Ansia e malafede. La condizione umana del nevrotico

Rivista Sperimentale di Freniatria», 88, 11, 1964

Ma [se] la maggior parte del tempo fuggiamo l'angoscia nella malafede... la legge della mia libertà... fa sì che non possa essere senza scegliermi.

                                       J. -P. Sartre, L'étre et le néant


La crisi che coinvolge in questo secolo la nostra cultura, non poteva lasciare intatte - come branche della scienza messa in discussione - la psicologia e la psichiatria nelle quali anzi - più che in qualsiasi altro gruppo di scienze - si rivela come problema centrale l'enigma che sta alla base di ogni discussione sulla crisi: la soggettività umana.

L'uomo moderno, nel suo lasciarsi determinare da tutto ciò che lo circonda e che gli viene incontro come un'offerta sia di benessere e prosperità che di distruzione e morte, rinuncia alla sua individuale partecipazione alla «sua» esistenza, rinuncia alla sua soggettività e si oggettivizza nei prodotti delle scienze. Ma quando perde la propria soggettività l'uomo si aliena, di una alienazione che non è malata ma che è evidenza della perdita della propria libertà di scegliere e costruire sé ed il proprio mondo. Per questo la psicologia, come studio dell'uomo alla ricerca della propria soggettività ed individualità, denuncia la sua stessa crisi.

L'uomo, determinato dalle «cose», privato della propria libertà, oggettivato, alienato è pronto a cadere nell'oggettivazione malata. La psichiatria, come studio della patologia della libertà, si trova dunque davanti un'umanità «malata» prima ancora di ammalarsi.

Per questo psicologia e psichiatria vanno alla ricerca del loro significato nella filosofia, la sola in grado di far comprendere alla radice l'uomo, i problemi del senso e del non-senso della sua esistenza, il suo modo di porsi di fronte al mondo, il suo modo di costruire il suo Dasein, la sua possibilità di essere autentico o di non essere autentico, di scegliere o di non scegliere.

Ma siamo ancora ai primi atti di quella che Husserl chiama «la lotta appassionata per la comprensione dei veri motivi di un secolare fallimento...» se uno psichiatra illuminato come E. Straus, cui la fenomenologia odierna deve molto, critica tanto scetticamente alcuni indirizzi psicoterapici solo perché, - partendo da concetti filosofici heideggeriani - riconoscono nell'«autentico» e nell'«inautentico» oltre che delle categorie filosofiche, categorie psicologiche da cui trarre considerazioni psichiatriche. Straus suffraga il suo giudizio rifacendosi alle parole di Heidegger per il quale l'autenticità sono si «la possibilità del Dasein di guadagnare o di perdere se stesso», quando esse siano da intendersi però come una differenza essenziale di modalità dell'essere, come categorie ontologiche, mai come categorie psichiatriche; arrivando anzi ad affermare - con le parole di Heidegger -che «innanzitutto o per lo più il Dasein è "man", "inautenticità"», un'inautenticità nella quale tuttavia la maggioranza degli uomini che non soffrono e non fanno soffrire gli altri (si intendono gli uomini sani) vive - a suo dire - perfettamente a proprio agio. L'inautenticità, non è però qualche cosa come un essere meno o un grado di essere più basso. Essa è ciò che dà corpo al Dasein, precisa il Dasein nella sua pienezza, nel suo affaccendarsi, nel ricevere segnali e stimoli, nel suo essere interessato, nella sua capacità di provar piacere: è l'essere-con di Heidegger. «Se l'inautenticità - conclude Straus - non fosse da intendersi come una categoria filosofica, bensì come categoria psichiatrica, allora noi psichiatri dovremmo invitare nei nostri ambulatori l'intera umanità nel presuntuoso atteggiamento che, in virtù della nostra preparazione, siamo riusciti non solo a cogliere noi stessi nella nostra proprietà (o meglio autenticità), ma che possiamo essere di aiuto agli altri nel cogliere la loro (autenticità)».

Ma se è vero che l'uomo vive innanzitutto e per lo più nell'inautenticità, come afferma Straus riferendo le parole di Heidegger, ci si potrebbe chiedere se è anche vero che è contento e a proprio agio in questo suo stato, quando i frutti dell'inautenticità in cui vive sono la violenza e le guerre, accettate sempre come qualcosa di inevitabile, ritmicamente ricorrente nel tempo, come mandate dal Destino, dal Fato, senza che l'uomo se ne sia mai sentito corresponsabile. Se è davvero contento e a proprio agio in quel suo sentirsi mai partecipe e responsabile neppure quando accetta una prosperità improvvisa regalatagli dallo sviluppo delle tecniche che, proprio per la sua mancata partecipazione, lo porta - attraverso la sua oggettivazione - alla sua stessa distruzione. Se è contento e a proprio agio quando ricorre all'uccisione ed alla violenza per sedare la paura e la colpa.

È da questa prospettiva che si vuole partire per conoscere questo Dasein inautentico, questo «si» impersonale, non per cercare come psichiatri i malati in questa dimensione (come sembra concludere Straus con le sue argomentazioni), ma per vedere se il disagio inconsapevole, l'aggressività cui l'uomo dà sempre nomi diversi, l'infelicità trascesa in un'oggettivazione di malafede non siano la spia di una lotta che l'uomo ingaggia con se stesso per esprimere le proprie possibilità più nascoste, per attuare la propria libertà nella valorizzazione della propria soggettività.

Di fronte a queste che sembrano le esigenze più significanti dell'uomo, è dunque legittimo che lo psichiatra si domandi come si situi l'uomo nel mondo, quali siano i suoi rapporti con se stesso, per conoscere quali siano i rapporti con l'altro e vedere se, da una condizione ordinaria di inautenticità e di angoscia, sia possibile realizzare per l'uomo la propria responsabilità, il proprio valore. Se sia cioè possibile all'uomo attuare la propria autenticità in una scelta.

È qui che psicologia e psichiatria («se non si vuole che l'uomo, ridotto a mero uomo di fatto, le trasformi a scienze di fatto») trovano il loro significato: qui, messo fra parentesi il mondano, il pregiudizio, l'impersonale, l'inautentico, psicologia e psichiatria incontrano - attraverso la riduzione fenomenologica - l'uomo come uomo che esperisce le cose alla radice, come uomo che rifiuta l'impersonale nel tentativo di conquistare la propria individualità e libertà.

L'individualità - che non è che la mia scelta - è un bene da conquistare. L'uomo che tende ad individualizzarsi è dunque un uomo che sceglie se stesso nella lotta per il proprio progetto e non pare identificabile nella semplice coesistenza dell'essere-con di Heidegger. L'«essere-con di Heidegger - dice Sartre al proposito - non è la mia posizione chiara e distinta di un individuo di fronte ad un altro individuo... è la sorda esistenza in comune del vogatore con la squadra, quell'esistenza che il ritmo dei remi o i movimenti regolari del timoniere renderanno sensibile ai rematori».

Se dunque l'inautenticità è la mia incapacità a realizzare tutte le mie possibilità individuali in seguito alla mancata presa di coscienza di me, di che tipo sarà il rapporto di quest'uomo inautentico con l'altro?

Mi rifaccio alle parole di Paci nella sua ultima critica husserliana: «L'altro che non sono io sarà dunque oscuro nella misura in cui io non mi rivelo a me stesso. Gli altri restano nascosti, oscuri ed incomprensibili nella misura in cui c'è in me un alter ego incomprensibile a me stesso. Se dunque il mondo che mi circonda, proprio in quanto oscuro, può considerarsi la proiezione del mio io oscuro, si può anche interpretare il mio io come una proiezione del mondo... Io nego al mio alter ego la soggettività e nego agli altri la soggettività. Ciò facendo riduco il soggettivo ad oggettivazione».

L'uomo inautentico non può dunque che proiettare fuori di sé la zona oscura che non riesce ad individuare per potersi realizzare nella propria scelta. Non può soggettivarsi ed oggettivizza se stesso negli altri, si aliena, si dà al mondo, si rende accessibile, preda del mondo, si fa cosa, oggetto: dunque non sceglie.

Se l'uomo vive nell'inautenticità, cioè non si sceglie nella propria fattità, proietta se stesso non nella propria soggettività individuata, ma come oggetto. Si oggettivizza trascendendo la propria fattità nell'illusorio tentativo di creare un alibi davanti al suo «io di sé», al suo alter ego che non riesce a conoscere. Egli non ha fatto suo il mondo, non è nel mondo, ma è un oggetto del mondo: la parte oscura di sé che non riesce a soggettivizzare lo porta a possedere gli altri - oggetti come lui. È dunque il signore (soggetto illusorio perché oggetto di se stesso) di servi-oggetto. Nella dialettica hegeliana servo-signore, il signore ha avocato a sé la paura dei suoi servi-oggetto, ma è un signore-oggetto con l'ansia dei servi incorporata. Egli ha affrontato la morte, ma non era la «sua»: era la morte e la paura che i servi gli avevano affidata per esserne difesi e lui l'ha affrontata trascendendo la propria fattità nel ruolo di «signore», di «vincitore» della morte.

Entrambi sono dunque nel mondo ambiguo della malafede di Sartre.

Il servo perché ha venduto al signore la propria libertà per paura della propria paura. Perché preferisce vivere nell'inautenticità piuttosto che affrontare la propria scelta, la propria responsabilità. Perché, piuttosto che trovarsi solo con la propria angoscia e la propria responsabilità, accetta di vivere «nella sorda esistenza del vogatore con la sua squadra», all'ordine di un timoniere che lo tiene in pugno e che, privandolo della morte, lo priva della vita. Ansia, colpa, morte non esistono per il servo che tutto ha affidato al signore: resta il Fato, restano le Avversità del Destino contro cui il servo, nella sua ambiguità complice, non può lottare - forze queste diventate troppo grandi per lui che ha rinunciato alla lotta fin dal momento della sua sottomissione al signore.

Ma neppure il signore, nella vittoria sulla morte, riesce a conquistare la sua libertà. Perché per vincere la propria morte è necessitato ad innalzare la violenza a sua sola fede. Perché per vincere la propria angoscia ha bisogno della morte altrui. Perché nell'uccisione giustifica la colpa con la necessità di violenza. Anch'egli dunque è spinto, costretto, dominato, oggettivato: c'è la Storia, c'è la Missione in cui il signore si identifica e nelle quali può feticizzare la sua paura: sono Esse che esigono e giustificano la sua violenza.

«I bisogni, l'eros, l'angoscia» sono vissuti dalla coppia servo-signore nella complicità dell'io con se stesso. L'essere nella squadra unisce le loro stesse complicità cosi che l'uno trova nell'altro la giustificazione e la copertura alla propria angoscia.

Ma è nel pormi chiaro e distinto di fronte ad un altro individuo che io mi scelgo in una lotta mia, in una mia scelta verso un fine, un futuro che è «mio e tuo» prima che «nostro» e che mi toglie dall'ambiguità della malafede.

Si può dunque dire che come l'inautenticità, cioè la nonscelta, «non è qualcosa come un essere-meno o un grado di essere più basso», non è cioè una sorta di degradazione, ma è il Dasein stesso, la possibilità, il modo di essere dell'uomo; neppure l'autenticità, cioè la scelta, è qualcosa come un essere di più e un grado di essere più alto, più buono, più perfetto: essa è ciò che può dare significato al Dasein, alla sua piena corposità, al suo ricevere segnali e stimoli. L'autenticità è il Dasein stesso, il modo di essere, la possibilità dell'uomo di ritrovarsi, di conoscersi, di essere-per-porsi con gli altri verso il suo vero significato esistenziale, nella scelta: «la legge della mia libertà è che non possa essere senza scegliermi» (Sartre).

Di fronte all'angoscia e alla morte l'uomo può dunque scegliere il suo Dasein. Se esistere significa essere per porsi con gli altri, ogni esistente attuerà il suo modo di essere, il suo «comportamento» attraverso il superamento della propria situazione nella scelta del suo progetto, del suo fine. Il momento della scelta, dunque, è il momento unico, determinante per l'uomo che vuol far sua la propria esistenza. Quando diviene intenzionalmente cosciente del suo mondo, delle relazioni che lo legano ad esso, del posto che vi detiene, del suo passato, egli sceglie se stesso nella propria situazione e si supera nel suo progetto attuando la sua personale responsabilità e libertà.

Ma di fronte a questa scelta nella quale impegna tutto se stesso, tutta la sua esistenza diventa problematica: in questo momento l'uomo può realizzare o mancare il suo Dasein. Di qui origina la Sorge, l'«affanno» ed in conseguenza di esso il problema dell'ansia: l'uomo di fronte ad ogni dilemma interiore, ad ogni indecisione, all'aut-aut si problematicizza: deve esserci comunque, deve scegliere, non può sfuggire alla scelta.

Cosi, nell'analisi dei vari modi di porsi di fronte alla Sorge, alla «cura», all'affanno che da ogni scelta deriva, nei vari modi di affrontarla o di eluderla, si possono evidenziare i diversi comportamenti dell'uomo di fronte alla sua responsabilità, di fronte al suo compito. Comportamenti intesi non come la risposta ad una data situazione, ma come alcune fra le possibili condotte umane di fronte all'angoscia del vivere, di fronte alla responsabilità del nostro essere-qui.

I comportamenti presi in esame paleseranno dunque, di volta in volta, le varie modalità con le quali l'individuo va incontro alla sua scelta, accetta o non accetta la propria responsabilità e la propria angoscia, sceglie se stesso in vista del suo fine o si rifiuta.

Tali comportamenti potrebbero essere riconducibili a tre:

1) Il comportamento della scelta.

2) Il comportamento di malafede.

3) Il comportamento nevrotico.

1. Il comportamento della scelta.

«Innanzitutto e per lo più il Dasein è inautenticità» dice Heidegger, e Straus continua: « l'uomo vive contento e a proprio agio in questa inautenticità». Ma se è vero dunque, come Sartre sostiene, che «la maggior parte del tempo fuggiamo l'angoscia nella malafede», si può rispondere, sempre con Sartre che «la legge della mia libertà... fa si che non possa essere senza scegliermi». Nello scegliersi, nell'accettarsi l'uomo trova dunque completo il significato del proprio Dasein nel superamento del dato in vista di un fine. L'uomo si decide ad una scelta in cui trova la concretezza della propria porta personale, cosicché, nel superare se stesso nel proprio progetto, rivendica il diritto alla propria libertà e responsabilità: tutto ciò che accade è suo perché scelto ed integrato alla sua situazione.

Questa affermazione cosi sicura potrebbe far pensare alla immagine di un superuomo privo di incertezze, al di là ormai delle contraddizioni umane. Ma nel comportamento della scelta l'uomo si limita a tendere verso la sua libertà: la scelta non è fatta una volta per tutte, ma si rinnova nel rinnovarsi del dato verso un nuovo fine. L'uomo vive con l'ansia che ha accettato nella scelta come parte della sua situazione, realizzando nell'angoscia la sua condizione umana. Ha accettato la sua fattità senza compensi e giustificazioni, senza premunirsi di alibi. L'ansia è con lui e non attorno a lui: non lo determina, ma lo accompagna con una nuova funzione di spinta verso il suo progetto, verso il suo impegno. Vive con l'ansia nel suo progetto ed è quindi l'ansia vissuta che gli dà «slancio» e lo mette al passo col mondo.

In questo comportamento l'uomo tende ad uscire dalla sua ordinaria condizione impersonale verso un mondo di scelta, non feticizzandolo in un'immagine, in un'oggettivazione, ma cercando di dare un significato intenzionale alla sua esistenza.

In questo comportamento di scelta l'inautenticità tende al suo significato.

2. Il comportamento di malafede.

Se l'uomo, davanti all'aut-aut non è in grado di affrontare la decisione della scelta, di risolvere il dilemma esistenziale, l'ansia lo precipiterà in una inquietudine che lo spingerà alla ricerca di una situazione di compenso, tale da sedare la sua Sorge, il suo affanno: questo è l'appagamento del vivere inautentico, è l'essere con la squadra nella sorda esistenza in comune ritmata dai movimenti regolari del timoniere; è il comportamento di malafede nel quale l'uomo può dilazionare la scelta, o meglio scegliere una quasi-scelta, mantenendosi sempre nell'equivoco dell'universale, dell'astratto, dell'impersonale senza riuscire a caratterizzarsi ed a trovare la propria individualità.

Trascendendo alla sua fattità egli si crea una pseudo distanza dagli altri; distanza impossibile ad essere stabilita proprio da chi non sa attuarla in se stesso. Egli non si accetta cosi come è e deve trovare un compenso in quello che non è. Ma, negando la propria soggettività, egli rifiuta il significato del suo Dasein. Costantemente preoccupato di mantenere la distanza dall'altro che, altrimenti, entrerebbe in lui, presume di poterlo in questo modo determinare senza accorgersi che, proprio in questa costante, ossessiva necessità di distanziarsi egli è dall'altro dominato e determinato: si oggettivizza proprio quando crede di più soggettivarsi.

È l'uomo dagli atteggiamenti scettici sempre scontati, l'uomo contento della propria riuscita. L'uomo che, oggettivato nell'altro, sente la necessità di essere-con l'altro non per percorrere assieme la strada tendendo verso il suo fine, ma per battere assieme il remo nella barca al comando del timoniere. È il servo o il signore che, in un'inautentica complicità, si crea la divisa della trascendenza e copre nella Missione o nel Fato, l'ansia sempre in agguato. Egli non ha una professione, è la sua professione, nella quale trova la completezza della sua esistenza. La sua appartenenza ad un ceto sociale condiziona tutto il suo comportamento. Nel mondo non è per esserci, ma per compiere la sua Missione, ed è solo con essa, con l'ansia ben coperta che sonnecchia sotto il suo buon senso e la sua ufficialità soddisfatta. Nell'appagamento della sua inautenticità egli si compensa, vive la sua giornata, affronta i suoi impegni, sempre nella «barca», sempre al ritmo complice dei remi che lo protegge.

In questo comportamento di quasi-scelta e di malafede l'inautenticità trova il suo compenso.

3. Il comportamento nevrotico.

A differenza dei due comportamenti precedenti, il nevrotico - posto in situazione - non può né accettare immediatamente la propria fattità, né dilazionare la scelta creandosi dei compensi. Egli è solo bloccato dall'ansia che tale scelta accompagna e, come fascinato da essa, si arresta non riconoscendo nella paticità che lo domina il momento della sua unica possibilità. In tal modo il nevrotico manca il proprio Dasein non nella malafede (creandosi cioè comunque dei compensi), ma evitando di porsi in un divenire, in un progetto che gli richiederebbe esso stesso una scelta, un impegno.

E ciò perché l'ansia che lo domina nell'angosciosa attesa del suo inevitabile incontro con la Sorge, gli impedisce di prendere la benché minima posizione, di fare il minimo progetto. Il nevrotico non vive per il mondo, ma nel mondo per sé. Nello sterile dubbio egli esperisce soltanto il suo essere malato. Tuttavia anch'egli opera una scelta: la scelta che lo limita soltanto alla sua vita morbosa: egli cioè sceglie di non scegliere. Il nevrotico è solo con se stesso così che tutti i suoi tentativi per uscire dall'ansia nella quale vive, lo riconducono sempre in sé: nell'infinita copia di penosi Erlebnisse che riempiono la sua storicità. Per questo diciamo che il suo è un Dasein mancato.

Pressato dall'ansia il nevrotico tenterà di carpire agli altri una « soluzione», «una via d'uscita» che non sarà mai la sua e solo questa ricerca, questa domanda di aiuto, di consiglio lo legherà agli altri cosi da ridurre il suo essere con gli altri alla sua sola nevrosi.

Con ciò comunque non si può dire che il nevrotico trascenda la propria fattità nella malattia - che allora l'ansia sarebbe placata o comunque compensata - ma si ferma ad uno stadio inferiore al comportamento di malafede, nel quale vive senza neppure intrawedere la possibilità di una compensazione.

Non sa quale dovrebbe essere il suo comportamento e gioca con i suoi sintomi ad essere un vero malato, come il cameriere di Sartre gioca ad essere un bravo cameriere. Ma fra il nevrotico ed il giovanotto che «viene verso gli avventori con un passo un po' troppo vivace» che «si china con troppa premura...» c'è una differenza sostanziale: il cameriere, oggetto dell'osservazione di Sartre, gioca - nella sua malafede -con gli altri, trascendendo la propria fattità nell'essere un bravo cameriere con tutti i gesti propri della categoria. Il gioco del nevrotico è invece solo con se stesso: gli altri gli servono soltanto come copia da imitare, come coloro da cui egli può prendere a prestito un comportamento, sempre incerto com'è di ogni sua presa di posizione personale, sempre bisognoso di assicurazioni e conferme dall'altro. Ben diverso, dunque, dall'uomo in malafede il quale ha bisogno dell'altro come pubblico con cui commerciare e giocare con la sua ufficialità, la sua trascendenza.

Il nevrotico ha dunque una fattità di cui non conosce l'uso: l'ansia che lo domina gli impedisce di accettarla e superarla in un progetto, in un impegno o anche di trascenderla nella malafede. Unica possibilità che gli resta è limitare ed esperire la sua fattità come puro oggetto delle sue malattie e dei suoi timori.

Nella scelta, nella quasi-scelta, nella non scelta come scelta sembra sia ora possibile trovare il punto da cui partire verso la comprensione dei vari comportamenti umani di cui si è parlato.

Per quanto riguarda quello nevrotico - tema del nostro discorso - necessita però un'analisi più approfondita se si vuole vedere se sia possibile indurlo, dalla sua situazione di attesa e di incertezza, ad una scelta definitiva, alla riconquista del significato del suo Dasein.

Il nevrotico - suggerisce Gebsattel - «cadendo vittima di un imprigionamento, di una coercizione del proprio divenire» realizza nel mondo solo ansia: un'ansia che si manifesta come un continuo stato di attesa da cui non riesce ad uscire per attuare un rapporto, per vivere con l'altro.

Egli vive nel mondo per sé e non con il mondo. Ecco per che si può dire che la sua è un'ansia di contatto: egli non può vivere senza l'altro che cerca ed insegue ansiosamente, non per stabilire con lui un rapporto reciproco, bensì per partecipargli il suo dolore. Dolore che tuttavia non sa vivere perché non lo accetta come parte della sua situazione (del resto, se riuscisse a farlo saremmo già nel campo della scelta). Egli vive in una mancata identificazione con se stesso: è questa la caratteristica nevrotica del «me» che nell'identificazione con la sua persona non può trovare alcun rapporto scambievole con l'«io di sé», alcun soddisfacente equilibrio interiore. Il nevrotico non cerca nell'altro un partner umano, bensì un uditore che dovrebbe rimanere in una posizione indifferente e nel contempo aiutarlo a vivere.

È solo nella sua storia di vita che potremo trovare la radice della malattia del nevrotico, nel come ha configurato la sua angoscia; nel come ha deciso la sua scelta di non scegliere, la sua scelta di non vivere e di fermarsi ad un gradino più sotto, sempre in attesa di un aiuto, di un contatto umano che possa risolvergli quei conflitti intrapsichici che non sa affrontare e che srotolano giù - legati l'uno all'altro - dal suo primo «errore» iniziale, dal momento della sua «non scelta».

Si osservi, ad esempio, una comune condotta nevrotica che, a prima vista, parrebbe riconducibile ad un comportamento di malafede. A proposito dei propri problemi sessuali, è assai comune sentire alcuni nevrotici affermare di non aver mai avuto rapporti sessuali perché i loro principi glielo vietavano: sono troppo morali per adeguarsi ad una condotta cosi spregevole. Esaminiamo dunque il meccanismo, a prima vista di malafede, con il quale il nevrotico tenta di coprire la paura delle pulsioni sessuali: egli cerca di schierarsi dietro una parvenza di moralità, nel tentativo - lui cosi morale - di rifiutare una condotta tanto bassa. In realtà questa parvenza di malafede non è altro che la ricerca, da parte del nevrotico, di distanziarsi da sé nella speranza di riuscire a dominare le proprie paure. Non si tratta quindi, come dice bene Ey, di virtù quanto piuttosto di nevrosi.

Nel tentativo dunque di trovare un atteggiamento che risolva i suoi conflitti intrapsichici, il nevrotico consuma la sua giornata, cercando temporanei meccanismi di compenso che però non riescono a distoglierlo dalla sterile attesa del momento che viene. Questa attesa non lo aiuta a vivere, non lo spinge verso un progetto, ma lo restringe, con un cerchio sempre più stretto, in se stesso.

Il nevrotico non vive una vita, ma solo la sua nevrosi, dalla quale tenta di uscire con l'aiuto del medico. Si dice pronto a tutto, pur di liberarsi dall'ansia che lo domina. Intuitivamente egli vede nel medico ciò che «vorrebbe essere» e, nello stesso tempo, vede in lui il prototipo del «rapporto» quale egli lo preferisce: un atteggiamento di completa obbedienza e comprensione alla sua nevrosi. Solo cosi può avere con gli altri un rapporto transitoriamente soddisfacente. Ma si tratta di un rapporto che avviene, paradossalmente, fra due personaggi che non esistono: il medico quale dovrebbe essere per il nevrotico (atteggiamento di completa obbedienza e comprensione alla sua nevrosi) e l'«altro» che è il nevrotico, nella figura artificiale che egli si è creato di se stesso ad uso del medico.

Cosi, anche quando si pone alla ricerca di un rapporto che gli è necessario per vivere, l'incontro avviene ancora e solo fra il nevrotico e se stesso: l'altro resta fuori, non esiste alcun legame reciproco. Il sollievo che il nevrotico trova in questo contatto sarebbe dunque dato dall'aspettativa di una possibile soluzione in un comportamento di malafede che, tuttavia, gli sfugge e che non riesce a trattenere. Nel modo tutto particolare di vivere il rapporto con il medico, egli trascende da se stesso illudendosi di essersi trovato senza essere neppure uscito da sé.

Egli sente una possibilità di soluzione nella malafede; ma un atteggiamento di questo tipo ha dei presupposti diversi. Infatti l'apparente sicurezza, cui si è accennato parlando del comportamento di malafede, è assoluta certezza e poggia su una costruzione incrollabile, che perciò permette ancora una stabile comunicazione con gli altri. Colui che è in malafede è tanto più sicuro del suo modo di essere, quanto più gli sfugge tutto ciò che sta dietro l'apparenza. Incapace di creare, accetta tutto ciò che è già «fatto» e riconosciuto, perché se egli solo riuscisse a prendersi alle spalle, a superare il guscio protettivo nel quale si difende, troverebbe li nascosta solo ansia e tutto il suo mondo - pianificato, ordinato, costruito pezzo a pezzo affidando la propria ansia a regole prestabilite, sperimentate, ufficialmente riconosciute - crollerebbe. Ma è difficile che l'uomo in malafede sia toccato dal dubbio: per questo si sente sempre se stesso, forte dei miti che gli consentono di trascendere la sua fattità e di creare le proprie distanze. È ancora al sicuro nella barca, con i rematori, nella sua vita ritmata dall'impersonale, dall'inautentico.

Proprio questa possibilità manca al nevrotico: egli è solo impaurito, bloccato da un'ansia che gli sta sopra, sotto, ansia che non sa dominare perché si è fatta corpo nel suo stesso corpo. L'identificazione con il medico, di cui si diceva, gli darà soltanto una parodia di trascendenza da sé perché lo stato di irrisoluzione profonda che lo fa soffrire avrà subito il sopravvento su questa parvenza di soluzione-malafede conquistata: l'ansia torna ad affiorare ed egli dovrà cercare un altro in cui identificarsi, un altro se stesso da cui poter trascendere. Per questo ci si sente a disagio di fronte al nevrotico: con lui non c'è mai un rapporto. Egli ci tocca, usando di noi come di un prisma e poi si allontana, ancora solo con la sua ansia.

Questa è dunque la condizione umana del nevrotico: un Dasein mancato che potrà avere una possibile soluzione in un incontro psicoterapico. Tale incontro potrà svolgersi sia in un comportamento di malafede, se entrambi i poli posti in gioco - il medico ed il paziente - si contrappongono l'un l'altro in modo inautentico, in un rapporto cioè di oggettivazione; sia in un comportamento di scelta se medico e paziente si pongono in un rapporto nel quale l'esistenza di entrambi viene posta in gioco non in modo astratto e impersonale, ma in maniera che la reciproca libertà venga rispettata come presupposto necessario in vista del fine insieme scelto.

Se lo psicoterapeuta si accontenterà di proporre al nevrotico un compenso in un atteggiamento inautentico, in una quasi-scelta, gli proporrà di prender posizione davanti agli «altri» solo in vista del suo senso di difesa e di sicurezza; gli insegnerà a ricoprire l'ansia sotto lo schermo di regole sociali «generalmente valide», circondandolo di adeguati compensi. Così, aiutando il paziente a trascendere la propria fattità, il medico permetterà (in un gioco di malafede) che il nevrotico, nell'apparente successo dell'atto psicoterapeutico del quale gode, veda il faticoso risultato della sua opera. Il paziente dunque non prende parte alla conquista della sua guarigione e l'accetta come se essa gli venisse donata dall'esterno, e non fosse stato lui stesso - proprio in quel pseudo-rapporto con il medico - a dominare la sua ansia. Da questo momento il nevrotico perde la sua figura di «malato», per acquistarne una nuova di «uomo sano»: modo di essere questo che non si è scelto e nel quale è costretto ad identificarsi, con la missione dell'efficienza sociale, sempre alla ricerca del successo come necessario risultato di ciascuno dei suoi atti. Gli viene così negata la possibilità di riflettere su se stesso, di accettare la sua libertà come un compito che lo deve spingere verso il progetto da lui scelto.

Se invece il nevrotico, attraverso l'atto psicoterapeutico, viene posto dinnanzi alla sua responsabilità e alla sua scelta, la persona stessa del medico viene chiamata in gioco. Il malato entra nella sua esistenza, risveglia in lui una crisi che lo tocca nel suo essere uomo più che nel suo essere medico. Egli non può proporre al nevrotico la sua personale soluzione, ma deve cercare con lui un adito al mondo del «malato», finché questi divenga intenzionalmente cosciente della sua responsabilità e sia in grado di scegliere liberamente il suo modo di essere.

«Perché libertà - come dice Sartre - non significa raggiungere ciò che si vuole (non è dunque né il successo in sé, né il consenso esterno) bensì determinarsi a volere mediante se stessi».


Bibliografia.

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