Jean Jacques RousseauIl contratto socialeLaterza, Bari 1997 |
1. Nel Discorso sull'origine della disuguaglianza, Rousseau parte da un ipotetico stato di natura, caratterizzato dalla libertà e dall'indipendenza dell'individuo, sciolto da ogni legame sociale, giungendo ad identificare nell'avvio di un'organizzazione societaria la causa di un processo di continuo declino e di "depravazione" dell'uomo, dovuto al progressivo incremento dell'amor proprio che, attraverso la proprietà privata, instaura il regno del privilegio e della disuguaglianza.. Ho già rilevato il paradosso per cui lo stesso pensatore che attribuisce alla natura umana due principi originari (l'amor di sé e la pietas), che sembrano predisposti a produrre lo sviluppo di un'identità individuale e sociale al tempo stesso, perviene poi alla conclusione che tra libertà del singolo e appartenenza sociale si dia una sorta di incompatibilità per cui l'associazione con i simili inesorabilmente corrompe la natura umana. Ho tentato di spiegare tale paradosso in termini psicodinamici, facendo riferimento alla biografia di Rousseau, consegnata a Le Confessioni, nella quale ad una mitica età dell'oro infantile, realizzatasi in un contesto familiare ottimale, segue un impatto traumatico con la realtà sociale che incattivisce il carattere. Impatto che si ripete vita natural durante quando Rousseau interagisce con la società scoprendone le meschinità, che zavorrano la sua anima, e recuperando la serenità e l'amore per l'umanità solo attraverso l'isolamento, fino, naturalmente, all'insorgenza del delirio persecutorio che lo costringe a rifuggire dagli esseri umani senza trovare pace. Sarebbe ingenuo pensare che l'interpretazione psicodinamica risolva il problema del paradosso cui ho fatto cenno. Ci sono anche circostanze storiche da tenere presenti. Rousseau ha una vocazione libertaria naturale, alimentata dalle appassionate letture riguardanti il regime repubblicano vigente a Roma prima dell'avvento dell'Impero. Egli vive però in un contesto monarchico, contrassegnato da un ordinamento sociale che assegna ai privilegi di nascita un valore assoluto. Sperimenta, insomma, sulla pelle il peso del suo essere uomo della plebe, ammirato e stimato dai nobili, ma tenuto rigorosamente e, in alcuni casi, sprezzantemente a distanza. Egli intuisce, più a ragione che a torto, la sua superiorità intellettuale e morale rispetto alla maggioranza dei rappresentanti del ceto nobiliare. S'identifica, peraltro, con la maggioranza della popolazione che vive in un regime di miseria, soggezione, sfruttamento, schiavitù. La pietas alimenta, con l'amore della libertà individuale, la passione non meno profonda per la giustizia. Il problema che egli si pone, affrontando la tematica della filosofia politica, vale a dire di un buon ordinamento della società, è come accordare due dimensioni che sembrano, alla luce della storia, poco o punto compatibili. Il contratto sociale si configura dunque come un tentativo di quadrare il cerchio del conflitto tra i diritti naturali dell'individuo e i doveri sociali. E' inutile dire che, sulla base di una presunta antitesi radicale tra libertà individuale e appartenenza sociale, il tentativo è destinato a fallire. Come accade, però, ai grandi pensatori, esso merita interesse, perché implica intuizioni di grande portata e offre spunti di riflessione ancora attuali. 2. Il titolo stesso permette di ricondurre il saggio di Rousseau nell'ambito del contrattualismo, vale a dire delle correnti di pensiero, fiorite a partire dall'inizio del sec. XVII, rivolte a fornire una legittimazione razionale, dunque laica, al potere statale, a vincolarlo al consenso degli individui e a subordinarne l'esercizio ad un complesso di procedure. Contrapponendosi alle dottrine preesistenti che attribuivano il potere ad un'investitura divina, e facevano dunque riferimento ad un ordine sociale voluto da Dio, il contrattualismo ha dovuto necessariamente affrontare il problema del fondamento dell'organizzazione sociale. Da dove nasce la necessità degli uomini di darsi un ordinamento statuale? In quale misura tale ordinamento deve tenere conto degli interessi individuali e di quelli generali? Posto che il potere deriva dal consenso degli individui, in quale misura esso può arrivare a limitare la loro libertà? E' evidente che il contrattualismo non può affiorare storicamente che in un periodo contrassegnato dal graduale tramonto dell'ideologia feudale e dalla progressiva presa di coscienza dell'individuo di una sua identità differenziata rispetto al gruppo di appartenenza. Tale presa di coscienza avviene, sull'onda dello sviluppo della razionalità determinato dall'avvento della scienza sperimentale, in un contesto ancora fortemente assoggettato all'Assolutismo. Come tutelare la fragile pianticella dell'individuo che scopre di avere una sua identità e una sua volontà? La soluzione è semplice: basta attribuirgli diritti naturali inviolabili, che nessun potere può conculcare. Quali diritti? Il diritto all'integrità fisica, ovviamente, ma, non meno importanti, la dignità, la libertà, la proprietà. Quest'attribuzione avviene nell'ambito del giusnaturalismo, la dottrina filosofico-giuridica che sostiene l'esistenza di norme di diritto naturali anteriori e superiori ad ogni norma giuridica positiva. Non è pertanto sorprendente che il contrattualismo s'ispiri al giusnaturalismo. Il problema naturalmente consiste nel dare un fondamento ai diritti naturali. Se essi vengono ricondotti all'essere l'uomo creato a immagine e somiglianza di Dio, il problema non sussiste. Ma tale soluzione contrasta con il fatto che l'Assolutismo si richiama esso stesso a Dio per convalidare il potere monarchico. Prescindendo da Dio, il problema non sembra di semplice soluzione. In quanto ente naturale, l'uomo non gode di alcun privilegio particolare in rapporto agli altri animali: esso è esposto alla predazione, alla catastrofi naturali, alla malattia, ecc. In più, venendo al mondo come essere prematuro che ha bisogno, per un lungo periodo, di essere curato e protetto, come essere dunque radicalmente dipendente, la sua libertà è acquisita lentamente e dipende dal contesto sociale in cui egli vive. E' evidente, dunque, che il giusnaturalismo non può basarsi che su di una convenzione. La dignità, la libertà, la proprietà dell'uomo in tanto esistono in quanto si dà una società che le assume come valori o dà ad essi un significato giuridico. Sono dunque il frutto di un'evoluzione culturale e civile. In nome di un presunto stato di natura, Rousseau non solo nega questo, ma attribuisce alla civilizzazione il potere di allontanare sempre più l'uomo dalle prerogative proprie di quello stato: la libertà e l'indipendenza. E' probabile che, al di là degli aspetti soggettivi cui ho fatto cenno, tale convinzione si fondi su di un'intuizione giusta, i cui sviluppi sono errati. Se non si è mai dato lo stato di natura cui Rousseau fa cenno, è probabile che l'umanità primitiva abbia riconosciuto un'organizzazione comunitaristica solidale, tale per cui, pur essendo la libertà dell'individuo totalmente dipendente dal gruppo, la sua dignità era pari a quella degli altri e, in assenza di proprietà, rispettato il suo diritto ad un'equa distribuzione delle risorse. Rispetto a questa condizione originaria, l'avvento della storia, con la divisione del lavoro intellettuale da quello manuale e con la nascita delle classi, ha indubbiamente determinato una progressiva decadenza dei diritti individuali sino all'assoggettamento al potere assolutistico. La messa in discussione di tale potere, avviatasi nel XVII secolo con il contrattualismo, segna dunque l'avvento di una stagione che, recuperando l'uguaglianza degli esseri umani, la vincola a norme giuridiche che restaurano i diritti naturalmente riconosciuti dall'umanità primitiva, ai quali si aggiunge quello di proprietà, dapprima inesistente. Il problema, da allora in poi, è come accordare l'uguaglianza con la giustizia sociale e questa con il diritto di proprietà. Dopo Hobbes e Locke, Rousseau tenta di fornire una soluzione possibile. E' in quest'ottica che va letto Il contratto sociale, tenendo conto che quell'accordo è ancora oggi lontano dalla realizzazione. 3. L'intento è esplicitato all'inizio del libro: "Voglio cercare se nell'ordine civile può esservi qualche regola di amministrazione legittima e sicura, prendendo gli uomini come sono e le leggi come possono essere. Tenterò di associare sempre in questa ricerca ciò che il diritto permette con ciò che l'interesse prescrive, perché la giustizia e l'utilità non si trovino a essere separate." (p 239) Che bisogno c'è di una ricerca del genere? Il bisogno è dettato dallo stato di cose esistente, caratterizzato da un potere assoluto che conculca la libertà umana. Tale stato giustifica un'indignazione radicale, che fa scrivere a Rousseau una frase che risuona come un urlo: "L'uomo è nato libero e ovunque è in catene. Chi si crede padrone degli altri è nondimeno più schiavo di loro." (p. 240) La prima parte del libro è dedicata ad un'aspra contestazione dell'assolutismo dispotico, che culmina nella contestazione del diritto del più forte: "Se tenessi conto solo della forza e dell'effetto che ne deriva, direi: Fin-ché un popolo è costretto a obbedire, obbedisca; fa bene a far così; se appena può scuotere il giogo lo scuote farà anche meglio; infatti recuperando la libertà in base al medesimo diritto che gliel'ha strappata, o fa bene a riprenderla, o hanno fatto male a togliergliela." (p. 240) "Il più forte non è mai abbastanza forte per essere sempre il padrone, a meno che non trasformi la sua forza in diritto e l'obbedienza in dovere. Di qui il diritto del più forte, detto, in apparenza, diritto per ironia, ma in realtà stabilito come principio... Supponiamo per un momento questo preteso diritto. Dico che ne vien fuori solo un inestricabile garbuglio. Infatti, appena il diritto si fonda sulla forza, l'effetto muta col mutare della causa: ogni forza che soverchi la precedente le succede nel diritto." (p. 242) "Poiché nessun uomo ha un'autorità naturale sul suo simile, e poiché la forza non produce nessun diritto, alla base di ogni autorità legittima fra gli uomini restano dunque le convenzioni." (p. 243) Quali nuove convenzioni possono consentire di trascendere lo status quo e restaurare la dignità umana sulla base della libertà e della giustizia? In nome della convinzione per cui l'organizzazione sociale è comunque lesiva o limitativa di una libertà e di un'indipendenza originaria che è durata sino al suo avvento, Rousseau non ritiene che quella restaurazione possa essere radicale. Deve essere accaduto, in un passato remoto, un passaggio irreversibile dallo stato di natura alla necessità di aggregarsi: "Suppongo che gli uomini siano arrivati a quel punto in cui gli ostacoli che si oppongono alla loro conservazione nello stato di natura prendono con la loro resistenza il sopravvento sulle forze che ogni individuo può impiegare per mantenersi in tale stato. Allora questo stato primitivo non può più sussistere e il genere umano perirebbe se non cambiasse il suo modo di essere. Ora, poiché gli uomini non possono generare nuove forze, ma solo unire e dirigere quelle esistenti, non hanno più altro mezzo per conservarsi se non quello di formare per aggregazione una somma di forze che possa vincere la resistenza, mettendole in moto mediante un solo impulso e accordandole nell'azione. Questa somma di forze può nascere solo dal concorso di parecchi uomini; ma, essendo la forza e la libertà di ciascun uomo i primi strumenti della sua conservazione, come potrà impegnarli senza nuocersi o senza trascurare le cure che deve a se stesso?" (p. 247) Escluso un ritorno ad un originario stato di natura, il problema si configura nei termini di un patto sociale, di un contratto che deve almeno porre rimedio alle conseguenze nefaste della civilizzazione. Si tratta dunque di: "Trovare una forma di associazione che protegga e difenda con tutta la forza comune la persona e i beni di ciascun associato, mediante la quale ognuno unendosi a tutti non obbedisca tuttavia che a se stesso e resti libero come prima. Ecco il problema fondamentale di cui il contratto sociale dà la soluzione. Le clausole di tale contratto sono talmente determinate dalla natura dell'atto che la minima modificazione le renderebbe vane e senza effetto; dimodoché, quantunque, forse, non siano mai state enunciate formalmente, son dappertutto uguali, dappertutto tacitamente ammesse e riconosciute; fino a che, essendo stato violato il patto sociale, ciascuno non rientra nei suoi primitivi diritti e riprende la sua libertà naturale perdendo la libertà convenzionale con cui l'aveva barattata. Queste clausole, beninteso, si riducono tutte a una sola, cioè all'alienazione totale di ciascun associato con tutti i suoi diritti a tutta la comunità: infatti, in primo luogo, dando ognuno tutto se stesso, la condizione è uguale per tutti, e la condizione essendo uguale per tutti, nessuno ha interesse a renderla gravosa per gli altri. Inoltre, la mancanza di riserve nell'alienazione conferisce all'unione la maggior perfezione possibile e nessun associato ha più nulla da reclamare. Infatti, se i privati conservassero qualche diritto, poiché non vi sarebbe un superiore comune per far da arbitro nei loro contrasti con la comunità, ciascuno, essendo su qualche punto il proprio giudice, pretenderebbe ben presto di esserlo su tutti, lo stato di natura continuerebbe a sussistere e l'associazione diventerebbe necessariamente tirannica o vana. Infine, ciascuno dandosi a tutti non si dà a nessuno, e poiché su ogni associato, nessuno escluso, si acquista lo stesso diritto che gli si cede su noi stessi, si guadagna l'equivalente di tutto ciò che si perde e un aumento di forza per conservare ciò che si ha. Se dunque si esclude dal patto sociale ciò che non rientra nella sua essenza, vedremo che si riduce ai seguenti termini: Ciascuno di noi mette in comune la sua persona e tutto il suo potere sotto la suprema direzione della volontà generale; e noi, come corpo, riceviamo ciascun membro come parte indivisibile del tutto. Istantaneamente, quest'atto di associazione produce, al posto delle persone private dei singoli contraenti, un corpo morale e collettivo, composto di tanti membri quanti sono i voti dell'assemblea, che trae dal medesimo atto la sua unità, il suo io comune, la sua vita e la sua volontà. Questa persona pubblica, così formata dall'unione di tutte le altre, prendeva un tempo il nome di città, e prende oggi quello di repubblica o di corpo politico, detto dai suoi membri Stato, quand'è passivo, Sovrano, quand'è attivo, Potenza, quando lo si considera in rapporto con altre simili unità politiche. Quanto agli associati, prendono collettivamente il nome di popolo, mentre, in particolare, si chiamano cittadini, in quanto partecipano dell'autorità sovrana, e sudditi, in quanto soggetti alle leggi dello stato. Ma questi termini spesso si confondono e vengono scambiati; basta saperli distinguere quando sono usati in tutta la loro esattezza." (pp. 248-249) 4. Il concetto di volontà generale, vale a dire di un'alienazione che priva l'individuo della sua libertà privata e, al tempo stesso, gli consente di accedere ad una libertà di più alto significato, è a tal punto paradossale che Rousseau si affanna a specificarne in ogni modo, il significato, le modalità e il valore: "Si vede da questa formula che l'atto di associazione racchiude un reciproco impegno tra collettività e privati e che ciascun individuo, contrattando, per così dire, con se stesso, si trova impegnato sotto un duplice rapporto: come membro del sovrano verso i privati, e come membro dello Stato verso il sovrano. Ma qui non si può applicare la massima del diritto civile per cui nessuno è tenuto a osservare gl'impegni assunti con se stesso; impegnarsi con se stesso, infatti, è cosa ben diversa dall'impegnarsi con un tutto di cui si fa parte." (p. 250) "Il patto sociale, per non ridursi a un complesso di formule vane, include tacitamente il solo impegno capace di dar forza a tutti gli altri, e cioè che chiunque rifiuterà di obbedire alla volontà generale vi sarà costretto dall'intero corpo; ciò significa solo che sarà costretto ad essere libero; tale infatti è la condizione che, dando ogni cittadino alla patria, lo garantisce da ogni dipendenza personale; condizione a cui si riconduce il meccanismo e il giuoco della macchina politica e che sola rende legittimi gli obblighi civili, che senza di essa sarebbero assurdi, tirannici e soggetti ai più sfrenati abusi." (p. 251) "In forza del contratto sociale l'uomo perde la sua libertà naturale e un diritto senza limiti a tutto ciò che lo attira e che può raggiungere; guadagna la libertà civile e la proprietà di tutto quanto possiede. Per non ingannarsi a proposito di queste compensazioni, bisogna distinguere con cura la libertà naturale, che trova un limite solo nelle forze dell'individuo, dalla libertà civile, che è limitata dalla volontà generale, e il possesso che è solo il frutto della forza, o il diritto del primo occupante, dalla proprietà che può solo fondarsi su un titolo positivo." (p. 251) "Il patto fondamentale, invece di distruggere l'uguaglianza naturale, sostituisce, al contrario, un'uguaglianza morale e legittima a quel tanto di disuguaglianza fisica che la natura ha potuto mettere tra gli uomini i quali, potendo per natura trovarsi ad essere disuguali per forza o per ingegno, diventano tutti uguali per convenzione e di diritto." (p. 254) "La prima e più importante conseguenza dei principi stabiliti più sopra è che solo la volontà generale può dirigere le forze dello Stato secondo il fine della sua istituzione, che è il bene comune; infatti, se è stato il contrasto degl'interessi privati a render necessaria l'istituzione della società, è stato l'accordo dei medesimi interessi a renderla possibile. Il legame sociale risulta da ciò che in questi interessi differenti c'è di comune, e, se non ci fosse qualche punto su cui tutti gl'interessi si accordano, la società non potrebbe esistere. Ora, la società deve essere governata unicamente sulla base di questo interesse comune." (p. 255) In virtù del contratto sociale, il soggetto, alienando la sua libertà privata, consegue il potere di partecipare alla sovranità, la quale si pone come inalienabile ("Dico dunque che la sovranità, non essendo che l'esercizio della volontà generale, non può mai alienarsi, e che il sovrano, essendo solo un ente collettivo, non può essere rappresentato che da se stesso; il potere può, sì, essere trasmesso, ma non la volontà" p. 255); indivisibile ("la volontà o è generale o non lo è: è la volontà del corpopopolare o solo di una parte. Nel primo caso questa volontà dichiarata è un atto sovrano e fa legge; nel secondo è solo una volontà particolare, o un atto di magistratura; tutt'al più un decreto" p. 256) e sufficientemente protetta, se non immune, dal rischio di sbagliare ("Se, quando il popolo informato a sufficienza delibera, i cittadini non avessero alcuna comunicazione tra loro, dal gran numero delle piccole differenze risulterebbe sempre la volontà generale e la deliberazione sarebbe sempre buona" p. 258). Il significato e il valore della volontà generale come fondamento di una società libera e giusta è sottolineato vigorosamente da Rousseau: "Si deve capire di qui che a generalizzare la volontà pubblica è meno il numero dei votanti che non il comune interesse che li unisce; infatti in questa istituzione ciascuno si sottopone necessariamente alle condizioni che impone agli altri; mirabile accordo dell'interesse con la giustizia, da cui le comuni deliberazioni traggono un carattere d'equità che vediamo svanire nella discussione di qualunque caso particolare, per mancanza di un interesse comune che unisca e identifichi la regola del giudice con quella della parte. Per qualunque via si risalga al principio, la conclusione è sempre la stessa: il patto sociale stabilisce tra i cittadini una tale uguaglianza che essi s'impegnano tutti alle medesime condizioni e devono godere tutti dei medesimi vantaggi. Quindi, in forza della natura del patto, ogni atto di sovranità, ossia ogni atto autentico della volontà generale, obbliga o favorisce nella stessa misura tutti i cittadini, dimodoché il sovrano conosce solo il corpo della nazione senza distinguere nessuno dei singoli che la compongono." (p. 260) 5. La volontà generale s'identifica, dunque, per Rousseau, essenzialmente nel potere legislativo e nell'impero delle leggi generali che essa promulga. Ogni Stato retto dalle leggi espressive della volontà generale è una repubblica "sotto qualunque amministrazione possa essere; infatti solo allora l'interesse pubblico governa e la cosa pubblica è qualcosa." (p. 265) Quando si passa dalla sfera dei principi teorici alla loro applicazione pratica, insorgono inesorabilmente difficoltà, riassumibili in questi termini: "Per scoprire le norme costitutive di società che meglio convengono alle nazioni, occorrerebbe un intelletto superiore, che conoscesse tutte le passioni degli uomini senza provarne nessuna; che non avesse alcun rapporto con la nostra natura e che la conoscesse a fondo; la cui felicità fosse indipendente dalla nostra, ma che, tuttavia, volesse di buon grado occuparsi della nostra; che infine, preparandosi nel corso del tempo una gloria remota, potesse lavorare in un secolo e godere in un altro. Ci vorrebbero degli dèi per dare delle leggi agli uomini... Chi affronta l'impresa di dare istituzioni a un popolo deve, per così dire, sentirsi in grado di cambiare la natura umana; di trasformare ogni individuo, che per se stesso è un tutto perfetto e solitario, in una parte di un tutto più grande da cui l'individuo riceve, in qualche modo, la vita e l'essere; di alterare la costituzione dell'uomo per rafforzarla; di sostituire un'esistenza parziale e morale all'esistenza fisica e indipendente che tutti abbiamo ricevuto dalla natura. Bisogna, in una parola, che tolga all'uomo le forze che gli sono proprie per dargliene di estranee a lui, di cui non possa fare uso se non col sussidio di altri. Quanto più queste forze naturali sono morte e annientate, quanto più le forze acquisite sono grandi e durevoli, tanto più solida e perfetta anche l'istituzione. Dimodoché, se ciascun cittadino non è nulla, non può nulla se non attraverso tutti gli altri, e se la forza acquisita dal tutto è uguale o superiore alla somma delle forze naturali di tutti gl'individui, si può dire che la legislazione è al vertice della perfezione che può raggiungere." (p. 266-267) Tenendo conto delle inevitabili imperfezioni umane, ciò che è importante, per Rousseau, è tener fermo lo scopo ultimo di un ordinamento sociale fondato sulla volontà generale e sulla Legge: "Se si cerca di stabilire in che cosa precisamente consiste il bene più grande di tutti che deve essere il fine di ogni sistema legislativo, si troverà che si riduce a questi due principali oggetti: libertà e uguaglianza. Libertà, perché ogni dipendenza particolare è altrettanta forza sottratta al corpo dello Stato; uguaglianza, perché la libertà non può sussistere senza di essa. Ho già detto che cos'è la libertà civile; riguardo all'uguaglianza, non bisogna intendere la parola come se significasse che i gradi di potere e di ricche esso non deve giungere a nessuna violenza e deve sempre esercitarsi sulla sola base del grado e delle leggi; quanto alla ricchezza, che nessun cittadino deve essere abbastanza ricco da poterne comprare un altro, e nessuno tanto povero da esser costretto a vendersi. Il che suppone, da parte dei grandi, beni e credito limitati, da parte dei piccoli, scarsa avarizia e scarsa avidità. Quest'uguaglianza, dicono, è una teoria chimerica che nella pratica non può sussistere. Ma, se l'abuso è inevitabile, è questa una ragione perché non si debba almeno regolarlo? Proprio perché la forza delle cose tende sempre a distruggere l'uguaglianza, la forza della legislazione deve sempre tendere a mantenerla." (p. 275-276) Si dà dunque una tensione intrinseca tra due estremi valori di riferimento ñ l'uguaglianza e la giustizia per un verso, la libertà individuale per un altro ñ che il contratto sociale non può estinguere, ma mantenere nei limiti che consentano ad essa di non produrre effetti squilibrati nell'organizzazione e nel funzionamento della società. Costretto dall'evoluzione storica in regime associativo, e impossibilito a tornare allo stato di natura, anziché contrapporre l'amor proprio ai doveri di appartenenza, il cittadino, che aliena la sua volontà in nome di quella generale, può riconoscere nella sottomissione alla Legge l'espressione congiunta della sua libertà individuale e di quella degli altri. 6. Una volta posta la volontà generale e definito il suo primario potere legislativo, occorre che il corpo politico disponga della forza necessaria per eseguire le leggi. Questo è il compito del governo, "un corpo intermedio stabilito tra i sudditi e il sovrano per la loro reciproca corrispondenza e incaricato dell'esecuzione delle leggi e della conservazione della libertà, tanto civile come politica." (p. 279) Per quanto concerne le diverse forme di governo, Rousseau adotta una distinzione tradizionale: "Il sovrano può, in primo luogo, fare depositario del governo tutto il popolo o la maggior parte di esso, in modo che tra i cittadini i magistrati siano più numerosi dei semplici privati. A questa forma di governo si dà il nome di democrazia. Oppure può restringere il governo nelle mani di pochi, in modo che i semplici cittadini siano più dei magistrati, e questa forma porta il nome di aristocrazia. Infine può concentrare tutto il governo nelle mani di un unico magistrato da cui tutti gli altri ricevono il loro potere. Questa terza forma è la più comune e si chiama monarchia o governo regio." (p. 286) Egli aggiunge però immediatamente un commento di un certo interesse: "In ogni tempo, si è molto discusso della miglior forma di governo, senza considerare che ciascuna di esse è la migliore in certi casi, la peggiore in altri. Se nei diversi Stati il numero dei magistrati supremi deve essere in ragione inversa di quella dei cittadini, ne consegue che, in genere, il governo democratico conviene ai piccoli Stati, quello aristocratico agli Stati di media entità, e quello monarchico ai grandi." (p. 286) Questo principio però riconosce molteplici eccezioni, dato che la realtà non si lascia contenere facilmente entro schemi. Ciò non di meno, sulle diverse forme di governo, Rousseau esprime valutazioni che sono abbastanza precise. Sulla democrazia: "Volendo prendere il termine nella sua rigorosa accezione, una vera democrazia non è mai esistita e non esisterà mai. » contro l'ordine naturale che la maggioranza governi e la minoranza sia governata. Non si può immaginare che il popolo resti senza interruzione adunato per attendere agli affari pubblici, ed è facile vedere che non potrebbe stabilire delle commissioni allo scopo senza che la forma di governo ne risultasse mutata." (p. 286-287) Sull'aristocrazia: "Le prime società si governarono aristocraticamente. I capi delle famiglie deliberavano fra loro degli affari pubblici; i giovani cedevano di buon grado all'autorità dell'esperienza. D'onde i nomi di preti, di anziani, di senato, di geronti. I selvaggi dell'America settentrionale ancora oggi si governano così, e hanno un ottimo governo. Ma via via che la disuguaglianza di istituzione venne prevalendo sulla disuguaglianza naturale, si preferì all'età la ricchezza o la potenza e l'ari-stocrazia diventò elettiva. Infine, il potere trasmesso coi beni di padre in figlio, dando luogo alle famiglie patrizie, rese ereditario il governo, e si videro senatori di vent'anni. Ci sono dunque tre tipi di aristocrazia: naturale, elettiva, ereditaria. La prima si addice solo a popoli semplici; la terza è il peggiore dei governi; la seconda è il migliore: è l'aristocrazia propriamente dettaÖ l'ordine migliore e il più naturale si ha quando i più saggi governano la moltitudine, purché si abbia la certezza che la governeranno per il suo vantaggio e non per il loro." (p. 289) Sulla monarchia: "Un difetto essenziale e inevitabile, che metterà sempre il governo monarchico al disotto di quello repubblicano, è che in questo il voto pubblico quasi sempre eleva ai primi posti uomini dotati d'ingegno e capacità, che disimpegnano il loro ufficio onorevolmente, mentre nella monarchia quelli che arrivano sono per lo più solo degli imbroglioni da poco, dei farabuttelli, dei piccoli intriganti, a cui le piccole abilità che nelle corti fanno raggiungere i grandi posti, appena ci sono arrivati servono solo a svelare al pubblico la loro inettitudine. In questa scelta il popolo s'inganna molto meno del principe, e un uomo di vero merito in un ministero è quasi tanto raro quanto uno sciocco in un governo repubblicano." (p. 202) 7. Al di là della forma di governo, c'è un problema di ordine generale che decide il destino di una società. Al conflitto già identificato tra volontà individuale e volontà generale, occorre infatti aggiungere quello tra governo e sovranità: "Come la volontà particolare agisce senza posa contro la volontà generale, così il governo esercita uno sforzo continuo contro la sovranità. Più aumenta questo sforzo, più la costituzione si altera, e, non essendovi qui altra volontà di corpo che, resistendo a quella del principe, le faccia da contrappeso, prima o poi deve accadere che il principe finisca col soverchiare il sovrano e col rompere il patto sociale. E' questo il vizio intrinseco e inevitabile che fin dalla nascita del corpo politico tende senza posa a distruggerlo, come la vecchiaia e la morte distruggono il corpo dell'uomo." (p. 301) Questa intrinseca tendenza del governo all'abuso e, al limite, alla degenerazione viene analizzata con cura particolare: "Ci sono due vie generali per cui un governo degenera: quando esso si restringe, o quando lo Stato si dissolve. Il governo si restringe quando passa dai molti ai pochi, cioè dalla democrazia all'aristocrazia e dall'aristocrazia alla monarchia. La sua tendenza naturale è questa. Se retrocedesse dai pochi ai molti, si potrebbe dire che si indebolisce, ma questo progresso inverso è impossibile. Infatti il governo non cambia mai di forma se non quando il logoramento della sua molla lo rende troppo debole perché possa conservare la forma che ha. Ora, se si rilasciasse ulteriormente estendendosi, la sua forza diventerebbe assolutamente nulla e ancora minori le sue possibilità di sussistere. Bisogna dunque ricaricare e stringere la molla man mano che essa cede, altrimenti lo Stato che sostiene cadrebbe in rovina. Il caso di dissoluzione dello Stato può verificarsi in due modi. In primo luogo quando il principe non lo amministra più secondo le leggi ed usurpa il potere sovrano. Si determina allora un mutamento notevole; non è il governo a restringersi, ma lo Stato; voglio dire che il grande Stato si dissolve e se ne forma un altro dentro di esso, composto solo dei membri del governo, nient'altro ormai che un padrone e un tiranno di fronte al resto del popolo. Dimodoché, nell'istante in cui il governo usurpa la sovranità, il patto sociale è rotto e tutti i semplici cittadini, rientrando di diritto nella loro libertà naturale, sono costretti, ma non obbligati ad obbedire. Lo stesso accade anche quando i membri del governo usurpano separatamente il potere che dovrebbero esercitare solo come corpo; non minore infrazione della legge che genera un disordine anche più grande. Si hanno allora, per così dire, altrettanti prìncipi quanti magistrati, e lo Stato, non meno diviso del governo, perisce o muta di forma. Quando lo Stato si dissolve, l'abuso del governo, comunque si presenti, prende il nome comune di anarchia. Volendo distinguere, la democrazia degenera in oclocrazia, l'aristocrazia in oligarchia; aggiungerei che la monarchia degenera in tirannide." (p. 301-302) Un fattore importante di degenerazione non è però solo legato all'indegnità dei governanti o al loro ricadere preda di interessi particolari, bensì anche alla disaffezione dei cittadini in rapporto alla cosa pubblica o meglio alla loro tendenza a delegarne ad altri la cura: "Non appena il servizio pubblico cessi di essere il principale impegno dei cittadini e questi preferiscano servire con la loro borsa piuttosto che di persona, lo Stato è già prossimo alla rovina. Bisogna andare a combattere? pagano delle truppe e restano a casa; si deve andare al consiglio? eleggono dei deputati e restano a casa. A forza di pigrizia e di danaro finiscono con l'avere dei soldati per asservire la patria e dei rappresentanti per venderla. A cambiare in danaro le prestazioni personali sono le preoccupazioni del commercio e delle arti, l'avido interesse di guadagno, la mollezza e l'amore delle comodità. Si cede una parte dei propri profitti per aumentarli più comodamente. Date danaro e presto avrete catene. La parola finanza è una parola da schiavi; è sconosciuta in uno Stato libero. In uno Stato veramente libero i cittadini fanno tutto con le loro mani e nulla col denaro: anziché pagare per esimersi dai loro doveri, pagherebbero per adempierli di persona. Io sono molto lontano dalle idee correnti: credo le corvées meno contrarie alla libertà che non le tasse." (p. 307) "Appena qualcuno, a proposito degli affari di Stato, dice: Che m'importa? lo Stato è da ritenersi perduto. L'intiepidirsi dell'amor patrio, l'attività dell'interesse privato, l'immensità degli Stati, le conquiste, l'abuso del governo hanno fatto escogitare il sistema dei deputati o rappresentanti del popolo nelle assemblee della nazione. » ciò che in certi paesi si osa chiamare il terzo stato. Così l'interesse particolare di due ordini è messo al primo e al secondo posto, l'in-teresse pubblico solo al terzo. La sovranità non può venir rappresentata, per la stessa ragione per cui non può essere alienata; essa consiste essenzialmente nella volontà generale e la volontà non si rappresenta: o è essa stessa o è un'altra; una via di mezzo non esiste. I deputati del popolo non sono dunque e non possono essere i suoi rappresentanti, sono solo i suoi commissari; non possono concludere niente in modo definitivo. Qualunque legge che non sia stata ratificata dal popolo in persona è nulla; non è una legge." (p. 308) "Quando lo Stato prossimo a rovina continua a esistere solo in forma illusoria e vana, quando il vincolo sociale è infranto in tutti i cuori, e il più vile interesse si adorna sfrontatamente del sacro nome di bene pubblico; allora la volontà generale diventa muta; tutti, guidati da motivi segreti, smettono di pensare come cittadini, facendo conto che lo Stato non sia mai esistito; e sotto il nome di legge si fanno passare falsamente dei decreti iniqui che hanno per fine solo l'interesse particolare." (p. 316) Al di là di questi pericoli, legati tutti alla difficoltà che l'uomo, nato libero, ha di accettare i vincoli sociali, rimane secondo Rousseau il fatto che, giunti al punto in cui tornare dietro non è più possibile solo un salto di qualità culturale, morale e civile può impedire che giustizia e interesse privato rimangano perennemente in conflitto: "C'è una sola legge che per sua natura esiga un consenso unanime: è il patto sociale; infatti l'associazione civile è, fra tutti, l'atto volontario per eccellenza; essendo l'uomo nato libero e signore di se stesso, nessuno può, sotto nessun pretesto, assoggettarlo senza il suo consenso. Decidere che il figlio di uno schiavo nasce schiavo è come decidere che non nasce uomo. Se pertanto, al momento del patto sociale, ci sono degli oppositori, la loro opposizione non invalida il contratto, solo impedisce che essi vi siano inclusi; sono degli stranieri in mezzo ai cittadini. Quando lo Stato è costituito il consenso si esprime nel risiedervi; abitare il territorio significa sottomettersi alla sovranità. Al di fuori di questo contratto originario, la decisione della maggioranza obbliga sempre tutti gli altri; è una conseguenza del contratto stesso. Ma ci si chiede come un uomo possa esser libero e costretto a conformarsi a volontà diverse dalle sue. Come gli oppositori possono essere liberi e soggetti a leggi cui non hanno acconsentito? Rispondo che il problema è posto male. Il cittadino consente a tutte le leggi, anche a quelle che passano nonostante il suo voto contrario, anche a quelle che lo puniscono se egli osa violarne qualcuna. La volontà costante di tutti i membri dello Stato è la volontà generale; è la volontà generale che li fa cittadini e liberi. Quando nell'assemblea del popolo si propone una legge ciò che si chiede loro non è precisamente se approvano o no la proposta, ma se questa è, o no, conforme alla volontà generale che è la loro volontà; ciascuno, votando, dice il suo parere in proposito, e dal computo dei voti si ricava la dichiarazione della volontà generale. Quando dunque prevale l'opinione contraria alla mia, ciò prova solo che mi ero sbagliato, e che credevo volontà generale ciò che non lo era. Se la mia opinione particolare si fosse imposta, avrei fatto cosa diversa da ciò che volevo: e allora non sarei stato libero." (p. 318) 8. Come tutti i testo roussoiani, anche Il contratto sociale è denso di intuizioni geniali e di contraddizioni. E' un luogo comune, ormai, almeno nella cornice del pensiero liberale, assumerlo come matrice filosofica di ogni forma di totalitarismo. La prova storica di questa interpretazione sarebbe rappresentata dal regime del Terrore instaurato da Robespierre, fervente ammiratore di Rousseau. L'interpretazione è invalidata dal fatto che, nel delineare un modello politico capace di coniugare la libertà individuale e la giustizia sociale, la volontà individuale e quella collettiva, il bene privato e quello pubblico, Rousseau muove da un'acuta e pessimistica consapevolezza di ciò che rende il suo tentativo altamente improbabile. Si tratta, infatti, "di cambiare per così dire la natura umana, di trasformare ogni individuo, che di per sé è un tutto perfetto e solitario, in una parte di un tutto più grande, dal quale questo individuo riceve, in qualche modo, la vita e l'essere; di alterare la costituzione dell'uomo per rafforzarla, di sostituire un'esistenza parziale e morale all'esistenza fisica e indipendente che tutti abbiamo ricevuto dalla natura." (p. 266) L'impresa, dunque, presuppone già ciò che essa deve produrre: "Perché un popolo al suo nascere potesse capire le grandi massime della giustizia e seguire le regole fondamentali della ragion di Stato, bisognerebbe che l'effetto potesse divenire causa, che lo spirito sociale, che deve essere il frutto dell'istituzione, presiedesse all'istituzione stessa; e che gli uomini fossero prima delle leggi ciò che devono divenire per opera loro." (p. 268) Il presupposto antropologico da cui muove Rousseau, che fa riferimento ad un individuo naturale come un tutto perfetto e solitario, che non ha alcun bisogno sociale, getta una luce pessimistica sulla possibilità di rimediare ai danni prodotti dalla civilizzazione. Lo stato di cose esistente cui questa è pervenuta, fondato sulla disuguaglianza radicale, non può essere accettato in nome dei diritti umani. Per modificarlo, però, avvicinandolo almeno al riconoscimento di tali diritti, occorre che la natura umana vada incontro ad un cambiamento profondo, che essa si apra alla virtù e alla moralità, che implica il riconoscimento della totalità cui l'individuo appartiene e l'attribuzione di una pari dignità a tutti coloro che la costituiscono. Il contratto sociale implica, dunque, il consenso illuminato di tutti i cittadini: di quelli che devono rinunciare ai loro eccessivi privilegi e di quelli i cui diritti conculcati vanno realizzati, ma senza intenti vendicativi: una rivoluzione culturale prima ancora che politica, che porti le coscienze a vivere la loro appartenenza alla totalità sociale come un valore morale che, se impone sacrifici, non contrasta con l'esercizio di una libertà personale orientata a promuovere il massimo sviluppo delle potenzialità individuali. Una situazione del genere promuoverebbe naturalmente una selezione del ceto politico sulla base delle competenze e della moralità. Si realizzerebbe, pertanto, il governo dei migliori in senso antropologico e non dei ricchi, dei potenti, dei populisti, degli affabulatori, ecc. La teoria politica di Rousseau presume, dunque, cittadini già attrezzati culturalmente e moralmente per promuovere una democrazia sostanziale. In difetto di tale attrezzatura, il conflitto sociale tra interessi particolari è destinato a perpetuarsi indefinitamente. Coloro che, da Robespierre a Lenin (ammiratore egli stesso del pensatore ginevrino), si sono ispirati a Rousseau per promuovere l'utopia di un mondo fondato sull'uguaglianza e la giustizia sociale, non ne hanno evidentemente colto l'intrinseca tensione del pensiero riconducibile alla necessità che il cambiamento soggettivo, vale a dire l'aprirsi della coscienza umana al riconoscimento morale dell'appartenenza ad una totalità, preceda quello oggettivo, istituzionale. Tale necessità va riconosciuta oggi a maggior ragione nel contesto di una civiltà, come quella occidentale, che, sul piano giuridico e istituzionale ha raggiunto uno statuto democratico, ma che che riconosce una scissione tra l'esistenza politica e quella civile dei cittadini essendo la prima caratterizzata dal pieno godimento dei diritti naturali (uguaglianza, libertà, proprietà privata), la seconda dal culto dell'interesse particolare, che comporta solo rare eccezioni. All'interno di questa società il contrasto tra volontà collettiva e volontà individuale è ancora ampio, ma questo contrasto, a differenza di quanto potrebbe pensare Rousseau, non è dovuto solo ad un difetto di virtù civiche e di moralità, bensì ad un processo di alienazione generale che è proceduto in direzione opposta da quello che egli auspicava. Il paradosso è che tale alienazione la quale, ingabbiando la natura umana nel culto dell'interesse privato, dà agli individui la convinzione di appartenere ad una totalità che riconosce questo come un loro diritto, conferma non solo l'esistenza di un bisogno sociale primario, ma attesta addirittura il peso che l'ideologia, espressiva della volontà maggioritaria, esercita su di esso. Se si prescinde da uno stato di natura caratterizzato da una condizione di libertà e d'indipendenza individuale pressoché completa e si dà per scontato che l'homo come ente naturale nasce nel corso dell'evoluzione darwiniana e, come Uomo, nasce dal seno della società, vale a dire di un gruppo organizzato sulla base della cooperazione, della solidarietà, della condivisione di un destino comune e di una cultura, il problema del rapporto tra volontà propria e volontà collettiva, si pone in termini diversi da quelli illustrati da Rousseau. La volontà collettiva, vale a dire la cultura, infatti, in questa ottica viene necessariamente prima dell'individuo, che solo attraverso la mediazione di un gruppo culturale giunge a prendere coscienza di sé. A questo primato della volontà collettiva su quella individuale a livello di infrastruttura soggettiva riconduce la teoria del Super-Io freudiano, posto che esso venga affrancato dal riferimento ad una concezione pulsionale della natura umana. Mentre, però, all'inizio e per un lungo periodo, fino alla nascita della storia, il Super-Io rappresentava effettivamente per molti aspetti un interesse generale condiviso, dall'epoca della divisione del lavoro intellettuale da quello manuale, pur mantenendo il suo primato, esso si è sempre più configurato come espressivo del potere dei ceti dominanti, dei loro interessi e della loro cultura. Dando spazio ai diritti inviolabili dell'individuo, tra cui quello alla libertà e alla proprietà, la rivoluzione borghese ha risolto solo parzialmente il problema perché, come ho accennato, ha prodotto una cultura la cui interiorizzazione dà luogo ad un Super-io che fa riferimento ad un bene comune tutelato da leggi definite democraticamente, che rimane però vincolato agli interessi particolari di una classe. Tenendo conto che nella natura umana si dà una predisposizione sociale e la tendenza a fare propria e ad interiorizzare la volontà collettiva, il problema del contratto sociale sembra ricondursi al riconoscimento di una comune appartenenza sulla base di una cultura condivisa che equilibri la sfera dei diritti individuali e dei doveri sociali. Il problema della democrazia è proprio questo: l'assunzione da parte della coscienza individuale di un orizzonte universale all'interno del quale i propri diritti si uguaglino a quelli di tutti gli altri. Tale assunzione implica però che la natura umana sia predisposta ad un salto del genere non già solo sul piano della Ragione ma soprattutto su quello dell'emozionalità sociale. Rimane il nodo di come, eventualmente, tale salto possa storicamente avvenire. Da questo punto di vista, Rousseau ha ragione: una rivoluzione culturale è necessaria e preliminare perché il sistema politico possa realizzare una democrazia sostanziale. Tale rivoluzione, per fortuna, non deve trasformare la natura umana, bensì solo valorizzarne le potenzialità intrinseche. Non è un'utopia, ma di sicuro un'impresa di lunga durata.
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