Nel corso di un tragitto intellettuale possono prodursi viraggi più o meno rilevanti. Il primo volume degli scritti di F. Basaglia ci restituisce dal vivo il viraggio intervenuto negli anni '60 del Novecento allorché, avendo alle spalle un esercizio sostanzialmente accademico della psichiatria, sia pure con un orientamento fenomenologico-esistenziale, quindi umanistico, egli si è confrontato con la realtà dell'istituzione manicomiale. Tale viraggio lo ha portato sul terreno della contestazione della psichiatria come scienza e di una pratica antistituzionale rivolta a rinnovare profondamente il sapere dell'uomo sui problemi della salute e della malattia mentale per giungere ad un mondo disalienato, vale a dire fatto a misura d'uomo e affrancato da ogni stigma.
Tra la prima e la seconda fase dell'esperienza basagliana, c'è un solo dato in comune: il rifiuto, che è stato sempre netto, dell'organicismo, e la rivendicazione di un sapere e di una pratica orientata a comprendere e recepire i bisogni umani nella totalità della loro gamma di espressioni, che implicano anche la psicopatologia. Questo dato, però, ha un significato diverso in rapporto alla prima e alla seconda fase.
Per quanto riguarda la prima, esso comporta il riferimento ad un modello interpretativo della realtà umana - quello fenomenologico-esistenziale - che si pone già di per sé in antitesi rispetto alla teoria e la pratica psichiatrica corrente, sostanzialmente kraepeliniana, ma rimane comunque un modello psichiatrico. Basaglia, insomma, prende posizione sulla battaglia già aperta all'epoca tra psicoanalisti e fenomenologi da una parte e psichiatri organicisti dall'altra.
In nessuno dei suoi primi lavori, impegnativi, interessanti e dal taglio tipicamente accademico, c'è un qualche riferimento all'antropologia e alla sociologia marxista. Fino all'esperienza del manicomio di Gorizia, Basaglia è uno psichiatra critico, radicale e in odore di eresia a livello della corporazione cui appartiene, ma nulla lascia presagire la svolta che sopravviene negli anni '60. Di fatto, tale svolta non avviene originariamente sulla base di una cultura marxista, bensì sull'onda di un orientamento umanitaristico che porta Basaglia ad adottare, per la gestione del manicomio, il modello della comunità terapeutica prodotto e realizzato in Gran Bretagna da Maxwell Jones. Si tratta di un modello in radicale contrapposizione con la psichiatria organicistica e oggettivanet, il quale, però, in sé e per sé, non comporta alcuna valenza di critica sociale.
E' in conseguenza dell'esperienza manicomiale, dunque, che Basaglia si trasforma in uno psichiatra sociale che analizza il fenomeno della malattia mentale nel quadro più vasto di un approccio critico ai processi sociali che fanno e disfano l'uomo, producendo le categorie qualitativamente distinte della normalità e della malattia. Questo nuovo approccio comporta anche, se non il rinnegamento del passato, una valutazione radicalmente critica degli orientamenti - la psicoanalisi. la fenomenologia esistenziale - che, a partire dagli anni '40 del Novecento, hanno portato avanti la battaglia contro la psichiatria organicistica.
Nel 1973, Basaglia scrive:
"In campo psichiatrico questa battaglia è già stata combattuta dalle correnti antropo-fenomenologiche che rivendicavano la perduta soggettività del malato, rinchiuso e costretto nella schematizzazione nosografica della psichiatria tradizionale: l'uomo in quanto soggetto della sua stessa oggettualità non può essere rinchiuso in schemi che lo definiscono a priori, ma deve essere avvicinato di volta in volta il suo essere qui ora di fronte a noi, attraverso l'epochizzazione di tutto il dato e il prestabilito da cui è abitualmente sommerso. Questo l'assunto teorico. Tuttavia, si può riconoscere che la corrente antropo-fenomenologica abbia veramente epochizzato l'etichettamento della malattia, per avvicinare l'uomo malato al di là di ogni sovrastruttura e definizione psicopatologica? O non si è trattato piuttosto dell'immissione di un nuovo, diverso modo di approccio che si innestava sul medesimo sistema psicopatologico? Qual è stato l'apporto della fenomenologia nei confronti del malato mentale, dato che questa è l'unica realtà cui la psichiatria deve riferirsi?
Da queste premesse intendo analizzare la crisi attuale di una scienza che, pur arricchitasi nella sua evoluzione storica di elementi determinanti quali la psicanalisi e l'approccio esistenziale al malato mentale, non ha però finora modificato la natura del rapporto con l'oggetto della sua indagine, conservato e mantenuto a distanza nella stessa dimensione oggettuale e adialettica in cui lo aveva già relegato la psichiatria classica. E ciò perché sia l'uno che l'altro sono entrati solo marginalmente nella prassi delle istituzioni. In questo senso l'analisi della crisi mi porta a considerare i limiti della stessa psicanalisi e dell'antropofenomenologia che, partite come movimenti rivoluzionari nel campo psichiatrico, si sono tuttavia mantenute all'interno di una struttura psicopatologica dove, anziché mettere in discussione l'oggettivazione che era stata fatta del malato, hanno continuato ad analizzarne i vari modi di oggettualità. Si sono cioè mantenute nel sistema."
"Il discorso qui proposto per la psichiatria sociale è, in fondo, analogo a quello già accennato sulla validità della psicanalisi e della psichiatria esistenziale. Se questi sono da ritenersi metodi in grado di aiutarci a sfuggire ad una scienza che si è fatta «metafisica dogmatica» e che, in quanto tale non può parlare dell'uomo concreto e reale, la loro validità si dimostra nel tipo di approccio dialettico che impostano con il malato. Ma se, nel tentativo di creare una base solida alle proprie argomentazioni, si creano nuovi schemi di riferimento, il momento dialettico è già passato poiché, come dice Sartre «le ideologie sono libertà quando si fanno, oppressioni quando sono fatte»9. Il bisogno di sedare la nostra ansia ci spinge facilmente a chiudere i cerchi che noi stessi abbiamo spezzato, definendo una nostra ipotesi come un fatto che ci rassicuri della positività dei risultati ottenuti. Finché la psicanalisi impone la problematica della storicità dell'uomo costringendolo alla crisi e alla messa fra parentesi dell'inautentico, è una scienza rivoluzionaria. Finché l'antropologia esistenziale si oppone alla psichiatria classica rivendicando la legittimità delle diverse modalità di esistenza che sfuggano ad un preciso concetto di norme, è una scienza rivoluzionaria. Ma quando l'una e l'altra, arroccate dietro il nuovo linguaggio che si sono costruite, difendono le loro posizioni senza più accettare che la realtà, l'uomo reale vi possa penetrare a contraddirle, allora non servono che come difesa di chi le sostiene e la finalità che si erano prefisse è già scomparsa dal loro terreno."
In queste citazioni compare a chiare lettere l'orientamento basagliano avverso a ogni teorizzazione del campo psicopatologico, e il richiamo al fatto che, nella sua realtà concreta di essere storicamente determinato dai processi sociali, l'uomo non può e non deve essere irretito in alcuno schema dato che la ricchezza e l'eterogeneità della sua esperienza comporta sempre contraddizioni non riducibili ad esso.
Questa pregiudiziale antiteorica, che integra implicitamente il riferimento marxiano all'uomo in carne ed ossa, oppresso e umiliato dall'alienazione sociale, con l'epistemologia di Feyerabend, rappresenta la ricchezza e il limite del pensiero teorico-pratico basagliano. La ricchezza si può ricondurre ad un'apertura all'umano nelle sue indefinite espressioni conseguenti all'esperienza storico-sociale che sconsiglia e impedisce le cristallizzazioni nosografiche e psicodinamiche. Essa comporta l'intuizione che i nessi tra esperienza soggettiva e esperienza sociale cambiano in conseguenza dell'evoluzione dei processi economici e storico-culturali.
E' difficile dubitare della pertinenza di questo approccio alla psicopatologia se si tiene conto, per fare un solo esempio, della diffusione della patologia narcisistica, che rappresenta l'espressione di un modello di normalità costitutivo degli svviluppi contemporanei del sistema capitalistico.
I limiti dell'impostazione basagliana sono da ricondurre, invece, al tabù antiteorico, che ha impedito e impedisce di procedere sulla via della chiarificazione dei nessi, realmente esistenti, tra esperienza soggettiva e storia sociale. Questo limite è tanto più evidente quanto più ci si confronta con quella singolare categoria di fenomeni esperienziali che definiscono la psicopatologia. Che essi siano patoplastici, vale a dire si modifichino in qualche misura in conseguenza dei cambiamenti sociali è fuori di dubbio. Al tempo stesso, è pur vero, che essi rivelano un modo di esprimersi delle difficoltà di alcuni soggetti di adattarsi al mondo che lascia pensare ad una costanza strutturale, vale a dire al fatto che le contraddizioni che li sottendono imboccano canali sintomatici che devono avere un significato intrinseco per quanto riguarda il funzionamento della mente umana.
Su questi limiti tornerò nell'Introduzione al secondo volume degli Scritti basagliani.