Capitolo nono

La collusione

1.

1. Il termine collusione ha la medesima radice di delusione, il-lusione ed e-lusione. La radice «lusione» deriva originariamente dal participio passato del verbo ludere il cui significato varia sia nel latino classico che in quello tardo. Esso può voler dire giocare, giocare a, oppure praticare uno sport, deridere, ingannare.

La delusione implica un totale autoinganno. L'illusione, nell'accezione in cui viene frequentemente usata dagli psicoanalisti, implica la capacità di ingannarsi sotto la spinta di un forte desiderio, senza però presupporre un autoinganno così totale come la delusione.

Io mi propongo di adoperare il termine collusione con entrambe le sfumature di «giocare a» e di «ingannare». Collusione significa quindi un «gioco» giocato da due o più persone, mediante il quale esse ingannano se stesse, un gioco, insomma, che implica un autoinganno reciproco. Mentre delusione e illusione sono termini che possono essere riferiti a una sola persona, la collusione è necessariamente un processo transpersonale o interpersonale.

La collusione, nel senso da me inteso, sarà riferita a quelle manovre interpersonali in cui si esprime una cooperazione fra l'io e gli altri, vale a dire a quei processi interpersonali in cui ciascuno gioca volontariamente al gioco altrui, magari senza rendersene completamente conto. Quando una persona è prevalentemente « vittima» di un trucco, di una manovra o di una manipolazione, il rapporto esistente in tal caso non verrà chiamato di tipo collusivo. Naturalmente, sarà difficile in molti casi determinare se un rapporto è collusivo o no. Per esempio, uno schiavo può avere un rapporto di collusione col proprio padrone nella misura in cui fa lo schiavo per aver salva la vita, perfino al punto di eseguire ordini che sono distruttivi della sua autentica umanità.

Quando due persone sono in relazione, ciascuna di esse può mutualmente confermare l'altra o far da genuino «complemento» dell'altra. D'altra parte, esporsi alle richieste altrui implica sia sicurezza di sé che fiducia nell'altro. Benché il desiderio di una risposta confermativa da parte dell'altro sia presente in ognuno, spesso accade che la persona presa fra fiducia e sfiducia, sicurezza e disperazione, si risolva a compiere falsi atti di conferma su una base di simulazione. Buber (1957b) ci chiede di:

... immaginare due uomini, la cui vita sia dominata da apparenze, seduti a chiacchierare fra loro. Chiamiamo il primo di essi Pietro [P] e il secondo Paolo [A] Elenchiamo le differenti configurazioni implicate da una situazione di questo tipo. Prima di tutto c'è Pietro così come egli desidera apparire a Paolo [(P —> (A —> p)] e Paolo così come egli desidera apparire a Pietro [(A —> (P —> A)]. Poi c'è Pietro così come egli appare realmente a Paolo, vale a dire l'immagine che Paolo ha di Pietro [(A —> P : P (A —> P)], la quale in generale finisce per non coincidere con ciò che Pietro vorrebbe che Paolo vedesse; lo stesso dicasi per la situazione inversa [P —> A : A —> (P —> A)]. Inoltre, c'è Pietro così come egli appare a se stesso [(P —> P)], e Paolo così come appare a se stesso [(A —> A)]. Infine, ci sono il Pietro corporeo e il Paolo corporeo: due esseri viventi e sei apparizioni- fantasma che si mescolano in molti modi nel corso della conversazione fra i due. In che modo può aversi una genuina vita interumana?

Se consideriamo questa situazione come falsificazione di un sistema di rapporti genuini, possiamo vedere come sia Pietro che Paolo cerchino di stabilire una propria identità attraverso il raggiungimento di una particolare identità agli occhi dell'altro. Il bisogno di un'operazione di questo tipo dipende per Pietro (P) dalla misura in cui egli ritiene necessario che Paolo veda lui (P) in una luce particolare, affinché egli stesso (P) possa sentire di essere la persona che vuole essere. Può darsi che Pietro senta di aver bisogno che Paolo sia una certa persona, affinché egli (P) abbia l'opportunità di essere la persona che desidera essere. Affinché Pietro possa sperimentare se stesso come visto in una luce particolare, Paolo deve essere la persona capace di vederlo in questa luce. Se Pietro ha bisogno di essere apprezzato, Paolo deve essere visto come qualcuno in grado di apprezzarlo e che di fatto lo apprezza. Se Paolo chiaramente mostra di non apprezzarlo, Pietro sarà fortemente motivato a congetturare che Paolo non è il tipo di persona in grado di farlo. Se per Pietro è necessario essere una persona generosa, Paolo deve essere il tipo di persona capace di essere la persona in grado di accettare la generosità di Pietro. Se Paolo, invece di essere grato a Pietro per ciò che questi gli dà, risponde dicendo che Pietro desidera soltanto far mostra della propria superiorità atteggiandosi a persona che può dare, o dicendo che egli cerca di ricattarlo obbligandolo ad essergli grato, ecc., Pietro con ogni probabilità tenterà di rompere i ponti con Paolo o scoprirà che Paolo ha difficoltà a lasciarsi aiutare. La posizione qui viene complicata poiché Pietro può essere visto da Paolo o Paolo da Pietro con termini più reali di quelli in cui egli, Paolo, è capace di vedere se stesso. Precedente rispetto al bisogno di ricorrere ad apparenze è il livello di fantasia dell'esperienza dell'io e dell'altro. Il bisogno di apparenze implica non che entrambi nascondono il loro «vero» io, da essi segretamente conosciuto, bensì che né Pietro è giunto ad ima genuina comprensione di se stesso o di Paolo, né Paolo ad una genuina comprensione di se stesso o di Pietro.

Esistono molte reazioni, finora relativamente inesplorate dalla psicologia interpersonale, all'essere visti, non come si presume di essere, ma come gli altri ci vedono. Laddove ci sia una disgiunzione fra l'autoidentità di una persona (P —> P) e la sua identità-per-l'altro (A —> P), non è quindi sorprendente se P reagisce con rabbia, angoscia, senso di colpa, disperazione, indifferenza. Una disgiunzione di questo tipo può alimentare un rapporto: essa appare come il cemento che lega insieme in uno stato di schiavitù certe persone, costituendo «l'appiglio» reciproco a cui esse ricorrono continuamente in modo coatto l'una verso l'altra. In altri casi, alcune persone messe di fronte a una situazione di questo tipo preferiscono abbandonare semplicemente il rapporto.

Questo appiglio è strettamente connesso alla situazione che si crea allorché esistano discrepanze fra il tipo di «complemento» che P può desiderare di essere per A, e il tipo di « complemento» che A può desiderare di essere per P. Per esempio, un uomo può desiderare che la moglie gli faccia da madre, mentre questa può desiderare che sia lui a far da madre a lei. Da questo punto di vista i loro bisogni possono non «combaciare» o non essere reciprocamente compatibili. Queste due persone possono odiarsi o disprezzarsi a vicenda, ovvero mostrare una reciproca comprensiva tolleranza. Possono entrambe rendersi conto del bisogno dell'altro senza però riuscire a soddisfarlo. Tuttavia, se l'uomo insiste nel vedere la moglie e nel comportarsi verso di lei come se questa fosse sua madre, restando insensibile al fatto che essa si senta invece una bambina, la disgiunzione fra il concetto che l'uomo ha della moglie e l'esperienza che costei ha di se stessa può sclerotizzarsi in una discrepanza impossibile a colmarsi mediante una collusione.

In questi casi si denota qualcosa di diverso rispetto al termine psicoanalitico di «proiezione». Una delle due persone non desidera semplicemente che l'altra gli faccia da gancio a cui appendere le sue proiezioni. Il nostro uomo si sforza di trovare nell'altro, o di indurre l'altro a diventare, la personificazione vera e propria di quell'altro la cui cooperazione gli è necessaria come «complemento» dell'identità particolare che egli (P) si sente costretto a mantenere. L'altro, in tali circostanze, può sperimentare una particolare forma di senso di colpa che, a mio parere, è del tutto specifica di questo tipo di disgiunzione. Se egli non si lascia attrarre in un rapporto di collusione, si sentirà colpevole di non essere o di non diventare la personificazione del complemento richiesto dall'identità che P ha autonomamente adottato. Se però egli soccombe, se viene sedotto, può venire estraniato dalle sue autentiche possibilità personali, diventando in tal caso colpevole di tradimento verso se stesso.

Se non si spaventa sperimentandosi come inghiottito dall'altro, se non si irrita venendo «usato », o se non si ribella in qualche altro modo ad essere coinvolto in un rapporto di collusione, può accadere che, sotto la spinta di un falso senso di colpa, egli diventi, e senta egli stesso di diventare, complice o vittima dell'altro, benché fare «la vittima» possa rappresentare nient'altro che il suo atto di collusione. Ma l'altro può indurlo a assumere quel falso io che egli stesso (P) desidera ardentemente di essere e che è fin troppo contento di personificare, specialmente se l'altro è preparato a ricambiarlo personificando una finzione da lui (P) desiderata. Lasceremo tuttavia da parte per il momento un esame più dettagliato delle varie forme e tecniche di attrazione o coercizione, aperta o nascosta, coerente o incompatibile, che p può mettere in atto verso a, e dei modi assai vari che a può sperimentare ed a cui può reagire.

La collusione viene cementata allorché p trova quell'altro capace di «confermare» p nella posizione di fantasia che p stesso cerca di rendere reale, e viceversa. In questo caso si prepara il terreno per una reciproca, prolungata elusione della verità, dell'appagamento e della realtà. Ciascuno ha trovato un altro disposto ad avallare la propria nozione di se stesso elaborata in fantasia ed a prestare a questa finzione ima certa sembianza di vita.

Una coppia collusiva è sempre suscettibile di andare incontro a qualche situazione di instabilità e talvolta può diventare un vero e proprio inferno.

Sartre (1943) ha basato un suo lavoro teatrale, Huisclos, sull'agonia prodotta dalla mancata conservazione della propria identità allorché si sia progettata la propria vita come un'identità basata sulla collusione. Tre morti, un uomo e due donne, si trovano insieme in una stanza. L'uomo è un codardo; una donna è una lasciva eterosessuale, l'altra una esperta lesbica. Il timore principale dell'uomo è di essere un codardo e, più in particolare, di non poter essere rispettato dagli altri uomini. Il principale timore della donna eterosessuale è di non essere attraente per gli uomini, quello della lesbica di non avere l'amore delle donne. L'uomo ha bisogno preferibilmente di un altro uomo o, tutt'al più, di una donna intelligente che gli accordi il riconoscimento di cui non può fare a meno per sentirsi coraggioso. Egli è disposto ad essere, per quel che può, tutto ciò che ognuna di queste due donne desidera che egli sia, a patto che esse entrino con lui in un rapporto di collusione dicendogli che è coraggioso.

La prima donna, tuttavia, è capace di vedere in lui solo un oggetto di soddisfazione sessuale, precisamente ciò che egli non si sottomette ad essere. D'altra parte egli è incapace di dare alla lesbica ciò che essa vuole, tranne la propria codardia che essa vuol trovare negli uomini al fine di giustificare se stessa. Le due donne sono ugualmente incapaci di trovare qualcuno con cui entrare in collusione: la lesbica, poiché si trova con un uomo e una donna eterosessuale; quest'ultima, poiché non sa essere una donna eterosessuale senza «significare » qualcosa per un uomo. Ma l'uomo in questione non ha alcun interesse per lei. Incapaci di conservare la loro «malafede» verso se stessi mediante una collusione con un'altra persona, ciascuno di essi resta tormentato dall'angoscia e dalla disperazione che ossessionano la loro vita. In una situazione come questa: «L'enfer, c'est les autres».

Genêt (1956), in Le balcon, ha ripreso il tema dei falsi rapporti basati su congiunzioni collusive di identità- per-sé e identità-per-l'altro, sviluppandolo in modo originale. La maggior parte dell'azione si svolge in un bordello. Le ragazze del bordello sono presentate come pro-stitute, in senso letterale. Esse assumono qualsiasi ruolo (pro-stare) che il cliente desideri loro attribuire, diventando così per un po' di tempo quel personaggio che egli vuole essere. Tre siffatte identità, per le quali è necessaria la collusione degli altri rappresentati dalle prostitute, sono il Vescovo, il Giudice e il Generale. Il Vescovo ha bisogno di un penitente da condannare e di un boia per eseguire i suoi ordini; il Giudice di un ladro, il Generale del suo cavallo.

Il Giudice spiega alla ragazza che deve fare il ladro per lui e che lo deve vedere come giudice: «Tu devi diventare un ladro modello perché io possa essere un giudice modello. Se tu sei un falso ladro, io divento un falso giudice, chiaro?».

Rivolto al boia gli dice: «... senza di te io non sarei nulla...».

E quindi al ladro: «... e senza di te, lo stesso, figlio mio. Voi siete i miei due perfetti complementi. Ah, che bel terzetto facciamo!» Rivolto al ladro:

Giudice Ma tu, tu hai un privilegio che egli non ha e che neppure io posseggo, quello della priorità. Il mio essere giudice è un'emanazione del tuo essere ladro. Basterebbe solo che tu rifiutassi — ma guai a te! — basterebbe solo che tu rifiutassi di essere quello che sei, e io finirei di essere ... svanirei come fumo. Volatilizzato. Negato. Dunque, figlio di una... Cosa? Cosa? Non vorrai mica rifiutarti, non vorrai mica rifiutarti per caso di fare il ladro? Sarebbe una cattiveria, un gesto criminale. Mi priveresti dell'essere! (Implorante) Dillo, figliolo, caro, non ti rifiuterai mica?

Ladro (timidamente) Potrei.

Giudice Come dici? Ti rifiuteresti? Dimmi dove e ripetimi che cosa hai rubato. ladro (bruscamente ed alzandosi) No. giudice Dimmi dove. Non essere crudele...

Ladro Il suo tono diventa troppo familiare. Non glielo dico!

Giudice Miss... Madame. La prego. (Si getta ai suoi piedi) Guardi, la imploro. Non mi lasci in questo stato, in attesa di essere un giudice. Se non ci fossero giudici, che cosa sarebbe di noi; e ancora peggio, se non ci fossero ladri?

In altre parole, la gente usa il bordello per trasformare quella che singolarmente sarebbe solo una identità illusoria o delusoria in una identità collusiva. Madame elenca le «identità» per le quali i suoi clienti frequentano abitualmente il bordello.

Ci sono due re di Francia con cerimonie d'incoronazione e rituali vari, un ammiraglio sulla tolda del suo cacciatorpediniere sul punto di affondare, un vescovo durante l'adorazione perpetua, un giudice nell'esercizio delle sue funzioni, un generale a cavallo, un ragazzo algerino in atto di arrendersi, un pompiere che spegne un incendio, una capra legata a una palizzata, una casalinga di ritorno dal mercato, un borsaiolo, un uomo derubato che viene legato e bastonato ben bene, un San Sebastiano, un agricoltore nella stalla ... ma nessun capo della polizia ... nessun amministratore coloniale, sebbene vi sia un missionario morente sulla croce e Cristo in persona.

C'è comunque una persona che non frequenta il bordello per diventare qualcun altro: il Capo della polizia. Ciò dipende dal fatto che egli si sentirebbe completamente appagato il giorno in cui un'altra persona desiderasse assumere la sua identità, volendo diventare Capo della polizia. Egli soffre perché non appare nessuno disposto a giocare ad essere lui. Infatti, fino a quel momento, nella storia del bordello la sua è l'unica identità per la quale non si sia presentato alcun cliente. Tutti gli altri esseri umani sono suoi « complementi», che a essi piaccia o no. Ciò non lo soddisfa più. Nella commedia egli è l'unico a non desiderare di assumere l'identità di un altro. Egli sente che sarà appagato, e perciò disposto a morire, solo il giorno in cui un altro si identificherà con lui.

Il mondo del bordello viene sconvolto dalla Rivoluzione, la Rivoluzione per porre fine all'illusione e alla collusione, la Rivoluzione per diventare se stessi, essere seri, essere ciò che si è. Una delle ragazze del bordello è fuggita per diventare l'amante di Roger, il capo della Rivoluzione. Ma la sua vocazione è quella di fare la pro-stituta. Essa in certo quai modo non ha l'abilità di fare semplicemente quello che fa. È incapace di compiere un atto per se stesso. Se fascia una ferita, non può fare a meno di recitare a fasciare una ferita, sia che lo faccia con tenera sollecitudine sia che impieghi maniere rozze e sbrigative. I capi della Rivoluzione riconoscono che la gente ha bisogno di essere spinta a combattere e a morire. Hanno bisogno di qualche emblema, non possono mantenere in vita la loro rivolta senza qualche illusione. Decidono perciò di servirsi di Chantal, la ragazza del bordello, che è nata per incarnare le illusioni degli uomini: essa è un simbolo vivente. Roger si oppone in linea di principio a questo uso di Chantal, ma viene sopraffatto. Un membro del Comitato rivoluzionario gli si rivolge con queste parole:

Luke I tuoi discorsi non mi impressionano. Continuo a sostenere che in certi casi è necessario servirsi delle armi del nemico. È indispensabile. Entusiasmo per la libertà? È una bella cosa, non lo nego, ma sarebbe ancora più bella se la libertà fosse una graziosa ragazza con una voce calda. Dopo tutto, che cosa t'importa se andiamo all'assalto delle barricate seguendo una femmina come una muta di maschi in calore? E se i gemiti dei morenti sono gemiti di vita?

Roger Gli uomini non si ribellano per cacciare una femmina.

Luke (caparbiamente) Anche se la caccia li porta alla vittoria?

Roger In tal caso la loro vittoria nasce già compromessa. È una vittoria già impestata, per usare il tuo linguaggio...

Chantal personifica in effetti tutto ciò che Roger tende a distruggere. Eppure egli ama in lei proprio ciò che le ha permesso di entrare in un bordello, vale a dire la sua capacità di simboleggiare e incarnare per gli uomini quello per cui essi desiderano vivere e morire.

Chantal Il bordello mi è almeno servito a qualcosa, poiché mi ha insegnato l'arte di simulare e recitare. Ho dovuto recitare tanti ruoli che ormai so quasi tutto di essi. E ho avuto tanti compagni...

La capacità di Chantal in questo senso è troppo grande perché i capi rivoluzionari non vogliano trarne profitto.

Mark Ci serviremo di Chantal. Il suo compito è quello di personificare la rivoluzione. Compito delle madri e delle vedove è piangere i morti. Compito dei morti è gridare vendetta. Compito dei nostri eroi è morire col sorriso sulle labbra... 11 Palazzo verrà occupato stasera. Dal balcone del Palazzo Chantal solleverà il popolo e canterà. Il tempo di ragionare è finito; ora è il momento di mettercela tutta e di combattere come pazzi. Chantal personifica la lotta; il popolo aspetta lei per rappresentare la vittoria.

Roger E quando avremo vinto, che cosa avremo guadagnato? mark Ci sarà tempo per pensarci.

Diventa chiaro che la serietà iniziale della Rivoluzione si trasforma in canti e in una specie di carnevale. Così si esprime l'inviato della Regina, che ha avuto stretti rapporti col mondo del bordello:

Non metto in dubbio il loro coraggio o la loro intelligenza, ma le mie spie sono in mezzo alla rivoluzione e in alcuni casi sono veri e propri ribelli. Ora, il popolino, stordito dalle prime vittorie, ha raggiunto quel punto di esaltazione in cui si abbandona a cuor leggero il combattimento per non affrontare inutili sacrifici. Sarà facile prenderli in trappola. La gente non si impegna in battaglia, ma si abbandona alla baldoria.

Quando si ha quasi l'impressione che, nonostante tutto, la Rivoluzione abbia trionfato, poiché la Regina, il Vescovo, il Giudice e il Generale sono stati uccisi o sono scomparsi, se pure sono mai esistiti, l'inviato della Regina persuade Madame a vestirsi da regina e tre clienti a camuffarsi da Vescovo, da Giudice e da Generale. Così abbigliati, fanno la loro apparizione al balcone del bordello. Attraversano in macchina la città, vengono fotografati dai giornalisti e intervistati. Mentre ognuno di questi clienti aveva pagato una prostituta per recitare il medesimo ruolo insieme a lui, per avere con lui un rapporto di collusione, per fare il peccatore di fronte al Vescovo, il ladro di fronte al Giudice, il cavallo per il Generale, quando tutto il popolo risponde al primo come Vescovo, al secondo come Giudice, al terzo come Generale, il falso Vescovo diventa un vero Vescovo, il falso Giudice un vero Giudice, il falso Generale un vero Generale. Allo stesso modo la Regina diventa Regina davvero, nello stesso senso almeno in cui ogni persona è o può sempre essere Vescovo, Generale, Giudice o Regina.

L'eroe della commedia è il Capo della polizia. Il Capo della polizia non è mai stato finora impersonato; tuttavia egli sente che quando avvertirà una certa debolezza nei muscoli ciò sarà il segno che è arrivato il momento di smettere di recitare, di appartarsi e di aspettare tranquillamente la morte. Egli viene presentato come l'unico uomo che agisca veramente nel corso della commedia. Gli altri, se fossero stati logici, avrebbero dovuto ammettere che, anche se erano ciò che erano, Vescovo, Giudice, Generale, tuttavia erano sempre degli impostori. Ecco come li apostrofa il Capo della polizia:

Capo della polizia Non avete mai compiuto un atto per se stesso, ma sempre in maniera tale che, connesso ad altri atti, esso rappresentasse un Vescovo, un Giudice, un Generale...

Vescovo Ciò è vero e falso allo stesso tempo, poiché ciascun atto conteneva in sé il suo lievito di novità.

Capo della polizia (correggendolo) Mi perdoni, Monsignore, ma questo lievito di novità veniva immediatamente annullato dal fatto che l'atto si risolveva in se stesso.

Giudice Con ciò abbiamo acquistato maggiore dignità.

Al Capo della polizia non viene negato il suo bravo lieto fine. Egli ha infatti la soddisfazione di vedere, prima che la commedia finisca, il capo della Rivoluzione, Roger, recarsi al bordello ed esprimere, primo fra tutti gli uomini, il desiderio di essere il Capo della polizia. Per diventarlo, egli deve entrare in un mausoleo per costruire il quale tutto il popolo ha dovuto lavorare in condizioni schiavistiche; in esso egli trova tombe racchiuse in tombe, cenotafi in cenotafi, bare dentro bare. Ovunque regna un silenzio mortale, ovunque è presente solo il gelo della morte insieme ai gemiti degli uomini che hanno lavorato come schiavi per scolpire la pietra su cui è attestato che egli è amato ed è un conquistatore.

Genêt lascia aperta la questione se sia possibile o no, e in caso affermativo in che senso, nient'altro che un rapporto basato sulla finzione collusiva. Forse è possibile «vedere le cose come sono, guardare il mondo con occhio tranquillo ed accettare la responsabilità di questo sguardo, qualunque cosa esso possa offrirci». Ma l'ultima parola è di Madame:

Irma In quattro e quattr'otto devo ricominciare tutto da capo... riappendere tutti i lampadari... abbigliarmi di nuovo (canta un gallo). Abbigliarmi di nuovo... ah, i travestimenti! Distribuire ancora una volta i vari ruoli... assumere il mio... (si ferma in mezzo al palcoscenico, rivolta verso il pubblico). Preparare i vostri... giudici, generali, vescovi, ciambellani, ribelli che lasciano congelare la rivolta. Vado a preparare i miei costumi e i teatri di posa per domani...

Voi ora dovete andare a casa, dove ogni cosa — potete esserne assolutamente certi — sarà persino più falsa che qui... Ora dovete andare. Uscite a destra, per il vialetto... (spegne l'ultima luce). È già mattina. (Una raffica di mitragliatrice).

2

1  temi trattati da Sartre e Genêt nelle due opere sopra citate hanno per base di osservazione l'uomo comune colto in ogni momento della sua vita. Quelli che riporterò qui di seguito sono alcuni esempi, ricavati da un gruppo analitico, della ricerca tendente a trovare nell'«altro» il «complemento» indispensabile per mantenere una identità basata sulla collusione. (I dati sui quali si basa questa narrazione sono tratti da una registrazione integrale di sedute di gruppo.)

Il gruppo era composto da sette uomini, di età variante fra i venticinque e i trentacinque anni. Tranne un'eccezione, erano tutte persone della classe media, ben sistemate professionalmente. Jack era proprietario di un'autorimessa; Bill lavorava nella drogheria paterna; l'eccezione era Richard, che era stato bocciato a un numero imprecisabile di esami e che attualmente viveva con la madre, tentando di recuperare energie per compiere un ulteriore sforzo e diventare ragioniere.

Nelle prime sedute il gruppo supponeva di essere stato costituito per dipendere dall'analista. Egli in pratica avrebbe dovuto dir loro che cosa fare, fare domande, dare consigli. Quando invece l'analista si chiuse nel silenzio o si limitò a fare qualche osservazione sulla situazione, essi decisero, per suggerimento di Jack che aveva l'aria di essere il più indipendente di tutti, che l'analista doveva rimanere in attesa per aiutarli e che il modo migliore di aiutarlo ad aiutarli era quello di parlare di sé. Egli assunse perciò il ruolo di leader, facendo domande, inducendo i pazienti a parlare, dirigendo la discussione sul tema delle difficoltà incontrate con le donne, allentando le tensioni e parlando un po' delle sue sensazioni, soprattutto per quanto riguardava le donne. Tutto il gruppo si appassionò a questo tipo di trattamento, ad eccezione di Bill. Egli parlava agli altri di propria iniziativa ma non con eccessiva libertà e non si rivolgeva mai spontaneamente a Jack. Quando per caso Jack gli faceva una domanda, egli rispondeva laconicamente. Jack dava l'impressione di essere leggermente imbarazzato per il fatto che Bill non rispondeva come gli altri alla sua guida.

Durante la quinta seduta, si sviluppò la solita discussione sulle donne: la conduceva Jack e tutti vi parteciparono tranne Bill. Questi, in modo apparentemente del tutto gratuito, irruppe nella discussione per esprimere con foga tutta la sua antipatia per il gioco del calcio e per le folle che andavano ad assistervi. Era un gioco stupido e coloro che facevano il tifo per esso erano altrettanto stupidi ed egli non voleva aver nulla in comune con essi. (Si sapeva che tutti gli altri membri del gruppo andavano alle partite. Anche Jack vi si recava ma non, come egli disse, per il gioco in sé, quanto perché voleva essere «uno dei ragazzi»). Bill seguitò parlando di come gli stesse a cuore incontrare qualcuno con interessi comuni ai suoi, che condividesse il suo interesse per l'arte, che non fosse uno dei soliti imbecilli senza sugo, come, primo fra tutti, suo padre che non era in grado di apprezzare il suo vero valore. Jack lo interruppe osservando che gli artisti amano discutere fra loro di arte. Bill disse: «Sì, io sono prevalentemente un artista, mi piace occuparmi di arte a tempo perso». Jack allora osservò che anche i tifosi di calcio amano parlare di calcio, ma Bill fece finta di non sentire e seguitò a parlare della comprensione della pittura. Jack disse allora che solo le persone molto colte potevano realmente apprezzare l'arte. Era un'osservazione decisamente scoraggiante per Bill, il quale era molto sensibile per quanto riguardava l'assenza in lui di ogni formazione scolastica. Fu tuttavia possibile stabilire un precario rapprochement quando, dietro suggerimento di Jack, tutti convennero che chiunque poteva apprezzare la musica.

Bill desiderava vedersi ed essere visto come una persona superiore, di gusto superiore alla media, ma non fu mai capace di togliersi di-dosso l'impressione di non significare nulla per coloro che realmente contavano per lui. Egli credeva di non poter mai diventare «realmente» qualcuno poiché, qualunque cosa avesse fatto, era pur sempre formato della stessa carne e dello stesso sangue dei suoi genitori, ed essi erano «gente vuota», come egli li definiva, «stupidi e senza interesse». A suo parere, però, l'analista possedeva tutti gli attributi dell'«altro» ideale. L'analista era forte, colto, intelligente e capace di apprezzare il valore delle cose. Sfortunatamente, all'analista egli attribuiva anche la capacità di distinguere il vero dal falso. Disperando di poter essere una persona genuina coi suoi soli mezzi, si sentiva vuoto e perciò bisognoso di «ricevere» qualcosa dall'analista. Egli espresse sovente il suo disappunto per il fatto che, «secondo questa tecnica », l'analista non gli desse di più. L'analista, come «altro ideale», era perciò anche causa di frustrazione e di insoddisfazione. La sua «tecnica» era «deprimente», «vuota, stupida e senza interesse». Nella sua disperazione di poter essere se stesso, egli vedeva sempre più l'analista come un essere denso, opaco, che personificava nel suo essere tutto ciò che mancava al suo. Il pene dell'analista divenne per lui l'emblema di tutti gli attributi dell'analista, che egli desiderava ardentemente di incorporare in sé. Questa situazione si espresse in passivi desideri omosessuali rivolti all'analista, da lui rivelati in una lettera all'analista stesso. Gli altri del gruppo evitavano un potenziale orientamento omosessuale passivo verso l'analista seguitando a considerarsi accuratamente uomini, per i quali l'altro importante era sempre una donna. Per dirla diversamente, la loro terrorizzata evocazione della presenza delle donne — quantunque si trattasse, beninteso, della presenza della loro assenza — era una « difesa» contro affioranti tensioni omosessuali all'interno del gruppo.

Alla pari di Bill, Jack era convinto che i suoi genitori non gli avessero dato nulla, o che gli avessero dato insufficientemente, oppure dato solo cose sbagliate. Égli, tuttavia, era pieno di aspirazioni a diventare un buon marito e un buon genitore, oltre che un buon paziente. Voleva dare continuamente, ed aveva già manifestato questo suo bisogno attraverso il ruolo che si era assunto nel gruppo. Ciò nonostante, con suo sgomento aveva dovuto constatare che veniva sviluppandosi in lui un forte risentimento verso le persone da lui «amate», cioè verso le persone alle quali si sentiva spinto a dare. Egli definì la sua «nevrosi» come l'incapacità di smettere di odiare coloro che amava.

Questi due uomini, Bill e Jack, cominciarono a stabilire fra di loro un rapporto collusivo, basato sulla «conferma» reciproca in una posizione falsa. Bill veniva «confermato» da Jack sia nella sua illusoria superiorità che nel suo falso presupposto di essere «essenzialmente» un uomo senza pregio; Jack, a sua volta, veniva confermato nella sua illusione di essere un «donatore». La conferma collusiva da parte di una persona del falso io dell'altro è esattamente l'opposto di una reciproca genuina conferma. Il loro rapporto era la falsificazione di una vera amicizia. Jack si considerava un uomo d'affari indipendente, testardo, pratico e realizzatore, oltre che un uomo estremamente eterosessuale, benché, di fatto, le donne fossero per lui semplicemente quelle astratte presenze di cui parlava coi «ragazzi»: non aveva debiti con nessuno ed era molto generoso.

Bill sognava luoghi lontani in cui le cose potessero essere belle e la gente fosse più fine. Per lui tutti erano rozzi e volgari, completamente all'oscuro di cose meno banali.

Qualcuno si domanderà che cosa Jack poteva dargli di ciò che desiderava, o viceversa.

Una cosa risultava chiara standoli a sentire, che cioè, quando parlavano insieme, Jack non era più «Jack» (così come egli vedeva se stesso) né Bill era più «Bill» (così come egli vedeva se stesso). Ciascuno di loro tendeva a «confermare» l'altro nella sua illusoria identità. Ciascuno nascondeva all'altro ciò che avrebbe interrotto questo rapporto. In breve, questa situazione durò fino a quando Bill non cominciò a dar segni di avere attrazione sessuale verso Jack. Questo per Jack era inaccettabile.

Il gruppo si comportava «come se» gli accoppiamenti fossero di natura sessuale e con ciò stesso negava che ciò potesse avvenire realmente, insieme a tutti gli altri aspetti della collusione che i pazienti preferivano non rilevare. A un certo punto Jack chiese a Bill a che cosa pensava mentre si masturbava. Bill disse, dopo qualche insistenza da parte di Jack, che talvolta pensava ad un uomo. Jack ribatté prontamente che egli pensava sempre a delle donne e immediatamente volle accertarsi che anche gli altri facessero lo stesso. Questo era il suo modo di annientare Bill; anche a ciò si dovette se la collusione finì, benché lo stesso rifiuto fosse in se stesso un elemento della collusione. Per Jack 1'«altro» sessuale doveva essere di sesso femminile e, per quanto riguardava lui, era incapace di rappresentare l'altro sessuale per un uomo.

Ciascuno degli altri membri del gruppo reagì a modo suo a questa fase del rapporto. La più chiara espressione di angoscia fu quella fornita da un uomo persuaso che i suoi genitori si fossero danneggiati a vicenda e che aveva paura di far male alla moglie. Egli era particolarmente sensibile all'atteggiamento aggressivo di Jack verso Bill. Per esempio, durante uno dei loro scambi di parole piuttosto sadomasochistici, in cui Jack rinfacciava a Bill di non andare alle partite di calcio, quest'uomo si intromise dicendo che si sentiva assai debole, come gli era capitato di sentirsi la sera prima mentre assisteva ad un incontro di pugilato alla televisione, allorché uno dei pugili aveva sferrato all'altro un colpo terribile.

Richard era l'unico del gruppo che sembrava desiderare una continuazione illimitata della collusione. Era un individuo estremamente schizoide. Una volta, di recente, aveva abbandonato i libri per passeggiare nel parco. Era una bella sera di primo autunno. Quando si fu seduto a osservare gli innamorati insieme e il sole al tramonto, cominciò a sentirsi «una cosa sola» con tutta la scena circostante, con l'intera natura, con il cosmo. Si alzò e corse a casa in preda al panico. Fu per lui un sollievo quando «tornò» di nuovo «in sé». Per Richard era possibile conservare l'identità solo nell'isolamento. Ogni tipo di rapporto era per lui una minaccia di perdita della propria identità, implicava per lui il rischio di essere inghiottito, fuso, sommerso, e di perdere la propria distinta individualità. Egli era capace di essere solo a contatto con se stesso, ma la vista della gente riunita insieme lo affascinava. A lui, così remoto da ciò che gli era a portata di mano, quel che vedeva sembrava così impossibile da non permettere di giudicarlo geloso o invidioso in senso stretto. Il suo io interiore era vuoto ed egli desiderava ardentemente di essere insieme a qualcuno. Tuttavia sentiva di non poter essere una persona separata se si fosse attaccato a qualcun altro. Se lo avesse fatto, sarebbe diventato un mollusco o una sanguisuga, com'egli diceva. Egli era «al di fuori» della vita. Poteva essere solo uno spettatore. Quando Jack gli pose una domanda «oggettivamente» inoffensiva, egli rispose che sentiva la sua esistenza minacciata dalle domande e immediatamente chiese a Bill che cosa ne pensava. Egli poteva essere solo un voyeur della vita. Ciò indica il fatto che un accoppiamento collusivo di questo tipo era qualcosa di impossibile per Richard. Esso implica infatti che si debba almeno fare qualcosa con un'altra persona (giocare allo stesso gioco); tuttavia consente anche una certa dose di liberazione dai timori peggiori di distruggere o essere distrutti dall'altro, il che può virtualmente precludere qualsiasi rapporto con chiunque.

È proprio in riferimento alla fondamentale frustrazione dell'io nella sua ricerca di complementi collusivi per le sue false identità, che l'affermazione di Freud secondo cui l'analisi deve essere condotta in condizioni di massima frustrazione assume il suo più profondo significato.

Varrebbe la pena di esaminare quale sia il «posto» del terapeuta in un gruppo di questo tipo e quale sia il «posto» in cui sentono di trovarsi i membri del gruppo in rapporto al terapeuta.

Una funzione di fondo di qualsiasi terapia genuinamente analitica o cosiddetta esistenziale deve essere quella di fornire un ambiente nel quale si presentino le minori difficoltà possibili alla capacità del paziente di scoprire il proprio io.

Senza entrare completamente nel merito di una discussione di questo tipo, si può fare qualche osservazione su un aspetto della posizione del terapeuta. Lo scopo del terapeuta non è quello di lasciarsi trascinare in un rapporto collusivo coi pazienti, adottando una posizione nel loro sistema di fantasia, né, inversamente, quello di servirsi dei pazienti per personificare qualche sua fantasia.

Il gruppo era frequentemente dominato da fantasie che si esprimevano nel domandarsi se il terapeuta fosse in grado o no di rispondere ai problemi dei singoli pazienti. Il loro problema, in tali fasi della vita di gruppo, era di decidere se il terapeuta avesse o non avesse «la risposta»; e se l'aveva in che modo strappargliela. La funzione del terapeuta non consisteva nel colludere con l'illusione o la disillusione del gruppo e nel cercare di articolare i sistemi di fantasia sottostanti.

Gran parte dell'arte terapeutica consiste nel tatto e nella lucidità con i quali l'analista sa indicare ai pazienti i modi in cui essi vanno alla ricerca di un rapporto di collusione per conservare le loro illusioni o garantirsi dalle delusioni. Se la fantasia dominante di questo particolare gruppo di pazienti era che il terapeuta avesse «la risposta» e che se essi fossero riusciti a saperla non avrebbero più sofferto, il compito del terapeuta, come quello di un maestro Zen, era quello di mostrare come le loro sofferenze non fossero dovute al fatto di non ricevere «la risposta» da lui, bensì allo stato di desiderio in cui essi si trovavano e in base al quale postulavano l'esistenza di «una risposta», restando poi frustrati per l'impressione di non averla avuta.

Come dice Burtt (1955) riferendosi agli insegnamenti di Hsi Yun, maestro Zen vissuto intorno all'840 d. C., il suo scopo era quello di chiarire al postulante «che la vera difficoltà non consisteva tanto nel fatto che alle sue domande non si potesse dare risposta, quanto nel suo permanere in uno stato mentale che lo spingeva a farle» (p. 195). Illusione e disillusione possono entrambe avere per fondamento la medesima fantasia. C'è «una risposta» da qualche parte, oppure non c'è da nessuna parte «alcuna risposta». In questo caso la persona ha conservato lo stesso parametro e non ha fatto altro che spostarsi lungo di esso.

È in questo senso che la terapia deve essere condotta in condizioni di massima frustrazione — frustrazione, cioè, di quei desideri, impulsi, intenzioni, ecc., che sono componenti di progetti elaborati sulla base della fantasia non riconosciuta come tale e che, in questo senso, non sono autentici.