Capitolo ottavo

Conferma e disconferma

Nella società umana, ad ogni livello, i soggetti confermano, su un piano pratico, in misura variabile, le rispettive qualità e capacità personali, e una società può definirsi umana in quanto i suoi membri si confermano a vicenda.

L'aspetto fondamentale della vita dell'uomo nei confronti dei suoi simili ha carattere duplice, ma è unico: ed è costituito dal desiderio di ogni uomo di essere confermato dagli altri uomini per quello che è, e per quello che può divenire; e dalla capacità, innata nell'uomo, di confermare in tal modo i suoi simili. Il fatto che tale capacità resti tanto incoltivata costituisce la vera debolezza, il lato più discutibile della razza umana: l'umanità vera esiste solo là dove tale capacità si esprime. D'altra parte, naturalmente, una vuota esigenza di conferma, quando manchi la dedizione al proprio essere e alle proprie possibilità di sviluppo, serve solo a guastare vieppiù la genuinità della vita fra uomo e uomo.

Gli uomini hanno bisogno — e la soddisfazione di tale bisogno è loro consentita — di confermarsi l'un l'altro nel loro essere individuale mediante incontri e contatti genuini; ma, oltre a questo, hanno bisogno — e la soddisfazione di tale bisogno è loro consentita — di vedere la verità, che l'anima acquisisce travagliandosi, illuminare gli altri, i fratelli, in maniera diversa, e di essere anche così confermati.

                                                       Martin Buber (1957a)

La conferma totale di un uomo ad opera di un altro è una possibilità ideale che raramente si realizza. In pratica, come dice Buber, la conferma avviene sempre «in misura variabile». Ogni interazione umana probabilmente comporta sempre un aspetto confirmatorio, quanto meno in rapporto agli esseri fisici, ai corpi degli uomini che vi prendono parte. Anche il minimo segno di riconoscimento che un altro ci rivolga serve almeno a confermare la nostra presenza nel suo mondo. « Non si potrebbe immaginare pena più diabolica», scrisse una volta William James, « se una pena del genere fosse materialmente realizzabile, di quella di chi fosse costretto a restare isolato in una società, e a vivere completamente ignorato da tutti i membri di essa».

Possiamo dunque parlare della conferma sia in senso particolare e vario, sia in senso globale e assoluto. Si può ritenere che le azioni individuali, e le varie fasi delle interazioni, abbiano sempre, in misura minore o maggiore, secondo differenti modalità, carattere confirmatorio o disconfirmatorio. Il problema è dunque un problema di intensità e di estensione, di quantità e di qualità. Gli individui, reagendo « tiepidamente», freddamente, tangenzialmente, e così via, possono convalidare in molteplici guise certi aspetti dell'altro, omettendo di convalidarne certi altri.

I modi della conferma e della disconferma [disconfirmation] sono i più vari. La conferma può avvenire mediante un sorriso (aspetto visuale), una stretta di mano (aspetto tattile), una manifestazione verbale di simpatia (aspetto uditivo). Il punto essenziale è che essa costituisce una risposta dell'altro che è rilevante nei confronti della azione che l'ha provocata, e riconosce l'atto provocante e ne accetta il significato, quanto meno il significato che gli attribuisce il soggetto provocante, se non quello che risponde. Una reazione confirmatoria dell'altro è una risposta diretta, quanto meno nel senso che il soggetto che la pone in essere si manifesta «sulla stessa linea» o «in sintonia» con il soggetto che ha compiuto l'azione iniziale o provocante. Ciò significa che una risposta parzialmente confirmatoria non deve di necessità tradursi in un atteggiamento concordante o satisfattivo o gra- tificatorio. Anche la reiezione può avere carattere confirma- torio se si realizza con una risposta diretta (cioè non tangenziale), che riconosce l'azione provocante e attribuisce ad essa un suo significato e una sua validità.

Poiché conferma e disconferma si realizzano a diversi livelli, una azione può essere confermata a un livello e disconfermata a un altro. Certe forme di «reiezione» comportano quanto meno un limitato riconoscimento — in quanto si percepisce l'azione che si respinge, e si risponde ad essa. L'azione che viene respinta viene percepita, e ciò dimostra che essa viene accettata come un fatto. Cosi, la «reiezione» diretta non ha carattere tangenziale: non trascura e non invalida l'azione. E non è necessariamente sinonimo di indifferenza o di insensibilità.

Può essere che certi aspetti della personalità di un individuo abbiano un bisogno più acuto di conferma di certi altri. Può essere che certi modi di disconferma abbiano più di altri efficacia distruttiva del senso che l'individuo ha di se stesso, e abbiano pertanto carattere schizogenico. Sussiste evidentemente una ontogenesi della conferma e della disconferma che comincia appena ad essere studiata. La risposta dell'altro, che può essere adatta per un infante, può essere completamente inadatta per un ragazzo o per un adulto. Può essere che nella vita di un ragazzo esistano periodi in cui egli vive esperienze di conferma e disconferma di sé più numerose che in altri periodi. Le qualità e le capacità che sono confermate o disconfermate dal padre o dalla madre, dai fratelli, dalle sorelle e dagli amici possono modificarsi sensibilmente. Un aspetto di lui che sia confermato da un soggetto, può essere negato da un altro. Un aspetto di lui che sia «falso», o che egli consideri falso, può essere attivamente e costantemente confermato dai suoi genitori o da uno di essi, o anche da tutte le persone che esercitano la loro influenza su lui in un certo periodo della sua vita. Così, in diversi periodi della vita, il bisogno pratico di conferma e di disconferma, e i modi in cui l'una e l'altra si realizzano, possono variare considerevolmente, e ciò equivale a dire che variano anche gli aspetti o le aree della personalità interessate direttamente e le modalità con cui particolari aspetti della personalità vengono confermati o disconfermati.

In quelle famiglie di schizofrenici che sono state sottoposte a minuziosi studi (Una ricerca al riguardo, attualmente in corso alla Tavistock Clinic, non è stata ancora resa pubblica. I maggiori contributi a questi studi sulla famiglia sono citati in Laing (i960). Per una eccellente critica dell'argomento, cfr. Spiegel e Bell, 1919) si rileva un elemento costante: cioè la presenza esigua di un comportamento confirmatorio dei genitori l'uno nei confronti dell'altro, e dei figli da parte dei genitori, e l'assenza di un comportamento nettamente disconfirmatorio. Si trovano, piuttosto, interazioni sottolineate da pseudoconferme, da atti che si presentano come azioni confirmatorie, e sono solo contraffazioni. (Cfr. Wynne et al., 1958.) Esse possono presentarsi come fittizi atteggiamenti di conferma della personalità del figlio, — realizzano all'estremo l'aspetto della conferma, ma la conferma sostanziale manca; ovvero la pseudoconferma può assumere la forma di una attività genuinamente ed efficacemente confirmatoria, ma rispetto a una personalità del figlio fittiziamente posta, senza che l'autentico io di costui riceva mai alcun riconoscimento.

Il caratteristico schema familiare che emerge dagli studi compiuti su famiglie di schizofrenici non rivela tanto un figlio soggetto a una totale trascuratezza o anche a traumi evidenti, quanto un figlio la cui autenticità è stata sottoposta a un sottile ma costante processo di mutilazione, di solito non intenzionale. Inoltre, se per periodi di anni la mancanza di genuina conferma assume la forza di una attività confirmatoria del falso io del figlio, questi finisce per trovarsi in una posizione talmente falsa, da avvertire come colpa o vergogna un comportamento onesto o genuino nei confronti dei suoi sentimenti «reali». Quando gli atti di conferma di un falso io hanno continuato a manifestarsi senza che nessuno in famiglia si rendesse conto di questo stato di fatto, il potenziale schizogenico della situazione sembra da individuarsi soprattutto nel fatto che esso non viene riconosciuto da nessuno; o, se la madre o il padre, o qualche altro membro o amico della famiglia è consapevole di questo stato di fatto, tale consapevolezza non viene portata alla luce, e non viene compiuto alcun tentativo di intervento diretto — nemmeno al fine di chiarire la reale portata della situazione.

Ma per il momento possiamo prendere in considerazione alcuni atti di conferma o disconferma, senza pregiudicare la questione se, e in quale misura, ci si trovi davanti a situazioni schizogeniche.

Si può omettere di riconoscere una persona come soggetto agente. L'attribuzione della qualità di agente agli esseri umani è uno dei modi con i quali si distinguono le persone dalle cose, che sono poste in moto da qualche altro agente. È un fattore che si riscontra nell'infanzia di certi soggetti la mancanza di conferma, da parte degli altri che occupano una posizione rilevante, di questa qualità specificamente umana, per cui l'essere umano avverte se stesso come agente di pieno diritto. È estremamente illuminante confrontare osservazioni sul modo in cui un fanciullo viene trattato dai genitori, con le cosiddette «delusioni» che possono esprimere il fanciullo o l'adulto psicotico. Per esempio, Julie (cfr. Laing, i960) soleva dire che era una «tolled bell» (told belle), e «tailored bread» (bred). («Campana suonata da altri», un «vestito su misura», una «ragazza mossa da altri».)

Quando fu possibile osservare l'interazione fra lei e sua madre, ci si rese conto del fatto che ciò era effettivamente vero. La madre era del tutto incapace di confermare nella ragazza la qualità di agente. Non sapeva rispondere vitalmente alla spontaneità della ragazza, e poteva istituire con lei un rapporto interattivo solo se da lei, la madre, fosse partita l'iniziativa della interazione. La visitava tutti i giorni all'ospedale, e si poteva vedere la ragazza seduta in maniera catatonicamente passiva mentre la madre la pettinava, le disponeva nei capelli nastri e forcine, le applicava il rossetto sulle labbra e la cipria sul viso, col risultato finale che l'aspetto della ragazza era quello della bambola bella, grande al naturale, priva di vita, che sua madre «muoveva». La ragazza era, come dimostrava di essere sempre stata, l'«oggetto transizionale» della madre, per usare la terminologia di Winnicott. L'aspetto più significativo e degno di nota della situazione è che proprio questa qualità passiva, indifferente, di «cosa», della ragazza, era quella che la madre considerava più «normale» in lei. La madre tendeva a reagire a qualsiasi comportamento spontaneo della figlia con estrema angoscia, e attribuiva tale comportamento alla malattia o alla sua infermità mentale. Essere buona, per la figlia, voleva dire fare ciò che le veniva detto (op. cit., pp. 195-224).

Altri casi di conferma e disconferma

1. Durante l'osservazione diretta del rapporto fra un bambino di sei mesi e la madre, venivano particolarmente annotate le occasioni in cui si manifestava il sorriso. Si constatò, prima di tutto, che madre e bambino si sorridevano spesso. In secondo luogo, che la madre, nel corso del periodo di osservazione, non rispondeva mai al sorriso iniziale del bambino; era invece lei che provocava il sorriso nel bambino sorridendogli, solleticandolo e giocando con lui. Quando era lei a prendere l'iniziativa dei sorrisi del bambino, essa sorrideva a sua volta, ma rispondeva con uno sguardo assente e opaco se l'iniziativa partiva dal bambino (cfr. Brodey, 19.59).

È chiaro che questo è un esempio di conferma che si manifesta nei confronti di risposte conformi nell'infante, e di totale incapacità di rispondere in maniera confirmatoria al sorriso derivante dall'infante.

2. Un bambino di cinque anni corre dalla mamma tenendo in mano un grosso verme, ed esclama: «Mamma, guarda che grosso verme ho preso!» La mamma replica: «Sei uno sporcaccione — corri via e lavati immediatamente». La risposta della mamma al bambino è un esempio di quello che Ruesch (1958) ha chiamato una risposta tangenziale4. Al livello dei sentimenti del ragazzo, la risposta della madre ha carattere tangenziale, per così dire (Ruesch scrive:

«I criteri che caratterizzano le risposte tangenziali possono essere cosi riassunti:

La replica soddisfa inadeguatamente l'affermazione iniziale.

La replica ha un effetto frustrante.

La replica non è connessa alla intenzione che si nasconde dietro l'affermazione originaria, quale è intuibile attraverso le parole, l'azione e il contesto della situazione.

La replica accentua un aspetto della situazione, che ha carattere incidentale» (Ruesch, op. cit., pp. 37-48)

La madre non risponde: «Davvero, che bel verme»; e nemmeno: «Che sporca bestia! non devi toccare questi vermi, buttalo via». Essa non esprime piacere o disgusto, approvazione o disapprovazione rispetto al verme, ma risponde facendo centro su qualche cosa che il ragazzo non ha considerato, e che non ha diretta importanza per lui, e cioè sul fatto che egli sia sporco o pulito. Essa avrebbe potuto dire: «Non mi interessa di guardare il tuo verme, se tu non sei pulito»; oppure: «Il fatto che tu abbia o non abbia un verme non ha nessuna importanza per me — tutto quello che mi importa è se tu sei pulito o sporco, e mi piaci soltanto quando sei pulito». Nei termini del processo di sviluppo, la madre ignora nel ragazzo il livello della maturazione, che si basa sui caratteri genitali, e riconosce soltanto i parametri anali, e cioè, nel caso, il solo fatto che la interessa è che il ragazzo sia pulito invece che sporco.

In questa risposta tangenziale rileva la incapacità di affrontare quello che il ragazzo fa dal suo punto di vista, e cioè la esibizione di un verme alla mamma. Si potrebbe supporre che «fanciullo con verme» sia una definizione che potrebbe facilitare la successiva autoidentità «uomo con pene». In mancanza di una risposta confirmatoria da parte della madre le implicazioni, nascenti o latenti, della situazione «fanciullo con verme» assumeranno speciali significati. Occorrerà che il fanciullo sviluppi speciali mezzi difensivi per acquisire, indipendentemente da sua madre, o a dispetto di essa, l'autoidentità «uomo con pene». Si può immaginare che egli, per sfida, si dia a raccogliere vermi. Può ritenere che, soltanto tenendosi perfettamente pulito, gli sia consentito di raccogliere vermi. Può ritenere che gli sia possibile raccogliere vermi soltanto mentendo, al riguardo, alla madre, o almeno, nei limiti in cui sua madre non ne sappia niente. Può ritenere che la cosa veramente importante sia di restare puliti (cioè, riscuotere l'approvazione della madre), e che non abbia importanza il fatto di raccogliere vermi. Può sviluppare una fobia per i vermi, ecc. In ogni caso, ci si può immaginare che, sebbene sua madre non abbia apertamente disapprovato il fatto che egli abbia raccolto un verme, la sua indifferenza al riguardo sia suscettibile di provocare in lui uno stato, almeno provvisorio, di confusione, di angoscia e di colpa, e che, se questo tipo di risposta è paradigmatico della situazione esistente fra lui e sua madre in questa fase del suo sviluppo, allora sarà molto più difficile per lui avere una consapevolezza non provocatoria, libera da colpa e angoscia, dei diversi aspetti compresi nella situazione di «fanciullo con verme» e di «uomo con pene».

Inoltre, poiché i parametri che regolano la percezione che sua madre ha di lui sono «sporco-pulito», «buono-cattivo», e le equazioni che ne derivano: «pulito = buono», «sporco = cattivo», egli dovrà a un certo punto decidere se questi siano i parametri decisivi, e se tali equazioni siano necessarie per lui. Se è sporco, può arrivare alla conclusione che, sebbene sua madre dica che è cattivo, egli non ritiene di esserlo, e, per converso, se è pulito, che non è necessariamente buono: che, in realtà, potrebbe essere buono per quanto sporco, e cattivo per quanto pulito. Alternativamente, può far propri i parametri della madre e le sue equazioni, e divenire un ragazzo, e poi un uomo, pulito-buono, e sporco-cat- tivo, e ignorare, come sua madre, tutti gli aspetti della vita che non possono essere sussunti sotto queste categorie.

3. Avevo iniziato ima seduta con una schizofrenica di venticinque anni, che si era seduta in una poltrona poco distante da me, e quasi frontalmente a me, che ero a mia volta seduto. Dopo un periodo di circa dieci minuti durante il quale la paziente non si era mossa né aveva pronunciato parola, la mia mente incominciò a inclinare verso le mie preoccupazioni private. Proprio durante queste riflessioni, la sentii dire, a voce molto bassa: «Oh, la prego, non si allontani tanto da me».

La psicoterapia di persone simili costituisce una materia distinta, ma è opportuno fare qualche osservazione sull'argomento conferma e disconferma nell'ambito della situazione psicoterapeutica.

A un paziente che esce in una osservazione del genere, si può rispondere in diverse maniere. Qualche psicoterapeuta avrebbe potuto replicare: «È lei che pensa che io sia lontano». Ma, se avessi risposto così, non avrei né confermato né disconfermato la validità del suo «sentimento» che mi fossi allontanato da lei, ma avrei solo confermato il fatto che essa mi sentiva lontano. Infatti, nel caso, la conferma del sentimento sarebbe, intenzionalmente, non impegnata riguardo alla validità di esso, e cioè alla realtà del fatto che io mi fossi, o meno, allontanato da lei. Si sarebbe potuto procedere, articolando varie ragioni del fatto che essa si fosse spaventata non sentendomi più con lei: una di tali ragioni avrebbe potuto essere il suo bisogno di avermi «con» sé, come difesa contro i suoi impulsi. Si sarebbe potuto individuare nel suo appello una espressione del suo bisogno di colmare il suo vuoto interiore con la mia presenza, del suo bisogno di trattarmi come un «oggetto tradizionale», e così via. Comunque, secondo me, la cosa più importante che il medico possa fare in una simile situazione è di confermare il fatto che la paziente ha correttamente individuato il difetto della sua presenza, se ciò corrisponde a verità.

Ci sono molti pazienti sensibilissimi a eventi del genere, ma essi non sono mai certi dell'attendibilità, e molto meno della validità, della loro sensibilità. Non possono fidarsi degli altri, e nemmeno possono fidarsi delle proprie «intuizioni». Un simile soggetto (P) è tormentato, per esempio, dal fatto di non sapere se è giusta la sua sensazione che l'altro (A) sia preoccupato dai suoi pensieri privati e disinteressato, mentre finge di essere intensamente attento: o se egli (P) possa fidarsi dei suoi (di P) sentimenti per individuare la reale situazione del rapporto. Uno dei punti più importanti da risolvere, perciò, è se tale sfiducia nei suoi « sentimenti», e nella testimonianza degli altri, nasca da tali costanti incoerenze nell'ambito del suo nesso originale (fra l'evidenza costituita dai suoi enfatici giudizi sugli altri, la sua esperienza di sé, la testimonianza degli altri sui loro sentimenti, e le interpretazioni che essi elaborano sulla base della esperienza che egli ha di loro, e delle intenzioni che ha nei loro confronti) che egli non riesca a conseguire, sotto questo profilo, uno stato di fiducia in se stesso.

Pertanto, l'unica frase che potei dire alla mia paziente fu: «Mi dispiace, la prego di scusarmi».

4. Una infermiera venne assunta per sorvegliare una paziente schizofrenica, in certo senso catatonica ed ebefrenica. Poco dopo l'inizio dei loro rapporti, l'infermiera offrì alla paziente una tazza di tè. Questa, una psicotica cronica, accettando la tazza, disse: «È la prima volta, in vita mia, che qualcuno mi offre una tazza di tè». Indagini successive dimostrarono la sostanziale verità di tale affermazione. (Questo aneddoto mi è stato narrato dal dott. Rycroft.)

Non è facile offrire a un altro una tazza di tè. Per esemplificare se una signora me ne offre una, essa può seguire l'intento di esibire la sua teiera o il suo servizio da tè; ovvero, di mettermi in buone condizioni di spirito, per ottenere da me qualche cosa che la interessa; può cercare di piacermi, o di acquistarmi come alleato contro altri in certe sue questioni personali. Potrebbe versare il tè, e lasciar cadere la mano con la tazza e il piattino, contando sul fatto che io mi aspettavo di afferrarle due secondi prima che divenissero un peso morto.

Pertanto, come succede nella cerimonia del tè dello Zen, è nello stesso tempo la cosa più semplice e più difficile del mondo per una persona, che è genuinamente se stessa, dare (realmente e non apparentemente) ad un'altra persona (intesa nel suo vero essere dal donatore) una tazza di tè (cioè, realmente una tazza di tè, non soltanto apparentemente). Analogamente, questa paziente afferma che molte tazze di tè sono passate nelle sue mani da quelle degli altri nel corso della sua vita, ma ciononostante essa non ha mai avuto l'impressione in tutta la sua vita che una tazza di tè le sia stata genuinamente offerta. Gli schizofrenici sono eminentemente sensibili all'insuccesso dei loro sforzi per essere riconosciuti come esseri umani dagli altri. In seguito alle mie indagini sulle loro famiglie, io non sarei sorpreso dal fatto che la dichiarazione di questa paziente fosse assolutamente esatta. È forse in questo senso che Frieda Fromm-Reichmann ha fatto l'osservazione che uno schizofrenico è una persona che ha bisogno sia di dare che di ricevere più amore di una persona normale.

Ciò che lo schizofrenico ci domanda, non meno di qualunque altra cosa, è autentica spontaneità ed onestà.