J.K.GALBRAITH

STORIA DELL'ECONOMIA

Rizzoli, Milano 1990

1.

Conoscere la storia di una disciplina è non meno importante del conoscere il suo apparato concettuale e teorico. Se questo è vero per tutti i saperi sia scientifici sia umanistici, lo è a maggior ragione per l'economia. Disciplina relativamente giovane, nata ufficialmente sul finire del XVIII secolo con l'intento di porre ordine nel caos dei cambiamenti che si stavano producendo in seguito al decollo del sistema industriale, essa, nel corso della sua storia, ha riconosciuto un travaglio che non si può ritenere ancora superato (posto che possa esserlo in futuro). Il problema, che spiega questo travaglio, vale a dire il rigenerarsi di conflitti dopo ogni tentativo di definizione di un sistema teorico omogeneo, è l’incidenza dell’economia non solo nella pratica quotidiana della vita, bensì anche e soprattutto nell’amministrazione della cosa pubblica.

Ancora oggi, in Occidente, la gestione dell'economia è uno dei temi portanti di ogni tornata elettorale, e i partiti o schieramenti si aggregano intorno a due polarità - i conservatori e i progressisti - che, con inevitabili mediazioni e compromessi, si fanno portatori di due diversi modelli socioeconomici: l’uno, liberista, muovendo dal principio per cui il mercato è dotato di capacità di autoregolazione, sostiene che lo Stato deve intervenire minimamente sul piano economico per favorire gli interessi privati, che assicurano la crescita e l’efficienza nell’allocazione delle risorse; l'altro, socialista (anche se il termine non viene sempre esplicitato per non turbare i moderati progressisti), fondandosi sulla constatazione che il mercato, affidato a se stesso, porta ad una crescita squilibrata sotto il profilo distributivo della ricchezza, a fenomeni monopolistici, a crisi periodiche di depressione, ecc., postula regole e provvedimenti da parte dello Stato finalizzati a mediare la logica del profitto, propria dell’economia di mercato, con i bisogni sociali dell’intera comunità che esso rappresenta.

L'esistenza stessa di questi due modelli attesta che l'economia non è una scienza esatta, fatta di verità acquisite definitivamente e di leggi universali, bensì un sapere organizzato a partire da punti di vista e spesso da opzioni ideologiche. Quest'aspetto si coglie molto meglio ripercorrendo la storia dell'economia, che non consultando i più diffusi manuali universitari (Samuelson, Blanchard, Stiglitz, ecc.), i quali, per motivi didattici, cercano di fornire un quadro abbastanza integrato, se non unitario, del sapere economico. Tali manuali non nascondono la verità, impediscono semplicemente, in misura più o meno rilevante, di apprezzarla nel suo valore storico, politico e etico. E la verità è che l’economia, dopo la fase classica che ha consentito, nella prima metà dell’800, di formulare il modello ortodosso del mercato autoregolato, è stata sempre caratterizzata da una dialettica tra sostenitori e critici di tale modello, dietro la quale si muovono forze reali: interessi particolari rappresentati a livello politico, movimenti sociali, istanze di efficienza provenienti dalle industrie e dal capitale, istanze di equità provenienti dal corpo sociale, ecc. La dialettica insomma verte tra liberismo e socialismo in tutte le loro diverse configurazioni. Si tratta di una dialettica conflittuale che periodicamente tende verso una qualche forma d’integrazione, ma rimane sotterraneamente vincolata alla volontà egemonica del liberismo e degli interessi che esso rappresenta.

Tutti gli economisti sanno che la concorrenza perfetta — il cardine mitologico del liberismo — è un’utopia, e che, se anche essa fosse possibile, non sarebbe augurabile per diversi motivi: primo, i beni e i servizi offerti dalla società private non coprirebbero tutti i bisogni della popolazione (particolarmente quelli assistenziali e previdenziali, che non comportano profitti); secondo, la distribuzione della ricchezza, affidata ai mercati, potrebbe risultare profondamente iniqua; terzo, le esternalità negative, vale a dire i danni prodotti dalle aziende (per esempio l’inquinamento) non sarebbero pagati da esse ma dalla comunità.

Un liberismo puro (o meglio, selvaggio) non è accreditabile in ambito scientifico e non è realizzabile sul piano pratico senza correre il rischio di una catastrofe sociale e, oggi, ambientale. Esso però, particolarmente negli Stati Uniti, continua ad essere proposto come la panacea di tutti i mali. Il problema è capire in quale misura i teorici del liberismo sono in buona fede e in quale misura sono semplicemente la cinghia di trasmissione degli interessi particolari che rappresentano. La storia dell’economia, ricostruita criticamente, consente di fornire una risposta a tale quesito.

Senza essere rivoluzionario, il saggio di Galbraith è, a riguardo, di grande utilità. Si tratta di un libro che rientra nell'ambito della tradizione anglosassone di una divulgazione precisa e dettagliata, ma senza inutili tecnicismi: la lettura non richiede particolari competenze specialistiche o matematiche. Non si tratta peraltro di un’esposizione arida e neutrale. L’autore non nasconde le sue simpatie di economista di sinistra, peraltro moderato: più keynesiano o neokeynesiano che socialista. Ciononostante, la teoria liberista è esposta con obiettività, anche se i commenti critici sono pungenti e talora sapidi, e le lacune del modello neokeynesiano sono esposte francamente. Il saggio dà uno spazio inconsueto agli sviluppi della teoria e della pratica economica negli Stati Uniti. Data l’importanza dell’economia statunitense nel quadro mondiale, tale spazio non si può ritenere né ingiustificato né espressivo solo della particolare competenza dell’autore a riguardo.

Nell’introduzione è esposto il principio metodologico che ha guidato la composizione del saggio: "Io cerco di considerare l’economia come un riflesso del mondo in cui si sono sviluppate particolari teorie economiche: le teorie di Adam Smith nel contesto del trauma iniziale della rivoluzione industriale, quelle di David Ricardo nelle sue più mature fasi successive, quelle di Karl Marx all’epoca del potere capitalistico sfrenato, quelle di John Maynard Keynes come una risposta all’implacabile catastrofe della Grande depressione." (p. 10)

Questo principio consente di capire perché la storia dell’economia o meglio la storia tout-court, di cui essa rappresenta un aspetto fondamentale, è più importante delle teorie economiche, essendo la sua conoscenza preliminare alla valutazione critica di queste ultime. La storia dell’economia non può ridursi alla storia delle dottrine economiche (mercantilismo, fisiocrazia, liberismo, socialdemocrazia, comunismo, keynesismo, neoliberismo, neokeynesismo, ecc.). Essa deve intrecciare l’analisi di tali dottrine con le situazioni storiche, sociali e culturali che le hanno prodotte — talora per giustificarle, tal’altra per riformarle o cambiarle. E’ la dialettica tra realtà sociale e dottrine economiche il cuore della storia dell’economia.

2.

Il saggio di Galbraith ha una struttura particolare, che corrisponde ad una scelta precisa operata dall’autore: "La mia preoccupazione principale è quella di isolare e mettere in rilievo la teoria o le teorie centrali di un determinato autore, scuola o periodo, e soprattutto di concentrare l’attenzione su quelle teorie che conservano ancora una particolare rilevanza. Mi sforzo pertanto scrupolosamente di ignorare tutto ciò che è puramente transitorio, come pure quelle dottrine che si sviluppano entro i confini della corrente principale dell’evoluzione, senza però modificarne gran che o deviarne il corso. " (p. 11)

In conseguenza di quest’opzione, il saggio, dopo un rapido accenno all’Antichità e al Medio Evo, nel corso dei quali sono reperibili solo alcune riflessioni filosofiche sulla ricchezza, sulla moneta, sull’interesse, ecc., accentra la sua attenzione sulla nascita, preceduta dal mercantilismo e della fisiocrazia, della teoria liberista, delineata nelle sue linee di fondo da Adam Smith, che viene sviluppata e approfondita da Jean-Baptiste Say, Thomas Robert Malthus e, soprattutto, David Ricardo, dando luogo al modello definito classico.

I cardini di tale modello sono quattro. Il primo identifica nell’interesse privato, o più semplicemente nell’egoismo individuale, la motivazione fondamentale dell’attività economica, che poi una "mano invisibile" intrinseca al libero mercato concorre ad accordare con il bene pubblico. Il secondo è il problema del valore o dei prezzi dei beni che viene ricondotto, tout-court, alla quantità di lavoro che essi incorporano o con cui è possibile scambiarli. Il terzo è la distribuzione dei redditi che, per quanto riguarda gli operai, si riduce al salario di sussistenza, che consente loro di sopravvivere e di riprodursi, mentre per quanto riguarda il capitalista si fonda sull’esazione che egli opera sul lavoro (plusvalore). Il quarto riguarda la crescita economica che viene ricondotta alla divisione del lavoro, vale a dire alla specializzazione nei vari settori produttivi, e che, pertanto, va favorita dalla libertà del commercio interno e internazionale. Questo implica il venir meno di ogni forma di protezionismo e un’astensione dello Stato dall’intervenire sui meccanismi del mercato.

Il modello classico, insomma, pone la libera concorrenza a fondamento della crescita della ricchezza. Per questo motivo, esso rimane il punto di riferimento obbligato per i liberisti di ogni epoca, compresi quelli contemporanei che esaltano la globalizzazione.

Il problema è che esso, come rileva acutamente Galbraith, parla con la voce degli industriali ansiosi di sbarazzarsi di tutte le restrizioni che limitano il mercato e l’offerta di lavoro. Questa "faziosità", già evidente in Smith, giunge alle estreme conseguenze con i suoi eredi. Say, con la sua Legge, definisce perfetto il libero mercato ipotizzando un equilibrio tra domanda e offerta di merci. Data questa perfezione, qualunque intervento estrinseco al mercato, da parte dello Stato, è sconsigliabile. Malthus giunge alla stessa conclusione, ma per una via più inquietante. Egli rileva che la crescita della popolazione è geometrica, mentre quella del cibo è aritmetica. Ciò significa che è inevitabile giungere ad una situazione di squilibrio tra l’offerta di cibo e la domanda di bocche da sfamare, che la natura risolve con la morte per fame della popolazione eccedente. Malthus — pastore anglicano — fornisce così un utilissimo sostegno a quanti, all’epoca (e anche successivamente), giudicano l’aiuto ai diseredati inopportuno sotto il profilo pubblico. Egli insomma scarica la povertà dei poveri sulle spalle dei poveri, e del loro incoercibile istinto riproduttivo, affrancando da ogni responsabilità la classe abbiente.

David Ricardo, infine, che mutua da Smith la teoria del valore fondata sul lavoro, giunge a formulare la Legge bronzea dei salari secondo la quale essi sono il prezzo necessario per mettere i lavoratori, nel loro complesso, in condizioni di sussistere e perpetuare la loro specie senza né aumenti né diminuzioni. La legge ricardiana stabilisce, insomma, che coloro che vivono del loro lavoro devono rimanere poveri. Nulla e nessuno, data l’oggettività della legge stessa, può riscattarli dalla miseria: meno che mai, ovviamente, lo Stato, che, interferendo sul mercato del lavoro, può addirittura peggiorarne la situazione.

Nella sua formulazione originaria, classica, il liberismo è dunque un sistema economico fondato su leggi oggettive contro le quali nessuno può far nulla se non con il rischio di incepparne i mirabili meccanismi. E’ inutile dire che la spietatezza del modello classico corrisponde alla realtà del capitalisno della loro epoca e non ad un’inclinazione al sadismo delle personalità che lo hanno prodotto. Prima di dedicarsi all’economia, Smith insegna filosofia morale e scrive un trattato nel quale esalta la virtà dell’altruismo. Malthus, per quanto aristocratico e dipendente dalla Compagnia delle Indie orientali, è pur sempre un pastore. Ricardo, infine, dopo avere formulato la Legge bronzea dei salari, tenta di ammorbidirla ipotizzando che un’iniezione di capitale e di tecnologia potrebbero indurre un rialzo del prezzo di mercato del lavoro.

Il problema è che se i creatori del modello classico non sono dei farabutti, i fruitori del loro pensiero — vale a dire i capitalisti e le forze politiche che li rappresentano — hanno i loro interessi per appropriarsene e usarlo ai loro fini. Ciò spiega il fatto che, verso la metà del XIX° secolo, allorché il modello classico è maturo e descrive un crescita della ricchezza senza pari nella storia dell’umanità, le condizioni di vita degli operai e dei contadini, vale a dire del 90% della popolazione, sono letteralmente spaventose.

3.

E’ in riferimento a questa realtà sociale che va valutato il pensiero di Marx, che, ancora oggi, è un caposaldo della contestazione del capitalismo selvaggio. La critica del sistema industriale e del liberismo che lo difende non nasce con Marx, ma con i socialisti (Claude-Henri de Saint-Simon, Charles Fourier, Louis Blanc, Pierre-Joseph Proudhon), che rifiutano di riconoscere nell’egoismo individuale la motivazione principale dell’agire umano e difendono, in nome dell’uguaglianza, i diritti degli operai. La potenza del pensiero di Marx, destinata ad incidere sul corso della storia, sormonta, però, pur recependolo per tanti aspetti, il loro umanitarismo, in nome di un’analisi scientifica del capitalismo la quale, rivelandone le contraddizioni intrinseche, ne anticipa l’inesorabile tramonto.

Marx, che studia in profondità le opere degli autori classici, utilizza come un grimaldello per smantellare il liberismo la teoria del valore-lavoro che essi hanno proposto. Se il valore dei prodotti è null’altro che il lavoro vivo e quello morto (rappresentato dai macchinari) incorporato in essi, nulla giustifica il fatto che gli operai siano espropriati della ricchezza che producono a favore dei capitalisti. L’economia classica, che descrive il processo di espropriazione come se fosse naturale o rispondente a leggi oggettive, è, di conseguenza, semplicemente una giustificazione del capitalismo e del potere dominante che lo rappresenta e lo difende. La critica dell’economia classica, cui Marx dedica tutta la sua vita, non può ridursi però ad opporre ad essa un’altra teoria, incentrata sul principio per cui la ricchezza deve essere equamente distribuita tra coloro che la producono (in base al motto "Da ciascuno secondo le proprie capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni"). Occorre una rivoluzione sociale e politica (nonché culturale) che espropri i capitalisti degli strumenti di produzione, che consentono ad essi di appropriarsi del lavoro altrui.

Potente e caustico nel denunciare uno stato di cose intollerabile che gli economisti classici ritengono pressappoco fatale, il pensiero di Marx, che pretende di porsi come scientifico, s’imbatte però in un ostacolo insormontabile: riesce impossibile infatti spiegare la dinamica dei prezzi sulla base della teoria del valore-lavoro. Lo sfruttamento capitalistico dell’uomo è un fatto tangibile, ma non può essere ricondotto totalmente al plusvalore, vale a dire ad un furto.

E’ su questa lacuna della teoria marxista che il liberismo si riorganizza. In sede teorica la riformulazione del modello classico avviene sulla base della scoperta del ruolo economico dell’utilità marginale dovuta, ella seconda metà dell’800, a William Stanley Jevons e a Karl Menger. Il concetto di utilità marginale, su cui si fonda per l’appunto la corrente destinata a passare alla storia sotto il nome di marginalismo, è semplice: dato un bene di cui si ha bisogno, per ottenerlo si è disposti a sacrificarsi, vale a dire a pagarlo. Via via che la disponibilità del bene acquistato aumenta, la sua capacità di soddisfare il bisogno diminuisce fino ad un limite tale per cui il vantaggio che si ricava da un’ulteriore unità è superiore al sacrificio. L’utilità dell’ultima unita è per l’appunto l’utilità marginale. Questo concetto rivela, secondo i marginalisti, l’arcano del prezzo del bene: il prezzo è ciò che gli uomini sono disposti a pagare per l’ultimo incremento, quello meno desiderato. Esso però non vale solo sul fronte del consumo, vale a dire della domanda, ma anche su quello dell’offerta. Un aumento della produzione, sia a livello agricolo che industriale, dà luogo ad un costo crescente al di là del quale — per così dire — il gioco, per i capitalisti, non vale la candela. E’ questa la legge dei rendimenti o profitti decrescenti.

In virtù del concetto di utilità marginale, la teoria classica si rinnova, diventa neoclassica, e si incentra sulla legge della domanda e dell’offerta, che viene riformulata. Data la curva inesorabilmente negativa o discendente della domanda e quella altrettanto inesorabilmente positiva o ascendente dell’offerta, i prezzi sono concepiti come l’espressione dell’equilibrio perennemente instabile tra questi due poli.

La regolazione del mercato è implicita nella teoria neoclassica. Se si dà un aumento della domanda di un bene rispetto all’offerta, i prezzi crescono. Questa crescita però convoglia i capitali nella direzione di un aumento della produzione finché l’offerta non pareggia. Allora i prezzi calano. Se, viceversa, si dà un aumento dell’offerta di un bene rispetto alla domanda, i prezzi diminuiscono. Ciò spinge i consumatori ad acquistare quantità maggiori del bene stesso, finché la domanda pareggia o supera l’offerta. Allora i prezzi salgono.

Sulla base della legge della domanda e dell’offerta riformulata nell’ottica marginalista, la mano invisibile di Smith viene restaurata. Il mercato tende naturalmente verso una situazione di equilibrio. Salari, prezzi e profitti sono determinati da leggi oggettive. La teoria dell’equilibrio del sistema capitalistico, messa a punto da Leon Walras e da Alfred Marshall diventa, verso la fine dell’800 un dogma di fede.

Un dogma può anche essere creduto, ma, nel momento in cui riguarda una realtà tangibile come la società, credere in esso significa chiudere gli occhi sullo scollamento tra la fede e i fatti. Ora, se nella cornice della teoria neoclassica la fissazione di prezzi e dei salari presuppongono che tutti i prodotti vengano venduti e tutti i lavoratori impiegati, nella realtà i cicli economici, con fasi di espansione e fasi di depressione, continuano ad esserci e, in conseguenza di essi, i lavoratori vivono sull’altalena, ritrovandosi talora precipitati nel dramma della disoccupazione. Come risulta chiaro a posteriori, questi aspetti, nella seconda metà dell’800, sono minimizzati non dalla virtù del mercato, ma dal colonialismo, vale a dire dalla capacità del sistema capitalistico di procacciare, con il saccheggio, materie prime a basso costo.

Mentre il liberismo esalta se stesso nell’ambito accademico, alla sofferenza della classe operaia si aggiunge quella dei paesi del Terzo Mondo. Per giustificare questa situazione, la dottrina economica non basta. Occorre un’ideologia filosofica. La fornisce Herbert Spencer che, applicando la teoria dell’evoluzionismo di Darwin alla società, sostiene che questa deve accettare la legge della selezione naturale che governa la natura, vale a dire la sopravvivenza del più adatto. Qual è il metro di misura dell’adattamento? La capacità di darsi da fare economicamente: in breve, la ricchezza.

4.

Agli inizi del XX° secolo, il dogma liberista ha conseguito ormai una formulazione matematica, ma l’attacco frontale di Marx ha lasciato i suoi segni. In seguito ad esso, il liberismo e il socialismo (nella corrente radicale marxista e in quella riformista o socialdemocratica) procedono ciascuno per conto proprio a corroborare la teoria di riferimento, a colmarne le lacune, a rintuzzare le critiche reciproche. Nella prima metà del XX° secolo l’America è la patria del liberismo e l’Unione Sovietica della pianificazione socialista. L’Europa oscilla tra il liberismo e la socialdemocrazia.

E’ la Grande depressione del 1929, originatasi negli Stati Uniti ma rapidamente propagatasi all’Europa a rappresentare un punto di svolta. Essa, che investe solo l’Occidente capitalista, morde per anni la carne dei cittadini risvegliando l’incubo della miseria, e sembra, ad un certo punto, minacciare il crollo del sistema capitalistico, facendo affiorare dal suo interno il modello corporativo fascista, rappresenta la crisi del modello di equilibrio formulata dal marginalismo.

Su questo sfondo matura la teoria keynesiana. John Maynard Keynes non ha alcuna intenzione di sormontare l’impianto del liberismo: egli intende solo riformarlo. Il suo pensiero verte su pochi, limpidi presupposti, che Galbraith sintetizza lucidamente: "Il problema decisivo dell’economia non è come si determini il prezzo delle merci, né come si distribuisca il reddito risultante. La questione importante è come si determini il livello della produzione e dell’occupazione. All’aumentare della produzione, dell’occupazione e del reddito diminuisce il consumo degli incrementi addizionali di reddito: nella formulazione storica di Keynes, diminuisce la propensione marginale al consumo. Ciò significa che i risparmi aumentano. Non c’è alcuna sicurezza, come ritenevano gli economisti classici, che, a causa di tassi di interesse ridotti, questi risparmi saranno investiti, ossia spesi. Essi possono rimanere inutilizzati per tutta una serie di ragioni cautelative che possono riflettere il bisogno o desiderio dell’individuo o dell’azienda di credito liquido: per usare di nuovo un’espressione di Keynes, la sua preferenza per la liquidità. Se alcune entrate vengono tesaurizzate e non spese, l’effetto risultante è quello di ridurre la domanda totale di beni e di servizi – la domanda effettiva complessiva –e quindi, indirettamente, la produzione e l’occupazione. E la riduzione continuerà fino a determinare una riduzione del risparmio. Ciò accade quando la crescente propensione marginale a consumare viene spinta, o addirittura forzata, dal diminuire dei redditi. I risparmi ridotti vengono quindi assorbiti dal livello di spese di investimento, che diminuisce meno rapidamente. Come nell’opinione classica, risparmi e investimento devono essere uguali; i risparmi devono essere assorbiti completamente dall’investimento. La differenza consiste nel fatto che essi non sono più necessariamente uguali, o addirittura normalmente uguali, in una condizione di piena occupazione. Far sì che i risparmi siano uguali all’investimento e assicurare quindi che vengano spesi integralmente può richiedere una diminuzione di redditi e una condizione di deprivazione. Ne deriva che la situazione di equilibrio in economia può non trovarsi in corrispondenza di un’occupazione necessariamente piena; essa può trovarsi a livelli diversi e persino gravi di disoccupazione." (pp. 259-260)

La soluzione prevista in tale caso dall’economia classica è la diminuzione dei salari. Abbassando i salari, gli operai disoccupati sarebbero potuti tornare a lavorare. Anche a questo riguardo, la critica di Keynes è puntuale: "Se tutti gli imprenditori, in un periodo di disoccupazione, dovessero abbassare i salari, il flusso del potere d’acquisto – il complesso della domanda effettiva –diminuirebbe di pari passo con il diminuire dei salari. La diminuzione della domanda effettiva comporterebbe allora un aumento della disoccupazione." (p. 260)

La situazione socioeconomica generata dalla crisi del 1929 corrisponde puntualmente all’analisi keynesiana. Negli Stati Uniti la crescita rallenta. Non solo operai ma anche manager disoccupati offrono il loro lavoro a prezzi "stracciati", ma non vengono assunti.

Con la diagnosi di Keynes, recepita con il New Deal da F. D. Roosvelt viene la cura: "I governi non potevano più attendere che fossero forze autocorrettive a fornire un rimedio; l’equilibrio della sotto-occupazione poteva essere stabile e permanente. Essi non potevano più attendere che la disoccupazione permettesse di abbassare i salari; una tale attesa avrebbe potuto condurre a un livello più basso di produzione e di occupazione. Non i poteva contare sula diminuzione dei tassi di intersse per accrescere gli investimenti e le spese di investimento; forse tassi di interese bassi non facevano altro che rafforzare la preferenza per la liquidità Perché rinunciare in cambio di una rendita nominale ai diversi vantaggi di avere presso di sé il denaro?.. Rimane un apossibilità, solo una: l’intervento del governo- per aumentare il livello degli investimenti. Occorreva che il governo contraesse prestiti e spendesse a fini pubblici." (p. 261)

Il New Deal, di fatto, funziona assegnando allo Stato una funzione fondamentale nella gestione dei problemi macroeconomici (crescita del PIL, inflazione, disoccupazione). In seguito alla "rivoluzione" keynesiana lo Stato assistenziale, già esistente in Europa, si diffonde in una certa misura anche negli Stati Uniti. Il keynesismo, pur contrastato dal liberismo puro, diventa la dottrina ufficiale dell’Occidente capitalistico progressista. Esso si accorda sia con gli orientamenti del Partito democratico statunitense sia con quello delle socialdemocrazie europee.

Il liberismo puro sembra tramontato. In realtà esso lavora sotterraneamente negli Stati Uniti, dove l’influenza di Hayek e dei suoi allievi rimane piuttosto forte, e prepara il suo rilancio

La crisi del keynesismo, della socialdemocrazia e dello Stato sociale interviene verso la metà degli anni ’60 del XX° secolo con l’esplosione del fenomeno dell’inflazione. Si tratta di un fenomeno devastante: nel giro di dieci anni esso passa negli Stati Uniti dal 6 al 14% e in alcuni paesi europei (tra cui l’Italia) raggiunge addirittura il 20%. Con l’aumento del prezzo del petrolio che si realizza a partire dal 1973 la spirale inflazionistica rischia di sfuggire al controllo dei governi.

Che cosa è accaduto di fatto? Lo shock petrolifero è solo l’ultimo dei fattori. Le vere cause dell’inflazione sono di ordine strutturale: "Con la concentrazione industriale, le grandi società avevano raggiunto una misura molto consistente di controllo dei prezzi, il controllo che l’economia ortodossa concedeva al monopolio e all’oligopolio senza riconoscerne del tutto l’esistenza nella vita reale. E i sindacati avevano conseguito un’autorità considerevole sui salari e sui benefici associati accordati ai loro membri. Dall’interazione di queste entità era scaturita una nuova e potente forza inflazionistica: la pressione verso l’alto esercitata dalla determinazione dei salari sui prezzi, la spinta verso l’alto dei prezzi e del costo della vita sui salari. Era questa la dinamica interagente che venne ad essere chiamata spirale dei salari e dei prezzi." (p. 296)

Se si considerano queste due cause, si giunge facilmente alla conclusione che esse hanno un significato diverso. Attraverso l’adeguazione dei salari all’inflazione, gli operai mantengono semplicemente il loro potere d’acquisto. Attraverso l’adeguazione dei prezzi all’aumento del costo del lavoro, le multinazionali, dato il controllo quasi monopolistico assunto sul mercato, difendono i profitti enormi dei capitali.

L’analisi della crisi avrebbe dovuto portare non già a mettere in discussione il keynesismo, bensì a colmare una sua lacuna. Attribuendo alla Stato la funzione di stimolare la crescita per giungere ad una situazione di piena occupazione, Keynes ha trascurato la determinazione dei salari e dei prezzi ritenendola un fenomeno microeconomico spiegabile nell’ottica dell’ortodossia classica di mercato. In quest’ottica la spirale dei salari e dei prezzi non può verificarsi perché i produttori di merci sono soggetti a forze di mercato che si sottraggono al loro controllo. La concentrazione industriale che si realizza a partire dagli anni ’60 consente invece loro di influenzare i prezzi. Per risolvere il problema sarebbero state logicamente necessarie misure politiche atte a subordinare in misura più o meno rilevante il mercato all’autorità dello Stato. Di fatto qualche tentativo, non privo di successo, si realizza in alcuni paesi europei. Negli Stati Uniti questo è impossibile perché l’interferenza dello Stato (keynesiano) sul piano economico è già da tempo intollerabile per i liberisti.

In conseguenza di questo, la crisi viene interpretata come il fallimento del keynesismo e attribuita all’eccessivo potere contrattuale dei sindacati, piuttosto che all’esosità dei capitali, e il rimedio proposto è la nouvelle vague del liberismo: il monetarismo.

La teoria monetarista è stata formulata da Milton Friedman, assertore convinto del mercato concorrenziale classico e strenuo oppositore di ogni intrusione governativa regolatrice. Il principio fondamentale del monetarismo è che per controllare i prezzi basta controllare la liquidità: compito questo della Banca centrale e non del governo. E’ solo infatti la massa del liquido circolante che decide il livello della produzione e del tasso d’inflazione. Essa va regolata in maniera tale da rispettare la naturale tendenza del mercato verso l’equilibrio. Ma questa tendenza, contrariamente a quanto sostenuto da Keynes, non comporta una piena occupazione, bensì un tasso fisiologico di disoccupazione oscillante intorno al 5-6%. La piena occupazione, che rafforza il potere contrattuale degli operai e diminuisce quello dei capitalisti, sarebbe dunque la vera causa dell’inflazione.

Il controllo della liquidità non comporta alcuna interferenza sul piano della microeconomia, vale a dire sul piano della domanda e dell’offerta di mercato. L’ortodossia del mercato autoregolato è dunque salva. Esso inoltre non rende necessario alcun aumento delle tasse né alcuna riduzione della spesa pubblica. Infine, ha un vantaggio inestimabile, quello di non essere socialmente neutr: "Esso opera contro l’inflazione aumentando i tassi di interesse, i quali, a loro volta, mettono un freno ai prestiti bancari e alla risultante creazione di depositi, cioè di moneta. Gli alti tassi fanno molto piacere a persone e istituzioni che hanno denaro da prestare, le quali normalmente posseggono più denaro di coloro che non hanno denaro da prestare o, con molte eccezioni, di coloro che prendono a prestito il denaro… Nel favorire in questo modo individui ed enti ricchi, una politica monetaria restrittiva è in netto contrasto con una politica fiscale restrittiva, la quale, aumentando le imposte sui redditi delle persone fisiche e giuridiche svantaggia i ricchi." (p. 303)

E’ su questa base che viene lanciato, verso la fine degli anni ’70, un attacco radicale contro lo Stato assistenziale e l’ingerenza dei governi sul piano dell’economia. L’attacco fa breccia negli Stati Uniti, ove il liberismo progressivamente si afferma e si radicalizza, mentre trova non poche resistenze in Europa, laddove la necessità di una riforma del Welfare State non giunge mai a configurarsi come un suo completo smantellamento. La dottrina neoliberista, fatta propria da Ronald Reagan e da Margaret Tatcher, ha quattro obiettivi: limitare l’intervento dello Stato nell’economia, ridurre il controllo pubblico alla gestione della liquidità monetaria, diminuire le tasse favorendo la concentrazione dei capitali verso l’alto (la classe ricca), debellare la residua resistenza dei sindacati. All’enfatizzazione keynesiana della domanda, corrisponde l’enfatizzazione dell’offerta dei neoliberisti. Il problema centrale dell’economia ridiventa quello della crescita. Per assicurarla, occorre favorire la concentrazione dei capitali nelle mani di coloro che sanno usarli, fidando sul fatto che l’uso privilegi gli investimenti. La distribuzione dei redditi è affidata nuovamente al mercato, e l’assunto di fondo è che se la ricchezza si produce essa poi sgocciola verso gli strati della popolazione meno abbienti.

In quest’ottica, il socialismo, erede del comunismo, nel quale viene fatto rientrare arbitrariamente il keynesismo, viene demonizzato come fonte di tutti i mali dell’economia.

5.

I due capitoli finali del saggio rappresentano una sorta di bilancio della situazione della scienza economica alla metà degli anni ’80, quando esso è stato scritto e si avviavano il reaganismo e il tatcherismo. In essi Galbraith rileva il fallimento della previsione di Keynes di un progressivo superamento del modello classico: egli "non previde la fedeltà profonda degli economisti tradizionali verso i valori e i concetti classici e il modo in cui essi avrebbero continuato ad asserire la validità e importanza di fronte all’irruzione del nuovo. L’intensità del loro impegno deriva… dal fatto di essere al servizio di interessi professionali e di interessi economici più vasti, degli interessi costituiti il cui potere Keynes giudicava inferiore a quello delle idee." (p. 314)

Per un verso, gli economisti neoclassici aspirano a conseguire lo statuto di scienziati. In effetti, "l’assunto centrale dell’economia classica — la concorrenza pura del mercato, una concorrenza che va dai prezzi dei prodotti alla fissazione del prezzo dei fattori di produzione — si presta mirabilmente all’affinamento tecnico e matematico. Questo, a sua volta, viene verificato non attraverso la rappresentazione che dà del mondo reale bensì in relazione alla sua logica interna e alla competenza teorica e matematica che viene fatta valere nell’analisi e nell’esposizione. Da questo esercizio intellettuale chiuso, che è affascinante per coloro che vi partecipano, sono esclusi intrusi e critici, spesso per loro propria scelta, non avendo la necessaria qualificazione tecnica. E, cosa più significativa, è esclusa anche la realtà della vita economica, la quale purtroppo, nel suo variato disordine, non si presta a essere replicata con gli strumenti della matematica." (p. 315)

Per un altro verso, l’economia rimane legata all’ortodossia classica in virtù della sua subordinazione al potere dell’interesse economico. Secondo Galbraith, "la grande dialettica del nostro tempo non è, come si supponeva in passato e come alcuni suppongono ancora oggi, quella fra capitale e lavoro, bensì quella fra l’impresa economica e lo Stato. Forza lavoro e sindacati non sono più i nemici primari dell’impresa e di coloro che ne dirigono le operazioni. Il nemico, se si trascura il ruolo mirabilmente e pericolosamente remunerativo della produzione militare, è il governo. E’ il governo a riflettere gli interessi di un corpo elettorale che va molto oltre gli operai: un corpo elettorale composto da vecchi, dai poveri urbani e rurali, dalle minoranze, dai consumatori, dagli agricoltori, dagli ambientalisti, dai fautori dell’azione pubblica in settori così abbandonati a se stessi dai privati come quelli delle abitazioni, dei trasporti di massa e della sanità, da coloro che premono a favore dell’istruzione e dei servizi pubblici in generale. Alcune tra le attività così raccomandate pregiudicano l’autorità o l’economia dell’impresa privata; altre sostituiscono l’attività privata con quella pubblica; tutte, in misura più o meno rilevante, vanno a danno dell’impresa privata o dei suoi partecipanti. Il conflitto moderno è quindi fra impresa e governo. Per la difesa dell’impresa privata contro lo stato è di vitale importanza tener fermo al mercato classico. Se il mercato è in grado di funzionare in modo quasi ottimale, l’obbligo della prova ricade su coloro che raccomandano l’intervento o la regolamentazione pubblica…

La retorica del mercato del conservatorismo attuale è radicata saldamente e con grande efficacia nell’interesse economico; la fedeltà al mercato classico, il suo insegnamento e la sua diffusa presenza nella coscienza pubblica sono fortemente al servizio di tale interesse, e questa situazione ha una qualità teologica che si erge ben al di sopra di un qualsiasi bisogno di una prova empirica." (pp. 316-317)

Non v’è alcun dubbio, considerando anche gli sviluppi ulteriori, che una quota consistente di economisti liberisti perseguono, sotto l’egida della scienza, unicamente un prestigio e un successo personale, anche al prezzo di sacrificare il dubbio e di negare lo stato di cose esistente a livello di realtà sociale. Meno ancora si può dubitare della loro subordinazione e alleanza con il potere della classe ricca, vale a dire dei capitalisti. Non sembra però vero che il conflitto moderno si realizza tra impresa e governo piuttosto che tra capitale e lavoro. La formula marxiana, che Galbraith implicitamente contesta, riguarda il livello della produzione, laddove essa è tuttora tangibile. Ma Marx ha insistito troppe volte sul fatto che, in termini generali, il conflitto generato dal capitalismo interviene tra interessi privati e interessi generali, tra capitale e bisogni sociali. Il governo è contestato dalle imprese, e dagli economisti liberisti che portano acqua al loro mulino, quando e solo esso cerca di farsi carico dei bisogni sociali e di rispondere, in qualche modo, ad essi. E’ insomma il socialismo in qualunque sua forma che viene contestato dagli economisti liberisti. Se il governo, come accade oggi negli Stati Uniti, si fa rappresentante e difensore degli interessi privati, del capitalismo e delle classi ricche, esso viene sostenuto e sponsorizzato dalle imprese, non contrastato.

Galbraith è intellettualmente onesto. Di fronte all’evidenza delle cose, vale a dire dell’asservimento del potere politico a quello economico, che negli Stati Uniti sta configurando addirittura un regime plutocratico, tale per cui i rappresentanti politici del conservatorimo neoliberista non sono più espressione delle lobby, ma appartengono ad esse, anche Galbraith non riesce a dare a Marx quello che è di Marx.

6.

Nonostante la letteratura economica sia ricca di testi complessi nel loro tessuto concettuale e nel loro apparato matematico, la storia dell’economia di fatto è irretita, dall’inizio ad oggi, dal problema del buon uso delle risorse. La stessa definizione dell’economia, come lo studio del modo in cui le società utilizzano risorse scarse per produrre beni utili e di come tali beni vengono distribuiti tra i diversi soggetti, lo conferma. Samuelson, identificando nella produzione il momento centrale del’attività economica, riconduce quel problema a tre semplici quesiti: cosa produrre? come produrre? per chi produrre? I primi due quesiti riguardano l’efficienza dell’economia, il terzo l’equità della distribuzione della ricchezza. Come riesce chiaro dal saggio di Galbraith, l’economia classica (o neoclassica) s’interessa quasi esclusivamente dell’efficienza, dando per scontato che la distribuzione avviene, per effetto del mercato, sulla base del merito o del demerito. Essa è dunque eminentemente positiva, in quanto descrive lo stato di cose esistente e cerca di ricavarne leggi di validità universale (che la giustifichino). L’economia progressista, socialdemocratica o socialista, viceversa, è sempre molto attenta al problema dell’equità. Pur non difettando di validi strumenti concettuali, essa ha avuto sempre un orientamento normativo, incentrato sulla giustizia sociale.

Qualcuno, e Galbrigth è tra questi, ritiene che l’efficienza e l’equità non siano dimensioni incompatibili, e che il superamento del conflitto tra liberismo e socialismo debba avvenire in nome dell’integrazione di ciò che ciascuno di essi ha di positivo. Delineatosi con nettezza nel corso degli anni ’90, quest’istanza ha preso il nome di Terza Via. Essa però deve fare i conti con ciò che è avvenuto nello stesso periodo in cui è stata formulata. Se una lezione si può trarre dagli ultimi anni è che il liberismo, non appena si affranca dal controllo dello Stato o dalla minaccia di una tensione sociale legata alla protesta dei ceti meno abbienti, riprende la sua corsa verso una distribuzione iniqua della ricchezza a livello interno e a livello internazionale. La teoria liberista può anche risultare, nella sua formulazione astratta matematica, affascinante: essa rimane però socialmente e moralmente riprovevole. L’equilibrio del mercato che essa propugna è sempre un po’ troppo spostato dalla parte dei ricchi. Quel che è peggio, oggi, è che l’ideologia liberista conferma che questo spostamento è nell’ordine naturale delle cose…

Dicembre 2004

P. S.

Gli sviluppi dell’economia negli ultimi anni rivestono un particolare interesse. Essi saranno analizzati ulteriormente sulla scorta di un recente libro di Joseph Stiglitz: I ruggenti anni ’90.