un’anticipazione del pensiero di Marx. Sarebbe ingenuo, però, non considerare immediatamente la differenza radicale tra Rousseau e Marx. Per l’uno, la civilizzazione (vale a dire l’istituirsi di un patto sociale e di un potere statale legiferante e garante della Legge) e lo sviluppo – materiale e culturale – rappresentano l’avvio di un processo di decadimento dell’uomo giunto ormai alla “depravazione”. Per Marx, viceversa, lo sviluppo, che pone l’uomo in condizione di utilizzare in maniera sempre più efficiente le risorse naturali, producendo una crescente ricchezza, è un fattore potenzialmente rivoluzionario in quanto, ponendo in tensione i rapporti di produzione tutelati dallo Stato borghese, pone i presupposti di un suo superamento nella direzione di una nuova, più consapevole e più umana civiltà. A posteriori, tenendo conto della distinzione ormai universalmente acquisita tra sviluppo e progresso – termini che fanno riferimento a processi che possono essere convergenti ma anche divergenti – e delle critiche sempre più aspre che, da anni a questa parte, si addensano sull’ideologia dello sviluppo, che considera univocamente il PIL come indice del benessere, mentre la sua crescita sembra associarsi progressivamente ad una diminuzione della Salute Sociale e comportare un attentato agli equilibri ecologici, si direbbe che il pensiero di Rousseau e quello di Marx colgano lo stesso fenomeno da due angolature diverse. Rousseau vede nello sviluppo e nella civilizzazione stessa la causa della disuguaglianza e della degradazione antropologica; Marx, viceversa, la identifica nella logica di un sistema, quello capitalistico, che favorisce il capitale a danno dei bisogni umani e sociali e impedisce alla ricchezza di essere utilizzata ai fini della produzione dell’uomo totale. Rousseau è contro lo sviluppo in sé e per sé; Marx contro uno sviluppo che separa l’uomo da se stesso, dall’altro e dalla natura. Il richiamo di Rousseau ad una vita più semplice, più naturale, affrancata dalla sete di denaro, dal lusso, dal consumismo, dallo status, ecc. sarebbe, oggi, ben accolta dal pensiero ecologista e dai teorici della decrescita; il richiamo di Marx alla ricchezza dei bisogni umani, materiali e culturali, che possono realizzarsi solo in virtù di un agire orientato al massimo sviluppo delle potenzialità individuali esercita ancora una forte suggestione sul pensiero socialista e umanistico. In una visione dialettica, le due concezioni non sono affatto incompatibili. L’uomo ricco di bisogni di Marx ne ha comunque meno del cittadino medio borghese, che si estenua nel lavoro e nel consumo. Egli rivendica tra l’altro una rilevante quantità di tempo libero da dedicare alla coltivazione di sé, ai rapporti sociali, alla cultura, alla natura: attività che comportano un dispendio minimo di risorse economiche. Ciò detto, è un fatto che tra Rousseau e Marx si dà una concezione antropologica del tutto diversa che sottende la differenza radicale cui si è fatto cenno. Rousseau non attribuisce all’uomo, in quanto ente naturale, alcun bisogno associativo, mentre per Marx l’uomo è un animale radicalmente sociale (che dunque può isolarsi solo in società). Rousseau arriva ad una conclusione che reifica uno stato di natura (ipotetico) caratterizzato da un’assoluta libertà e indipendenza attraverso un excursus ricostruttivo della nascita della specie umana che occupa tutta la prima parte del Discorso e rappresenta la chiave da cui discende l’interpretazione della disuguaglianza sociale fornita nella seconda. La premessa è quella che ha affascinato Lévi-Strauss. Secondo Rousseau un discorso sull’uomo e sulla società non può prescindere dal problema della natura umana: “La più utile e meno progredita fra tutte le conoscenze umane mi sembra sia quello dell'uomo ; ed oserei dire che la iscrizione del tempio di Delfo da sola contenesse un precetto più importante e difficile che tutti i grossi libri dei moralisti. Perciò io considero l'argomento di questo discorso come una delle questioni più interessanti che la filosofia possa proporre, e, disgraziatamente per noi, come una delle più spinose a risolversi per i filosofi: poiché, come conoscere la fonte della disuguaglianza fra gli uomini, se non si cominci dal conoscer se stessi? E come l'uomo verrà mai a capo di vedersi tal quale natura l’ha formato, attraverso tutti i cangiamenti che la successione dei tempi e delle cose ha dovuto produrre nella sua costituzione originaria; e di svincolare ciò che deve alla propria essenza intima da ciò che le circostanze ed i suoi progressi hanno aggiunto o mutato nel suo stato primitivo?” (p. 18) “Queste ricerche tanto difficili a fare, cui si è pensato tanto poco sin qui, sono tuttavia i soli mezzi, che ci restino, di toglier di mezzo una moltitudine di difficoltà, che ci sottraggono la conoscenza dei fondamenti reali della società umana. Questa ignoranza della natura dell'uomo, per l'appunto, getta tanta incertezza e oscurità sulla vera definizione del diritto naturale, perché l'idea del diritto…, e più ancora quella del diritto naturale sono evidentemente idee relative alla natura dell'uomo.” (p. 40) Ora, la natura umana è un problema con il quale la filosofia si è confrontata prima di Rousseau, ma senza riuscire a distinguere ciò che vi è in essa di originale o di condizionato dalla cultura: “Non è lieve impresa districare ciò che v'è d'originario e d'artificiale nella natura attuale dell'uomo, e conoscer bene uno Stato che non esiste più che forse non è mai esistito, che probabilmente non... esisterà mai, di cui non pertanto è necessario aver nozioni giuste, per giudicar bene del nostro stato presente.” (p. 19) In conseguenza di questa confusione, le conclusioni cui sono giunti gli autori precedenti (e in partticolare Hobbes e Locke) non sono soddisfacenti. Esse infatti tentano di risalire dal presente al passato, e finiscono con l’eleggere come legge naturale ciò che è il prodotto della storia: “Conoscendo così poco la natura, e accordandosi così male sul significato della parola legge, sarà ben difficile convenire in una buona definizione della legge naturale. Così tutte quelle che si trovan nei libri, oltre il difetto di non esser mai uniformi, han quello pure di esser tratte da una quantità di conoscenze, che gli uomini non han punto naturalmente, e da vantaggi di cui non possono concepir l'idea, se non dopo essere usciti dallo stato di natura. Si cominciano a ricercare le regole di cui, per l'utilità comune, sarebbe opportuno che gli uomini convenissero fra loro; e poi si dà il nome di legge naturale alla collezione di tali regole, senz'altra prova che il bene che si trova poter resultare dalla loro pratica universale. Ecco certamente una maniera assai comoda di costruir definizioni e di spiegar, la natura delle cose per via di convenienze presso che arbitrarie.” (p. 40) “I filosofi che hanno esaminato i fondamenti della società, han sentito tutti la necessità di rimontare fino allo stato di natura, ma nessuno di loro vi è arrivato. Gli uni non hanno esitato ad attribuire all'uomo in questo stato la nozione del giusto e dell'ingiusto, senza preoccuparsi di mostrare che esso dovesse avere tale nozione, e neppure che questa gli fosse utile. Altri han parlato del diritto naturale, che ognuno ha di conservare ciò che gli appartiene, senza spiegare che cosa intendano per appartenere. Altri, dando inizialmente al più forte l'autorità sul più debole, han fatto nascere senz'altro il governo, senza pensare al tempo che dovette trascorrere, prima che il senso delle parole d'autorità e di governo potesse esistere fra gli uomini. Infine tutti parlando continuamente di bisogno, di avidità, di oppressione, di desiderio e d'orgoglio, han trasportato nello stato di natura idee prese nella società: parlavan dell'uomo selvaggio e dipingevano l'uomo civile.” (p. 42) Rousseau intende seguire un metodo diverso. Egli parte da un’ipotesi di fondo che è il prodotto di una riflessione sulla natura che prescinde sia dall’attribuire ad essa (come fa Hobbes) un bagaglio istintuale animalesco sia dal fare riferimento (come in Locke) alla Ragione: “Lasciando dunque tutti i libri scientifici che non ci apprendono che a vedere gli uomini quali si sono fatti, e meditando sulle prime e più semplici operazionì dell’anima umana, credo di scorgervi due principi anteriori alla ragione: uno dei quali ci interessa ardentemente al nostro benessere e alla conservazione di noi stessi, e l’altro c’ispira una ripugnanza naturale a veder perire o soffrire ogni essere sensibile e principalmente i nostri simili. Dal concorso e dalla combinazione, che il nostro spirito sa fare di questi due principi, senza che sia necessario farvi entrare quello della socievolezza, mi sembrano scaturire tutte le regole del diritto naturale; regole che la ragione è in seguito costretta a ristabilire su altri fondamenti, quando, per i suoi sviluppi successivi, sia riuscita a soffocare la natura. In questo modo non si è costretti a fare dell'uomo un filosofo prima di farne un uomo; i suoi doveri verso gli altri non gli sono unicamente dettati dai tardivi insegnamenti della saggezza; e fin che non resisterà all'impulso interno della compassione, egli non farà mai del male ad un altro uomo, e neanche ad alcun essere sensibile, eccettuato il caso legittimo in cui essendo in giuoco la sua conservazione, sia obbligato a dare la preferenza a se stesso. Per questa via si terminano anche le antiche dispute sulla partecipazione degli animali alla legge naturale; perché è chiaro che, sprovvisti d'intelletto e di libertà, essi non possono riconoscere questa legge; ma, essendo in qualche modo partecipi della nostra natura, per la sensibilità di cui sono dotati, si giudicherà che debbano anche partecipare al diritto naturale, e che l'uomo sia soggetto verso loro a qualche specie di doveri. Sembra infatti che, se io sono obbligato a non fare alcun male al mio simile, ciò sia non tanto perché è un essere ragionevole quanto perché è un essere sensibile, qualità che, essendo comune alla bestia e all'uomo, deve almeno dare alla prima il diritto di non essere maltrattata inutilmente dal secondo. (p. 40 - 41) 2. L’attribuzione alla natura umana dei due principi suddetti – l’amor di sé e la pietas – sembrerebbe evocare immediatamente una condizione originaria orientata verso la socialità. Posto, infatti, che l’amore di sé comporta la consapevolezza da parte dell’uomo di essere in quanto individuo estremamente vulnerabile ed esposto a rischi infiniti e la pietas coglie nel simile la stessa condizione, verrebbe da pensare che su questa base si sia definito un legame sociale di solidarietà e di cooperazione, finalizzato ad assicurare la sopravvivenza. Questa argomentazione logica, invece, è del tutto negata da Rousseau, il quale ricostruisce in questi termini l’originario stato di natura: “Spogliando quest'essere così costituito di tutti i doni soprannaturali che abbia potuto ricevere, e di tutte le facoltà artificiali, che non ha saputo acquistare che per via di lunghi progressi; considerandolo, in una parola, tal quale ha dovuto uscire dalle mani della natura, veggo un animale meno forte di alcuni, meno agile di altri, ma, nell'insieme, organizzato più vantaggiosamente di tutti: lo veggo saziarsi sotto una quercia, dissetarsi al primo ruscello, trovar il suo giaciglio ai piedi dello stesso albero che gli ha fornito il suo pasto; ed ecco i suoi bisogni soddisfatti. La terra, abbandonata alla sua fertilità naturale, e coperta di foreste immense, che la scure non mutilò mai, offre ad ogni passo provvigioni e ricoveri agli animali d'ogni specie. Gli uomini, disseminati fra questi, osservano, imitano la loro industria e s'elevan così fino all'istinto delle bestie; con questo vantaggio, che ogni specie non ha che il proprio, e l'uomo, non avendone forse alcuno che gli appartenga, se li appropria tutti, si nutre ugualmente della maggior parte degli alimenti diversi che gli altri animali si dividono, e trova in conseguenza i suoi viveri più facilmente di quanto possa fare alcuno di quelli. Avvezzi dall'infanzia alle intemperie atmosferiche e ai rigori delle stagioni, esercitati alla fatica, e costretti a difender nudi e senz'armi la loro vita e la loro preda contro le altre bestie feroci o di sfuggir loro alla corsa, gli uomini si formano una tempra robusta e quasi inalterabile; i figli, portando al mondo l'eccelente costituzione dei loro padri, e fortificandola con gli stessi esercizi che l'han prodotta, acquistano così tutto il vigore di cui la specie umana sia capace. La natura usa con loro precisamente come la legge di Sparta coi figli dei cittadini; essa rende forti e robusti quelli che son bene costituiti, e fa perir tutti gli altri: diversa in ciò dalle nostre società, in cui lo Stato, rendendo i figli di peso ai padri, li uccide indistintamente prima della nascita. Il corpo dell'uomo selvaggio, essendo il solo strumento che egli conosca, egli l'adopera a diversi usi di cui, per difetto d'esercizio, i nostri sono incapaci; la nostra industria ci toglie la forza e l'agilità, che la necessità costringe quello ad acquistare. Se avesse avuto un'ascia, romperebbe il suo pugno rami così forti? Se avesse una fionda, lancerebbe con la mano una pietra con tanto impeto? Se avesse avuto una scala, si arrampicherebbe così agilmente su un albero? Se avesse avuto un cavallo, sarebbe così rapido alla corsa? Lasciate all'uomo incivilito il tempo di radunarsi intorno tutti questi meccanismi, ed egli senza dubbio sorpassa facilmente l'uomo selvaggio; ma se volete vedere una lotta più disuguale ancora, metteteli nudi e disarmati di fronte, e riconoscerete subito qual vantaggio sia l'avere sempre tutte le proprie forze a propria disposizione, l'esser sempre pronti ad ogni evento, ed il portarsi, per così dire, se stesso sempre tutto intiero con sé .” (p. 44) “L'uomo selvaggio, vivendo sperduto fra gli animali e trovandosi ben presto in condizione di misurarsi con loro, ne fa ben tosto il paragone; e sentendo che egli li supera in destrezza, più che essi non lo superino in forza, impara a non temerli più. Mettete un orso o un lupo alle prese con un selvaggio robusto, agile, coraggioso, come son tutti, armato di pietre e d'un buon bastone, e vedrete che il pericolo sarà per lo meno reciproco, e che, dopo parecchie esperienze consimili, le bestie feroci, che non amano assalirsi fra di loro, assaliranno mal volentieri l'uomo, che avran trovato feroce al par di loro. Quanto agli animali, che abbian realmente più forza che egli non abbia destrezza, egli si trova di fronte a loro nelle condizioni delle altre specie più deboli, che tuttavia non cessan di esistere; con questo vantaggio per l'uomo, che, non meno disposto di loro alla corsa, e trovando sugli alberi un rifugio quasi sicuro, egli ha ovunque, al taso la possibilità di prendere o di la-s<^ar.e e la scelta tra la fuga e la lotta. Aggiungiamo che non sembra che nessun animale faccia naturalmente la guerra all'uomo, fuor che nel caso della propria difesa o di una fame estrema; né che attesti contro di lui quelle violente antipatie, le quali sembrano annunciare che una specie è destinata per natura a servir di nutrimento all'altra.” (p. 45) “Altri nemici più temibili, dai quali l'uomo non ha gli stessi mezzi per difendersi, sono le infermità naturali, l'infanzia, la vecchiaia e le malattie d'ogni specie; tristi segni della nostra debolezza, di cui i due primi son comuni a tutti gli animali, e l'ultimo appartiene specialmente all'uomo che vive in società. Osservo anzi, a proposito dell'infanzia, che la madre, portando ovunque seco il figlio, ha molto più facilità di nutrirlo che non abbian le femmine di vari animali, che son costrette ad andare e venire senza posa a gran fatica, da una parte per cercare il cibo, dall'altra per allattare o nutrire i loro piccoli. È vero che, se la femmina viene a morire, il figlio rischia di morir con lei; ma questo pericolo è comune a cento altre specie, i cui piccoli non sono per lungo tempo in grado d'andar da soli a cercare il nutrimento; e se l'infanzia è più lunga fra noi, essendo più lunga anche la vita, tutto è ancora press'a poco uguale per questo rispetto.” (p. 45) “Non è dunque così gran disgrazia per quei primi uomini, né soprattutto così grande ostacolo alla loro conservazione, la nudità, la mancanza di abitazione e la privazione di tutte quelle inutilità che noi crediamo tanto necessarie. Se non hanno la pelle villosa, non ne hanno alcun bisogno nei paesi caldi; e sanno ben presto, nei paesi freddi, impadronirsi di quelle delle bestie che han vinte: se non hanno che due piedi per correre, hanno due braccia per provvedere alla loro difesa e ai loro bisogni. I loro figliuoli camminano forse tardi e con fatica, ma le madri li portano con facilità: vantaggio che manca alle altre specie, nelle quali la madre, essendo inseguita, si vede costretta ad abbandonare i suoi piccoli o a regolare il suo passo sul loro.” (p. 47) In quanto animale, dunque, l’uomo allo stato di natura è meno agile e forte degli altri fisicamente, ma perfettamente in grado di adattarsi all’ambiente come individuo. Se poi si considera, oltre che l’aspetto fisico, quello che Rousseau definisce “metafisico e morale”, l’adattabilità risulta ulteriormente confermata dall’essere l’uomo un agente libero e capace di migliorare se stesso attraverso la pratica e l’apprendimento:: “Io non vedo in ogni animale che una macchina ingegnosa, alla quale la natura ha dato sensi per ricaricarsi da sé e per proteggersi, fino a un certo punto, da tutto ciò che tenda a distruggerla o a guastarla. Scorgo precisamente le stesse cose nella macchina umana, con questa differenza, che la natura fa tutto da sola nelle operazioni della bestia, là dove l'uomo concorre alle sue, in qualità di agente libero. L'una sceglie o respinge per istinto, e l'altro per un atto di libertà; ciò fa sì che la bestia non possa allontanarsi dalla regola che le è prescritta, anche quando le sarebbe vantaggioso il farlo, e l'uomo invece se ne allontani spesso a suo danno.” (p. 48) “Non è dunque tanto l'intelligenza che formi la differenza specifica dell'uomo dagli altri animali, quanto la sua qualità di agente libero. La natura comanda a ogni animale, e la bestia obbedisce. L'uomo prova la stessa impressione; ma si riconosce libero di consentire o di resistere; e nella coscienza di questa libertà, sopra tutto, si mostra la spiritualità della sua anima; poiché la fisica spiega in qualche modo il meccanismo dei sensi e la formazione delle idee; ma nella potenza di volere, o piuttosto di scegliere, e nel sentimento di questa potenza, non si trovano che atti puramente spirituali, di cui nulla si spiega per via delle leggi della meccanica. Ma, quand'anche le difficoltà che avvolgono tutte queste questioni lasciassero un po' di posto per discutere di questa differenza fra l'uomo e l'animale, c'è un'altra qualità più che mai specifica che li distingue, sulla quale non vi può essere contestazione; ed è la facoltà di perfezionarsi, facoltà che, con l'aiuto delle circostanze, sviluppa successivamente tutte le altre, e risiede in noi tanto nella specie quanto nell'individuo; là dove un animale è già al termine di qualche mese ciò che sarà per tutta la vita, e la sua specie è ancora al termine di mille anni ciò che era nel primo anno di questi mille. Perché l'uomo solo è soggetto a diventare imbecille? Non forse perché ritorna così al suo stato primitivo, e, mentre la bestia, che non ha acquistato nulla e nulla ha neanche da perdere, resta sempre col suo istinto, l'uomo invece, tornando a perdere per vecchiaia o per altri accidenti tutto ciò che la sua perfettibilità gli aveva fatto acquistare, ricade così più in basso che la bestia stessa? Sarebbe triste per noi essere costretti a convenire che questa facoltà distintiva e quasi illimitata è la fonte di tutte le disgrazie dell'uomo; che essa lo trae fuori, a forza di tempo, da quella condizione originaria, nella quale trascorrerebbe giorni tranquilli e innocenti; che essa, facendo sbocciare coi secoli la sua capacità intellettuale e i suoi errori, i suoi vizi e le sue virtù, lo rende a lungo andare il tiranno di se stesso e della natura.” (p. 48) In questo stato originario, l’uomo è dunque libero, indipendente, capace di cavarsela da solo, e mosso solo dalla soddisfazione di bisogni elementari: “Checché ne dicano i moralisti, l'intelletto umano deve molto alle passioni che, per confessione comune, gli devon molto del pari; per l'attività loro si perfeziona la nostra ragione; noi non cerchiamo di conoscere se non perché desideriamo godere; e non è possibile capire perché mai chi non avesse desideri né timori si darebbe pena di ragionare. Le passioni a lor volta traggono origine dai nostri bisogni, e progresso dalle nostre conoscenze; giacché non si può desiderare o temere le cose, se non in base alle idee che si possa averne, o per semplice impulso di natura; e 1’uomo selvaggio, privo d'ogni specie di scienza, non prova se non le passioni di quest'ultima specie; ì suoi desideri non oltrepassano i bisogni fisici ; 1 soli beni che conosca nell'universo sono il cibo, la femmina e il riposo; i soli mali che tema sono il dolore e la fame.” (p. 49) “Sembra a prima vista che gli uomini, in questo stato, non avendo fra loro alcuna specie di relazione morale né di doveri noti, non potessero essere né buoni né cattivi, e non avessero né vizi né virtù: a meno che, prendendo queste parole in senso fisico, non si chiamino vizi nell'individuo le qualità che possono nuocere alla sua conservazione, e virtù quelle che possano contribuirvi; nel qual caso si dovrebbe chiamare il più virtuoso quello che resistesse meno ai semplici impulsi della natura.” (p. 54) “I selvaggi non sono cattivi, precisamente perché non sanno che cosa sia l'esser buoni; poiché non lo sviluppo delle conoscenze, né il freno della legge, ma la calma delle passioni e l'ignoranza del vizio impediscono loro di mal fare.” (p. 54) “Con passioni così poco attive e con un freno così salutare, gli uomini, più feroci che malvagi, e più preoccupati di garantirsi dal male che potessero ricevere, che non tentati di farne ad altri, non sarebbero soggetti a conflitti molto pericolosi: non avendo fra loro commercio di sorta; non conoscendo in conseguenza né vanità, né rispetto, né stima, né disprezzo; non avendo la minima nozione del tuo e del mio, né alcuna vera idea di giustizia; considerando le violenze, che potessero subire, come un male facile a riparare, e non come ingiurie da punire; non pensando neanche alla vendetta, se non macchinalmente e sul momento, come il cane che morde la pietra gettatagli, le loro dispute avrebbero avuto di rado conseguenze sanguinose.” (p. 56) “Concludiamo che, errando nella foresta, senza industria, senza parola, senza domicilio, senza guerra e senz'associazione, senz'alcun bisogno dei suoi simili come senza desiderio di nuocer loro, forse anche senza mai riconoscerne alcuno individualmente, l'uomo selvaggio, soggetto a poche passioni, e bastando a se stesso, non aveva che i sentimenti e le conoscenze adatte a tale stato; non sentiva che i suoi veri bisogni, non considerava che ciò che credeva di aver interesse a vedere, e la sua intelligenza non faceva più progressi che la sua vanità. Se per caso faceva qualche scoperta, poteva tanto meno comunicarla, in quanto non riconosceva nemmeno i suoi figli. L'arte moriva con l'inventore. Non v'era né educazione né progresso; le generazioni si moltiplicavano invano; e, partendo ognuna sempre dallo stesso punto, i secoli scorrevano in tutta la rozzezza delle prime età; la specie era già vecchia e l'uomo restava sempre fanciullo.” (p. 58) 3. Si tratta di una ricostruzione per molti versi inverosimile. Rousseau non ha certo colpa, in difetto di qualunque dato paleontologico, di ignorare che la specie umana è nata nel cuore dell’Africa, è stata costretta ad uscire dalla foresta per via della perduta capacità di arrampicarsi e di volteggiare sugli alberi, e si è ritrovata nella savana, povera di risorse e infestata da predatori. Non gli si può neppure imputare di minimizzare il dato, che pure ovviamente conoscenze, dell’allungamento della fase evolutiva che consente ad un soggetto umano di diventare adulto, e di non considerare che l’allevamento dei piccoli, ai fini della riproduzione del gruppo e dunque della sopravvivenza della specie, è non meno importante della sopravvivenza individuale. Circostanza questa che consente di intuire immediatamente che, se non fosse bastata la vulnerabilità dell’essere umano a promuovere un’organizzazione sociale, l’impotenza e la vulnerabilità dell’infante l’ha imposta. Il problema è che Rousseau, inseguendo il fantasma dell’uomo che può fare a meno di ogni associazione con il simile, e preserva in virtù di ciò la sua semplicità, naturalezza e “fanciullezza”, mortifica l’intuizione prodigiosa che ha avuto in rapporto alla natura umana attribuendo ad essa la pietas. E’ pertanto sorprendente che tale intuizione venga riproposta proprio nelle pagine in cui è descritto lo stato di natura, ed è riproposta giungendo alle estreme conseguenze che da essa discendono, le quali attengono l’etica sociale: “V’è d’altra parte un altro principio, che Hobbes non ha scorto, e che, essendo stato dato all’uomo per mitigare in talune circostanze la ferocia del suo amor proprio. il desiderio della conservazione, an-teriore al sorgere di quest’amore, tempera l'ardore ch'egli ha pel suo benessere con una ripugnanza innata a veder soffrire il proprio simile. Non credo di dover temere alcuna contraddizione, accordando all'uomo la sola, virtù naturale che sia stato costretto a riconoscergli il denigratore più esagerato delle virtù umane. Parlo della pietà, disposizione conveniente a esseri così deboli e soggetti a tanti mali, come siamo noi; virtù tanto più universale ed utile all’uomo, in quanto precede in lui l’uso di ogni riflessione.” (p. 54) “È dunque ben certo che la pietà è un sentimento naturale, che, moderando in ogni individuo l'attività dell'amor di se stesso, concorre alla mutua conservazione di tutta la specie. Essa ci porta impulsivamente in aiuto di quelli che vediam soffrire; essa, nello stato di natura, tien luogo di leggi, di costumi e di virtù, con questo vantaggio, che nessuno è tentato di disobbedire alla sua dolce voce: essa distoglierà ogni selvaggio robusto dal togliere a un debole fanciullo o a un vecchio malato il cibo conquistato a fatica, se almeno speri di trovarne per sé altrove; essa, in luogo di quella sublime norma di giustizia ragionata: «Fa agli altri quel che vuoi fatto a te stesso», ispira a tutti gli uomini quell'altra massima di bontà naturale assai meno perfetta, ma più utile forse della precedente: «Fa il tuo bene col minor male altrui possibile». In questo sentimento naturale, in una parola, più che negli argomenti sottili, bisogna cercar la causa della repugnanza che ogni uomo proverebbe a far del male, anche indipendentemente dalle norme dell'educazione. Per quanto potesse appartenere a Socrate ed agli spititi della sua tempra l'acquistar la virtù per via di ragione, il genere umano non esisterebbe più da un gran tempo, se la sua conservazione non avesse dipeso che dai ragionamenti dei suoi componenti.” (p. 56) Ma a cosa mai può servire la pietas ad un essere che, tranne che per la riproduzione, vive nell’isolamento e nell’autosufficienza? Possibile che la natura abbia dotato l’uomo di una qualità così pervasiva semplicemente per permettergli all’occorrenza di prestare aiuto ad un simile ferito o in dificcoltà casualmente incontrato o addirittura ad un animale nelle stesse condizioni? La contraddizione è veramente clamorosa, e richiede un’interpretazione. Rousseau contesta le concezioni della natura umana di Hobbes e di Locke poiché esse proiettano il presente sul passato e definiscono la socialità rispettivamente come una necessità al fine di scampare alla distruzione reciproca o come un’esigenza dettata dalla ragionevolezza, vale a dire del calcolo costo/benefici. Egli però, nonostante l’intuizione secondo la quale l’essenza della natura umana non è di ordine istintuale né razionale, bensì emozionale o affettiva, cade nella stessa trappola. A differenza di essi, però, egli non proietta nel passato il presente sociale, ma la sua stessa esperienza interiore. E’ il cuore semplice, ingenuo, buono e naturale di Jean Jacques che si è alterato nel momento in cui egli ha dovuto interagire con il sociale, accettare le leggi della convivenza e subordinarsi ad un ordinamento gerarchico e arbitrario. Il trauma della socializzazione e della civilizzazione è stato terribile, perché ha mortificato un’anima delicata, sensibile, affettuosa e ingenua, sovrapponendo ad essa un tratto di carattere orgoglioso, rabbioso, intollerante, sprezzante e insensibile con cui Rousseau ha convissuto, pagandone il prezzo in termini di un disagio esitato infine in un delirio persecutorio. Su questa base, l’identificazione nella forma associativa, nell’istituzione statale e nelle leggi che la governano, di un male assoluto, che provoca la depravazione della natura umana, riesce pienamente comprensibile. Rimane il fatto che essa evoca uno stato anteriore inesistente, uno stato di natura che non riguarda e non ha mai riguardato l’uomo. Nella misura in cui Rousseau scambia inconsapevolmente la sua esperienza vissuta per un’esperienza universale che ha riguardato la nascita dell’uomo e il definirsi di un’organizzazzione sociale, il passaggio dallo stato di natura alla condizione dell’uomo civile diventa oltremodo problematico sotto il profilo della ricostruzione. Nonostante l’incipit citato, la seconda parte del saggio è, in effetti, deludente. Rousseau stesso deve essersene reso conto se ha avvertito successivamente l’esigenza di scrivere Il contratto sociale. 4. La seconda parte è intesa ad illustrare l’intimo nesso tra civilizzazione e disuguaglianza: “Dopo aver provato che la disuguaglianza è appena sensibile nello stato di natura, e che la sua influenza vi è quasi nulla, mi resta a mostrarne l'origine e i progressi nello sviluppo successivo dello spirito umano.” (p. 59) I momenti essenziali dell’evoluzione storica sono ricostruiti nei seguenti termini: “Il primo sentimento dell'uomo fu quello della sua esistenza; la sua prima cura, quella della sua conservazione. I prodotti della terra gli fornivano tutti i soccorsi necessari; l'istinto lo trasse a farne uso. Poiché la fame e altri appetiti gli facevano sperimentare volta a volta diverse maniere di vita, ve ne fu una che lo invitò a perpetuare la sua specie; e questo cieco impulso, sprovvisto di ogni sentimento del cuore, non produsse che un atto puramente animale: soddisfatto il bisogno, i due sessi non si riconoscevano più, e il figlio stesso non era più nulla per la madre, non appena potesse far senza di lei. Tale fu la condizione dell'uomo nascente; tale fu la vita di un animale, limitato dapprima alle pure sensazioni, che approfittava appena dei doni che gli offriva la natura, lungi dal pensare a strapparle nulla.” (p. 60) “Benché i suoi simili non fossero per lui ciò che sono per noi, e non avesse affatto più relazioni con loro che con gli altri animali, essi non furono tuttavia dimenticati nelle sue osservazioni. Le conformità, che il tempo gli potè far scorgere fra loro, la sua femmina e se stesso, gli fecero giudicare di quelle che non scorgeva; e, vedendo che si conducevano tutti come avrebbe fatto lui in simili circostanze, ne concluse che la loro maniera di pensare e di sentire era interamente conforme alla sua: e questa verità importante, bene impressa nel suo spirito, gli fece seguire, per un presentimento non meno sicuro e pronto della dialettica, le migliori norme di condotta che, per suo vantaggio e per sua sicurezza, gli convenne di serbare con loro. Istruito dall'esperienza che l'amore del benessere è il solo movente delle azioni umane, si trovò in grado di distinguere le occasioni rare, in cui l'interesse comune doveva fargli fare assegnamento sull'assistenza dei suoi simili, e quelle, più rare ancora, nelle quali la concorrenza doveva farlo diffidare di loro. Nel primo caso, si univa a loro in branco, o tutt'al più con una specie di associazione libera, che non obbligava nessuno, e che durava solo quanto il bisogno passeggero che l'aveva forma-a« Nel secondo caso, ciascuno cercava ai avvantaggiarsi, sia con violenza paese, se credeva di poterlo, sia con destrezza e astuzia, se si sentiva il più debole. Ecco come gli uomini poterono acquistare poco a poco qualche rozza idea degli impegni reciproci, e del vantaggio di mantenerli: ma solo per quel tanto che poteva esigere l'interesse presente e sensibile, perché la previdenza non esisteva per essi; e lungi dall'occuparsi di un avvenire lontano, non pensavano neanche al domani.” (p. 61) “Finchè gli uomini si accontentarono delle loro capanne rustiche, finché si limitarono a cucirsi gli abiti di pelle con spine di piante e di pesce, a ornarsi di piume e di conchiglie, a dipingersi il corpo di diversi colori, a perfezionare o abbellire i loro archi e le loro frecce, a tagliar con pietre taglienti qualche canotto da pesca o qualche rozzo strumento musicale; in una parola finché non si volsero che ad opere che uno solo poteva fare, e ad arti che non avevan bisogno del concorso di parecchie mani, vissero liberi, sani, buoni e felici, per quanto potevan esser tali di loro natura, e continuarono a goder fra loro delle dolcezze di relazioni indipendenti: ma dal momento che un uomo ebbe bisogno dell'aiuto di un altro, e s'avvide che era utile a uno solo aver provviste per due, l'uguaglianza scomparve, la proprietà s'introdusse, il lavoro diventò necessario, e le vaste foreste si mutarono in campagne ridenti, che bisognò bagnar col sudore degli uomini, e in cui ben presto si vide la schiavitù e la miseria germogliare e crescere con le messi. La metallurgia e l'agricoltura furono le due arti, la cui invenzione produsse questa grande rivoluzione46. Per il poeta è l'oro e l'argento; ma per il filosofo sono il ferro e il grano gli autori della civilizzazione degli uomini e della perdizione del genere umano.” (p. 63-64) “D'altro lato, di libero e indipendente che era prima l'uomo, eccolo, da una quantità di nuovi bisogni, assoggettato per così dire a tutta la natura e sopra tutto ai suoi simili, di cui diventa in certo senso lo schiavo, anche diventandone il padrone: ricco, ha bisogno dei loro servigi; povero, ha bisogno dei loro soccorsi; e la mediocrità non lo mette | punto in grado di farne a meno. Bisogna dunque che egli cerchi senza posa I d'interessarli alla sua sorte e di far loro I trovare, in realtà o in apparenza, il loro utile nel lavorar per l'utile suo: ciò che lo rende furbo e artificioso cogli uni, imperioso e duro cogli altri, e lo l mette nella necessità di ingannare tutti ) quelli di cui ha bisogno, quando non possa farsene temere, e non trovi il suo interesse a servirli utilmente. Infine l'ambizione divorante, l'ardore di elevare la sua fortuna relativa, non tanto per vero bisogno, quanto per mettersi al 1 di sopra degli altri, inspira a tutti gli uomini una tendenza nera a nuocersi a vicenda, una gelosia segreta, tanto più pericolosa in quanto, per far il suo colpo più sicuramente, prende spesso la maschera della benevolenza; in una parola, concorrenza e rivalità da una parte, opposizione d'interessi dall'altra, e sempre il desiderio nascosto di fare l'utile proprio a spese altrui: tutti questi mali sono il primo effetto della proprietà e il corteo inseparabile della disuguaglianza sorgente.” (p. 65-66) “I ricchi, dal canto loro, appena conobbero il piacere di dominare, sdegnarono subito tutti gli altri; e servendosi dei loro antichi schiavi per sottometterne di nuovi, non pensarono che t a soggiogare e asservire il prossimo: simili a quei lupi affamati che, una volta gustata la carne umana, rifiutano ogn\ altro cibo, e non vogliono più che divo, rar uomini. Così, facendosi i più potenti o i più miserabili delle loro forze o dei loro bi, sogni una specie di diritto al bene al trui, equivalente, secondo loro, a quello di proprietà, l'uguaglianza infranta fu seseguita dal più orribile disordine; così le usurpazioni dei ricchi, il brigantaggio dei poveri, le passioni sfrenate di tutti, soffocando la pietà naturale e la voce ancor debole della giustizia, resero gli uomini avari, ambiziosi e malvagi.” (p. 66) “Privo di ragioni valide per giustificarsi e di forze sufficienti per difendersi; in grado di schiacciar facilmente un individuo, ma schiacciato a sua volta da branchi di banditi; solo contro tutti e non potendo, a cagione delle gelosie reciproche, unirst coi suoi uguali contro nemici uniti dalla speranza comune del saccheggio; il ricco, premuto dalla necessità, concepì in fine il disegno più meditato che sia mai entrato nello spirito umano: ossia d'usare a favor proprio le forze stesse che l'attaccavano, di fare dei suoi avversari i sui difensori, di inspirar loro altre massime, dare altre istituzioni, che gli fossero favorevoli, quanto il diritto naturale gli era contrario. In tale intento, dopo aver esposto ai suoi vicini l'orrore d'una condizione che li armava gli uni contro gli altri, che rendeva il loro possesso oneroso al pari dei loro bisogni, in cui nessuno trovava la sua sicurezza né nella povertà né nella ricchezza, egli inventò facilmente ragioni speciose per menarli al suo scopo: “Uniamoci, disse loro, per garantire i deboli dall’0ppressione; frenare gli ambiziosi e assicurare a ciascuno il possesso di ciò che gli appartiene: istituiamo ordinamenti di pace e di giustizia, cui tutti siano obbligati a conformarsi, che non faccian distinzione di persona e che riparino in qualche modo i capricci della fortuna, sottomettendo ugualmente il potente e il debole ad obblighi reciproci. In una parola, invece di volgere le nostre forze contro noi stessi, raccogliamole in un potere supremo, che ci governi secondo leggi, che protegga e difenda tutti i membri dell’associazione, respinga i nemici comuni, e ci mantenga in terna concordia”. Ci volle molto meno dell'equivalente di questo discorso per trascinar uomini rozzi, facili a sedurre, che d'altra parte avevan troppi affari da sbrogliar fra loro per poter fare a meno d'arbitri, e troppa avarizia ed ambizione per poter a lungo fare a meno di padroni. Tutti corsero incontro alle loro catene, credendo assicurarsi la libertà: perché, avendo abbastanza ragione per sentir i vantaggi d'una costituzione politica, non avevan abbastanza esperienza per prevederne i pericoli.” (p. 67) Il progresso della disuguaglianza, che ha finito con l’imbarbarire l’uomo, fa capo dunque a tre momenti essenziali dell’organizzazione sociale: la fondazione della legge e del diritto di proprietà, l’istituzione della magistratura, il cambiamento del potere legittimo in potere arbitrario. Posto che la disuguaglianza coincide con l’avvento del diritto di proprietà, che determina la scissione della comunità in classi sociali, e con l’istuirsi su di esso di un apparato istituzionale e ideologico che lo tutela, la ricostruzione che Rousseau dà dell’evoluzione storica sembra simile a quella di Marx. Alla differenza radicale cui ho fatto cenno all’inizio, aggiungerei una considerazione che ritengo di grande interesse. Riconducendo la nascita della specie umana come specie sociale ai due principi intuiti da Rousseau – l’amor di sé e la pietas -, l’evoluzione storica potrebbe essere ricostruita dialetticamente. Si tratterebbe di considerare interattivamente due livelli di realtà - quello socio economico e quello psicosociologico. Il progressivo allentamento del legame sociale, conseguente alla crescita demografica, ai processi produttivi e alla differenziazione sociale, coincide infatti con una tendenza alla trasformazione dell’amor di sé in amor proprio (in egoismo, dunque). A tale deriva, che ha raggiunto la massima espressione nel nostro mondo letteralmete intossicato dalla disuguaglianza per un verso e dal narcisimo individualista per un altro, hanno corrisposto tentativi ricorrenti di riproporre l’identificazione con l’altro come valore supremo su base religiosa (cristianesimo) e su base politica (marxismo, socialismo). In quest’ottica l’intuizione di Rousseau potrebbe assumere il suo pieno significato, affrancandosi dall’ipotesi insostenibile dello stato di natura, e il pensiero di Marx acquisirebbe una finezza che, volendo ricavare lo statuto soggettivo dai processi produttivi e dall’influenza delle ideologie, finora non ha avuto. |