Un problema di psichiatria istituzionale

In «Rivista Sperimentale di Freniatria», 90, 6, 1966. In collaborazione con Franca Ongaro Basaglia.

L'esclusione come categoria socio-psichiatrica

Si immagini ora un uomo, a cui, insieme con le persone amate, vengono tolti la la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente a chi ha perso tutto, di perdere se stesso.

                                            P. Levi, Se questo è un uomo.

La psichiatria si trova oggi a confrontarsi con una realtà che è stata messa in discussione da quando - superata l'impasse della dualità cartesiana - l'uomo si rivela oggetto in un mondo oggettuale, ma contemporaneamente soggetto di tutte le sue possibilità. Solo la comprensione di questa premessa può spiegare la crisi di una scienza che, anziché occuparsi del malato mentale nella società in cui vive, si è gradualmente costruita un'immagine ideale dell'uomo, tale da garantire la validità scientifica del castello di entità morbose in cui ne aveva rinchiuso i sintomi. La psichiatria classica si è infatti limitata alla definizione delle sindromi in cui il malato, strappato alla sua realtà ed estraniato dal contesto sociale in cui vive, viene etichettato, «costretto» ad aderire ad una malattia astratta, simbolica e, in quanto tale, ideologica.

Ma questa oggettivazione dell'uomo in sindrome, operata dalla psichiatria positivistica, ha avuto conseguenze spesso irreversibili nel malato mentale che - originariamente oggettivato e ristretto nei limiti della malattia - è stato confermato come categoria al di là dell'umano da una scienza che doveva allontanare ed escludere ciò che non era in grado di comprendere.

Tuttavia, se è vero che un'analisi scientifica - qualunque sia il problema di cui ci si occupa - rappresenta la ricerca del fondamento di un fenomeno, una volta che lo si sia isolato dalle sovrastrutture e dalle ideologie da cui è abitualmente velato, volendo affrontare scientificamente il problema del malato mentale si dovrà, per primo, mettere «fra parentesi» la malattia ed il modo in cui è stata classificata, per poter considerare il malato nel suo svolgersi in modalità umane che - proprio in quanto tali - abbiano ad apparirci avvicinabili. In questo senso si intende qui analizzare il problema del malato mentale secondo una modalità d'essere che si manifesti comune al suo mondo, come a quello del sano, al di là di ogni schema e definizione di malattia. Tale ci appare la modalità dell'escludere e dell'essere escluso, nel senso che, se essa fa parte dei modi di relazione umana, è contemporaneamente alla base della modalità psicotica come esclusione del reale e della realtà stessa del malato mentale nel suo essere escluso dalla società.

Ogni società, la cui struttura sia basata su differenze culturali, di classe e su sistemi competitivi, crea in sé aree di compenso alle proprie contraddizioni interne, nelle quali concretare la necessità di negare o di fissare in una oggettua-lizzazione una parte della propria soggettività.

La ricerca nel gruppo del capro espiatorio, del membro da escludere sul quale scaricare la propria aggressività, non può essere spiegata che nella volontà dell'uomo di escludere la parte di sé che gli fa paura. Il razzismo in tutte le sue facce non è che l'espressione del bisogno di queste aree di compenso, quanto l'esistenza dei manicomi, quale simbolo di ciò che si potrebbe definire «le riserve psichiatriche» paragonandole all'apartheid del negro o ai ghetti, è l'espressione di una volontà di escludere ciò che si teme perché ignoto ed inaccessibile. Volontà giustificata e scientificamente confermata da uno psichiatra che ha considerato l'oggetto dei suoi studi come incomprensibile e, in quanto tale, da relegare nella schiera degli esclusi.

Di fronte alle sue paure e alla necessità di assumersi le proprie responsabilità, l'uomo tende ad oggettivare nell'altro la parte di sé che non sa dominare: ad escludere l'altro che ha in sé come sua contingenza. È un modo di negarla in sé negando l'altro; di allontanarla, escludendo i gruppi in cui è stata oggettivata. La modalità dell'esclusione, il ritenersi in diritto di tagliar fuori dal proprio orizzonte un gruppo in cui localizzare il male del mondo, non può essere considerata alla stregua di un'opinione personale, accettabile quanto un'altra. Essa investe il modo globale dell'essere al mondo, è una presa di posizione generale: la scelta di un mondo manicheo dove la parte del male è sempre recitata dall'altro, appunto dall'escluso; dove solo in questo escludere affermo la mia forza e mi differenzio1.

Ma se, storicamente, la schiera degli esclusi va restringendosi attraverso la presa di coscienza della loro funzione di capro espiatorio di una società o di una classe, l'unico escluso che non può essere in grado, nell'attuale momento storico, di prendere coscienza di quanto, nel suo stato, deve alla malattia e quanto all'esclusione di cui la società l'ha fatto oggetto, è ancora il malato mentale che non può - e in questo suo non potere è tutto il dramma sociale della malattia mentale - conoscere da sé i limiti della sua malattia. Ciò che sa di sé e del suo stato morboso è solo il ruolo che la società e la psichiatria gli hanno affidato, e quindi crede che ogni atto di contestazione alla realtà brutale che vive e rifiuta, sia soltanto un atto malato che lo riporta sempre in se stesso, senza mai liberarlo dalle forze che lo dominano.

In questo senso, se la responsabilità della società è gravissima nell'esclusione di gruppi indesiderati ai quali resta comunque la possibilità di salvarsi, almeno con la lotta, nel caso del malato mentale la responsabilità della società e della psichiatria che ne è la rappresentante, è enorme: esse gli negano - oltre che nella chiusura e nella mortificazione, nel-l'etichettamento di ogni suo atto - ogni possibilità di opposizione, di rifiuto della realtà; quindi ogni speranza di liberazione. Il malato mentale è un escluso che, in una società come l'attuale, non potrà mai opporsi a chi lo esclude, perché ogni suo atto è ormai circoscritto e definito dalla malattia. È quindi solo la psichiatria, nel suo duplice ruolo medico e sociale, che può essere in grado di far conoscere al malato cos'è la sua malattia e che cosa la società gli ha fatto, escludendolo da sé: solo attraverso la presa di coscienza del suo essere stato escluso e rifiutato, il malato mentale potrà riabilitarsi dallo stato di istituzionalizzazione in cui lo si è indotto. Nel riconoscergli una possibilità dialettica senza la quale non c'è rapporto umano, né ci sono uomini, potrà contestare la realtà, noi psichiatri che ne siamo i portavoce e quindi la sua stessa malattia come mostruosità sociale, cosi che si potrà finalmente avvicinarlo solo come malato da curare.

Se la definizione classica della psicosi era data in base alla mancata coscienza di malattia e la conseguente guarigione veniva considerata in relazione appunto alla presa di coscienza del precedente stato patologico, si potrebbe qui proporre di stimolare un tale processo di riabilitazione del malato mentale, attraverso la presa di coscienza dell'essere stato considerato non soltanto un mostro biologico, ma anche un mostro sociale: di essere stato escluso in quanto incomprensibile, recluso in quanto pericoloso.

Problema antropologico e clinico dell'esclusione.

Se esistere significa essere per porsi con gli altri, ogni esistente attuerà il suo modo di essere, il suo comportamento attraverso il superamento della propria situazione in rapporto agli altri e al mondo, nella scelta del suo progetto, del suo fine.

L'uomo - per la natura stessa della sua fattità che può definirsi nella necessità della sua nascita e della sua morte - è condannato ad accettarsi e a scegliersi, se vuole essere libero. Il che significa che è condannato - per farsi uno dal molteplice - a convivere con l'ansia che da questa situazione di fatto deriva, senza ricorrere a meccanismi di compenso che lo proteggano. Se, di fronte all'angoscia, all'affanno, alla Sorge, non sa accettare la propria responsabilità e libertà, egli oggettivizza ed aliena la parte di sé che non sa dominare. Se non può soggettivarsi che nella scelta e nell'accettazione di sé e quindi dell'altro che ha in sé - la presenza della sua corporeità oggettuale - in mancanza di tale scelta (che rivelerebbe il suo prendere possesso della propria corporeità e del mondo) si trova a proiettare fuori di sé la zona oscura che non riesce ad individuare, si oggettivizza negli altri, si aliena, si dà al mondo: non fa suo il mondo, non se ne appropria ma si pone come un oggetto del mondo, i cui rapporti con l'altro non possono essere che oggettuali. La parte oscura di sé che non riesce a soggettivare lo porta a possedere gli altri, oggetti come lui.

In questo senso l'analisi antropologica dell'escluso come uomo reso oggetto dall'altro e da sé, viene ad inserirsi nel tema del rapporto fra l'io e l'altro, secondo la nota interpretazione hegeliana della dialettica servo-signore2. Il signore, nell'oggettivare i servi ai suoi occhi, nell'escluderli da un rapporto dialettico capace di contestargli la sua posizione, nega ed esclude una parte di sé che presume di allontanare, oggettivandola nei servi che gli si affidano. D'altra parte, essi - di fronte alle responsabilità che la propria libertà implicherebbe - si illudono di allontanare e negare le loro paure, affidandole a colui che li difende, escludendosi da ogni possibilità di essere padroni della propria vita, oggettivati agli occhi del signore, esclusi dalla propria libertà. In questa mistificata reciprocità il servo - che in cambio della propria libertà non ottiene che il fantasma del signore come copertura alla propria ansia - diventa invece la giustificazione e la ragion d'essere del signore che, solo oggettivando in lui la parte di sé che non sa dominare, riesce a vivere. È cosi che il servo viene ridotto alla funzione di capro espiatorio a sola, paradossale difesa del signore stesso, perché si trova a racchiudere e concretizzare in sé il male da cui egli non vuole essere toccato e che allontana, circoscrivendolo in uno spazio ben localizzabile: lo spazio riservato agli esclusi.

Il meccanismo secondo cui si produce questo rapporto di esclusione è quindi espressione dei limiti del proprio campo di possibilità, di interessi, di rapporti. Oggettivandosi nell'altro che si esclude, il campo delle proprie esperienze soggettive viene a mano a mano ridotto, poiché l'esclusione del-l'altro da sé non è che la concretizazzione dei limiti personali, simbolizzati nelle regole istituzionalizzate che ne giustifichino l'attuazione.

In questo senso la modalità dell'escludere, analizzata dall'interno, risulta intimamente legata al processo di appropriazione del reale, dove l'uomo si trova ad escludere nell'altro ciò che non è riuscito ad incorporare e a far proprio. Se il processo di appropriazione del reale si svolge nell'incontro e nel riconoscimento dell'altro come materialità opaca ed insieme come punto di partenza di un io fungente3come io sono, nell'accettare la mia fattità (questo mio essere corpo opaco e passivo e contemporaneamente soggetto di questa passività), mi trovo a dover accettare in me l'altro da me, l'estraneo che io sono in quanto oggetto di una soggettività che non è la mia; a riconoscere l'altro come soggetto che può oggettivarmi quanto io, soggetto, sono oggettivabile ai suoi occhi. Ciò significa che nell'accettazione della mia fattità, nella scelta del mio corpo, io accetto e scelgo l'altro, l'estraneo come accetto e scelgo me stesso nella mia corporeità. Nel rifiuto dell'altro è ancora il me, la mia alterità che rifiuto ed escludo, nel mio rifiutarmi come materialità staccata dall'io che la intenziona e la significa.

Un esempio di ciò può essere individuabile nel problema dell'esperienza corporea. La creazione di barriere e baluardi capaci di mantenere una distanza fra l'io e la propria ansia, evidenziate nell'esclusione dell'altro come corpo, non sono infatti che l'espressione di un indebolito processo di appropriazione della realtà corporea: la parte di sé che non viene individuata, posseduta dall'io secondo un armonico processo di appropriazione del reale, viene oggettivata nell'altro, reificata e quindi rifiutata. Sentimenti come la vergogna, il pudore ed in particolare il disgusto dell'osceno non sono che la simbolizzazione della proiezione del proprio corpo nell'altro, considerato come oggetto: una mancata incorporazione dell'altro, come mancata incorporazione di sé.

L’Erlebnis dell'osceno - il rifiuto del proprio corpo nell'altro - è dunque la copertura dell'ansia di fronte all'accettazione della propria fattità, un modo di trascendere questa contingenza che - mantenuta ad una certa distanza dall'io e quindi ad esso non incorporata — risulta inaccettabile e come tale oscena, tanto che necessita di essere ribattuta nel rifiuto dell'altro come corpo da escludere. L'oscenità non sarebbe che la simbolizzazione della distanza frapposta fra l'io ed il proprio corpo, distanza che viene ad esprimersi concretamente nell'Erlebnis del vivere l'altro come osceno per mantenerlo estraneo a me (quindi allontanarlo ed escluderlo), nell'illusione di allontanare, negare ed escludere il corpo di cui non mi sono originariamente appropriato.

Nel vivere l'altro come osceno, come corpo oggettivato e reificato, come escluso da me, è dunque ancora il problema del corpo proprio a porsi come tema centrale; il problema dell'appropriazione del reale, del mio pormi di fronte all'altro e alle cose, mantenendo la distanza necessaria a che io possa appropriarmi del corpo e farlo mio per farmi un uno, staccato dal molteplice, che conservi in sé - in una alternanza dialettica - una soggettività oggettiva ed una oggettualità soggettiva.

Visto antropologicamente il fenomeno dell'escludere concretizza dunque i limiti, le carenze, il rimpicciolimento di chi esclude, piuttosto che quelli dell'escluso, nel senso che quest'ultimo è da considerarsi solo l'oggetto in cui concretizzare, oggettivare e negare ciò che, in un mancato processo di appropriazione del reale, rifiuta chi esclude.

Ma in che modo l'escluso accetta passivamente la sua esclusione? Un tale meccanismo sarebbe da ricercarsi nel processo di identificazione dell'escluso con chi lo esclude, con il signore con il quale vive, solo in un rapporto fantasmatico. Bettelheim4 e Steiner5 sostengono un analogo punto di vista per quanto riguarda la sopravvivenza di internati in campi di concentramento nazisti, attraverso l'adesione fantasmatica ai valori dei dominatori, adesione che veniva quasi a giustificare la situazione di completa soggezione in cui dovevano vivere. In questo senso la dialettica del rapporto servo-signore verrebbe a riproporsi su un piano di reciprocità, che appare tuttavia paradossale e mistificata nello stesso meccanismo di proiezione che ne sta alla base: il signore proietta nel servo il male che rifiuta in sé, mentre il servo proietta nel signore il suo bisogno di bene e di forza che viene da lui tradito attraverso la sua strumentalizzazione.

Trasferendo le considerazioni antropologiche fin qui accennate in un terreno pài propriamente clinico, si potrà ora avvicinare il problema dell'esclusione come modalità «malata», analizzando - dalla stessa angolatura - il porsi del malato mentale di fronte alla realtà ed il suo modo di appropriarsene o di escluderla.

Le scienze naturalistiche avevano considerato il concetto di esclusione solo come modalità passiva: il malato mentale era ritenuto un escluso in nome della sua pericolosità, dato che ne era stato confermato il carattere oggettuale nel riconoscerlo come un oggetto di studio che racchiude e vela la supposta causa organica, responsabile del fenomeno della follia. Del resto, la stessa interpretazione di Jaspers, con l'introduzione del concetto di psicopatologia comprensiva, continua a mantenere il malato mentale in un ambito strettamente oggettuale, quando - disarmato di fronte alla sua incomprensibilità di capirne le modalità di esistenza - abdica ad ogni suo ulteriore approccio, per relegarlo nella schiera degli esclusi, oggettivati agli occhi della scienza.

Escluso perché incomprensibile, escluso perché pericoloso, il malato mentale continua ad essere mantenuto oltre il limite dell'umano, come espressione della nostra disumanizzazione e della nostra incapacità a comprendere.

È tuttavia nel nuovo umanesimo psichiatrico che la ricerca viene orientata verso i modi in cui la realtà viene vissuta, accettata, subita o esclusa. Ciò significa che non si potrà limitarci a considerare il delirio alla stregua di un elemento parassita il quale - come un corpo estraneo - ne corrode l'esistenza. Ma ci si trova a riconoscerlo come una modalità significante del delirante stesso, e come tale intenzionata e motivante. Se ciò è vero si assiste nel delirante all'esclusione graduale della realtà di cui non riesce ad appropriarsi, e alla scelta intenzionale di un mondo utopico dove il divario fra reale-irreale, fra sf e no, non abbia ad avere la faccia drammatica della dialettica, ma la morbidezza di un mondo che riesce a maneggiare.

Considerandolo in questo modo, l'incomprensibile di Jaspers, oggettivato dalla nostra incomprensione, si rivela invece il soggetto di un'azione significante di esclusione del reale. I limiti, il restringimento, il rimpicciolimento, in definitiva la regressione psicotica, non sarebbero che il risultato del lento processo di esclusione del reale che il psicotico non riesce più a contestare. Tradito dalla realtà che continua a presentarglisi sotto l'effige della minaccia perché non sa dominarla, maschera il suo fallimento nell'escluderla, rifugiandosi nel mondo del suo delirio, nell'utopia dove non trova né contestazioni né limiti6.

Il caso del nevrotico presenta invece una forma di esclusione del reale che potremmo definire ideologica, contrapponendola all'utopia psicotica.

L'organizzazione della personalità nevrotica - avvicinata sia in senso tradizionale che in via antropologica - evidenzia sempre la diminuita capacità di fronteggiare le proprie istanze emotive, che lo urgono in modo tale da fargli perdere la spontaneità della propria esperienza corporea. In tal senso il nevrotico - non potendo vivere il proprio corpo immediatamente nella spontaneità e nella fusione somatopsichica -si trova costretto a costruirne un'immagine, un'ideologia7 capace di legarlo, comunque, all'altro da cui non sopporta di essere escluso. Che una tale impasse sia intesa come l'eviden-ziamento di un generico cattivo funzionamento dell'istru-mento nervoso, come espressione di un particolare modo di essere al mondo, o come la risultante di un alterato rapporto interpersonale legato ad un disadattamento agli schemi culturali della società, il nevrotico si manifesta comunque sempre inibito, impossibilitato ad accettare e a scegliere la propria esistenza e quindi a scegliersi, tanto da doversi adattare ad un compromesso che gli consenta un qualsiasi approccio interpersonale. Tale è appunto l'espressività nevrotica che, attraverso l'esclusione della propria contingenza, si concretizza nella scelta di una immagine ideale del proprio corpo che più si avvicini all'altro, anche se l'allontanamento dell'io dal corpo verrà pagato dallo stato di incertezza, di irrilevanza, di dubbio in cui il nevrotico è costretto a vivere. Non essendo infatti riuscito a conquistare il proprio corpo, non riesce a conquistare la propria individualità e libertà di fronte all'al-tro che non può contestare. Non potendo dunque accettare - per la carica d'ansia che lo invade nel suo incontro con la Sorge - la propria fattità (rifiutando ed escludendo il suo corpo che non può vivere come veicolo delle proprie esperienze, ma solo come scisso emotivamente da sé e collocato ad una certa distanza), il nevrotico si trova impossibilitato a contrapporsi al molteplice per farsi uno (quindi contestare l'altro e il mondo). Ma, posto nella necessità di mantenersi comunque nel co-mondano, egli preferisce escludere la propria corporeità di cui non si è appropriato, per costruirsi un'immagine di sé, un'ideologia del proprio corpo che, edificata sui valori dell'altro, gli dia l'illusione di essere da lui accettato.

Problema sociologico dell'esclusione: autorità, potere e regressione.

Dopo l'indagine antropologica del fenomeno dell'esclusione e l'analisi più propriamente clinica dell'escludere come modalità psicotica e nevrotica, resta da esaminare il problema del malato mentale come escluso dalla società. Se nel secondo punto si era posto «fra parentesi» il contesto sociale in cui la malattia mentale si instaura, per avvicinare il fenomeno puro nel suo svolgersi nel malato di mente; ora, invertendo i termini, si tenta di isolare e mettere «fra parentesi» la malattia mentale, per analizzarne invece i rapporti con il contesto sociale in cui si sviluppa.

Si è dunque parlato di un escludere psicotico e nevrotico che produce restringimento e regressione. Ma altro restringimento ed altra regressione, venuti a sovrapporsi a quelli primari, sono individuabili nel malato mentale quando ci si ponga ad analizzarlo nei suoi rapporti con la società di cui fa tuttora parte, solo come escluso. In questo caso si tratta di una regressione istituzionale, nel senso che essa è chiaramente prodotta dall'internamento in istituti psichiatrici che — nati essenzialmente per curare e proteggere il malato - hanno troppe volte avuto l'unica funzione di proteggere il sano dagli eccessi e dalla pericolosità del folle.

È dunque solo partendo da qui, dall'esclusione, dall'isolamento in cui la società ha costretto il malato, che si deve risalire, per poter capire che cosa resti - nello stato di annientamento del recluso - dell'originaria malattia mentale, e cosa sia invece da attribuirsi al lento processo di distruzione operato dal suo internamento. Perché è qui, oltre le mura dei manicomi, che la psichiatria classica ha dimostrato il suo fallimento: nel senso che in presenza del problema del malato mentale, essa lo ha risolto negativamente, escludendolo dal contesto sociale ed escludendolo quindi dalla sua stessa umanità. Vivendo l'incomprensibile del fenomeno psicopatologico come una mostruosità socio-biologica, il malato è sempre stato doppiamente escluso: 1) nell'essere considerato un'entità incomprensibile che la scienza, per non dover riconoscere la sua impotenza, deve negare attraverso un approccio fantasmatico della malattia; 2) nel suo essere socialmente escluso, proprio in base alla incomprensibilità, scientificamente riconosciuta, del suo mondo malato.

Per questo i manicomi sorgono abitualmente alla periferia delle città, in zone isolate, cintate da mura che diano il senso preciso della separazione, della frattura, del limite. La figura del malato di mente, quale espressione di una rottura della norma, è un'immagine da tenere a distanza perché non abbia a turbare il ritmo di una società che ha bisogno di aree di compenso su cui scaricare le forze aggressive che non può altrimenti incanalare. Ma questa necessità di dividere, di isolare il malato di mente, di scrollarselo di dosso, è contemporaneamente espressione dello stato di debolezza e di rim-picciolimento di una società che tende ad eliminare ciò che turba la sua espansione, senza tener conto della parte di responsabilità che in questi processi essa pure gioca.

Quello del malato di mente appare si un problema sociale, ma da risolvere al di fuori della società stessa, senza che nessuno, oltre chi ne è vittima, abbia a pagare a causa di una malattia che - catalogata e definita come incomprensibile e, in quanto tale, pericolosa - rappresenta una seria minaccia sociale. L'atto di esclusione di questi elementi sgraditi al sistema, suona tuttavia paradossalmente come un acting out della società che sembra simbolicamente scaricare in queste aree di compenso, aggressività e violenze che poto hanno a che fare con la malattia mentale, ed il cui «sfogo» garantisce il mantenimento dell'ordine.

Questa è tuttavia la società dove accade che l'uomo si ammali. Questa la società che, impregnata di diffidenza e di pessimismo verso il malato mentale e la sua malattia, alza le mura dei manicomi per difendersene e ne stabilisce le regole. Questa è anche la società in cui si forma lo psichiatra da essa delegato alla cura dei malati. Quale può essere l'azione dello psichiatra nei confronti del paziente? Quali le richieste del malato alla società e allo psichiatra che ne è il rappresentante? Quale il mandato della società allo psichiatra?

La situazione potrebbe riassumersi cosi: sono stati costruiti luoghi di cura dove si possa isolare il malato mentale, delegando lo psichiatra a tutelarlo nel suo isolamento, in modo da proteggere e difendere la società dalla paura che continua a nutrire nei suoi confronti. Contemporaneamente a questa azione difensiva, la società chiede però allo psichiatra la cura del malato.

Sono queste intenzioni, o questo incarico da parte della società allo psichiatra, che presentano un'evidente contraddizione interna. La cura del malato (e non s'intende la sola cura farmacologica che, pur avendolo riportato nel campo della medicina, attraverso la soluzione magica della sua mostruosità biologica, non ha tuttavia fatto un passo verso il malato come uomo) non è possibile, se si muove nel clima di paura, di repressione, nel bisogno di difesa, di tutela in cui la società (quindi lo psichiatra stesso) continuano a vivere. La cura del malato mentale dovrebbe tendere alla riconquista di una libertà perduta, di una individualità sopraffatta: il che è esattamente l'opposto di ciò che significa il concetto di tutela, difesa, separazione, segregazione, implicito nelle regole dei nostri istituti.

Il manicomio è nato storicamente a difesa dei sani. Le mura servivano, quando l'assenza di terapie rendeva impossibile la guarigione, ad escludere, isolare la follia perché non invadesse il nostro spazio. Ma tuttora esse conservano questo compito: dividere, separare, difendere i sani attraverso la esclusione di chi sano non è più. Oltre le mura lo psichiatra faccia quel che può. Gli si concedano o no i mezzi per lavorare, gli si consenta o no di curare chi gli viene affidato, deve rispondere prima di tutto dell'incolumità della società che vuole essere difesa dal folle e di quella del folle stesso.

Se il malato, prima di essere tale, è da considerarsi come pericoloso a sé e agli altri, le regole su cui il ricovero si edifica non possono essere istituite che in funzione di questa pericolosità e non in funzione della sua malattia. Per questo la figura del malato mentale, cosi come ci appare abitualmente nei nostri ospedali psichiatrici, è quella dell'uomo oppresso, schiacciato, oggettivato nell'istituto la cui organizzazione ed efficienza sono risultati sempre più importanti della sua riabilitazione e risocializzazione: esse sole potevano seriamente garantire la sicurezza e l'incolumità fisica sia della società che del malato stesso.

Per questo, al momento della sua esclusione dalla società, il malato - già rimpicciolito dai limiti in cui la malattia lo costringe - entra in una nuova dimensione dove gli viene imposta, per il buon andamento dell'istituto, per semplificare la vita dell'asilo, una graduale rinuncia a tutto ciò che di personale e vivo resta ancora in lui. Incomincia cosi quella che Goffman8 chiama la carriera morale dell'istituzionalizzato, le cui tappe sono segnate dal graduale restringimento di sé, dalla perdita di interessi, dall'abbandono dei legami con l'esterno, con la sua vita passata che non gli appartiene più, con il futuro verso il quale non gli è consentito alcun progetto, spinto com'è dalle regole dell'istituto ad umiliarsi, a mortificarsi: a riconoscere come logica la perdita della propria individualità, lo stato di inferiorità di fronte agli altri, il rifiuto da parte dell'istituto che lo tutela di accettarlo nella sua dignità di uomo, conservandogli, anche nella malattia, il diritto ad un minimo di autonomia e di responsabilità. Ridotto ad un campo di possibilità che non gli consente sbocchi, che non gli richiede partecipazione, o interventi personali in nome dell'ordine e dell'efficienza, non gli resterà che annullarsi, accettando come logica la sua esclusione e l'oggettivazione nelle regole dell'istituto che lo determinano, definitivamente istituzionalizzato.

Il concetto di istituzionalizzazione non è nuovo. Il vecchio termine di artefatti manicomiali, supinamente accettati come conseguenza inevitabile di un prolungato ricovero, vuole appunto riferirsi a particolari atteggiamenti - molto spesso confusi come sintomi di malattia - cui si assiste in ricoverati di istituti che, attraverso un'imposizione coercitiva ed autoritaria, provocano il sovrapporsi di una malattia sulla malattia originaria. L'apatia, il disinteresse, il lento e monotono passeggiare a testa china, senza scopo negli androni o reati alia malattia), un comportamento remissivo da animale addomesticato, le lamentele stereotipate, lo sguardo perso perché non c'è un dove potersi appoggiare, la mente vuota perché non ha una meta verso cui tendere, non sono che alcuni aspetti di questa sindrome e rappresentano il lento, graduale, innaturale adattamento ad un potere che, sorto per tutelare e curare chi gli viene affidato, è ricorso all'ultimo strumento su cui doveva far leva nel caso di questo particolare malato: la forza.

Definita come «nevrosi istituzionale» da Burton9, come «istituzionalizzazione totale» da Goffman10, come «social break-down syndrome» dagli autori americani11, essa risulta sempre una forma di regressione che viene a sovrapporsi - in soggetti già psichicamente fragili o malati - all'originaria malattia, a causa del processo di annientamento e di distruzione individuale cui sono sottoposti dalla vita dell'asilo. In questo senso viene a costituirsi un complesso sindromico, spesso confuso con i sintomi della malattia stessa: inibizioni, perdita di iniziativa, di interessi, ecc.

Il perfetto ricoverato, all'apice di questa desolante carriera la cui meta sembra, paradossalmente, la distruzione del malato, sarà dunque quello che si presenta completamente ammansito, docile al volere degli infermieri e del medico, quello che si lascia vestire senza reagire, che si lascia pulire, imboccare, che si offre per essere riassettato come si riassetta la sua stanza il mattino; il malato che non complica le cose con reazioni personali, ma si adegua supinamente all'autorità che lo tutela. È il ricoverato di cui si dice - con soddisfazione — che si è ben adattato all'ambiente, che collabora con l'infermiere e con il medico, che si comporta bene con gli altri e non crea complicazioni né opposizioni12. Ci si congratula quindi del fatto che il paziente, a noi affidato perché lo si curasse riportandolo alla sua dignità umana, non esiste più come uomo ed andiamo rallegrandoci del suo non essere più in grado - attraverso impulsi e bisogni personali – di intralciare l'organizzazione ed il buon andamento dell'istituto.

Se poi lo stesso si trovi in condizioni di non pericolosità per sé e per gli altri da poter lasciare l'ospedale, precipiterà dal seno di questa comunità dove, in cambio della tutela, ha dovuto rinunciare a se stesso, in un mondo dove non c'è posto per lui, perché viene immediatamente sopraffatto, abituato com'è a non contare su di sé.

«Si immagini ora un uomo, a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente a chi ha perso tutto, di perdere se stesso»11

Queste parole, che sembrano riassumere la carriera dell'istituzionalizzato che si annienta ed oggettivizza nei nostri asili psichiatrici, sono state scritte da un internato in un campo di eliminazione nazista e si riferiscono al graduale processo di disintegrazione e spersonalizzazione cui il prigioniero era soggetto dal momento del suo ingresso nel campo e che precedeva la sua totale eliminazione. Il processo non appare molto diverso da quello del ricoverato dei nostri ospedali psichiatrici e se, in quest'ultimo, non è ancora chiaramente evidente quale parte abbia giocato la malattia e quale il ricovero coatto nello sviluppo di questa sindrome che potremmo definire di disumanizzazione, l'esempio di Primo Levi e dello stato di regressione, di restringimento, di chiusura da lui descritto come ultima tappa della carriera dell'internato, ci rivela di trovarci in presenza di un identico processo, nella cui genesi la malattia mentale, come causa primaria di regressione, è puramente casuale.

Che l'escluso dei campi nazisti abbia lo stesso volto del malato mentale, non significa che - attraverso privazioni, stenti e torture - l'internato impazzisca. Ma piuttosto che, posto in uno spazio coatto dove mortificazioni, umiliazioni, arbitrarietà sono la regola, l'uomo - qualunque sia il suo stato mentale - si oggettivizza gradualmente nelle leggi dell'internamento, identificandovisi. Il suo erigere la crosta di apatia, disinteresse, insensibilità non sarebbe dunque che il suo estremo atto di difesa contro il mondo che prima lo esclude e poi lo annienta: l'ultima risorsa personale che il malato, cosi come l'internato, oppone per tutelarsi dall'esperienza insopportabile del vivere coscientemente come escluso12.

Ritornando al problema del malato mentale come escluso, se si analizza quali forze abbiano potuto agire cosi profondamente su di lui da arrivare ad annientarlo, dopo averlo allontanato dalla società, si riconosce che una sola è in grado di provocare simili danni: l'autorità.

Un'organizzazione basata sul solo principio di autorità il cui scopo primo sia l'ordine e l'efficienza, deve scegliere fra la libertà del malato (quindi la resistenza che può opporgli) ed il buon andamento del ricovero. È stata sempre scelta l'efficienza ed il malato è stato sacrificato in suo nome.

Ma dal momento dell'immissione dei farmaci in psichiatria, un tale atteggiamento diventa incomprensibile e se esso è espressione del grave stato di istituzionalizzazione in cui vive l'attuale società che, reificata nelle sue regole e nei suoi miti, non sa attuare un passo che suoni di rottura e di rinnovamento, lo psichiatra non può continuare ad esserne il portavoce disinteressato. È già sufficientemente frustrante riconoscere di aver avuto bisogno di attendere la scoperta dei farmaci per ridare a questi malati l'umanità di cui soltanto la segregazione da noi imposta li aveva privati. Ma dopo che, con la loro azione, i farmaci hanno concretamente reso evidente allo psichiatra di non trovarsi di fronte ad una malattia, ma ad un uomo malato, non si può continuare a considerarlo solo come un escluso da cui la società vuole essere protetta. Questa società tenderà sempre a difendersi da ciò che le fa paura e ad imporre il suo sistema di restrizioni e di limiti alle organizzazioni delegate a curare i malati mentali. Ma lo psichiatra non può continuare ad assistere alla distruzione del malato a lui affidato, reso oggetto, ridotto a cosa da un'organizzazione che, anziché cercare il dialogo con lui, continua a parlare fra sé.

Se fino ad ora la società, e con lei lo psichiatra, hanno ritenuto di dover ricorrere alla forza per contenere e reprimere l'aggressività incontrollata del malato che incuteva loro paura, di fronte alle nuove proposte di liberalizzazione degli ospedali, il medico si trova impaurito davanti ad una libertà che non vuole riconoscere, perché presuppone la conoscenza della sua personale libertà, come superamento di un rapporto oggettivo con il paziente. Il che presupporrebbe, a sua volta, una presa di posizione dello psichiatra nei confronti del suo ruolo, dei suoi rapporti con l'autorità istituzionalizzata, del suo grado di integrazione in una società che si mantiene ambigua nelle sue richieste e nei suoi mandati.

Che l'aggressività del malato mentale sia stata ritenuta pericolosa dalla società e che una tale pericolosità richiedesse margini di sicurezza che la contenessero (come se si trattasse di un'originaria furia imprevedibile e non - come spesso accade - anche di una naturale reazione al complesso di frustrazioni subite) lo psichiatra non può mantenersi su un piano di neutralità fra il malato e la società, perché continuerebbe a fare il gioco di quest'ultima. Se non sarà lui a comprendere il significato di quest'aggressività, apparentemente stolida ed in-comprensibile, sarà con la sua autorità che sancirà - tecnicamente - l'ultimo atto di condanna verso il malato, cui non resterà che una possibilità: serializzarsi13 in balia del potere che lo determina.

Per questo anche la costruzione di nuovi ospedali psichiatrici, organizzati con le più moderne attrezzature sanitarie, porterà risultati analoghi a quelli dei vecchi manicomi se non sarà il rapporto fra medico, staff e malato a mutare. Se il medico imponeva prima con la forza e la coercizione la sua padronanza sul malato e lo teneva in suo potere, istituzionalizzandolo; ora si corre il rischio di provocare un'analoga situazione di sudditanza, giocando sui sentimenti di riconoscenza e di dedizione del ricoverato verso il medico che, dall'alto della sua posizione, si china ad interessarsi a lui. Il malato si sentirà oggetto di cure e di premure che lo legheranno al medico in un rapporto ancora più mortificante e distruttivo di quello autoritario. In tale tipo di rapporto la coppia malato-medico non si pone ancora su un piano di parità: il malato è sempre tenuto a distanza da chi lo cura, la distanza fra chi dà e chi riceve; la distanza fra la generosità e la riconoscenza, non quella fra dovere e diritto. In questo rapporto, dove il malato, sebbene non più considerato alla stregua degli esclusi, non è però mai preso in causa se non come oggetto di affettuosa cura, egli sprofonderà lentamente in uno stato di annientamento totale che uno di noi ha già chiamato altrove una sorta di istituzionalizzazione molle14.

Qualsiasi tipo di organizzazione che non tenga conto del malato nel suo libero, personale porsi nel mondo, fallirà il suo compito, perché agirà su di lui come una forza negativa, anche se apparentemente tesa alla sua guarigione. Un potere che agisca su una comunità deve tendere a mantenere in atto uno stato di conflitto per rispettarne ogni singolo membro. Ogni potere che tenda ad eliminare le resistenze, le opposizioni, le reazioni di chi è a lui affidato, è arbitrario e distruttivo, sia che si presenti sotto l'effige della forza, che sotto quella del paternalismo e della beneficenza.

Il primo atto di fronte all'escluso, all'istituzionalizzato che vegeta nei nostri asili, dovrebbe dunque essere quello di risvegliare in lui un sentimento di opposizione al potere che lo ha finora determinato ed istituzionalizzato. Su questa presa di coscienza della sua posizione di escluso e della parte di responsabilità che in questa sua esclusione la società ha giocato, il vuoto emozionale in cui il malato ha vissuto per anni, sarà gradualmente sostituito da una carica di aggressività personale che si risolverà in un'azione di aperta contestazione con il reale che il malato ora rifiuta, non più come atto di malattia, ma perché si tratta veramente di una realtà che non può essere vissuta da un uomo: la sua libertà sarà allora frutto della sua conquista e non un dono del più forte.

Ciò non significa caos ed anarchia. Significa conoscere la forza del potere come elemento coordinatore, come punto di appoggio, come fonte di protezione quando è necessaria e non come autorità assoluta, imposizione, controllo. Significa un potere che si muova ad un livello tale da riuscire a mantenere il conflitto costante nel rapporto con chi è a lui affidato. Significa vivere in uno stato di tensione reciproca in cui - reciprocamente - si tenga conto della necessità e del bisogno di libertà dell'altro.

Tuttavia scardinare regole, istituzioni e pregiudizi che da secoli determinano la nostra vita, non è facile. La società in cui viviamo (e di cui pure facciamo parte) tende a difendere il cittadino da tutto ciò che può turbare il fragile equilibrio in cui si muove. Ma dal momento in cui cade nella malattia mentale, essa non riconosce più alcuna responsabilità nei suoi confronti. Lo stesso cittadino per la cui tutela prima si batteva, perde d'un tratto ai suoi occhi ogni diritto ad essere difeso, entrando a far parte, al di là della barriera, della schiera di coloro da cui la società vuole essere protetta.

Per questo, finché non morirà nella società attuale attraverso un radicale mutamento delle sue strutture sociali, il clima di paura, di rifiuto e di esclusione del malato mentale; linché non si raccorcerà - nel reciproco riconoscimento - la distanza fra sano e malato e non cadrà la barriera di prevenzioni, di preconcetti che li separa, la malattia mentale continuerà a presentarsi con la faccia dell'escluso, anche se verrinino costruiti nuovi ospedali psichiatrici, modernamente or-ganizzati come dei mondi in sé compiuti, in cui tutti i bisogni lìano soddisfatti. Saturato e compensato il nostro senso di colpa verso i malati, nella costruzione di nuovi ospedali, ci limiteremmo a traslocare entro mura trasparenti, ma non meno incombenti, la nostra struttura gerarchico-autoritaria, fonte di ogni tipo di esclusione e quindi di regressione.

Se il malato ha pagato finora con l'esclusione per l'incolumità della società, saranno gli psichiatri a doversi esporre per creare una nuova situazione ospedaliera in cui sia il malato stesso ad operare per la conquista della sua libertà. Tuttavia la nostra posizione di privilegio rispetto ad un malato che è stato inferiorizzato ai nostri occhi, non sarà facilmente superabile (difficilmente riusciremo a cancellare il nostro ruolo che ci pone in una posizione di vantaggio) ma si potrà tentare di vivere le esigenze che fanno parte della realtà del malato, dando l'avvio ad un rapporto che - al di là di ogni schema istituzionalizzato - sia teso sul filo del rischio reciproco e della reciproca contestazione.

Il problema sarà quello del come organizzare una comunità che non deve essere determinata, che non può essere comandata, ma solo diretta da un potere che sappia limitarsi ad instradarla e a coordinarne le forze. È a questo punto che le esperienze di coloro che si pongono in questa dimensione vengono a convergere, quando - rifiutatisi di oggettivare con la forza il malato loro affidato — non vogliano mantenerlo alla stessa distanza attraverso il sentimento di dedizione e di compassione che lo annullerebbe, oggettivato dalla loro pietà. È ora che coloro che stanno agendo in questo senso si trovano — ciascuno per vie diverse, le vie della propria esperienza - ad inventare un nuovo modo di organizzare ciò che non può e non deve essere organizzato, alla ricerca di un metodo di cura che non debba, necessariamente, istituzionalizzarsi in regole ed in un ordine codificato; davanti alla necessità di un'organizzazione e all'impossibilità di concretarla; davanti al bisogno di formulare un abbozzo di sistema cui riferirsi, per subito trascenderlo e distruggerlo; al desiderio di provocare dall'alto gli avvenimenti e alla necessità di attendere che essi si elaborino e si sviluppino dalla base; davanti alla ricerca di un nuovo tipo di rapporto fra malato, medico e società in cui il ruolo protettivo dell'ospedale venga equamente diviso fra tutti; davanti alla necessità di mantenere un livello di conflitto, tale da stimolare, anziché reprimere, l'aggressività, il potere di contestare il reale anche se di questo reale siamo noi stessi i primi a far parte.

Note

1 Vedi al proposito J.-P. Sartre, Réflexions sur la question juive, Gallimard, Paris 1947.

2 G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito. Indipendenza e dipendenza dell'autocoscienza; signoria e servitù, La Nuova Italia, Firenze 1963, pp.153-64. È da tener presente che la dialettica servo-signore pone il rapporto su un piano di reciprocità, mentre nella situazione dell'escluso il signore - per dirla con Fanon - «se ne infischia della coscienza dello schiavo» e lo usa solo strumentalizzandolo.

3 E. Husserl, Meditazioni cartesiane e i discorsi parigini, V meditazione, trad. it. F. Costa, Bompiani, Milano 1960.

4 B. Bettelheim, The Injormed Heart, The Free Press, Glencoe 1960.

5 J. F. Steiner, Treblinka, Fayard, Paris 1966.

6 F. Basaglia e A. pirella, Deliri primari e deliri secondari e problemi Iniutticnologici di inquadramento, Simposio sui deliri cronici, XXIX Congresso nazionale della Società italiana di psichiatria, Pisa, maggio 1966.

7 F. Basaglia, L'ideologia del corpo come espressività nevrotica. Le nevrosi neurasteniche. Relazione al XXIX Congresso nazionale della Società

8 E. Goffman, Asylums, Anchor Books, Doubleday, New York 1961.

9 R. Burton, Institutional Neurosis, J.Wright, Bristol 1959.

10 E. Goffman, Asylums cit.

11 The Program Area Committee on Mental Health: Mental Disorders, American Public Health Assosiation, New York 1962.

12 D. Martin, in «Lancet», 2, 1188, 1955.

11 P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 1958.

12 Il problema dell'altro come escluso è stato analizzato - nel caso particolare del negro, ma secondo un'interpretazione allargabile ad ogni categoria di rifiutato - dallo psichiatra Frantz Fanon. La sua interpretazione si allinea a quella data da Sartre sul problema dell'ebraismo e sembra perfettamente adattabile all'analisi qui proposta del malato mentale come escluso, nel senso che viene messo a nudo il processo di proiezione per cui il signore (in questo caso il bianco, nel nostro la nostra società) riesce a congelare nel servo tutto ciò che rifiuta in sé. «Nella misura in cui scopro in me qualcosa di insolito, di riprovevole, non ho che una soluzione: sbarazzarmene, attribuire all'altro la paternità. In questo modo pongo fine ad un circuito di tensione che rischiava di compromettere il mio equilibrio... In Europa il Male è rappresentato dal Negro... l'uomo nero è il carnefice, Satana è nero, si parla delle tenebre, quando si è sporchi si è neri... In Europa il negro, sia in concreto sia come simbolo, rappresenta il lato perverso della personalità... In Europa il negro ha una funzione: quella di rappresentare sentimenti inferiori, le cattive inclinazioni, il lato oscuro dell'anima... Ora il capro espiatorio per la società bianca (basata sui miti: progresso, civiltà, liberalismo, educazione, luce, sottigliezza) sarà precisamente la forza che si oppone all'espansione, alla vittoria di quei miti. È il negro che fornisce questa brutale forza d'opposizione...» (Il Negro e l'altro, trad. it. Sears, Il Saggiatore, Milano 1965). «... È il colono ad aver fatto e a continuare a fare il colonizzato... Fin dalla nascita è chiaro per lui che quel mondo ristretto, cosparso di divieti, non può essere ripreso in esame se non attraverso la violenza assoluta... Il mondo coloniale è un mondo a scomparti» dove «forze estetiche del rispetto dell'ordine costituito, creano intorno allo sfruttato un'atmosfera di sottomissione e di umiliazioni che allevia notevolmente il compito delle forze dell'ordine... L'indigeno è un essere chiuso in un recinto, l'apartheid non è che una modalità della divisione in comparti del mondo coloniale» (I dannati della terra, trad. it. C. Cignetti, Einaudi, Torino 1962).

13 A proposito del concetto di «serializzazione» vedi J.-P. SARTRE, Critique de la raisott dialectique, Gallimard, Paris i960.

14 F. Basaglia, La distruzione dell'ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione, in «Annal. Neurol. e Psich.», 49, 1, 1965.