APOLOGIA DI SOCRATE

Processato ad Atene nel 399 a. C., a settant'anni, per l'accusa, avanzata da alcuni cittadini, di corrompere i giovani insegnando loro a non credere negli dei della città ma in nuovi dei, Socrate fu condannato a morte per un esiguo numero di voti a sfavore. La severità della condanna non fu dovuta tanto alla gravità delle accuse, sostanzialmente infondate, quanto allo stato di crisi in cui versava Atene dopo la sconfitta subita ad opera di Sparta che aveva posto fine alla sua egemonia sul mondo greco. La crisi determinò una restaurazione conservatrice e portò ad attribuire la sconfitta al declino dei valori tradizionali, soprattutto tra i giovani. Socrate che quei valori costantemente poneva in discussione e criticava, al fine di renderli più autentici, fu insomma un capro espiatorio.

L'Apologia è il resoconto della difesa opposta da Socrate alle accuse. Scritto da Platone, si tratta di un documento straordinario per più aspetti, due dei quali interessano in particolare.

Il primo concerne il rapporto tra la Legge, intesa come espressione della volontà collettiva, e la libertà individuale. La difesa di Socrate si fonda sul negare di avere violato la Legge, alla quale si subordina sino al punto di accettare la condanna a morte pur ritenendola ingiusta e ritenendo piuttosto di essere meritevole di un premio:

"Dunque, quest'uomo propone per me la pena di morte. Bene. Io, cittadini, quale pena proporrò, a mia volta, che mi sia inflitta? Quella giusta, non è vero? Quale? Che pena, che ammenda io merito per aver rinunciato a una vita agiata, per aver trascurato ciò che i più curano, il guadagno, gli interessi privati, i comandi militari, l'attività politica, le cariche pubbliche, le consorterie e le fazioni che si sono succedute nello stato, per essermi ritenuto troppo retto, per salvarmi, se mi fossi immischiato in cose simili, dove non avrei potuto essere di alcun aiuto né a me, né a voi, per aver preferito offrire a ciascuno di voi ciò che io credo sia il più grande servigio, quello di persuadervi a non curarvi di ciò che possedete, prima che di voi stessi, per diventare, il più possibile, saggi e buoni, né degli interessi apparenti della patria, prima che della patria in se stessa, e così via? Per esser così, quale pena, insomma, io merito? Un premio, in verità, cittadini, se si deve giudicare dai meriti; e un premio, per giunta, che mi si addica. E che cosa si addice a un benefattore povero che ha bisogno di tutto il suo tempo per esortarvi? Non v'è cosa che convenga più di questa, cittadini: che un uomo simile sia mantenuto nel Pritaneo, sì, certo, e con più diritto di chi vince ad Olimpia le corse dei cavalli. Costui, infatti, può farvi apparire felici, io, invece, mi adopero perché lo siate; e, poi, lui non ha bisogno affatto degli alimenti, io, invece, sì. E, dunque, se devo giudicarmi secondo il mio merito, questo mi spetta: vitto e alloggio gratis nel Pritaneo."

In nome di che Socrate rivendica un premio piuttosto che una punizione? In nome del fatto di avere adempiuto scrupolosamente il suo dovere di cittadino critico. Egli ha riflettuto a lungo su ciò che è bene e ciò che è male, per l'individuo e per la collettività, giungendo alla conclusione di sapere di non sapere, e, per risolvere la sua ignoranaza, ha consultato tutti i sapienti della città: i poeti, gli artisti, i politici, gli oratori. L'esito di tali consultazioni è sconcertante:

"nell'indagine che svolgevo … quelli che erano i più celebrati, mi parevano, quasi quasi, i più sprovveduti, gli altri, invece, che non erano tenuti in alcun pregio, mi sembravano i meglio dotati."

Cos'altro pensare se non che "essi non vogliono ammettere, con tutta quell'aria di sapientoni che si danno, di non saper nulla"?

Giunto a questa conclusione, Socrate intuisce qual è la sua vocazione: quella di una coscienza critica che, sapendo di non sapere, cerca almeno di approssimarsi alla verità. Ma ciò richiede per l'appunto il confronto con i sapientoni e con le loro idee, che sono in gran parte le opinioni comuni, i valori su cui si fonda la cultura ateniese. Per questa via, il conflitto con le tradizioni è inevitabile e, in un contesto in cui le leggi si fondano su di esse, inevitabile è anche il conflitto con le leggi.

A cosa mira l'indagine di Socrate? A stabilire quello che è vero, quello che è giusto e quello che è buono. Per arrivare a questo, è necessario mettere da parte ciò che si ritiene vero, giusto, buono e che, analizzato criticamente, non lo è. La fase destruens della critica non porta immediatamente a sostituire i falsi valori con valori autentici e assoluti. Essa serve solo a generare un'incertezza che promuove la ricerca. Socrate non ha verità da ammannire quanto piuttosto un metodo che comporta la presa di coscienza piena della propria ignoranza come presupposto di un tragitto verso una qualche saggezza.

Un metodo pericoloso perché offende i sapientoni e attira i giovani:

"Aggiungete a quanto vi ho detto il fatto che sono i giovani, soprattutto quelli delle migliori famiglie, che hanno più tempo libero, a seguirmi spontaneamente e a godersi un mondo nel vedere questi uomini presi sotto il tiro delle mie domande; molte volte essi stessi mi imitano e s'industriano a interrogare gli altri e, sapete, ne trovano anche loro di persone che credono di sapere e poi sanno poco o nulla. E, così, succede che gli interrogati non se la pigliano mica con loro ma con me e vanno a dire in giro che Socrate è un corrotto e ti guasta i giovani. E quando qualcuno gli chiede che cosa fa costui e che cosa insegna per corromperli, non sanno che dire e tacciono; ma per non far vedere il loro imbarazzo ti tiran fuori le solite sciocchezze che si usano dire contro chi ama il sapere, cioè che Socrate scruta i misteri del cielo e quelli della terra, non crede negli dei e fa apparire per buona la causa peggiore."

Ma in nome di che Socrate si arroga il diritto di criticare le tradizioni su cui si fonda la cultura ateniese? E se egli sente di avere questo diritto perché, anziché andare in giro per la città gettando confusione nella testa della gente, non lo realizza sul pinao suo proprio, che è quello della politica? La risposta è semplice:

"Come voi mi avete già sentito dire spesso e in altra sede, questo dipende dal fatto che in me c'è come qualcosa di divino, di soprannaturale cui Meleto, deridendomi, ha già accennato nell'accusa. Un fatto che mi si è manifestato fin da ragazzo, come una voce che mi parla dentro e che mi distoglie da ciò che sto per fare, invece che esortarmi; essa mi ha sempre impedito di darmi alla vita politica; io credo, del resto, che questo divieto sia stato quanto mai opportuno.

Infatti, se mi fossi messo nella politica, voi lo sapete bene, cittadini, sarei già morto da un pezzo e non avrei potuto più giovare né a voi né a me stesso. Ma non ve la prendete se dico la verità: nessun uomo riuscirà a salvarsi qualora vorrà opporsi lealmente a voi o al popolo e impedire che nella sua patria avvengano ingiustizie e illegalità. Così, è bene che resti cittadino privato, lontano dalla vita pubblica, chi vuole realmente combattere per la giustizia e conservarsi, anche per poco, in vita."

La voce di dentro impone a Socrate di rimanere fedele a se stesso e alla sua missione, piaccia o non piaccia al tribunale e alla comunità:

" E anche se ora voi mi assolveste contro la proposta di Anito che chiedeva per me o l'esilio o, una volta comparso qui in tribunale, la morte, affermando che, se fossi rimasto impunito, i vostri figli, praticando i miei insegnamenti, si sarebbero tutti corrotti, anche se ora mi diceste, per esempio: "Socrate, noi non crediamo a quanto ha detto Anito e ti assolviamo, al patto, però, che tu non svolga più le tue indagini, né ti occupi di filosofia, pena la morte", se voi, ripeto, mi lasciaste libero, ma a queste condizioni, oh, io vi risponderei: "O ateniesi, io vi onoro e vi amo, ma devo obbedire a dio prima che a voi e, quindi, fino all'ultimo respiro, fino a quando avrò vita, non abbandonerò la mia missione di filosofo, non cesserò di esortarvi e ammmonirvi (chiunque voi siate), nel modo mio solito"; direi, per esempio: "O a me carissimo tra gli uomini, cittadino di Atene, della città più gloriosa e più grande del mondo, della più famosa per sapienza e nobiltà, non ti vergogni di curarti delle ricchezze perché siano sempre più grandi, come le tue ambizioni e i tuoi onori, di non darti pensiero né della tua saggezza né della verità, né dell'anima tua, per farla migliore?" E se qualcuno di voi me lo smentisse e mi assicurasse, invece, che si cura di queste cose, io non lo lascerei a se stesso, non lo abbandonerei, ma gli starei dietro, interrogandolo ed esaminandolo e se lo vedessi millantare una virtù che, in effetti, non possiede, lo rimprovererei aspramente di trascurare le cose che veramente valgono e di tenere in gran pregio, invece, quelle di nessun conto. Così mi comporterei, con i giovani e con gli anziani, con chiunque io mi imbattessi, stranieri o compatrioti, ma soprattutto con questi, che io sento più vicini a me per legame di sangue. Perché questo mi ordina dio, sappiatelo, ed io penso che nessun bene maggiore sia mai venuto alla mia patria di questa mia obbedienza al suo comandamento.

Questo è, in fondo, quello che faccio: cercare di persuadervi, giovani o vecchi che siate, a non prendervi troppa cura del corpo e dei beni materiali prima che della vostra anima perché divenga migliore, di dirvi che non dalla ricchezza nasce la virtù, ma che dalla virtù deriva, piuttosto, ogni ricchezza e ogni bene, per l'individuo come per gli stati.

Se con questi discorsi io corrompo i giovani, vorrà dire che essi sono dannosi, se invece, qualcuno afferma che altri sono i miei insegnamenti, costui parla a vanvera.

E allora io vi dico, cittadini, crediate o non crediate ad Anito, mi assolviate o meno, io non agirò diversamente, nemmeno se dovessi mille volte morire."

La vocazione di Socrate non è una vocazione egocentrica, che corrisponde solo ai suoi bisogni. Se così fosse, egli avrebbe potuto coltivarla nel suo intimo. Essa implica anche una preoccupazione per il bene comune:

"Se voi mi ucciderete, infatti, non tanto facilmente troverete un altro simile a me, che il volere di un dio ha inviato nella vostra città (perdonatemi il paragone forse ridicolo) come un moscone sopra un cavallo alto e di buona razza ma alquanto pigro per la sua stessa mole e bisognoso di essere sempre stimolato.

Un simile compito dio sembra avermi affidato nella nostra città per cui io, senza sosta, vi sono da presso, per stimolarvi, per esortarvi, per rimproverarvi, ad uno ad uno, ogni giorno. Un altro come me, ateniesi, non lo troverete facilmente. Ecco perché se mi darete ascolto, voi mi risparmierete.

O, forse, accadrà che voi, stizziti come chi nel sonno vien destato all'improvviso, ascolterete Anito e mi colpirete, mandandomi stupidamente a morte. Ma allora voi continuerete a vivere come dormendo, per il resto della vostra vita, se dio non avrà compassione di voi e non vi manderà qualcun altro."

Socrate è dunque giunto alla conclusione che la normalità, intesa come adattamento alle tradizioni e alle norme correnti, è uno stato di coscienza omologabile al sonno, che oggi definiremmo alienato. Esso, che corrisponde al bisogno di coesione e di stabilità di ogni organizzazione socioculturale, postula che qualcuno si assuma il ruolo del "moscone", vale a dire di perturbatore delle false certezze individuali e collettive.

Socrate attribuisce questo ruolo ad un daimon che non gli lascia scampo. Ma qual è la voce di dentro che può risvegliare una coscienza acculturata e spingerla ad entrare in conflitto con le tradizioni e il gruppo di appartenenza? Oggi non avremmo dubbi a definire il daimon come espressione dell'io antitetico e a riconoscere in esso la matrice dell'individuazione.

L'Apologia di Socrate è il primo documento storico nel quale questa funzione viene delineata e valorizzata. Essa promuove il diritto di dissentire, il diritto dell'individuo di prendere posizione contro la comunità di appartenenza e le tradizioni su cui essa si fonda.