F. NIETZSCHE

AL DI LA' DEL BENE E DEL MALE

Adelphi, Milano 1977

1.

Scritto tra l'autunno del 1885 e la primavera del 1886, rifiutato dagli editori e pubblicato nell'estate del 1886 a spese dell'autore, Al di là del bene e del male è forse il libro più equivocabile di Nietzsche. Se, infatti, se ne ricostruisce la trama concettuale in superficie, è inevitabile che, sulla base di una diversità costitutiva tra gli esseri umani ripetuta ovunque, l'ultimo capitolo (Che cos'è aristocratico?) giunga a rappresentare un'apoteosi teorica del pensiero nietzschiano. Qui la diversità viene posta in termini radicali e antitetici: la specie umana riconosce per natura solo signori e schiavi; il dovere degli uni è di coltivare la loro volontà di potenza, il dovere degli altri è ubbidire. La morale dei signori ignora la tradizionale distinzione tra buono e malvagio, essa riconosce solo quella tra nobile e spregevole, vale a dire volgare. La nobiltà, che pone le premesse per la nascita di un'umanità superiore, implica il superamento della pietas in nome della volontà di potenza, dalla cui pratica può nascere quell'umanità: "Ogni elevazione del tipo "uomo" è stata, fino ad oggi, opera di una società aristocratica - e così continuerà sempre ad essere: di una società, cioè, che crede in una lunga scala gerarchica e in una differenziazione di valore tra uomo e uomo, e che in un certo senso ha bisogno della schiavitù" (p. 174); "la vita è essenzialmente appropriazione, offesa, sopraffazione di tutto quanto è estraneo e più debole, oppressione, durezza, imposizione di forme proprie, incorporare o per lo meno, nel più temperato dei casi, uno sfruttare" (p.177); "l'egoismo è compreso nell'essenza dell'anima aristocratica, intendo dire quella fede irremovibile che a esseri "quali noi siamo" altri esseri debbano per natura restare sottomessi e sacrificare se medesimi" (p. 188); "Un uomo che anela a grandi cose, considera chiunque incontri sul proprio cammino o come mezzo o come remora e impiccio - oppure come un temporaneo sofà. La sua caratteristica affabilità di alta levatura nei riguardi dei propri simili gli è possibile soltanto se egli resta alla propria altezza e li domina ( (p. 195).

Le affermazioni sono apodittiche, senza sfumature. Chi identifica in Nietzsche un precursore del nazismo e del più recente darwinismo sociale può trovare in esse una conferma apparentemente inequivocabile.

Il problema, qui come altrove (l'ho detto nell'introduzione), è che il pensiero di Nietzsche va analizzato. Il suo contenuto manifesto, frutto di un'elaborazione intellettuale che sovrappone a intuizioni formidabili un'intelaiatura ideologica discutibile, non coincide che raramente con il contenuto latente. Nell'abbozzo di una lettera a Heinrich von Stein si legge: "E' difficile arrivare a sapere chi io sia; aspettiamo un centinaio d'anni: forse verrà uno psicologo geniale, che porterà alla luce, coi suoi scavi, Friedrich Nietzsche". Per fortuna, la rivelazione del mistero nietzschiano non richiede la genialità. Basta semplicemente, leggendolo, reperire gli indizi che consentono di cogliere il contenuto latente, la matrice intuitiva del pensiero strutturato.

Per qunto riguarda il libro in questione, l'indizio essenziale è l'esaltazione del grande dolore come esperienza che nobilita e umanizza: "Voi volete, se possibile - e non esiste un "se possibile" più assurdo - eliminare la sofferenza; e noi? - sembra proprio che si preferisca averla, questa sofferenza, in un grado ancora più elevato e peggiore di quanto non sia mai accaduto! Il benessere, come lo intendete voi - non costituisce una meta, a noi sembra piuttosto una fine! Una condizione che rende subito l'uomo ridicolo e spregevole - e ne fa desiderare la distruzione. La disciplina formativa del dolore, del grande dolore - non sapete voi che sotanto questa disciplina ha creato fino ad oggi ogni eccellenza umana? Quel tendersi dell'anima nella sventura, per cui si educa la sua forza, il suo brivido allo spettacolo della grande rovina, la sua ingegnosità e valentia nel sopportare, nel perseverare, nell'interpretare, nell'utilizzare la sventura, e tutto quanto in profondità, mistero, maschera, spirito, astuzia, grandezza ad essa toccò in dono - non lo ricevette forse in mezzo ai dolori e alla disciplina plasmatrice del grande dolore? Nell'uomo creatura e creatore sono congiunti: nell'uomo c'è materia, frammento, sovrabbondanza, creta, melma, assurdo, caos; ma nell'uomo c'è anche il creatore, il plasmatore, la durezza del martello, la divinità di chi guarda e anche un settimo giorno - comprendete voi quest'antitesi? E che la vostra pietà è per la "creatura nell'uomo", per ciò che deve essere modellato, infranto, fucinato, purificato, smembrato, riarso, arroventato, per ciò che necessariamente non può non soffrire, che deve soffrire?" (pp. 133.134).

Sono parole solo apparentemente strane scritte da un filosofo che bolla a fuoco in tutte le sue opere la virtù del dolore cristiano. Di quale grande dolore egli parla? Evidentemente di quello di cui ha bisogno un'anima per affrancarsi dalle tradizioni, dai luoghi comuni, dalle opinioni correnti, dalla contaminazione per cui ogni soggetto si nutre dei contenuti trasmessi dalle passate generazioni; di quello di cui essa ha bisogno per scampare alle contraddizioni che alberga nel suo intimo (melma, assurdo, caos); di quello infine necessario a intrattenere con se stessa un rapporto autentico.

A riguardo, le parole di Nietzsche sono inequivocabili, sia per quanto riguarda l'esigenza primaria di una demistificazione ("O sancta simplicitas! In quale curiosa semplificazione e falsificazione vive l'uomo! Tosto che si cominci a farci l'occhio per un siffatto prodigio, non si finisce mai di meravigliarci! Come abbiamo reso tutto attorno a noi chiaro e libero e semplice! Come abbiamo saputo dare a noi stessi un salvacondotto per ogni superficialità e al nostro pensiero una divina brama di capricciosi salti e paralogismi! - Come abbiamo saputo, fin da principio, conservarci la nostra ignoranza per godere di una libertà a stento concepibile, di spregiudicatezza, sventatezza, audacia, letizia di vita, per goderci la vita! E soltanto su queste basi d'ignoranza, ormai salde e granitiche, ha potuto levarsi sino ad oggi la nostra scienza; la volontà di sapere sul fondamento di una volontà più possente, la volontà cioè di non sapere, d'incertezza, di non verità!" p.31), sia per quanto concerne il coraggio che occorre per procedere nella conoscenza autentica di sé. Aforismi in proposito sono disseminati in tutto il libro. Ne riporto alcuni: "ogni persona squisita tende istintivaente alla sua rocca e alla sua intimità, dove trovare la liberazione dalla massa, dai molti, dal maggior numero, dove è possibile dimenticare la regola "uomo", in quanto sua eccezione: - salvo l'unico caso, che da un istinto ancora più forte costui venga ricacciato direttamente su questa regola, come uomo della conoscenza nel suo grande ed eccezionale significato. Chi nel frequentare gli uomini non si è cangiato secondo le circostanze in tutti i colori della pena, verde e grigio di nausea, fastidio, compassione, tetraggine, squallidezza, non è certo un uomo di gusto superiore; ma posto che egli non prenda su di sé tutti questi pesi e questo tedio, posto che li eluda perpetuamente e resti, come si è detto, tacitamente e superbamente annidato nella sua rocca, ebbene, una cosa è certa:costui non è fatto né predestinato alla conoscenza… Lo studio dell'uomo medio, un lungo severo studio, e a questo fine molti mascheramentu, autosuperamenti, molta fiducia, molte cattive compagnie - ogni compagnia è cattiva, salvo quella con i propri simili - : tutto ciò costituisce un necessario frammento della biografia di ogni filosofo, forse il frammento più sgradevole, più maleodorante, più ricco di delusioni" (pp. 33-34); "E' cosa di pochi essere indipendenti: - è una prerogativa dei forti. E chi tenta di esserlo, anche con il miglior diritto, senza esservi costretto, dimostra con ciò che egli verosimilmente non è soltanto forte, ma temerario sino alla dismisura. Costui si infila in un labirinto, moltiplica in mille lodi i pericoli che la vita, già per sestessa, comporta: dei quali non è il minore l'impossibilità per ognuno di vedere con i propri occhi come e dove si stia smarrendo e resti isolato, come e dove venga dilaniato, membro a membro, da un qualche cavernicolo Minotauro della coscienza" (p. 37); "Chi ha guardato il mondo in profondità indovina quale saggezza ci sia nel fatto che gli uomini sono superficiali. E' l'istinto di conservazione che insegna loro a essere volubili, falsi, leggeri" (p. 64); "Quanto più elevato è il tipo che un uomo rappresenta, tanto più va aumentando l'improbabilità che costui riesca bene; il casuale, la legge dell'assurdo nell'intera economia dell'umanità si rivelano, in maniera quanto mai tremenda, nei loro più distruttivi influssi sugli uomini superiori, le cui condizioni di vita sono delicate, multiformi e difficilmente calcolabili" (p. 68); "Chi lotta con i mostri, deve gaurdarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l'abisso scruterà dentro di te" (p. 79); "Quanto più uno psicologo - uno psicologo e un divinatore-di-anime costituzionalmente e inevitabilmente tale - si rivolge ai casi e agli uomini più fuori del comune, tanto maggiore diventa il suo pericolo di rimanere soffocato dalla pietà: costui ha bisogno di durezza e di giocondità, più di aulsiasi altro uomo. Il pervertimento, il crollo degli uomini superiori, delle anime d'indole più ignota, è infatti la regola: è terribile avere sempre sotto gli occhi una siffatta regola" p. 191); "Lo spirituale orgoglio e il disgusto di ogni individuo che ha profondamente sofferto - sino a quale profondità possono soffrire gli uomini è un fatto che quasi determina la gerarchia -, la sua abbrividente certezza, della quale è tutto permeato e ha assunto il colore, di sapere, in virtù della propria sofferenza, più di quanto possano sapere i più accorti e i più saggi; certezza di essere stato conosciuto e "di casa" una volta, in molti lontani orribili mondi, di cui "voi tutto ignorate"!… questo spirituale taciturno orgoglio del sofferente, questa superbia dell'eletto della conoscenza, dell'iniziato, del quasi offerto in sacrificio, trova necessaria ogni forma di travestimento per proteggersi dal contatto di mani invadenti e compassionevoli, e soprattutto da coloro che sono suoi simili nel dolore. La profonda sofferenza rende nobili; essa divide" (p. 194)

E' evidente che il grande dolore di cui parla Nietzsche è semplicemente la vocazione ad essere di un'anima introversa, assetata di verità sull'uomo, che deve salvaguardare la propria solitudine, scavare nella propria intimità anche a prezzo di dilaniarsi e, nello stesso tempo, attingere materia di riflessione partecipando alla vita degli esseri comuni, degli estroversi. Si tratta di un destino a cui un'anima con siffatte caratteristiche non può né deve sfuggire, accettando il gioco delle circostanze che non è mai clemente con chi, apparentemente, è un disadattato. Essa deve accettare la solitudine interiore, in nome di un bisogno di purificazione costantemente compromesso dal conttato sociale: "Quel che nel modo più profondo divide due uomini è un diverso grado e senso della pulizia… Il supremo istinto della pulizia pone colui che ne è affetto nel più inusitato e pericoloso isolamento, quasi fosse un santo; giacché è appunt questa la santità -la massima spiritualizzazione di tale istinto. Un certo essere consapevoli di un'indescrivibile pienezza nella felicità del bagno, una certa smania e sete che sospingono costantemente l'anima dalla notte al amattino, dal torbido, dalla tribolazione al chiaro, al luccicante, al profondo, al sottile -; nella stessa misura in cui una tale inclinazione contraddistingue - è un'inclinazione aristocratica - essa divide" (p. 195); "La solitudine è presso di noi una virtù, in quanto sublime inclinazione e trasporto per la pulizia… Ogni comunità rende in qualche modo, in qualche cosa, in qualche momento - "volgari"" (p. 199).

Il contenuto latente del libro è dunque la presa di coscienza di una diversità costituzionale tra gli esseri umani, che assegna ad alcuni di essi il ruolo coercitivo di praticare l'autenticità sino alle estreme conseguenze, e di realizzare, in nome di un profondo rispetto per se stessi, la propria vocazione ad essere mettendo tra parentesi le tradizionali distinzioni tra bene e male. Da questo punto di vista, il distacco sociale, l'isolamento, il dare conto solo a se stessi nel foro della propria coscienza, è una necessità; il dominare gli altri, l'usarli, il sopraffarli è semplicemente un modo retorico per dire che l'uomo nobile non deve lasciarsi dominare, usare sopraffare dall'istinto gregario. L'egoismo e la volontà di potenza di cui parla Nietzsche sono dunque espressioni del bisogno che egli ha avvertito nella carne, il bisogno d'individuazione.

2.

Una lettura attuale di Nietzsche non può prescindere dal fatto che egli ha avuto una percezione netta della sua diversità rispetto alla media delle persone, riconducibile ad un grado elevato d'introversione associato ad un tasso di emozionalità e d'intelligenza fuori del comune. Dopo l'iniziale e comprensibile "smarrimento" religioso adolescenziale, egli ha anche intuito che la sua diversità comportava un incoercibile bisogno di autenticità, di differenziazione rispetto al comune sentire e pensare, e di imoegno intellettuale. Pur ritenendosi giustamente un genio, egli ha avuto anche la capacità di capire che la sua diversità era inconsueta, rara, ma non unica né eccezionale, essendo stata ed essendo propria di una minoranza dell'umanità. In questo senso, l'identificazione della categoria degli uomini nobili, superiori, dei signori non è affatto sorprendente.

Al di là del bene e del male è, per questo aspetto, un'orgogliosa affermazione di una diversità socialmente squalificata, una rivendicazione del suo valore contro le apparenze. In termini analitici, l'opera potrebbe essere assunta come un'illustrazione del bisogno d'individuazione, del suo carattere incoercibile e della necessità assoluta della sua realizzazione, a qualunque costo.

Il problema è che l'interazione sociale, con gli uomini comuni, "volgari", probabilmente in conseguenza delle disconferme che egli ne ricava, induce in Nietzsche inconsciamente il più spregevole dei sentimenti che egli attribuisce agli esseri volgari - il risentimento per l'incomprensione da cui si sente investito. In conseguenza di questo, egli è spinto a trasformare l'autorealizzazione intrinseca alla sua vocazione ad essere e la rivendicazione del suo valore in un desiderio di riscatto incentrato sull'assoluta superiorità di sé e dei suoi simili. Nella misura in cui quel risentimento cresce nel corso della vita, egli è addirittura portato a dare a quel riscatto un significato aggressivo, che esso naturalmente non ha, di durezza, sopraffazione, sfruttamento, e ad assumere se stesso e i suoi simili come precursori di una nuova umanità, che estirperà la mala pinata degli uomini medi e comuni.

Se si mette tra parentesi questo aspetto, che dipende da dinamiche inconsce fuori del controllo della coscienza pure profondissima di Nietzsche, Al di là del bene e del male rimane un libro di eccezionale valore, poiché esso rappresenta l'illustrazione più potente che sia stata data finora di ciò che è un'anima introversa - nel suo modo di sentire e di pensare inesorabilmente oppositivo e critico - e del bisogno d'individuazione che la sottende, caratterizzato da uno spirito d'indipendenza dal giudizio sociale e da una sete di libertà intellettuale senza limite.

Se si rilegge il libro alla luce di quest'intepretazione, le sue asprezze perdono peso in rapporto all'intuizione geniale di una diversità che è stata finora misconosciuta e che Nietzsche giustamente esalta come la componente più misteriosa ma anche la più significativa della specie umana. La teoria costruita sulla base di quell'intuizione è caduca, ma, per fortuna, inessenziale. Il motivo di questa costruzione lo fornisce Nietzsche stesso, laddove scrive: "Dopo avere, abbastanza a lungo, letto i filosofi tra le righe e riveduto loro le bucce, mi sono detto: occorre ancora considerare la maggior parte del pensiero cosciente tra le attività dell'istinto, e anche laddove si tratta del pensiero filosofico… Come l'atto della nascita non può essere preso in considerazione nel processo e nel progresso dell'evoluzione, così l'esser cosciente non può essere contrapposto, in una qualche maniera decisiva, all'istintivo, - il pensiero cosciente di un filosofo è per lo più segretamente diretto dai suoi istinti e costretto in determinati binari" (p. 9). Se a posto dell'istintivo mettiamo l'intuitivo, vale a dire un sentire e comprendere la realtà che prescinde o anticipa la ragione, e se teniamo conto che l'intuitivo affiora alla coscienza dalle profondita dell'inconscio, la citazione, nella sua valenza critica, va applicata anche al pensiero di Nietzsche, il quale forse non se ne risentirebbe. A p. 9 egli infatti scrive: "Mi si è chiarito poco per volta che cosa è stata sino ad oggi ogni grande filosofia: l'autoconfessione, cioè, del suo autore, nonché una specie di non volute e inavvertite mèmoires". Non volute e inavvertite, quindi inconsce.

3.

Come ogni libro di Nietzsche, anche Al di là del bene e del male è disseminato di aforismi nei quali traspare la genialità intuitiva. Ne riporto alcuni, che conservano il loro valore anche estrapolati dall'opera:

"Continuano ancora ad esistere ingenui osservatori di sé, i quali credono che vi siano "certezze immediate", per esempio "io penso", o, com'era la superstizione di Schopenhauer, "io voglio!; come se qui il conoscere potesse afferrare puro e nudo il suo oggetto, quale "cosa in sé", e non potesse aver luogo una falsificazione né da parte del soggetto, né da parte dell'oggetto. Ma non mi stancherò di ripetere che "certezza immediata", così come "assoluta conoscenza" e "cosa in sé", comportano una contradictio in adjecto: ci si dovrebbe pure sbarazzare, una buona volta, della seduzione delle parole! Creda pure fin che vuole il volgo, che conoscere sia un conoscere esaustivo; il filosofo deve dirsi: se scompongo il processo che si esprime nella proposizione "io penso", ho una serie di asserzioni temerarie, la giustificazione delle quali mi è difficile, forse impossibile, - come per esempio che sia io a pensare, che debba esistere un qualcosa, in generale, che pensi, che pnsare sia l'attività e l'effetto di un essere che è pensato come causa, che esista un "io", infine, che sia già assodato che cos'è caratterizzabile in termini di pensiero, - che io sappia che cos'è pensare" (pp. 20-21).

"Un pensiero viene quando è "lui" a volerlo, e non quando "io" lo voglio; cosicché è una falsificazione dello stato dei fatti dire: il soggetto "io" è la condizione del predicato "penso". Esso pensa: ma che questo "esso" sia proprio quel famoso vecchio "io" è, per dirlo in maniera blanda, soltanto una supposizione, un'affermazione, soprattutto non è affatto una "certezza immediata"

"Un uomo che vuole - comanda a qualcosa, in sé, che ubbidisce o alla cui obbedienza egli crede. Ma si badi ora a quello che vi è di più prodigioso nella volontà, - in questa cosa così multiforme per la quale il volgo ha soltanto un'unica parola: in quanto, nel caso dato, noi siamo al tempo stesso chi comada e chi obbedisce e, come parte ubbidiente, conosciamo le sensazioni del costringere, dell'opprimere, del comprimere, del resistere, del muovere, le quali sono solite aver inizio subito dopo l'atto del volere;… abbiamo l'abitudine, in virtù del concetto sintetico "io", di non dare peso a questo dualismo e di lasciarci ingannare a riguardo…

In ogni volere si tratta assolutamente di comandare e obbedire, sulla base, come si è detto, di un'organizzazione sociale di molte anime" (pp. 23-24).

""Io ho fatto questo" dice la mia memoria. "Io non posso aver fatto questo" - dice il mio orgoglio e resta irremovibile. Alla fine è la memoria ad arrendersi" (p. 71).

"Il cristianesimo dette da bere a Eros del veleno - costui in verità non ne morì, ma degenerò in vizio" (p. 81).

"I genitori fanno involontariamente del loro figlio qualcosa di simile a loro - questo per essi è "educare" -nessuna madre dubita in fondo al suo cuore di avere generato a se stessa, nel figlio, una sua proprietà, nessun padre si sentirà di mettere in dubbio il diritto di poterlo sottomettere alle sue idee e alle sua valutazioni" (p. 94).

"Come nel reame degli astri sono talvolta due soli a determinare l'orbita di un pianeta, come, in certi casi, soli di diverso colore illuminano un unico pianeta, ora di rosso, ora di verde luec, e poi di nuovo contemporaneamnte irraggiandolo e inondandolo in guisa multicolore, così noi uomini moderni, grazie al complicato meccanismo del nostro "cielo stellato" - siamo determinati da morali diverse; le nostre azioni risplendono alternativamente di colori diversi, di rado sono univoche - e sono frequenti i casi in cui compaiono azioni variopinte" (p. 126).

Settembre 2003