JOSEPH E. STIGLITZ

LA GLOBALIZZAZIONE E I SUOI OPPOSITORI

Einaudi Torino 2002

Economista di fama internazionale, Joseph E. Stiglitz, insignito del Premio Nobel nel 2001 per le sue ricerche nell'ambito della teoria delle informazioni asimmetriche, ha lavorato presso la Banca Mondiale dal 1997 al 2000. Si è poi dimesso manifestando un aperto disaccordo con il modo in cui le istituzioni economiche internazionali (Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, e Organizzazione mondiale del commercio) affrontavano i problemi critici legati alla globalizzazione. Il libro argomenta con dovizia di particolari e di analisi tecniche i motivi del disaccordo, dando credibilità alle accuse rivolte a quelle istituzioni dal movimento no-global e da un numero crescente di paesi del mondo non sviluppato.

La denuncia è tanto più significativa in quanto Stiglitz è un liberal, un keynesiano che crede profondamente nel capitalismo a patto che gli "animal spirits" che ne realizzano il potenziale evolutivo e assicurano la crescita economica siano regolamentati da governi nazionali e istituzioni internazionali capaci di tenere conto dei bisogni sociali e di arginare gli interessi particolari.

Il leit-motiv del libro è esposto nella prefazione: "Le ragioni per cui ho scritto questo libro è che, mentre mi trovavo alla Banca Mondiale, ho preso atto in prima persona degli effetti devastanti che la globalizzazione può avere sui paesi in via di sviluppo e, in particolare, sui poveri che vi abitano. Ritengo che la globalizzazione, ossia l'eliminazione delle barriere al libero commercio e la maggiore integrazione tra le economie nazionali, possa essere una forza positiva e che abbia tutte le potenzialità per arricchire chiunque nel mondo, in particolare i poveri. Ma perché ciò avvenga, è necessario un ripensamento attento del modo in cui essa è stata gestita" (p. IX).

Gli effetti devastanti della globalizzazione sono genericamente attestati da un dato inquietante: "un divario progressivamente più accentuato tra ricchi e poveri ha ridotto in miseria un numero sempre maggiore di persone del Terzo Mondo, costrette a sopravvivere con meno di un dollaro al giorno. Malgrado le reiterate promesse di ridurre la povertà fatte negli ultimi dieci anni del XX secolo, il numero effettivo di persone che vivono in povertà è aumentato di quasi cento milioni mentre allo stesso tempo il reddito mondiale complessivo è cresciuto in media del 2,5 per cento annuo" (p. 5). La disuguaglianza, oltre che nei paesi del Terzo Mondo, si è riprodotta drammaticamente nel blocco ex-comunista (in particolare in Russia) e ha inciso in qualche misura anche nelle società occidentali. In pratica la crescita del fatturato ha prodotto una distribuzione tale per cui, usando una formula divenuta ormai un luogo comune, i ricchi sono diventati più ricchi e i poveri più poveri. Si tratta di un risultato paradossale rispetto allo "spirito" della globalizzazione, che mirerebbe ad aumentare il tenore di vita di tutti gli abitanti della Terra. Un risultato alla luce del quale i successi della globalizzazione, esaltati dai suoi sostenitori, appaiono come affatto secondari.

Stiglitz intende spiegare questo paradosso confutando anzitutto le interpretazioni fornite dalle istituzioni economiche internazionali che univocamente sottolineano le responsabilità dei governi nazionali, alcuni dei quali vengono accusati di inefficienza, corruzione e scarsa democrazia. La confutazione verte soprattutto sull'esempio della Cina che "ha registrato il tasso di crescita più rapido di qualsiasi altra grande economia del mondo negli ultimi venti anni" (p.183). A cosa è dovuto tale successo che "ha prodotto la più vasta riduzione della povertà nella storia (da 358 milioni di poveri nel 1990 a 208 milioni nel 1997, utilizzando quello che, per ammissione generale, è il bassissimo standard di povertà cinese di un dollaro al giorno)"? (p. 184). Evidentemente non alla democrazia, visto che in Cina il potere è ancora saldamente detenuto dal'unico partito esistente, quello comunista, bensì ad un processo di liberalizzazione che non ha tenuto conto delle "ricette" delle istituzioni internazionali, bensì all'esigenza primaria di tutelare il bene comune anziché mirare univocamente a trasformare il sistema in un modello di liberismo: "Nella sua ricerca di stabilità e di crescita, la Cina ha anteposto la creazione della concorrenza, di nuove imprese e di nuovi posti di lavoro alla privatizzazione e alla ristrutturazione delle aziende esistenti. Pur riconoscendo l'importanza della macrostabilizzazione, la Cina non ha mai confuso il fine con il mezzo e non ha mai portato alle estreme conseguenze la lotta contro l'inflazione. Ha capito che per mantenere la stabilità sociale doveva evitare un livello elevato di disoccupazione. La creazione di nuovi posti di lavoro doveva andare di pari passo con la ristrutturazione… Pur seguendo la strada della liberalizzazione, la Cina lo ha fatto gradualmente, assicurandosi di reimpiegare le risorse umane trasferite per usi più efficienti e non certo per destinarle ad una sterile disoccupazione. La politica monetaria e le istituzioni finanziarie hanno facilitato la creazione di nuove imprese e nuovi posti di lavoro… (La Cina) ha riconosciuto i pericoli di una liberalizzazione totale dei mercati dei capitali, pur aprendo le porte agli investimenti esteri diretti" (p. 187).

L'esempio cinese è tanto più rilevante se viene messo a confronto con la parabola della Russia che, invece, dopo il crollo dell'Unione Sovietica, ha tentato di attuare, per decisione dei dirigenti politica e sulla scorta delle indicazioni delle istituzioni economiche internazionali, una transizione rapida e selvaggia dal comunismo al capitalismo. La terapia d'urto è stata decisa e portata avanti con estrema determinazione nel timore che un passaggio graduale potesse innescare una restaurazione comunista. I punti fermi della terapia sono stati: la liberalizzazione dei prezzi, l'aumento dei tassi di interesse (per contenere l'inflazione) e la privatizzazione rapida delle aziende, accompagnata dall'apertura dei mercati ai capitali. Questa terapia ha prodotto esiti catastrofici in termini di incremento della povertà, della disuguaglianza, della corruzione e della crescita della criminalità. I dati sono inconfutabili: "Il Pil della Russia nell'anno 2000 equivaleva a meno di due terzi di quello del 1989" (p. 153); "Nel 1989 solo il 2 per cento della popolazione russa viveva in povertà. Alla fine del 1998, questa cifra era balzata al 23,8%, adottando il parametro dei due dollari al giorno. Secondo uno studio condotto dalla Banca Mondiale, il 40 per cento dei cittadini disponeva di meno di quattro dollari al giorno. Le statistiche sull'infanzia mettevano in luce un problema ancora più grave, e cioè che oltre il 50 per cento dei bambini viveva in famiglie povere" (p. 154); "La transizione, che in Russia ha fortemente aumentato il numero di poveri e arricchito un'élite ristretta, ha contribuito a distruggere la classe media" (p. 155); "Oggi, la Russia ha un livello di disuguaglianza tra i peggiori del mondo, paragonabile a quello dei paesi latino-americani che si portano dietro il retaggio di una società semifeudale. La Russia ha preso il peggio di tutti i mondi possibili: un enorme declino della produzione e un enorme aumento della disuguaglianza" (p. 156). Il quadro tracciato da Stiglitz è tanto più agghiacciante se posto a confronto con il passato: " il sistema comunista, pur non rendendo la vita facile, evitava la povertà estrema e manteneva livellato il tenore di vita della popolazione, assicurando un comune denominatore di qualità per l'istruzione, la casa, l'assistenza sanitaria e i servizi all'infanzia" (p. 155).

Le diverse vicissitudini economiche e sociali della Cina e della Russia dipendono dunque dall'avere seguito la prima una via autonoma verso la liberalizzazione e dall'essersi attenuta l'altra pedissequamente (e naturalmente con grandi vantaggi da parte degli oligarchi) alle ricette proposte dalle istituzioni economiche internazionali. Alla stessa conclusione Stiglitz arriva analizzando quanto è accaduto nei paesi del Terzo Mondo, in quelli dell'America latina e in quelli del Sud-Est asiatico investiti, a partire dal 1997, da una grave crisi sopravvenuta dopo un miracoloso balzo sulla via dello sviluppo avviatosi nella seconda metà degli anni '80. Ovunque si riscontra la stessa "legge": gran parte dei paesi, costretti ad attenersi ai rigidi criteri delle istituzioni economiche internazionali, sono andati incontro ad un tracollo economico e sociale; solo alcuni, che hanno temperato quei criteri in nome del contesto in cui essi dovevano essere realizzati, se la sono cavata meglio.

L'atto di accusa di Stiglitz non è contro la globalizzazione, bensì contro la gestione di essa che è stata imposta dalle istituzioni economiche internazionali. L'indice di Stiglitz si rivolge soprattutto contro il Fondo monetario internazionale e contro l'Organizzazione mondiale del commercio (WTO), colpevoli entrambi di avere imposto al mondo una dottrina economica univoca e ortodossa che ha prodotto prevalentemente disastri e animato un malessere grave in gran parte del pianeta: "Il malcontento nei confronti della globalizzazione deriva non soltanto dal fatto chele considerazioni di ordine economico sembrano prevalere su tutto il resto, ma anche dal predominio assoluto di una visione particolare dell'economia su tutte le altre: il fondamentalismo del mercato. L'opposizione nei confronti della globalizzazione in molte parti del mondo non riguarda tanto la globalizzazione in sé… quanto quel particolare insieme di dottrine, il cosiddetto Washington Consensus, che le istituzioni finanziarie hanno imposto nel mondo" (p. 225).

Il Fondo monetario internazionale e l'Organizzazione mondiale del commercio sono nate storicamente con intenti buoni e condivisibili, ma "hanno subito un'evoluzione graduale nel tempo fino a trasformarsi completamente. L'orientamento keynesiano dell'FMI, che sottolineava I fallimenti del mercato e il ruolo del governo nella creazione dei posti di lavoro, è stato sostituito dal ritornello del libero mercato degli anni Ottanta, nel contesto di un nuovo Washington Consensus - vale a dire di un'identità di vedute tra l'FMI, la banca Mondiale e il Tesoro degli Stati Uniti circa le politiche "giuste" per i paesi in via di sviluppo - che ha segnato un approccio totalmente diverso allo sviluppo economico e alla stabilizzazione" (p. 14). Il verdetto di Stiglitz è durissimo: "L'FMI ha commesso errori in tutti i campi in cui ha operato: sviluppo, gestione delle crisi e transizione delle economie nazionali dal comunismo al capitalismo" (p. 16). Tali errori sono riconducibili per l'appunto al fondamentalismo di mercato, vale a dire ad una rigida dottrina secondo la quale il mercato è dotato di poteri di autoregolazione, a patto che l'economia sia affidata ai privati, il commercio non trovi ostacoli protezionistici e i capitali siano lasciati liberi di operare scelte d'investimento sulla base della logica loro propria, che è il profitto.

Stiglitz contesta l'elevazione a dogma di questi principi sacri del capitalismo liberistico.

La privatizzazione, intanto, non deve ignorare che i mercati non sono in grado di fornire alcuni servizi essenziali ai cittadini, in particolare per quanto riguarda la scuola, la salute e la previdenza sociale. In secondo luogo, essa, se procede troppo velocemente, può comportare sia un aumento critico della disoccupazione, sia una tendenza delle aziende private al monopolio sia una corruzione dei funzionari pubblici. E' quanto è accaduto nei paesi che sono stati spinti o costretti dall'FMI alla privatizzazione selvaggia.

La liberalizzazione del commercio è avvenuta quasi costantemente sulla base di un'iniquità di fondo: "I paesi occidentali hanno spinto la liberalizzazione del commercio per i loro prodotti di esportazione, ma, al tempo stesso, hanno continuato a proteggere I settori che potevano risentire della concorrenza dei paesi in via di sviluppo" (p. 60). In pratica ciò significa che è stato liberalizzato il commercio dei prodotti industriali (automobili, macchinari, ecc.) e protetto il commercio dei prodotti agricoli e di quelli tessili, che sono le uniche merci che I paesi del Terzo Mondo possono esportare. La conseguenza tragica è stata un ulteriore impoverimento: "L'Africa subsahariana, la regione più povera del mondo, ha visto scendere il proprio reddito di oltre il 2 per cento a seguito dei nuovi accordi commerciali" (61).

La liberalizzazione dei mercati finanziari è stata addirittura peggiore della liberalizzazione del commercio. I capitali volatili vengono investiti unicamente in prestiti a breve termine con tassi intorno al 18 per cento a fini speculativi, in base all'andamento dei tassi di interesse. Essi, data la loro volatilità, non possono essere utilizzati dalle aziende. Per gestire i rischi associati a questi flussi di capitali, i paesi vengono però invitati e costretti ad accantonare nelle loro riserve una somma pari a quella dei prestiti a breve termine denominati in valuta estera: in pratica ad accantonare dollari investiti in Buoni del tesoro americano che rendono il 4 per cento. I paesi si trovano a perdere il 14 per cento, la differenza tra gli interessi passivi e quelli attivi.

Oltre a queste ricette, che sono rimedi peggiori del male, occorre considerare poi i tempi e le sequenze degli interventi. In nome del fondamentalismo di mercato, i principi del liberismo vengono proposti come validi a patto che la loro realizzazione sia la più rapida possibile. L'FMI mette nel conto che il periodo di transizione possa creare disoccupazione e miseria, ma dà per scontato che, quando il nuovo sistema arriva a regime, la crescita debba andare a vantaggio di tutti. E' un atto di fede "nell'economia del trickle down o "permeabile", quella cioè che, gocci a goccia, dovrebbe prima o poi fare arrivare I vantaggi della crescita anche ai più poveri" (p. 77). Il problema è che si tratta appunto di un atto di fede: "Se è vero che non è possibile ridurre in modo significativo la povertà senza una crescita economica sostenuta, non è vero l'opposto: non è detto che la crescita vada a vantaggio di tutti. Non è vero che "l'alta marea solleva tutte le barche". Talvolta, un'alta marea improvvisa, specialmente se accompagnata da una tempesta, può scaraventare a terra le barche più deboli, rompendole in mille pezzi" (p. 78). E' quanto è accaduto in parecchi paesi che, avendo seguito le ricette dell'FMI, si sono immiseriti e hanno visto svilupparsi nel loro seno forti tensioni sociali: "Le riforme del Washington Consensus hanno esposto i paesi a maggiori rischi, che sono stati addossati in maniera sproporzionata sulle spalle di chi era meno in grado di affrontarli. Come in molti paesi i tempi e le sequenze degli interventi hanno comportato la distruzione di un numero di posti di lavoro ben superiore a quello dei nuovi posti creati, anche l'esposizione al rischio è stata superiore alla capacità di creare le istituzioni necessarie per affrontarlo, comprese efficaci reti di sicurezza a livello sociale" (p. 86).

La requisitoria di Stiglitz è implacabile. Posti però i capi d'imputazione - identificabili con gli effetti devastanti a livello planetario della globalizzazione avvenuta negli ultimi quindici anni -, individuati i responsabili, l'FMI e il WTO, che si sono pervicacemente attenuti ad un modello liberistico coerente ma rigido e selvaggio, pressoché indifferente all'esito sociale dei cambiamenti imposti più che proposti, si tratta infine di capire le cause di errori tanto gravi e ripetuti nel tempo, il cui effetto non è solo economico ma politico, com'è attestato dalla rabbia crescente nel mondo nei confronti dei paesi occidentali e in primis degli Stati Uniti. Anche a questo riguardo Stiglitz non ha peli sulla lingua. Per come sono andate finora le cose, i critici della globalizzazione, per quanto le loro critiche possano essere parziali, hanno ragioni maggiori rispetto ai suoi fautori. Quando non si è macchiato di ipocrisia, imponendo ai paesi poveri regole commerciali che esso non ha rispettato, "l'Occidente ha sempre tenuto in mano le redini della globalizzazione facendo ben attenzione a trarne il massimo dei vantaggi, a spese del mondo in via di sviluppo" (p. 6). Si tratta dunque di una cospirazione dei paesi ricchi a danno di quelli poveri, mascherata sotto forma di aiuto? Stiglitz lo nega, ma non può fare a meno di riconoscere un intreccio perverso tra le istituzioni economiche internazionali e l'alta finanza: "L'FMI non persegue soltanto gli intenti stabiliti nel mandato originale - incentivare la stabilità globale e assicurare la disponibilità di fondi ai paesi minacciati dalla recessione affinché possano implementare politiche espansive -, ma si preoccupa anche degli interessi della comunità finanziaria. Questo significa che ha obbiettivi in conflitto tra loro. La tensione è ancora maggiore perché questo conflitto non può uscire allo scoperto: se il nuovo ruolo dell'FMI venisse riconosciuto pubblicamente, il sostegno all'istituzione potrebbe indebolirsi e coloro che sono riusciti a modificarne il mandato quasi sicuramente lo sapevano. Il nuovo mandato doveva dunque essere mascherato in modo da sembrare coerente con quello precedente, almeno in superficie. Un'ideologia neoliberista semplicistica ha fornito la cortina dietro cui poter svolgere i veri affari del "nuovo" mandato. Benché effettuato in silenzio, il cambiamento di mandato e di obbiettivi è stato tutt'altro che sottile: si è passati infatti dal servire gli interessi economici globali al servire gli interessi della finanza globale. La liberalizzazione dei mercati dei capitali non avrà forse contribuito alla stabilità economica globale, ma ha sicuramente aperto nuovi, vasti mercati per Wall Street" (p. 210 -211). "Non si può dire che l'FMI sia diventato l'esattore del G-7, ma certamente si è impegnato a fondo (benché non sempre ci sia riuscito) per far sì che I prestatori del G-7 venissero rimborsati" (p. 212).

In pratica, dunque, l'FMI ha consentito ai capitali di speculare sui mercati, di investirsi a condizioni sempre per essi vantaggiosi, di tradursi in prestiti a breve termine con interessi da rapina, di appropriarsi di beni di ogni genere a basso costo, di rientrare sempre senza perdite e talora con enormi profitti lasciando alle spalle disoccupazione e miseria.

Nell'ultima parte del libro Stiglitz definisce i cambiamenti necessari in base ai quali si potrebbe avviare una globalizzazione dal volto umano. Le argomentazioni e le proposte sono molto articolate. Il problema è che Stiglitz sembra ignorare il problema per cui, affinché quei cambiamenti si realizzino, occorre che maturi in Occidente, a livello collettivo, la coscienza degli errori, vale a dire dei "crimini" finanziari e sociali commessi in nome della globalizzazione. La sua accorata e documentata denuncia è stata per ora archiviata, negli Stati Uniti, come la stizzosa protesta di un accademico frustrato dal fatto che le sue idee non siano state accolte e riconosciute come valide dall'establishment.

 

Commento

La globalizzazione è un fenomeno storicamente irreversibile per due ragioni. La prima, di ordine tecnologico, è riconducibile all'enorme riduzione dei costi dei trasporti e delle comunicazioni telematiche che facilita enormemente la circolazione di beni, servizi, capitali, conoscenze, ecc. Tale riduzione di fatto impicciolisce il mondo e fonda la possibilità di scambi in passato impossibili o troppo onerosi. La seconda ragione è di ordine economico e corrisponde alla necessità del capitalismo di allargare il mercato per scongiurare il rischio intrinseco della sovraproduzione. A tale necessità corrisponde il bisogno dei paesi sottosviluppati di affrancarsi dalla miseria, che il confronto con il tenore di vita occidentale rende sempre meno tollerabile.

La prima ragione definisce i mezzi in virtù dei quali la globalizzazione si sta realizzando, che sono in gran parte un prodotto dello sviluppo occidentale, la seconda definisce i fini che essa persegue.

Sulla carta, e quindi in potenza, tali fini si pongono come compatibili e reciprocamente vantaggiosi. A tale possibilità fanno riferimento i fautori della globalizzazione. Nella realtà, ciò che è accaduto sinora è che essi sono risultati incompatibili. Come Stiglitz documenta inconfutabilmente, il bilancio della globalizzazione ad oggi è disastroso. Eccezion fatta per il miracolo delle "tigri" del Sud-Est asiatico, che è però andato incontro negli ultimi anni ad una grave crisi, e della Cina, che ha seguito però una sua autonoma via di sviluppo regolata dal governo centrale, il bilancio è caratterizzato da un enorme trasferimento di ricchezza dal Terzo al Primo mondo, vale a dire da una spoliazione che ripete, in misura amplificata, lo "scambio" avvenuto nell'epoca del colonialismo. Il dato per cui il fatturato mondiale è aumentato del 2,5 per cento annuo nell'ultimo decennio mentre è aumentato, almeno di cento milioni, il numero dei poveri è inconfutabile e agghiacciante.

I fautori della globalizzazione sostengono che si tratta di una crisi legata ai cambiamenti tumultuosi che stanno avvenendo, di una crisi di crescita, dunque, che si risolverà con un balzo di tutti i paesi sulla via dello sviluppo. Stiglitz stesso ritiene che, cambiando l'ideologia di riferimento delle istituzioni internazionali economiche che, sinora, hanno tentato di imporre univocamente un modello di liberismo selvaggio, la globalizzazione possa assumere un volto umano.

Il problema sta nel capire se quella ideologia rappresenti solo un errore di valutazione della realtà da parte di quelle istituzioni, un loro cedimento alla logica del capitale, che implica un difetto di controllo politico sull'economia, o non piuttosto un fenomeno strutturale di riorganizzazione del capitalismo all'insegna dell'imperialismo. Alcuni dati purtroppo orientano a pensare che questa seconda ipotesi sia più vicina alla verità. I paesi occidentali si attengono ormai univocamente, nella gestione dell'economia nazionale, al principio di massimizzare il reddito medio salvaguardando il reddito minimo per impedire il sopravvenire di forti tensioni sociali. Nel rapporto con il resto del mondo essi, però, sembrano perseguire il fine univoco del profitto quali che siano le conseguenze in termini sociali di tale strategia. Le tensioni sociali prodotte dalla globalizzazione selvaggia, infatti, si sarebbero dovute realizzare al di fuori dei confini dell'impero. Il malessere che pervade il Terzo mondo, l'antioccidentalismo e l'antiamericanismo che si vanno diffondendo attestano che la previsione è sbagliata. Il rischio di un imbarbarimento del mondo è assolutamente reale.

La storia del capitalismo, ancora oggi, è fatta di lacrime e sangue.

Dicembre 2002