E quando dall'armadio i cadaveri puzzarono allora Jakob comprò un'azalea.
Bertolt Brecht
Nell'analisi della carriera morale del malato mentale Goffman precisa che il tipo particolare di strutture e di ordinamenti istituzionali, più che sostenere il sé del paziente, lo costituisce. Se dunque originariamente il malato soffre della perdita della propria identità, l'istituzione e i parametri psichiatrici gliene costruiscono una nuova, attraverso il tipo di rapporto oggettivante che con lui stabiliscono e gli stereotipi culturali di cui lo circondano. Immesso in una realtà la cui finalità terapeutica si limita alla custodia della pericolosità della malattia, l'internato assume l'istituzione come proprio corpo, incorporando l'immagine di sé che essa gli impone. La malattia viene così a trasformarsi gradualmente in ciò che è l'istituzione psichiatrica e l'istituzione trova conferma alla validità dei suoi principi nel malato costruito secondo i suoi parametri. Il fatto, del resto, è dimostrato dalla perfetta rispondenza delle regole dell'organizzazione manicomiale a ciò che il paziente diventa, una volta ricoverato; tanto che sarebbe già sufficiente analizzare i paradigmi su cui procede la vita asilare, per conoscere esattamente il livello di spersonalizzazione e di degradazione morale cui giunge l'internato dopo un periodo di ospedalizzazione.
Prima di uscire sono stati controllati serrature e malati. Queste le frasi che si leggono nelle note consegnate da un turno di infermieri al successivo, per garantire il perfetto ordine del reparto. Chiavi, serrature, sbarre, malati fanno parte dell'arredamento ospedaliero di cui infermieri e medici
In che modo una relazione a tal grado oggettivante può risultare terapeutica? Come non ritenerla il risultato del rapporto di prevaricazione di chi si sente forte perché ha in mano le regole del gioco? Si tratta in realtà di un rapporto di potere, dove il fatto di usare un linguaggio reciprocamente incomprensibile, non serve a mantenere incerto l'equilibrio delle forze in atto, in una relazione in cui il valore dei due termini non sia verificabile. Se il malato mentale si rivela incomprensibile nel rapporto con lo psichiatra (cosi come la realtà asilare apertamente dimostra), dovrebbero essere messi in causa tanto il malato che non si fa comprendere, quanto lo psichiatra che non comprende. Ma se la verità dello psichiatra ed i valori cui essa è legata, vengono precedentemente stabiliti come misura di paragone, lo psichiatra si garantisce la possibilità di definire il suo linguaggio come unico, chiudendo il malato nel ruolo di incomprensibile, attraverso un atto di prevaricazione che non ha alcuna finalità terapeutica. È ciò che accade al vinto, con il quale non si può comunicare perché parla una lingua diversa, ma per cui vale la legge della forza che riconosce - a priori - il suo linguaggio incomprensibile, al servizio del vincitore.
Per questo all'internato non viene offerta altra alternativa oltre la sottomissione, la dedizione al medico e, quindi, la condizione di colonizzato. Deve diventare un corpo istituzionalizzato, che è vissuto e si vive come oggetto, anche se tenterà - attraverso acting out apparentemente incomprensibili - di mantenere le qualifiche di un corpo proprio, rifiutando di identificarsi con l'istituzione. Fino a quando comincerà ad essere definito nelle cartelle cliniche «ben adattato all'ambiente, collaborativo, ordinato nella persona»: allora sarà definitivamente sancita la sua condizione di soggetto passivo, dove il soggetto esiste solo nella sua accezione di numero.
Questa la carriera del malato di mente nel manicomio. Di fronte a una tale realtà o si è complici e si accetta coscientemente la delega di guardiani di prigionieri senza colpa; o si tenta di rovesciare la situazione dimostrando quanto sia facile provocare la violenza dei malati, usando sistemi violenti.
Ogni azione di rinnovamento in questo campo ha inizialmente questo significato: smascherare la violenza dell'istituzione psichiatrica e dimostrare la gratuità e il carattere difensivo delle misure repressive manicomiali, attraverso l'abbozzo di una dimensione istituzionale diversa, dove il malato possa ritrovare un ruolo che lo tolga dalla passività in cui la malattia, prima, e l'azione distruttiva dell'istituzione, poi, lo hanno fissato. In questo senso, l'avvio ad una nuova dimensione terapeutica non può che passare attraverso la distruzione della realtà manicomiale, per arrivare a creare un terreno dove la libera comunicazione tra malati, infermieri e medici possa sostituire - nell'azione di sostegno e di protezione - le mura, le sbarre e la violenza.
Libertà di comunicazione, tendenza a distruggere il rapporto autoritario e la rigida gerarchizzazione dei ruoli, eliminazione del carattere oppressivo-punitivo dell'istituzione: questi possono ritenersi i punti fermi dell'azione di smascheramento delle strutture manicomiali. Il rovesciamento istituzionale inizia, infatti, partendo direttamente dal terreno pratico: le prime esperienze in questo campo nascono cioè come risposta immediata alla violenza della realtà asilare, al di fuori di ogni pregiudizio teorico-scientifico che continuerebbe a limitare l'azione a una definizione o codificazione del campo d'indagine.
Questo atteggiamento, essenzialmente pragmatico, ha consentito di svelare la faccia nuda del malato mentale, al di là delle etichette che la scienza gli aveva imposto e delle sovrastrutture che l'istituzione aveva provocato. Solo da questo momento, di fronte a questa nudità, è possibile tentare di riawicinare il malato e la malattia, prima che una nuova ideologia li ricopra, nascondendo ancora una volta la loro vera natura.
Infatti, il pericolo implicito in ogni azione di rinnovamento che tenda ad organizzarsi, è di ridursi - dopo la prima fase critica - alla traduzione in termini ideologici (quindi schematici, chiusi, definiti) di ciò che era nato come un'esigenza di rifiuto e di rottura pratici. La realtà che è stata modificata da un'ipotesi e dalla negazione che quest'ipotesi ha comportato, non è più quella che esigeva misure cui è stato risposto in modo immediato e concreto. Essa richiede critiche ed ipotesi ad un livello diverso, per mantenere in atto un processo di trasformazione capace di evitare il cristallizzarsi della situazione. Il pericolo di celare le nuove contraddizioni della realtà sotto una nuova ideologia che le spieghi o le copra è presente in ogni azione di rinnovamento. Si rischia sempre di finire per reggere la coda di un vestito che non c'è, finché un altro bambino non gridi che l'imperatore non ha niente addosso.
Ma ciò che si evidenzia nel graduale progredire di questa specifica azione è che - al di là di ogni significato tecnico- scientifico - l'istituzione manicomiale ha in sé, nel suo carattere violento coercitivo discriminante, una più nascosta funzione sociale e politica: il malato mentale, ricoverato e distrutto nei nostri manicomi, non si rivela soltanto l'oggetto della violenza di un'istituzione deputata a difendere i sani dalla follia; né soltanto l'oggetto della violenza di una società che rifiuta la malattia mentale; ma è insieme, il povero, il diseredato che, proprio in quanto privo di forza contrattuale da opporre a queste violenze, cade definitivamente in balia dell'istituto deputato a controllarlo.
Di fronte a questa presa di coscienza, ogni discorso puramente tecnico si ferma. Che significato può avere costruire una nuova ideologia scientifica in campo psichiatrico se, esaminando la malattia, si continua a cozzare contro il carattere classista della scienza che dovrebbe studiarla e guarirla? L'irrecuperabilità del malato è spesso implicita nella natura del luogo che lo ospita. Ma questa natura non dipende direttamente dalla malattia: la recuperabilità ha un prezzo, spesso molto alto, ed è quindi un fatto socio-economico più che tecnico-scientifico.
È quindi l'evidenziamento del significato politico che sottende ogni atto tecnico, ad impedire di ridurre la portata di un'azione di rinnovamento, a un puro tecnicismo che si limiterebbe a sfiorare gli aspetti marginali del problema, tralasciando quelli fondamentali. Procedendo nello smascheramento della realtà tecnico-specialistica di un settore particolare qual è quello psichiatrico, ci si trova infatti a dover analizzare insieme alla malattia il ruolo sociale dell'internato. Per questo risulta inevitabile uscire dal proprio campo specifico, mettendo in discussione il rapporto e la funzione che l'istituzione psichiatrica e la psichiatria hanno nel nostro contesto sociale. Se - nella realtà pratica - si è riusciti ad individuare che esistono due psichiatrie - quella dei ricchi e quella dei poveri - è ben difficile definire solo in termini tecnico-scientifici ciò che è intessuto anche di motivazioni politico-sociali. Come parlare della malattia quale entità astratta prescindendo dagli elementi estranei in essa incorporati? Una volta messa in atto la libera comunicazione - base indispensabile per l'avvio di una dimensione terapeutica all'interno dell'istituzione psichiatrica - quale può essere il passo successivo se non dilatare questa comunicazione all'esterno? Ma in che modo questa dilatazione è possibile, senza prendere in causa le strutture sociali che impediscono la riabilitazione di malati la cui unica funzione sociale è quella di essere internati? L'evidenziamento del rapporto fra istituzione e società viene, in questo modo, a concretarsi in una costante, continua denuncia del significato e della funzione di queste istituzioni in questa società. In caso contrario, ci si limiterebbe a ricostruire, seppure su basi diverse, un'isola a-dialettica (cosi come era adialettica la realtà manicomiale) completamente staccata dal contesto sociale in cui sarebbe inserita, dove il processo di trasformazione seguirebbe una sorta di moto circolare che ne isterilirebbe l'efficacia e la terapeuticità. L'apertura dell'ospedale e la libertà di comunicazione sono tali solo se l'esterno vi partecipa come uno dei poli della relazione: la libera comunicazione interna resta un artificio se non si riesce ad aprire e a mantenere un dialogo costante fra interno ed esterno. È solo in questa relazione che la malattia può essere affrontata nella sua duplice faccia, reale e sociale, prendendo in causa - assieme ai sintomi e alle manifestazioni morbose - i pregiudizi, le paure, le diffidenze che ancora la circondano e la alimentano; nonché le difficoltà sociali che ne impediscono la riabilitazione a certi, ben specifici, livelli.
Per questo le nuove organizzazioni psichiatriche, aperte verso l'esterno, sono ora maggiormente esposte a tutte le sue contraddizioni. Accettate o no, fanno finalmente parte del mondo sociale da cui erano state finora separate e la loro esistenza non può più essere ignorata; cosi come le reazioni che provocano non possono scivolare senza conseguenze sulla loro superficie. Una volta svelata la realtà carcerario-punitivo- discriminante che si cela sotto l'ideologia psichiatrica asi- lare, è difficile sostenere che la violenza con cui tuttora si gestiscono le istituzioni manicomiali sia una diretta ineliminabile conseguenza della malattia. La nuova psichiatria istituzionale ne è ormai una testimonianza concreta.
Ma ora è necessario che l'esterno riconosca come proprio l'ospedale psichiatrico, dimostrando un legame e un interesse reciproco fra l'istituzione che riabilita e la società che vuole i suoi membri riabilitati; instaurando cioè una comunicazione reale che non può fondarsi che sulla reciprocità di interessi dei due poli della relazione. È qui che si manifesta la successiva contraddizione. Resa palese la natura esclusoria dell'istituzione psichiatrica tradizionale attraverso l'abbozzo di una nuova possibile dimensione terapeutica, è ancora l'esterno a determinare fino a che punto sia disposto ad accettare la comunicazione appena aperta. E lo è nella misura in cui la critica al sistema sociale che parte da questo particolare settore si mantiene nei limiti da esso fissati.
Se le contraddizioni rese esplicite da un'azione di rovesciamento istituzionale possono essere ricoperte sotto una nuova ideologia tecnico-scientifica che le giustifichi (un'azalea che copra il puzzo dei cadaveri), la primitiva negazione della realtà manicomiale può essere accettata come la proposta di un nuovo modello, che avrà la funzione di smussare le punte più aspre e più palesi della vecchia organizzazione e della vecchia ideologia. Ma se, procedendo in una successiva negazione, lo smascheramento continua nell'evidenzia- mento del significato e della funzionalità al sistema della nuova ideologia - che, assunta come nuovo valore assoluto, riprende ad assolvere alla sua funzione di controllo tecnico- sociale del medesimo settore - il limite viene varcato perché si rende esplicita la costante del legame fra la funzione tecnica dell'istituzione e quella politica.
Risulta quindi evidente che se la reciprocità del rapporto fra luogo di cura e società esterna non è data come acquisita, non si sarà mai sicuri che le mura i cancelli la violenza, una volta eliminati dall'istituzione psichiatrica, non tornino a proporsi - anche sotto forme apparentemente diverse - riconfermando l'impossibilità di una riabilitazione reale, che non può non essere esplicitamente legata all'altro polo del dialogo. Ma finché il nostro sistema sociale non si rivela interessato al recupero di chi è stato escluso (così come all'abolizione di ogni meccanismo di sopraffazione, sfruttamento ed esclusione) la riabilitazione del malato mentale - come qualsiasi azione tecnica in ogni altro settore - resta limitata ad un'azione umanitaria all'interno di una istituzione apparentemente non violenta, che lascia intatto il nucleo centrale del problema. Per questo ogni soluzione tecnico-specialistica che non tenga conto di ciò che sottende l'istituzione e la sua funzione sociale, si limita ad agire come un semplice palliativo che serve tuttalpiû a rendere meno pesante la pena.
In questo contesto, i tecnici continuerebbero ad accettare supinamente il loro ruolo di tutori dell'apparenza, senza riuscire mai ad intaccare la sostanza delle cose, costretti - come Jakob - a comperare un'azalea quando i cadaveri cominciano a puzzare.