I manicomi sorgono abitualmente alla periferia delle città, in zone isolate, cintate da mura che diano il senso preciso della separazione, della frattura, del limite. La figura del malato di mente, quale espressione di una rottura della norma, è un'immagine da tenere a distanza perché non abbia a turbare il ritmo di una società che non si sente responsabile dei suoi frutti negativi e crede di risolverli allontanandoli da sé per non esserne coinvolta. Ma proprio questa necessità di isolare il malato di mente, di scrollarselo di dosso, è espressione dello stato di debolezza e di rimpicciolimento di una società che tende ad eliminare tutto ciò che turba la sua espansione, senza tener conto della parte di responsabilità che in questi processi essa pure gioca.
Quello del malato di mente appare si un problema sociale, ma da risolvere al di fuori della società stessa, senza che nessuno, oltre chi ne è vittima, abbia a pagare a causa di una malattia che pure, come dice Martin nel suo Avventure in Psichiatria, dovrebbe essere considerata il sintomo di una società malata più che una malattia individuale.
Per questo gli Ospedali Psichiatrici sorgono alla periferia della città, nello stesso modo che l'uomo tende a porre alla periferia di se stesso tutto ciò che devia dalla norma, che, attraverso il turbamento del regolare svolgersi del suo esistere, lo spingerebbe ad impegnarsi, ad affrontare l'imprevisto, a mutare, a tener conto degli altri.
Questa è la società dove accade che l'uomo si ammali. Questa la società che, impregnata di diffidenza e di pessimismo verso il malato mentale e la sua malattia, alza le mura dei manicomi per difendersene e ne stabilisce le regole. Ma questa è anche la società in cui si forma lo psichiatra da essa delegato alla cura dei malati. Quale dunque può essere l'azione dello psichiatra nei confronti del paziente; quali le richieste del malato alla società e allo psichiatra che ne è il rappresentante; quale il mandato della società allo psichiatra?
La situazione potrebbe essere così riassunta: vengono costruiti luoghi di cura dove si possa isolare il malato di mente, delegando lo psichiatra a tutelarlo nel suo isolamento, in modo da proteggere e difendere la società dalla paura che continua a nutrire nei suoi confronti. Contemporanea a questa azione difensiva, la società chiede però allo psichiatra la cura del malato, cosi da metterlo in grado, quando sia possibile, di ritornare ristabilito al suo ruolo, al suo posto.
Sono queste intenzioni, o questo incarico da parte della società allo psichiatra, che presentano un'evidente contraddizione interna, causa dello stato di profondo disagio nel quale vive la psichiatria italiana. La cura del malato (e non s'intende naturalmente la sola cura farmacologica, ormai adottata da anni in tutti gli Ospedali Psichiatrici, ma la ricerca di una riabilitazione, di un riadattamento sociale che deve accompagnarsi ad essa) non è possibile se si muove nel clima di paura, di repressione, nel bisogno di difesa, di tutela in cui la società, e quindi lo psichiatra stesso, continuano a vivere. La cura del malato mentale dovrebbe tendere alla riconquista di una libertà perduta, di una individualità sopraffatta, il che è esattamente l'opposto di ciò che il concetto di tutela, di difesa, di separazione, di segregazione vuole significare.
Se l'attuale società fosse interessata alla cura del malato mentale, questa sua intenzione dovrebbe essersi concretata in un'organizzazione creata attorno al malato, tale da stimolare lo sviluppo del suo Io rimpicciolito e ristretto dalla malattia; l'espansione della sua individualità frustrata; uno stimolo alla ricostituzione dei rapporti interpersonali con l'«altro», resi impossibili dall'incombere dell'altro su di lui. Ciò presupporrebbe la costituzione di una comunità in cui ogni singolo paziente potesse trovare il modo di espandersi, di riconquistare la propria libertà perduta; in un clima che stimoli all'autonomia, alla responsabilità personale, alla fiducia in sé e negli altri. Raggiunto lo scopo (la guarigione del malato) la società si incaricherebbe di riaccoglierlo, facilitando il suo reinserimento nel lavoro; aiutandolo a riinnestarsi nel suo ambiente, come se il suo temporaneo soggiorno in Ospedale Psichiatrico non implicasse alcuna diffidenza nei suoi confronti, né sfiducia nella sua ripresa, né nel suo ristabilito equilibrio.
Tutto ciò - nella sua semplicità ed accessibilità - suona addirittura ironico alle nostre orecchie, abituate ad altro linguaggio nei confronti della malattia mentale: il manicomio è storicamente nato a difesa dei sani; le mura servivano, quando l'assenza di terapie rendeva impossibile la guarigione, ad isolare la follia perché non dovesse invadere il nostro spazio. Ma tuttora esse conservano questo compito: dividere, separare, difendere i sani. Oltre le mura lo psichiatra, cui vengono affidati i malati, faccia quel che può. Gli si concedano o no i mezzi per lavorare, gli si consenta o no di curare chi gli viene affidato, deve rispondere prima di tutto dell'incolumità della società che vuol essere difesa dal folle e di quella del folle stesso.
Ora, di fronte a questo compito in cui nessuno ha mai «diviso» con lo psichiatra la responsabilità di un numero sempre maggiore di malati, non stupisce che il paziente per la cui salute l'ospedale dovrebbe essere stato costruito, sia rimasto schiacciato dall'ospedale stesso, chiuso (per la sua tutela e per quella della società) da grate, sbarre, cancelli, chiavi; costretto in uno spazio limitato perché più sicuro e più facilmente controllabile; impedito in ogni movimento, in ogni desiderio, in ogni progetto; indotto alla sottomissione, alla apatia, alla perdita di individualità che lo hanno portato ad un graduale rimpicciolimento del proprio Io, già ridotto e ristretto dallo stato morboso di cui soffre. Finora il malato mentale sembra sia stato il solo a pagare per la paura che la società tuttora prova di fronte alla sua malattia.
Al momento di proporre quindi un rinnovamento in campo di assistenza psichiatrica, si chiarisca se, nella possibilità di curare i malati mentali, come attualmente ci si trova dopo l'avvento dell'era farmacologica, l'ospedale psichiatrico e quindi lo psichiatra debba continuare a limitarsi a difendere la società da chi gli viene affidato o debba curarlo. Se si riconosce la possibilità di curare questi malati, che tutti si sentano coinvolti nella soluzione di questo problema; che la società accetti la sua parte di responsabilità e di «rischio»; che non si limiti ad affidare allo psichiatra un mandato che non può assolvere se non è aiutato da strutture (ospedaliere ed extraospedaliere) che siano costruite per la difesa, la protezione, la libertà, la guarigione, il reinserimento del malato e non per la sua distruzione, la sua istituzionalizzazione. Altri paesi hanno già un bagaglio di esperienze in questo senso, con risultati per noi impensabili, perché hanno saputo affiancare alle terapie farmacologiche, di cui pure disponiamo da anni nei nostri ospedali, tutta un'organizzazione terapeutica tendente alla riabilitazione ed al reinserimento sociale del malato.
La figura del nostro malato mentale, così come ci appare abitualmente, è invece quella dell'uomo oggettivato nell'istituto, l'uomo il cui grado di deterioramento, di annientamento non è provocato sempre e solo dall'originaria malattia, ma anche dal potere distruttivo del ricovero.
Al momento della sua «esclusione» dalla società il malato, già rimpicciolito dai limiti in cui la malattia lo costringe, entra in una nuova dimensione dove gli viene imposta - per il buon andamento dell'istituto, per semplificare la vita dell'asilo - una graduale rinuncia a tutto ciò che di personale e vivo resta ancora in lui. Incomincia cosi quella che Goffman chiama la «carriera morale» dell'istituzionalizzato, le cui tappe sono segnate dal graduale restringimento di sé, dalla perdita di interessi, dall'abbandono dei legami con l'esterno, con la sua vita passata che non gli appartiene più, con il futuro verso il quale non gli è consentito alcun progetto, spinto com'è dalle regole dell'istituto ad umiliarsi, a mortificarsi; a riconoscere come logica la perdita della propria individualità, lo stato di inferiorità di fronte agli altri, il rifiuto da parte dell'istituto che lo tutela di accettarlo nella sua dignità di uomo conservandogli, anche nella malattia, il diritto ad un minimo di autonomia e di responsabilità. Ridotto ad un campo di possibilità che non gli consente sbocchi, che non gli richiede una partecipazione, un intervento personale, ma anzi reprime in lui ogni spinta, ogni moto individuale in nome dell'ordine e dell'efficienza, non gli resterà che annullarsi, accettando come logica la sua oggettivazione nelle regole dell'istituto che lo determinano, definitivamente istituzionalizzato.
Il concetto di «istituzionalizzazione» non è nuovo. Il vecchio termine di «artefatti manicomiali», supinamente accettati come conseguenza inevitabile di un prolungato ricovero, vuole appunto riferirsi a particolari atteggiamenti — molto spesso confusi come sintomi di malattia - cui si assiste in ricoverati di istituti che, attraverso un'imposizione coercitiva ed autoritaria, provocano il sovrapporsi di una malattia sulla malattia originaria.
L'apatia, il disinteresse, il lento e monotono passeggiare a testa china, senza scopo, negli enormi androni o nei cortili chiusi, certi impulsi immotivati (troppo spesso riferiti alla malattia), un comportamento remissivo da animale addomesticato, le lamentele stereotipate, lo sguardo perso perché non c'è un dove potersi appoggiare, la mente vuota perché non ha una meta verso cui tendere, non sono che alcuni aspetti di questa «sindrome» e rappresentano il lento, graduale, innaturale adattamento ad un potere che, sorto per tutelare e curare chi gli viene affidato, è ricorso all'ultimo strumento su cui doveva far leva nel caso di questo particolare malato: la forza.
Il perfetto ricoverato - all'apice di questa desolante carriera - sarà dunque quello che si presenta completamente ammansito, docile al volere degli infermieri e del medico; quello che si lascia vestire senza reagire, che si lascia pulire, imboccare, che si offre per essere riassettato come si riassetta la sua stanza il mattino; il malato che non complica le cose con reazioni personali, ma si adegua anzi supinamente, passivamente al potere dell'autorità che lo tutela.
Quando questo malato si trovi poi in condizioni tali di «non pericolosità per sé e per gli altri» da poter lasciare l'ospedale, precipiterà dal seno di questa comunità dove, in cambio della tutela, ha dovuto rinunciare a se stesso, in un mondo dove non c'è posto per lui perché viene immediatamente sopraffatto dalla forza cui non sa resistere, abituato com'è a non contare su di sé.
L'istituzionalizzato è dunque il risultato di un fallimento; il risultato di un'organizzazione ospedaliera che lo ha definitivamente distrutto per la paura che la sua malattia continua ad incuterle.
Analizzando ora quali forze abbiano potuto agire così pro fondamente sul malato da arrivare ad annientarlo, si riconosce che una sola è in grado di provocare simili danni: l'autorità. Un'organizzazione basata sul solo principio di autorità il cui scopo primo sia l'ordine e l'efficienza, deve scegliere fra la libertà del malato (e quindi la resistenza che può opporgli) ed il buon andamento del ricovero. È stata sempre scelta l'efficienza ed il malato è stato sacrificato in suo nome. Ma dal momento dell'immissione dei farmaci in psichiatria un tale atteggiamento diventa incomprensibile e se esso è espressione del grave stato di istituzionalizzazione in cui vive l'attuale società che, reificata nelle sue regole e nei suoi miti, non sa attuare un passo che suoni di rottura e di rinnovamento, lo psichiatra non può continuare ad esserne il portavoce disinteressato. È già sufficientemente frustrante riconoscere di aver avuto bisogno di attendere la scoperta dei farmaci per ridare a questi malati l'umanità di cui soltanto la segregazione da noi imposta li aveva privati: ma dopo che con la loro azione i farmaci hanno concretamente reso evidente allo psichiatra di non trovarsi di fronte ad una malattia, ma ad un uomo malato, egli non può continuare a considerarlo come un elemento da cui la società deve essere protetta. Questa società tenderà sempre a difendersi da ciò che le fa paura e ad imporre il suo sistema di restrizioni e di limiti alle organizzazioni delegate a curare i malati mentali; ma lo psichiatra non può continuare ad assistere alla distruzione del malato a lui affidato, reso oggetto, ridotto a «cosa» da un'organizzazione che, anziché cercare il dialogo con lui continua a parlare fra sé.
Nel 1839 ad Hanwell (Inghilterra) lo psichiatra Conolly ha saputo prendere la coraggiosa decisione di sopprimere tutti i dispositivi di contenzione e di repressione, creando il primo «Ospedale aperto». Il personale era costituito da 30 infermieri su 593 ricoverati. Non esistevano ganglioplegici, né antidepressivi, né terapie di shock e la cura era limitata da una sorta di «trattamento morale», in un clima di fiducia e di libertà. L'esperimento durò vent'anni, finché una direzione più ottusa e meno coraggiosa di quella di Conolly, non richiuse l'asilo riducendolo un manicomio classico. Quest'esempio continua comunque a parlare di un malato mentale per il quale la forza non era, necessariamente, l'unico modo di approccio, anche se più di un secolo prima dell'era farmacologica.
Il sistema istituzionale attuale, basato sull'autorità e sulla coercizione (a loro volta risultanti dalla paura che il malato ancora incute) è evidentemente inaccettabile e la proposta di una nuova legge che corregga questi secolari errori ne è testimonianza. Ciò di cui si deve tener conto però è che l'autorità ed il suo potere distruttivo possono agire anche sotto facce diverse da quelle della forza e della coercizione.
Se fino ad ora la società, e con lei lo psichiatra, hanno ritenuto di dover ricorrere alla forza per contenere e reprimere l'aggressività incontrollata del malato che incuteva loro paura, di fronte alle nuove proposte di liberalizzazione degli ospedali, il medico si trova impaurito davanti ad una libertà che non vuole riconoscere, perché presupporrebbe la conoscenza della sua personale libertà, come superamento di un rapporto oggettuale con il paziente. In lui lo psichiatra non può più vedere solo un isolato oggetto di studio che gli si offre in una relazione alienante, ma un soggetto in cui può riconoscere la sua personale soggettività e libertà.
Si costruiscano nuovi ospedali psichiatrici, con le più moderne attrezzature sanitarie, dove i malati vengano trattati con le più attuali terapie farmacologiche; se non sarà il rapporto fra medico, staff e malato a mutare, i risultati saranno pressoché analoghi a quelli dei vecchi manicomi. Se il medico imponeva prima con la forza e la coercizione la sua padronanza sul malato e lo teneva in suo potere, istituzionalizzandolo, ora si corre il rischio di provocare un'analoga situazione di sudditanza, giocando sui sentimenti di riconoscenza e di dedizione del ricoverato verso il medico che, dall'alto della sua posizione, si china ad interessarsi a lui. Il malato si sentirà cosi oggetto di cure e di premure che lo legheranno al medico in un rapporto ancora più mortificante e distruttivo di quello autoritario. In tale tipo di rapporto la coppia malato-medico non si pone ancora su un piano di parità: il malato è sempre tenuto a distanza da chi lo cura, la distanza fra chi dà e chi riceve; la distanza fra la generosità e la riconoscenza, non quella fra dovere e diritto. In questo rapporto dove il malato non è mai preso in causa se non come oggetto di cura, egli sprofonderà lentamente in uno stato di annien-tamento totale che ho già chiamato altrove una sorta di «istituzionalizzazione molle».
Qualsiasi tipo di organizzazione che non tenga conto del malato nel suo libero, personale porsi nel mondo, fallirà il suo compito, perché agirà su di lui come una forza negativa anche se apparentemente tesa alla sua guarigione. Un potere che agisca su una comunità deve tendere a mantenere in atto uno stato di conflitto per rispettarne ogni singolo membro. Ogni potere che tende ad eliminare le resistenze, le opposizioni, le reazioni di chi è a lui affidato, è arbitrario e distruttivo, sia che si presenti sotto l'effige della forza o sotto quella del paternalismo e della beneficenza.
Per riabilitare l'istituzionalizzato che vegeta nei nostri asili, sarà quindi più importante sforzarci - prima di costruirgli attorno un nuovo spazio accogliente, umano di cui pure ha bisogno - di risvegliare in lui un sentimento di opposizione al potere che lo ha finora determinato ed istituzionalizzato. Dal risveglio di questo sentimento, il vuoto emozionale in cui il malato ha vissuto per anni, tornerà a riempirsi delle forze personali di reazione, di conflitto, dell'aggressività sulla quale - sola - sarà possibile far leva per la sua riabilitazione.
Ciò non significa caos ed anarchia. Significa conoscere la forza del potere come elemento coordinatore, come punto di appoggio, come fonte di protezione quando è necessaria e non come autorità assoluta, imposizione, controllo. Significa un potere che si muova ad un livello tale da riuscire a mantenere e a sostenere il conflitto costante nel rapporto con chi è a lui affidato; significa vivere in uno stato di tensione reciproca in cui - reciprocamente - si tenga conto delle necessità e del bisogno di libertà di ogni singolo.
Tutto ciò non è utopistico. Paesi non dissimili dal nostro hanno da anni attuato una riforma sanitaria che, dopo aver aperto gli ospedali psichiatrici, ha portato il malato mentale al livello di ogni altro tipo di malato, considerando il problema soprattutto dal punto di vista sociale nel coinvolgere l'intera società nella sua soluzione. I risultati ottenuti ci devono far pensare.
Dagli anni cinquanta gran parte degli ospedali psichiatrici di molti paesi hanno abbandonato il sistema mortificante della vita istituzionale e si sono trasformati in comunità capaci di offrire al malato sicurezza e protezione, senza dover ricorrere all'imposizione e alla forza. Il concetto di Comunità Terapeutica che uniforma gran parte di questi ospedali, è la base su cui si accentra l'opera del medico e del personale ospedaliero. Una comunità in cui il medico - sceso dall'alto della sua posizione - si trovi finalmente da pari a pari con il malato, dividendo con lui il rischio della sua libertà; una comunità che si basi su un rispetto reciproco, sulla ricerca di un rapporto, sulla costituzione di un incontro con il singolo e con la collettività dove la malattia mentale deve risolversi. In questa comunità il compito dello psichiatra non può limitarsi alla semplice tutela o alla cura farmacologica, ma — coadiuvato da personale preparato e competente - dovrà tendere a stimolare la realizzazione di sé di ogni singolo malato, scoprendo per ognuno le vie alla propria espansione, allo sviluppo delle proprie possibilità.
Riuscire a scardinare regole ed istituzioni che da secoli determinano la nostra vita non è facile. La società in cui viviamo tende a difendere il cittadino da tutto ciò che può turbare il fragile equilibrio in cui si muove. Ma dal momento in cui cade nella malattia mentale (che pure è il prodotto di una società malata) essa non riconosce più alcuna responsabilità nei suoi confronti. Lo stesso cittadino per la cui tutela prima si batteva, perde d'un tratto ai suoi occhi ogni diritto ad essere difeso, entrando a far parte, al di là della barriera, della schiera di coloro da cui la società vuole essere protetta.
Per questo, finché non morirà nella società stessa, attraverso un radicale mutamento delle sue strutture sociali, il clima di paura e di rifiuto del malato mentale; finché non si raccorcerà, nel reciproco riconoscimento della propria umanità, la distanza fra sano e malato e non cadrà la barriera di prevenzioni, di preconcetti che li separa, la costruzione di nuovi ospedali psichiatrici, modernamente organizzati come dei mondi in sé compiuti in cui tutti i bisogni siano soddisfatti, non risolverà il problema della malattia mentale che continuerà a presentarsi con la stessa urgenza e drammaticità.
Se finora il malato mentale ha pagato con la segregazione per l'incolumità della società, sta in noi ora pagare il rischio della sua libertà. Solo in questo modo, dando al malato tutta la fiducia che gli è necessaria per riuscire a riconquistare se stesso, si potrà impostare un rapporto da pari a pari fra malato, medico e la società che si affianca loro per la soluzione di un problema comune.
Queste enunciazioni non sono soltanto un abbozzo per una prospettiva futura a carattere utopistico, ma il risultato di uno sforzo concreto, di un esperimento in un Ospedale Psichiatrico, attualmente quasi del tutto aperto, dove la forza e l'autorità arbitraria non sono più l'unico metodo di approccio. Un ospedale che tende a costituirsi come una comunità dove la «porta aperta», quale simbolo della fiducia ridata al recluso, del riconoscimento della sua umanità e dignità, agisca sul malato come uno stimolo alla speranza, alla riscoperta di sé, delle proprie forze personali su cui ancora può contare.
Il problema sarà ora quello del «come» organizzare questa comunità che non deve essere determinata, che non può essere comandata, ma solo diretta da un potere che sappia limitarsi ad instradarla ed a coordinarne le forze.
È a questo punto che le esperienze di coloro che si pongono in questa dimensione vengono a convergere quando, rifiutatisi di oggettivare con la forza il malato loro affidato, non vogliano mantenerlo alla stessa distanza attraverso il sentimento di protezione e di compassione che lo annullerebbe, oggettivato dalla loro pietà. È ora che coloro che stanno agendo in questo senso si trovano — ciascuno per vie diverse, le vie della propria esperienza - ad «inventare» un nuovo modo di organizzare ciò che non può e non deve essere organizzato, alla ricerca di un metodo di cura che non debba, necessariamente, istituzionalizzarsi in regole e in un ordine codificato.
Da Burton, cui si deve la monografia sulla descrizione della sindrome da istituzionalizzazione; dalle esperienze di Stan-ton e Schwartz che dovrebbero considerarsi un punto di riferimento per l'organizzazione di ospedali psichiatrici; a Goff-man che analizza spietatamente ogni atteggiamento ed ogni condotta in cui l'uomo può prevaricare sull'altro; a Martin che nella sua monografia descrive il «salto nel buio» che lo psichiatra deve compiere per liberarsi da ogni vincolo e da ogni sovrastruttura che lo manterrebbe legato alle mura del manicomio, istituzionalizzandolo; ai sociologi, filosofi e psicologi come Robert Kahn, Abraham Kaplan che si sono occupati del problema del potere come fonte di regressione; ci si incontra tutti allo stesso punto, di fronte allo stesso problema: davanti alla necessità di un'organizzazione e all'impossibilità di concretarla; davanti al bisogno di formulare un abbozzo di sistema cui riferirsi, per subito trascenderlo e distruggerlo; al desiderio di provocare dall'alto gli avvenimenti e alla necessità di attendere che essi si elaborino e si sviluppino dalla base; davanti alla ricerca di un nuovo tipo di rapporto fra malato, medico, staff e società in cui il ruolo protettivo dell'ospedale venga equamente diviso fra tutti, soprattutto dall'unione comunitaria dei malati che devono giungere ad aiutarsi, reciprocamente, nella soluzione dei loro problemi comuni; davanti alla necessità di mantenere un livello di conflitto tale da stimolare, anziché reprimere, l'aggressività, le forze di reazione individuali di ogni singolo malato. Un paziente che ha intuitivamente ben compreso questa situazione, mi diceva: «Può farci anche l'ospedale d'oro, noi resteremo sempre nemici: lei resta il sano e io il malato». Questa dichiarazione di guerra è l'unico compenso che ci sia consentito (e in questo senso lo ritengo il risultato positivo di uno sforzo) e proprio nel mantenimento di questa aggressività che annulla ogni sentimento di riconoscenza e di dedizione, si può iniziare un rapporto da pari a pari, il solo in grado di affrontare il malato mentale.