Premessa.
L'individuo normale presenta in sé e nelle sue manifestazioni caratteri molte volte avvicinabili a quelli su cui poggiano alcune forme cliniche ed in particolare la «neurosi coatta»: esistono infatti nel sano aspetti «anancastici» che ricordano la base su cui si innestano disturbi del gruppo ossessivo. Tale somiglianza è solo apparente: fenomenologicamente queste condotte sono fondamentalmente dissimili in quanto, mentre il sano vive ed accetta la sua vita senza alcun elemento reattivo, in virtù di un equilibrio che si realizza per un gioco di forze psichiche, il malato vive la sua condotta come malattia che, instauratasi secondo la sua particolare struttura, evidenzia una più o meno grave alterazione delle sue attività psichiche, sia da un punto di vista temperamentale che caratterologico.
Ben si adatta a questo proposito quanto dice Belloni: «Noi pensiamo... che non basta considerare nel psiconevrosico il momento psicogenetico e la ripercussione somatica: bisogna anche tener presente la necessità di una condizione, congenita o acquisita, per la quale gli effetti di uno " stress " emotivo esorbitano, per entità e per durata, dai limiti della reazione fisiologica e diventano malattia». Di conseguenza, considerando da un punto di vista dinamico il sintomo morboso come l'evidenziamento di attività psichiche inferiori «anormali» che sfuggono ad un superiore controllo, si potrà dedurre che il sano «contiene» la malattia, il che è visibile anche nel quadro clinico allorquando, nella sua espressione sintomatologica, si evidenziano forme di attività ancora normali, in scarsa misura per quanto riguarda la psicosi, in misura maggiore per le psiconevrosi.
Pur essendo dunque la nevrosi un prodotto umano, noi dobbiamo considerarla nel suo aspetto clinico senza lasciarci trascinare da punti di vista più o meno «intellettualistici» che sviano da un'esatta valutazione della finalità della scienza: dobbiamo cioè studiare il sintomo come fenomeno, non considerandolo solo come descrizione dei fatti osservati, ma come indagine scientifica della descrizione stessa, in quanto una scienza del fenomeno presuppone una conoscenza degli oggetti che lo costituiscono, così che tutto venga messo in discussione, per poi essere successivamente dimostrato. Solo in questo modo può essere chiamata descrittiva la fenomenologia, descrizione e dimostrazione dunque non spiegate secondo un principio di causalità logica ma intese piuttosto come oggettività che deve essere indagata, cioè portata su un piano scientifico. L'individuo malato sarà studiato al di fuori di ogni preconcetto dogmatico e ci si riferirà al confronto psicologico per quel tanto che esso può informarci sulle condizioni di vita dell'individuo premorboso.
Esiste tuttavia nel sano una caratteristica che nella sua deformazione costituisce l'esponente precipuo dei disturbi nevrotici: l'ambivalenza, intendendo con tale termine il modo nel quale un individuo si pone dinanzi alle situazioni ambientali attraverso una bipolarità di sentimenti. L'elemento positivo e negativo che sussiste nell'ambivalenza è contemporaneo, come i due aspetti contrastanti di un unico meccanismo o processo affettivo, dei quali di volta in volta l'uno prevale senza tuttavia eliminare l'altro. L'ambivalenza affettiva, in definitiva, è la coesistenza di affetti di segno opposto fra i quali oscilla l'individuo, e che data la sua stabilità interiore e la sua intatta coscienza, egli può affrontare, organizzare ed indirizzare attraverso gli avvenimenti, facendo sfociare in un'azione positiva ciò che nel malato diventerebbe un aspetto negativo. Mentre il malato, sollecitato da queste oscillazioni, non sa trovare una posizione definitiva, il sano si vale di questa continua alternativa e sa scegliere intenzionalmente ciò che in quel momento gli sembra più opportuno. Il disturbo diventa tale quando l'individuo ha la coscienza della presenza in sé di una anormalità, quando si accorge di una prestazione o di una interferenza razionale; solo allora l'aspetto che potrebbe anche essere proprio dell'agire normale diviene patologico.
Nel caso dell'ossessivo si passa da un'alterazione dell'ambivalenza affettiva, comune a tutte le nevrosi, ad un'alterazione dell'ambivalenza volitiva, la quale si traduce in una indecisione risultante dall'imposizione alla coscienza di tendenze volitive e di volizioni razionali coscienti: attraverso tali tendenze l'ossessivo dovrebbe giungere ad una scelta definitiva. Ciò sarebbe possibile se il suo carattere di base non tendesse ad una conoscenza totale ed assoluta, cosa che non gli permette di accettare compromessi e lo abbandona in un continuo ed estenuante dilemma che mai lo farà giungere ad una scelta; si limita allora ad un settore, che diventerà poi la sua idea coatta, pensando di ricavare da una parte il tutto, sforzandosi in tal modo di attuare le sue esigenze totalitarie. Ma anche così autolimitandosi egli non riesce a raggiungere mai ciò che vuole: si può dire che le sue aspirazioni diventano inumane, «egli si sottrae alla realtà del divenire» (Straus) e «disprezza la contingente realtà di cui l'uomo non neurotico si serve quale trampolino per raggiungere la sua stessa libertà esistenziale» (Waelder).
Le alterazioni dell'ambivalenza affettiva e volitiva hanno il loro contrapposto in una deformazione dell'ambivalenza intellettiva e l'ossessivo può rappresentare il contrasto neurotico più tipico fra libertà e dipendenza. In tale posizione infatti egli si trova, pressato dal «sentimento» di essere forzato a fare, a pensare qualche cosa di assurdo, di inutile ed inconcludente; la lotta interiore che ne deriva rappresenta la reazione contro l'intrusione alla coscienza di qualche cosa di non voluto che investe tutta la sua personalità biopsichica, ed è appunto questa lotta, apparentemente evidenziata da una reazione ansiosa, che costituisce la salvaguardia dell'integrità della sua struttura. L'ossessione ha inizio nel momento in cui l'ammalato ha l'impressione di essere forzato, violentato da un suo stesso pensiero o dalla sua stessa condotta, evidenziandosi così l'elemento di costrizione essenziale nel determinismo della sindrome.
Episodicamente l'ossessivo potrà presentare una «idea di influenzamento» che apparirà come la traduzione intellettiva del sentimento emotivo, come tale non razionalizzato, e rappresenterà la costante minaccia di passaggio ad uno stato delirante a cui il vero ossessivo non dovrebbe mai giungere. È un delirio che potremo dire virtuale, che lo pressa ma non lo sommerge; è la «paura del delirio», non la «convinzione delirante» ciò che normalmente lo caratterizza. Quello che lo difende dunque è l'ansia, barriera insormontabile che protegge l'anancastico dal passaggio nella psicosi, ove non è più l'istanza emotiva che regola le sue azioni, ma l'elemento ideativo che, superate le difese, può agire senza alcun controllo. Praticamente si arriva al concetto di «delirio» nel quale non esiste più l'apparente antitesi «Io-mondo», ma dove l'individuo può agire impunemente; nel delirio l'«atto di obbiettivazione » diminuisce ed un'alterazione patologica dell'intenzionalità rende possibile la sua formazione. Possiamo dire dunque con Rumke che al delirio si può giungere da tutte le malattie psichiche e che esso è una reazione umana generale.
In tal modo non è quindi escluso che anche dall'ossessione si possa giungere ad una situazione delirante. Se è vero che ad essa si può arrivare attraverso l'integrità della «persona ossessiva» o se sia necessario che avvenga un mutamento ulteriore al suo stato, è cosa che discuteremo poi. Nel presente studio infatti sarà nostra intenzione vedere, attraverso le varie teorie patogenetiche, i caratteri di base su cui poggiano gli stati ossessivi per scorgere quindi, attraverso una documentazione clinica, i rapporti che sussistono fra una tale organizzazione del pensiero, comunemente ascritta al capitolo delle nevrosi, e gli stati psicosici.
Teorie patogenetiche.
a) Genesi «emotiva» ed «ideativa».
Con il nome di «monomania affettiva» Esquirol descriveva «un'affezione nella quale il delirio è limitato ad un solo oggetto o ad un piccolo numero di oggetti con esaltazione o predominanza di una passione gaia o triste... I monomaniaci - prosegue Esquirol — non sragionano... essi si giustificano dello stato attuale dei loro sentimenti e scusano la bizzarria e l'inconvenienza della loro condotta». Dice inoltre Esquirol: «Vi sono degli autori che l'hanno chiamata "monomania delirante" ma io vorrei chiamarla "monomania affettiva"».
Già da questa enunciazione vediamo come Esquirol desiderasse togliere ogni sospetto sulla qualità della sintomatologia: infatti egli nega alla sindrome il carattere delirante e sottolinea la natura affettiva del disturbo, aggiungendo al termine di «monomania» il suffisso «affettiva». La posizione nosografia di tale malattia non era però molto chiara: spetta a Morel, che si può considerare il primo vero sostenitore delle teorie emozionalistiche sulla genesi degli stati ossessivi, la separazione dei caratteri principali di questi stati dalla «follia» che egli descrive come una «malattia dell'emotività», come una forma speciale cui dà il nome di «delirio emotivo» che considera non come una psicosi ma una nevrosi. Questi stati, secondo Morel, comportano certe «idee fisse», certi atti anormali e si compongono a forte carica emotiva senza che in essi si possa riscontrare una assoluta compromissione delle facoltà intellettive.
Westphal, pur arrivando alle stesse conclusioni di Morel circa il carattere incompleto del delirio, parte dalla tesi opposta, ammettendo non già una genesi emotiva nella produzione delle ossessioni, ma piuttosto una intellettiva. «Mai — egli dice - l'ossessione diventa una vera e propria idea delirante perché i malati non l'assimilano completamente come fanno gli alienati sistematizzati; l'ossessione resta sempre estranea al loro Io». Inoltre, secondo tale autore, il carattere fondamentale della coazione sta nel fatto che essa non dipende mai da uno stato emotivo o passionale, ma piuttosto è da intendere come un disturbo originario dell'idea; al primo apparire dell'ossessione il malato è in piena tranquillità, indifferente, senza traccia di emozione. L'angoscia appare più tardi ed i suoi accessi sono sempre secondari: trovare all'inizio della malattia angoscia ed ossessione insieme è una pura coincidenza. In definitiva Westphal considera le idee coatte idee che si impongono alla coscienza senza che la volontà possa allontanarle; esse sono estranee al corso normale del pensiero e finché dura la loro presenza generano più o meno il suo funzionamento. Egli le considera come una «forma acuta e abortiva di paranoia», distinguendole dalla forma cronica perché quella acuta è caratterizzata dalla presenza di rappresentazioni ossessive. L'idea quindi, nella genesi di questi stati, è primitiva.
Tale pensiero è accettato anche da Buccola che descrive le ossessioni sotto il nome di «idee fisse» e così pure da Tamburini che le denomina «idee incoercibili». Anche Arndt e Morselli accettano la causa primaria del disturbo intellettivo, dando a questi stati il nome di «paranoia rudimentale». Magnan e Legrain, che considerano essi pure come secondario l'effetto emotivo, pensano che l'ossessione e l'impulsione siano generate da una diminuzione della tensione intellettiva e da un difetto della volontà: difetto della volontà che essi però non ritengono molto importante nella genesi della malattia: il fenomeno più saliente è sempre quello intellettivo, in quanto i fenomeni emozionali che allo stato normale non sono che una situazione reattiva a differenti stati mentali, ripercuotono nella malattia il medesimo processo, poiché essi sono la risultante di eccessi di emotività, secondari alla primitività del disturbo intellettivo.
Con la teoria di James e Lange viene ad essere intaccata quella intellettualistica della genesi delle coazioni: il substrato fisiologico da cui partiva il nuovo sistema indeboliva la tesi cui abbiamo prima accennato, avvalorando cosi quella delle correnti emozionalistiche. Tale teoria dimostrava infatti come negli stati ossessivi non tutto provenga dall'elemento ideativo e che è necessario ammettere disturbi profondi dell'organismo. Secondo questi autori la vita affettiva precederebbe quella intellettiva in quanto le tendenze sarebbero anteriori all'idea; la loro concezione si riassume nella frase: «L'emozione non è che la coscienza delle variazioni neurovascolari».
Da qui hanno inizio tutte le tendenze psicologiche della primitività dell'emozione sulla genesi delle ossessioni: le crisi d'angoscia, ritenute precedentemente come effetto secondario, sono invece ora considerate come sintomo principale di questi stati e come loro punto di partenza. Seglas dice che l'ossessione poggia sempre su un fondo di emotività patologica; Ballet, nel suo trattato delle malattie mentali, pone le ossessioni nel capitolo delle anomalie dell'emotività e della volontà in individui predisposti; Ribot afferma: «L'elemento intellettivo è secondario; questo dubbio perpetuo, questa interrogazione senza fine non sono che degli effetti; la causa sta nell'affaticamento della vita affettiva e della volontà, incapace di giungere ad una credenza, vale a dire ad una affermazione e più profondamente ancora in una turba della vita organica dimostrata da alterazioni sensoriali, da affaticamento motore, il tutto evidenziato dallo stato malinconico del paziente con il suo corredo fisiologico e l'abbassa mento delle funzioni vitali». Sempre Ribot, per meglio spiegare la genesi emotiva di queste forme, dice che il vago stato di inquietudine da cui sono dominati questi malati è rappresentato da una situazione primitiva che determina il suo passaggio in una forma precisa; l'indeterminatezza che in tal modo viene a crearsi non sarà che uno stato preparatorio, un periodo di differenziazione ed è appunto, ad esempio, uno shock brusco che può fissarlo.
Così accade che da uno stato affettivo diffuso si passi allo stadio intellettualizzato, per poi concretizzarsi definitivamente «nell'idea fissa». Questo vago stato, che sarebbe poi la «fobia», è ammesso da Pitres e Regis come uno stadio meno aggravato e non intellettualizzato dell'ossessione; per essi l'ossessione sovente non è che una fobia che ha perduto il suo carattere di semplice turba emotiva per prendere, a causa della sua evoluzione, quello di disturbo a volte emotivo, a volte intellettivo.
b) Teoria psicastenica (Janet).
La discussione verte dunque sull'origine emotiva o ideativa degli stati ossessivi, mentre viene lasciato da parte ogni tentativo di dare al disturbo una base psicopatologica definita.
Si può dire che Janet fu il primo a tentare di mostrare come, sia gli episodi di prevalenza ansiosa con ripercussione somatica, sia gli stati fobici come le idee ossessive con sentimento di dubbio e di scrupolo, i cerimoniali ossessivi e certi loro tratti del carattere, non fossero che stati differenti di una stessa sindrome: la psicastenia. Con tale termine egli definiva: «Una psiconevrosi depressiva, caratterizzata dalla diminuzione della funzione del reale che permette di agire sul reale, per la sostituzione di operazioni mentali inferiori ed esagerate, sotto forma di dubbio, di esitazione, di angoscia e per delle idee ossessive che esprimono le turbe precedenti e che presentano esse stesse il medesimo carattere». Come si vede, Janet considera lo stato ossessivo come conseguenza di una situazione primitiva determinata dalla diminuzione o dalla assenza della «funzione del reale», da un abbassamento della tensione psicologica che pone l'individuo in una costante incertezza di sé, impedendogli in tal modo di esplicare la totalità del suo essere; egli rifiuta le teorie emozionalistiche affermando che l'emotività non ha una funzione determinante nella sindrome, dove piuttosto è da ricercare un carattere psicologico più preciso, comune a tutti i sintomi psicastenici. Janet mostra come la personalità, la capacità cioè di agire, di affermare i sentimenti che accompagnano le azioni, costituisca il piano più elevato della nostra attività psichica e come la tensione di essa, nel suo affievolirsi, ci lasci preda a fenomeni più o meno bizzarri che rompono la nostra unità e trasformano contemporaneamente il sentimento che noi abbiamo del mondo esteriore (ciò si evidenzia clinicamente nel sentimento di estraneità e del déjà vu) e del nostro mondo (pure clinicamente evidenziato dal sentimento di vide e di automatismo).
In questa costruzione dell'evolversi dei sintomi vi è, da parte di Janet, il tentativo di fissare i rapporti esistenti fra nevrosico ed ambiente, adattando da un punto di vista psicopatologico le sue teorie comportamentali e considerando i sintomi psicastenici come delle «condotte malate». Egli accetta solo in parte l'esistenza di una predisposizione genetica nell'origine delle coazioni e riferisce piuttosto alla relazione con «gli altri» la risultante del sintomo psichico, basandosi su uno studio della gerarchizzazione dei processi psicologici e sullo studio analitico dei disturbi al loro apparire, per riferirli non già alla maniera di essere dell'individuo, bensì alla sua supposta organizzazione gerarchica.
Giunti a tal punto possiamo dire che la psicastenia non rappresenta una malattia particolare, un'affezione autonoma; sembra piuttosto uno stato psicopatico da cui possono scaturire disturbi sia della serie psiconevrosica che psicosica.
Secondo Janet, inoltre, nella psicastenia i sintomi si attualizzano per «un restringimento del campo della coscienza» e per delle tendenze alla emancipazione di sistemi di idee e di pensiero che costituiscono la personalità. In tal modo egli rivela come nella psicastenia sia la coscienza che la personalità siano intaccate. Ma se intendiamo con Ey per «personalità» «l'elaborazione di un programma che sintetizza a ciascuna fase le funzioni strumentali contemporanee e nello stesso tempo registra ed integra lo svolgimento storico dell'esperienza dell'individuo» (avvenimenti, ambiente), e per «coscienza», sempre con Ey, quell'«insieme di operazioni che legano il comportamento (azione esterna ed interna) e la personalità in un atto che viene definito " atto di coscienza" » (che in ultima analisi significa capacità di adattare il presente alla forma del reale), possiamo dire che il disturbo di coscienza dell'ossessivo non corrisponde ad una realtà clinica e che neppure scorgiamo in esso una disintegrazione della personalità. La constatazione clinica infatti ci fa vedere come il malato si osservi e si studi non soltanto nei periodi intervallari, ma anche in piena crisi e ciò non può lasciare alcun dubbio sull'integrità della coscienza nel vero ossessivo. Piuttosto scorgiamo, attraverso la sintomatologia, una anomalia della personalità, non una sua disgregazione o dissociazione, non cioè alterazione qualitativa ma quantitativa. Il psicastenico di Janet invece, che non è il vero ossessivo, evidenzia profondi disturbi della personalità, non già anomalie ma iniziali disgregazioni, alterazioni cioè qualitative, il che porta Bleuler ad inglobare gran parte dei cosiddetti psicastenici nella schizofrenia latente, problema quest'ultimo sul quale ritorneremo più avanti, parlando dei rapporti fra ossessione e stati psicosici.
Nella concezione psicastenica, anche la denominazione data da Donath di «stati anancastici» alle sintomatologie a prevalenza ossessiva viene rifiutata da Janet. Mentre infatti Donath dava la massima importanza alla pulsione, quale prima responsabile della coazione [appunto per l'irresistibilità di questi impulsi egli usava il verbo greco ἁνανϰάζω (= forzare) per disegnare il carattere basilare dell'ossessione] per Janet invece le pulsioni non devono confondersi con le ossessioni propriamente dette ed infatti egli afferma «queste operazioni cosi diverse sembrano talvolta effettuarsi a proposito delle ossessioni, vale a dire di un'idea generale ben precisa; esse (pulsioni) costituiscono un altro gruppo di sintomi più semplice del primo». Secondo Janet rientrerebbero nei «processi ossessivi», quadro che ammette un punto di vista molto più lato, mentre invece le vere e proprie ossessioni sarebbero indicate come «idee ossessive».
Se la concezione di Janet trovò molto consenso quando ancora dominavano le tendenze meccanicistiche e quando la psicologia dinamica era al suo primo apparire, molti però, già a quell'epoca, non riconoscevano la psicastenia come sindrome a sé stante: già Dejerine pensava che essa altro non fosse che una forma particolare di neuroastenia, rifiutando quindi di fare dell'«astenia» psichica il sintomo essenziale della malattia.
A tale proposito cosi si esprime Belloni: «La astenia... non appartiene al quadro del pensiero coatto puro ma, se mai, alla componente neuroastenica che i moderni autori tengono giustamente distinta dal nucleo anancastico, nel quadro della psiconevrosi ossessiva».
Il tentativo che Janet fece per raggruppare vari fenomeni, il tentativo cioè di una esagerata analisi che poi egli cercava di sintetizzare sotto il nome di «psicastenia», non ha avuto in seguito molto consenso, tanto che questa denominazione è andata sempre più restringendosi; fu invece accettata dai più (specie dalla scuola tedesca ed italiana) la denominazione di «stati anancastici» nel senso proposto da Donath, per tutti quei fenomeni che sono propri delle forme coatte.
c) Teoria psicanalitica.
Alle critiche della concezione psicastenica si aggiunge l'opera di Freud e dei suoi seguaci: essi imputano a Janet la completa ignoranza della psicologia affettiva infantile e soprattutto il non considerare l'importanza del «senso» del sintomo quale proiezione della personalità.
L'angoscia che, come dice Freud, «signoreggia nel quadro di queste affezioni» è l'elemento precipuo della concezione emozionalistica sostenuta dal maestro viennese: il fenomeno coatto sarebbe dunque l'espressione di processi a forte carica affettiva rappresentanti divieti, misure prudenziali, penitenze oppure soddisfazioni sostitutive assai spesso in travestimento simbolico, un'azione del super-Io che non permette la libera estrinsecazione dell'eros, interrompendo l'organizzazione sessuale infantile. Vengono cosi ad evidenziarsi gli impulsi aggressivi della prima infanzia che appaiono clinicamente quali tendenze aggressive e «la lotta contro la sessualità viene ora proseguita sotto una bandiera etica - L'Io combatte sorpreso contro esigenze crudeli e violente che gli vengono inviate alla coscienza dall'Es» (Freud). Così il conflitto nella nevrosi ossessiva appare orientato in due direzioni: «Ciò che respinge è divenuto più intollerante, ciò che viene respinto più insopportabile, entrambi per l'influenza dello stesso fattore: la regressione libidica» (Freud).
Per la scuola psicanalitica la forma anancastica è dunque caratterizzata da una struttura compulsionale del pensiero i cui fenomeni psichici prendono l'aspetto della coazione e di una incoercibilità. Secondo Freud quello che angoscia cosi fortemente l'ossessivo non è la sua idea coatta, ma tale idea è soltanto la sostituzione della causa vera dell'angoscia: tutto nel pensiero dell'ossessivo si ordina in rapporto al focolaio profondo, talvolta inconscio di tale angoscia. Una dimostrazione di ciò è per Freud il fatto che le ossessioni cambiano di forma, di oggetto e si moltiplicano. In tal modo lo stato emotivo è sempre giustificato. L'ossessione è dunque legata ad un complesso incosciente che provoca, attraverso l'angoscia, la sua forma coatta. Questi soggetti presentano, secondo la scuola psicanalitica, i caratteri psichici dell'anale: meticolosità, autoritarismo, parsimonia ai quali si aggiungono le tendenze aggressive delle pulsioni sadiche, sia eterosadiche che masochistiche. Secondo un processo di regressione allo stadio sadico-anale dunque si spiega la nevrosi ossessiva.
Sia le interpretazioni di Freud che quelle di Janet si può dire completino il quadro delle reazioni alle teorie meccanicistiche delle vecchie scuole, portando nella loro fusione un contributo essenziale al progredire della psicologia moderna. A Janet va il merito del superamento delle controversie fra emozionalisti ed intellettualisti, nell'aver dato agli stati ossessivi un terreno di insorgenza comune, la qual cosa, pur prestandosi a numerose critiche, ha portato una concezione uni-cistica nel prodursi della sintomatologia morbosa, costruendo quello che si potrebbe dire un «beavhiorismo dinamico». A Freud d'altro lato va il merito di aver studiate le nevrosi, ed in particolare quella ossessiva, ricercando nel meccanismo del sintomo il suo senso ed il suo significato.
d) Teoria costituzionalistica (Kretschmer).
Da queste posizioni raggiunte dalle concezioni psicopatologiche, specie ad opera delle scuole affettivistiche, si eviden zia un altro aspetto fondamentale nella ricerca della base su cui si innestano i disturbi psichici, nella ricerca cioè della costituzione su cui poggiano determinate forme cliniche e della «reazione» che gli stimoli sia endogeni che esogeni producono nella personalità dell'individuo. È infatti Kretschmer che dà la visione forse più unitaria e completa di queste tendenze e che, nello studio degli stati ossessivi, dà una esauriente esplicazione, attraverso le sue concezioni costituzionalistiche e attraverso l'indagine caratterologica e tempera-mentale di questi stati. Il concetto di costituzione di Kretschmer deve essere inteso in un senso dinamico: egli dice infatti: «Il nostro rapporto psichico con il mondo esteriore è un gioco di forze nel quale noi proviamo ora il senso della superiorità, della forza soddisfatta, del dominio, dell'agire; ora invece il senso della sottomissione, della sopportazione scoraggiata, dell'abbattimento e dell'umiliazione». Nel primo caso si parlerebbe di esperienza stenica, nel secondo di esperienza astenica.
Gli stimoli psichici sia esogeni che endogeni rappresentano per questo autore ciò che va sotto il nome di «reazione della personalità». Tali reazioni sarebbero dipendenti da disposizioni del carattere e da stimoli di esperienza; esse si evidenziano soltanto quando su un determinato carattere agisce un'esperienza vitale ad esso adeguata. Svolgendosi un'«esperienza» fra l'Io ed il mondo esterno essa, nel ribattersi sul soggetto, riceve una reazione bipolare nel senso stenico o astenico. Secondo Kretschmer nella struttura della personalità quei soggetti che reagiscono in maniera stenica appartengono al carattere espansivo-paranoico mentre al gruppo degli «astenici sensitivi» appartengono i «neurotici ossessivi» ed i «neurotici di rapporto», nei quali si possono trovare affinità costituzionali con gli iperestesia schizoidi.
Mentre ogni individuo normale è composto di questa ambivalenza stenico-astenica, negli sviluppi psichici dei caratteri molto contrastati, individui cioè prevalentemente stenici, può accadere che essi siano stimolati in maniera abnorme dal polo astenico; in questo caso tali nature si denominerebbero espansive, le altre invece, nelle quali il processo sarebbe inverso, si denominerebbero sensitive. Tali ultimi individui hanno una vita affettiva nettamente introvertita: scrupolosi, timidi, seri, modesti sono in definitiva degli iperestesici e co me tutti questi oggetti hanno una disposizione ai disturbi della «conduzione», intendendo con tale termine la difficoltà di reagire a stimoli dati dalle esperienze di vita, cioè la sproporzione fra stimolo e «facoltà di esprimersi». Da ciò si formano «stasi affettive» con conseguenti repressioni, con formazioni consapevoli di complessi che possono riapparire dopo molto tempo accompagnati da forte sofferenza. La netta antitesi stenico-astenica, in special modo la nota stenica, non permette a questi soggetti di rassegnarsi ad esempio ad una condizione umiliante o ad una situazione depressiva e, malgrado la ben evidente componente astenica, sono spinti alla lotta contro l'esperienza dolorosa. Questi soggetti astenici, se pure spinti al combattimento dalla loro componente stenica, sono nello stesso tempo preminentemente rivolti verso l'interno, o per meglio dire verso se stessi. Tale è principalmente la differenziazione fra le nature espansive che rispondono agli stimoli esterni con l'aggressione verso gli altri e con il ritrovare la causa al di fuori di loro, mentre invece la tipica risposta del sensitivo allo stimolo è piuttosto l'aggressione verso se stesso, l'autorimprovero e lo scrupolo morale. L'insufficienza umiliante - dice Kretschmer - è l'aspetto tipico del soggetto sensitivo. Tutto sta, anche negli sviluppi sensitivi, trovare quanto maggiore sia la spinta del polo astenico su quello stenico ed in più la forza dello stimolo dell'esperienza, cioè dell'esterno sul soggetto. Se lo stimolo dell'esperienza è molto forte e la costituzione molto labile non basta come reazione l'autorimprovero, il tormento interiore, ma piuttosto la «stasi affettiva» che si era precedentemente formata ed aveva costituito la base di un conflitto cosciente si esplica in questi «sviluppi secondari» che sono accennati nella psicologia normale e che si evidenziano nelle due forme cliniche del «delirio di rapporto sensitivo» e della «neurosi ossessiva».
La pressione psichica che viene cosi a formarsi, raggiunto un determinato livello, porta ad una proiezione affettiva; da qui è visibile come tale proiezione si esplicherà a seconda del soggetto tormentato e a seconda della sua ambivalenza stenico-astenica, della possibilità cioè che l'individuo superi se stesso nel senso che l'autotormento, il rimprovero, l'autosservazione non bastino a colmare la carica sostenuta dalla reazione della sua componente stenica a quella astenica ed in tal modo egli si supererà nel proiettare negli altri parte di ciò che egli considera sua colpa. Molti sono i complessi che possono essere alla base di questo meccanismo; non sempre però succede così: il fondo di questi stati può essere costituito da componenti che eticamente si conguagliano con ciò che il tabu sessuale può costituire per il formalismo della nostra società.
Se tale gioco stenico-astenico nei neurotici di rapporto può adattarsi bene anche per le neurosi coatte, Kretschmer trova che in questa forma la interpretazione riesce più complicata, e più difficile risulta la comprensione del pensiero coatto in confronto a quella della neurosi di rapporto sensitivo, in quanto nella prima (neurosi ossessiva) sarebbero associati agli sviluppi afferrabili nella personalità, meccanismi mentali profondi.
A questo punto sembra però debole il pensiero di Kretschmer nel non voler cogliere ciò che può essere l'intimo rapporto fra il sensitivo e l'ossessivo, trincerandosi dietro a questi «meccanismi mentali profondi», difficilmente afferrabili nell'intima genesi della nevrosi coatta. Le nevrosi coatte hanno dunque comportamenti simili alle neurosi di rapporto sensitivo, cioè in esse facilmente si formano complessi risultanti da insufficienze etiche umiliate, le quali metterebbero in moto gli speciali meccanismi profondi già accennati.
I neurotici ossessivi avrebbero un istinto sessuale molto precoce; tali istinti repressi agirebbero come uno stimolo facendo crescere in maniera ipertrofica le situazioni istintive etiche: da ciò risulterebbero tutti i caratteri di meticolosità, scrupolosità eccessiva che in certo qual senso appagherebbero questa ipertrofia. Sempre secondo Kretschmer il meccanismo di certe neurosi ossessive sarebbe costituito dal ritorno continuo alla mente di colpe sessuali che si sono fissate, grazie alle tendenze costituzionali e che vengono di conseguenza, dato questo carattere, decisamente respinte. Tale ambivalenza porta a tensioni e controtensioni enormi, con formazione di veri e propri « abù».
La situazione quindi viene caratterizzata da un gioco interiore che si serve, per portarsi alla coscienza, di varie forme di turpiloquio, manifestazione simbolica di una sessualità repressa e come tale sua proiezione. Quando, ad esempio, una parola oscena si presenta alla coscienza di quello che è il neu rotico ossessivo, egli cerca con parole rituali di frenare l'impulso che considera peccaminoso: da qui ha inizio il circolo coatto che si interrompe soltanto con cerimoniali di ogni genere che man mano si allontanano dal significato originale, cerimoniali che Kretschmer crede di trovare, a nostro avviso non a ragione, in riti simbolici antichi a contenuto religioso. L'antagonismo fra impulsi proibiti ed il rigido conformismo con cui è accettata la religione crea contrastanti associazioni fra il sacro ed il profano.
Come era stato per Freud e come lo è per Kretschmer l'impulso sessuale trova nella genesi del pensiero coatto parte preponderante. Non sembra però si debba fare della sessualità l'unica genesi nel determinismo di questi stati in quanto la sessualità, benché possa essere considerata una delle «tendenze» istintive precipue dell'individuo, non deve essere ritenuta l'unico ed il solo elemento determinante e soprattutto non sembra esatto pensare che, quando un sintomo coatto si presenta sotto un'altra veste, sia da considerarsi come un travestimento o una simbolizzazione di quello sessuale; piuttosto si può dire che non già nella patogenesi della forma la sessualità giochi il ruolo essenziale, ma che essa possa essere considerata un elemento patoplastico e su una base di tal genere si imposta il disturbo nella cui proiezione la sessualità si evidenzierà come elemento apparente ma non costituente del «fenomeno».
e) Neo-organicismo (De Clerambault).
Con la teoria psicastenica di Janet come con quella psicanalitica di Freud e con l'indirizzo costituzionalista di Kretschmer vediamo sorgere nuovi metodi psicopatologici che si sostituiscono alle teorie meccanicistiche del secolo scorso nell'interpretazione degli stati ossessivi. I vecchi autori infatti cercavano di spiegare il fenomeno ossessivo, come d'altra parte ogni altra manifestazione psichica, come conseguenza di una eccitazione cerebrale, senza preoccuparsi del senso psicopatologico del sintomo, e ciò era espressione della posizione psicologica da cui detti autori partivano: la netta separazione fra il psichico e l'organico. Essi infatti non soltanto scorgevano nel disturbo psichico un'origine organica, ma lo ponevano nella sua organicità alla stessa stregua di una qualunque malattia della medicina interna, astraendosi completamente dal considerare la malattia mentale nel suo contenuto di natura psichica: il cervello è leso come può essere leso il fegato.
Il più autorevole rappresentante di questa tendenza è modernamente De Clerambault nella cui concezione neoorganicista appare evidente come il sintomo psichico abbia un significato esclusivamente epifenomenologico, ignorandone il contenuto «vissuto» e dando ad esso una completa neutralità affettiva. L'«automatismo psichico» che si libera e costituisce la parte essenziale del fenomeno ossessivo non aveva alcun legame con la personalità del portatore del disturbo, venendosi di conseguenza a negare qualunque relazione con l'essere del soggetto e considerando come puramente fortuita ed occasionale ogni relazione fra personalità e contenuto, al quale veniva riconosciuta una caratteristica puramente contingente. La Sindrome S determinata dall'«automatismo mentale» è ritenuta da De Clerambault il punto di partenza di ogni forma clinica, la cui caratteristica è quella di essere l'eco passiva di fatti cerebrali fisiologici ai quali originariamente non partecipa una vera attività psichica. Lo stimolo, il danno cerebrale per De Clerambault non evolvono, evolve invece la sua apparenza sintomatologica: il disturbo iniziale avviene per una lenta complicazione psichica dell'elemento primitivo di per sé atematico ed anideico, attraverso fatti di automatismo sempre più complessi fino ad arrivare al delirio.
In antitesi alle teorie affettivistiche e meccanicistiche sorgono le concezioni psicopatologiche moderne che non indagano né nel versante organico né in quello psichico la manifestazione clinica, ma considerano l'individuo una totalità, lo esaminano nelle sue modalità di esistenza, valutando il vero senso del sintomo mentale, studiando cioè attraverso il contenuto la particolare forma della struttura di «quell'»individuo.
Con questo non intendiamo considerare per forma ciò che resta del sintomo una volta vuotato del suo contenuto, altrimenti essa ci appare vuota, rigida, cioè «non vivente» (Minkowski); così facendo ci comporteremmo alla stessa stregua dei meccanicisti, occupati in uno statico studio formale dei sintomi stessi. Ma è piuttosto nel dinamismo della forma della struttura che può essere più o meno ricca, più o meno mobile e vivente, che si instaura una determinata caratterisitica di vita nella quale si innestano gli avvenimenti, i contenuti, i conflitti; ed è in questo senso che noi consideriamo tali conflitti come qualche cosa non sempre e solo a contenuto affettivo ma qualche cosa di «imprevisto» che il soggetto non può accettare data la sua alterata costituzionalità di base: studio formale, dunque, dinamico, studio del modo di essere ammalato e, nel nostro caso, del modo di essere ossessivo.
Il sintomo ossessivo, come qualsiasi altra manifestazione nella patologia mentale, è l'apparenza di un fenomeno che dobbiamo conoscere attraverso un'indagine antropo-fenomenologica, liberi da ogni dogmatismo sia meccanicistico che affettivistico. Ciò non significa però che dobbiamo mantenerci in una posizione di distacco e di neutralismo di fronte al sintomo stesso e neppure di estrema aderenza ad esso nella speranza di scoprire complessi rifiutati ed emergenti in forma simbolica, ma significa piuttosto indagine del contenuto del sintomo per penetrare in tal maniera attraverso l'aspetto ideo-affettivo il fenomeno nella sua struttura.
Non tanto quindi seguendo una determinata corrente psicopatologica, quanto attraverso la realtà clinica, attraverso l'apparenza del fenomeno saranno da ricercare i gruppi sin-dromici che dai sintomi «si amalgamano con una realtà sorprendente ricercando la legge che deve presiedere alla formazione delle sindromi stesse dal momento che, pur sparpagliate in una infinita varietà di forme, si presentano sempre sotto gli stessi aspetti» (Minkowski).
La sindrome ossessiva.
Nello studio clinico del fenomeno ossessivo non sempre appare chiara la sua natura nevrosica e non sempre rispondono a verità le distinzioni che a tale gruppo vengono date in quanto la coazione non ha sempre i caratteri di un disturbo che si innesta in una personalità premorbosa e la sintomatologia anancastica non sopravviene sempre come esagerazione di un carattere scrupoloso, inquieto, o come espressione del carattere nevrotico ossessivo nel senso di Freud. A volte vediamo la coazione come espressione di un carattere sensitivo, altre volte ancora essa si sviluppa in maniera quasi del tutto autoctona, senza che relazioni evidenti possano dimostrarne il carattere premorboso: con ciò non si vuol certo negare al fenomeno ossessivo il suo fondo psicopatico, ma crediamo anzi che esso possa presentarsi sotto una gamma sindromica che comprende sia la psiconevrosi che le personalità psicopatiche, che la psicosi ossessiva, come recentemente ha ammesso Belloni.
Da quanto abbiamo visto precedentemente indagando il pensiero dei vari autori che si occuparono del problema degli stati ossessivi, sembra che essi possano ricondursi a due modalità di insorgenza:
a) Soggetti nei quali il fenomeno in esame è vissuto primitivamente come elemento di costrizione emotiva, dove l'ossessione è costantemente accompagnata dall'impulsione ed il vivace psichismo di difesa è rappresentato dalla «fobia ossessiva o anancastica», cioè dalla «fobia della coazione» (Bini e Bazzi);
b) Soggetti nei quali l'elemento ossessivo è secondario ad altri fenomeni che «lo preparano». Ossessivi cioè nel senso di Janet (psicastenia) e nei quali la reazione emotiva più che orientata verso la coazione è la risultante del «vuoto» determinato da un'emozione violenta immotivata (fobia ansiosa, neurosi ansiosa), oppure la reazione è del tipo «fobia di allarme» (Bini e Bazzi), del carattere cioè neuro-astenico. Clinicamente però anche tale gruppo presenta fenomeni ossessivi tipici.
Attraverso un'indagine psicopatologica di queste due categorie ci proponiamo di studiare i fenomeni che a noi sembrano appartenere alla vera ossessione, dividendoli da quelli che, pur presentando clinicamente dei caratteri analoghi, appartengono al quadro tipico di altre manifestazioni morbose.
a) Primo gruppo. In esso possono venir collocati tutti quei soggetti che mostrano i classici aspetti della «ossessione-impulsione», elemento questo che caratterizza la loro modalità di esistenza. Per dirla con Kretschmer, in tali soggetti il polo stenico rappresenterebbe l'impulsione che si attualizza allorquando la coazione, cioè l'automatismo di cui è composta la sindrome ossessiva, scatena per le intime connessioni con la personalità del soggetto una reazione stenica sulla astenica prodotta dall'automatismo coatto. In questi soggetti l'impulsione rappresenta il bisogno irresistibile di accompagnare certi atti condizionandoli attraverso l'organizzazione stessa del pensiero anancastico: ogni cosa nel mondo dell'ossessivo è forzata da una imperiosa e magica legge che lega il bisogno di compiere una azione o di formulare un pensiero ad un dovere quasi etico di effettuarlo, a salvaguardia della propria integrità psichica: nel timore di perdere tale integrità, questo dovere diventa una necessità immanente al soggetto che, nel tentativo di allontanare la coazione ne diventa preda attraverso un infinito gioco di cerimoniali, in un cerchio vertiginoso, incoercibile, imperativo. Questa situazione, di per sé assurda, è ritenuta tale dalla coscienza del malato il quale, impotente, cerca di frenare in quel tanto che gli è possibile la sua coazione poiché vede in essa una costante minaccia all'integrità della propria personalità.
In questi stati l'elemento che accompagna sempre l'impulsione è rappresentato dall'ansia la quale può essere primitiva o secondaria. Non ha però importanza essenziale la primitività o meno di tale elemento: ciò che interessa non è ricercare se l'origine della sindrome sia ideativa o emotiva ma piuttosto la maniera nella quale, secondo una psicologia dinamica, la personalità reagisce ad un fatto dissolutivo più o meno profondo.
È per ciò che questi stati saranno da indagare attraverso il danno della personalità del portatore, in quanto in essi è un'anomalia di base che domina nel determinismo della sintomatologia, mentre la coscienza, come abbiamo precedentemente detto, resta integra anche nei periodi di crisi. Quello di cui dobbiamo interessarci è la ricerca del livello di dissoluzione in quanto potremo renderci conto del fenomeno in esame non agendo in senso patogenetico di causa-effetto ma attraverso lo studio del livello dissolutivo, cosi che potremo scorgere di quale natura sia l'ansia del nostro soggetto, se essa sia psicosica o psiconevrosica, se cioè investa la personalità in una dissoluzione globale o parziale o, come dice Ey, riferendosi alle psiconevrosi, se sia «una psicovariazione» ove il fenomeno dissolutivo è parziale. Si potrà vedere soprattutto quanto nella sindrome giochi il fatto endogeno od esogeno, se cioè la «reazione» costituisca l'elemento pre cipuo all'instaurarsi della sindrome o se invece la sindrome stessa si instauri per un gioco di azione e reazione di origine affettivistica.
In tal maniera noi potremo scorgere l'organizzazione del pensiero, la struttura malata del soggetto in esame, definendo per tale struttura «un insieme tipico di disturbi vissuti dall'ammalato come degli avvenimenti ed osservati dal medico come uno stato psicopatologico caratteristico» (Ey e Rouart). Allorché noi studiamo il contenuto di queste ossessioni scorgiamo per lo più che esso difficilmente trova un corrispondente nella vita affettiva del soggetto, tuttavia non sempre è possibile riscontrare relazione fra situazione coatta e contenuto di essa. Altre volte però questo contenuto sembra essere l'espressione di pulsioni affettive incoscienti secondo un meccanismo di proiezione psicanalitica.
b) Secondo gruppo. Esso sembra riunire quei fenomeni clinici che si spiegano attraverso un meccanismo psicastenico: sarebbe Pevidenziamento di un sentimento di influenza condizionato da uno stato di affaticamento della tensione psicologica. Questi soggetti però non rispondono a delle peculiari caratteristiche comuni agli stati anancastici puri, in quanto in questo secondo gruppo i disturbi sorgono come «compensazione» ad un cumulo di altri sintomi primitivi ad essi. Avrebbero dunque origine da una mancata impostazione sociale, cioè sorgerebbero come reazione ad una mancata estrinsecazione del proprio essere rispetto all'ambiente. L'instaurarsi della sintomatologia viene dunque osservato da un punto di vista comportamentale attraverso la maniera nella quale questi soggetti si pongono nella loro azione sociale ed avvertono l'insufficienza delle proprie prestazioni; mentre viene trascurato invece, in tale concezione, ciò che è la spinta interiore, la maniera nella quale essi si pongono oltre che rispetto agli altri, rispetto a se stessi. Inoltre in questi soggetti il fenomeno ossessivo, come abbiamo visto, non costituisce il fatto precipuo ed essenziale, ma prima che esso si instauri è necessario che la gerarchizzazio-ne della struttura psichica venga ad affievolirsi al suo apice, per permettere la liberazione di meccanismi meno controllati che via via si fanno sempre più prepotenti, visualizzando in un secondo tempo la sintomatologia ossessiva. In essi, a differenza degli anancastici, si scorge un'insufficienza della componente stenica ed un'eccedenza piuttosto di quella astenica.
Lo stesso Janet divide i suoi malati in due diversi tipi :
1) Psicastenici con prevalenza di disturbi a tipo organico con sintomatologia neurastenica.
2) Individui con disturbi psicologici soprattutto con sentimento di incompletezza (tali sarebbero i classici psicastenici).
Questa seconda categoria di soggetti, pur presentando una sintomatologia ossessiva, ha delle sostanziali differenze con il primo gruppo da noi descritto. In questo secondo tipo domina l'astenia che, come si è detto, non costituisce il carattere peculiare dell'ossessivo; il psicastenico quindi risulta essere un particolare tipo di coatto che se ha dei punti di contatto con il vero ossessivo, individuo con prevalenza stenica, questo contatto è puramente sintomatologico, ma con differente meccanismo patogenetico. Mentre l'apparenza del sintomo in entrambi è uguale, l'osservazione dell'aspetto ideo-affettivo espresso dalla coazione risulta notevolmente diverso allorquando, esaminando il fenomeno della sua struttura, scorgiamo che l'insieme dei disturbi di cui l'ammalato soffre è vissuto diversamente, poiché sembra diverso il livello dissolutivo presente nei due gruppi di ammalati. A nostro avviso l'anancastico, l'ossessivo-impulsivo cioè, rivela una dissoluzione meno profonda del psicastenico ove il fenomeno ossessivo è complicato e preceduto da altri sintomi e da tutto un sistema che investe qualitativamente la sua personalità, dando ad esso una tinta ed un colorito che ricordano molto da vicino ciò che è l’Erlebnis dell'«autista».
Stati ossessivi e loro rapporti con le psicosi.
Se le due divisioni che abbiamo fatto ci mostrano due diversi aspetti della sindrome ossessiva, possiamo dire che non sempre l'analisi strutturale appare così semplice. Talvolta il disturbo si evidenzia complicato e mascherato da altri sintomi e risultano difficili il diagnostico e la classificazione in un gruppo determinato. Talvolta infatti l'ossessivo presenta caratteri liminari ove è difficile dire se la sua coazione appartenga in realtà ad una sindrome ossessiva o se essa sia piuttosto il prodromo o la maniera di manifestarsi di una psicosi atipica, sia essa in senso distimico o schizofrenico.
È noto infatti come molte volte alcuni soggetti presentino notevoli alterazioni della sfera timica dove l'ansia, che è pur l'elemento precipuo della coazione, risulta l'elemento base della malattia stessa, il che ci pone in dubbio fra una sindrome distimica ed una ossessiva; d'altra parte, ed in questo caso con maggior frequenza, ci troviamo in imbarazzo sulla diagnosi di alcuni soggetti che presentano una sintomatologia ossessiva atipica e accanto ad essa mostrano segni che richiamano la dissociazione. Praticamente il dubbio sorge allorquando ci troviamo di fronte ad un soggetto che, pur presentando un'evidente coazione del pensiero, sembra vivere tale coazione non più come interiorizzata; si ha l'impressione piuttosto che essa o sia già obbiettivizzata o stia per obbiettivizzarsi, mostrandoci una situazione delirante che potremo dire «abortiva».
Se questi casi liminari costituiscono delle sindromi atipiche, sussiste però in alcuni particolari ossessivi, un altro fatto che viene segnalato già dai vecchi autori: la presenza cioè di un abbozzo di stato delirante cui Arndt e Morselli diedero il nome di «paranoia rudimentale degenerativa».
Sulla questione del passaggio degli stati ossessivi a stati deliranti non tutti gli autori sono d'accordo, tanto che ormai è accettato che l'ossessione resta sempre tale, concezione questa già sostenuta principalmente da Falret, Magnan e Le-grain i quali ultimi affermano: «non si osserva mai la modificazione della sindrome che resta sempre uguale a se stessa; essa non evolve né si trasforma. Mai si assiste all'origine di un delirio propriamente detto, come qualcuno ha scritto, confondendo l'idea ossessiva (leggi idea fissa) con l'ossessione pura». Ma un gran numero di autori, fra i quali Mainert, Wernike e lo stesso Kraepelin rifiutano tale concezione, affermando che sovente gli ossessivi tendono verso una forma di delirio paranoico; altre volte, ma con minor frequenza, verso la malinconia. Seglas sembra essere il maggior sostenitore di questa tesi; egli dice infatti: «Gli ossessivi divengono talvolta degli ipocondriaci deliranti o sfociano nel delirio sistematizzato, sovente a tipo persecutorio». Pitres e Regis, nella loro monografia Les obsessions et les impulsions appoggiano tale tesi, attraverso una documentazione clinica.
Janet stesso affermava che talvolta si trovava in difficoltà nel distinguere queste due forme, però egli dice che la differenziazione si manifesta nel diverso carattere di base: l'orgoglio, la suscettibilità, il carattere autoritario mostrano una disposizione ad obbiettivare le turbe psicologiche e a rendere responsabili gli altri di tutti i fenomeni della insufficienza psicologica e tali peculiarità sarebbero proprie dei soggetti a tendenza al delirio sistematizzato; mentre l'umiltà, la dolcezza, l'inclinazione ad una analisi soggettiva esagerata, la tendenza al dubbio, lo scrupolo sarebbero propri del carattere ossessivo.
Ma abbiamo visto come Kretschmer trovi appunto in questi tipi (le cui peculiarità ora descritte rivelerebbero un aspetto astenico), la spinta che determina una reazione stenica, evidenziando una sintomatologia di obbiettivazione. Anche Morselli che definisce l'idea ossessiva come qualche cosa che per se stessa non può evolvere distinguendola nettamente dall'«idea fissa» che non sarebbe altro che un'«idea prevalente», trova «che tutte queste distinzioni scolastiche non appaiono sempre conformi alla realtà clinica in quanto vi sono delle idee fisse illogiche alla cui rievocazione la coscienza finisce con l'abituarsi, perdendo la chiara nozione della loro morbosità» (Morselli). Questa forma, per Morselli, sarebbe quella cui giungono molte «pazzie del dubbio» e sarebbe appunto la «paranoia rudimentale degenerativa».
Praticamente, da quanto abbiamo visto, sorge la discussione se si può parlare di stati psicosici ossessivi, se cioè si può parlare di un gruppo sindromico nel quale vengono a raccogliersi disturbi a carattere ossessivo che non possono essere classificati nelle psiconevrosi ossessive. Infatti abbiamo precedentemente accennato come l'ossessione si mescoli spesso con una sintomatologia a sfondo distimico dove è difficile riscontrare se tale fondo sia primitivo o secondario all'ossessione stessa, o se piuttosto sia uno stato distimico puro che si manifesta attraverso una sintomatologia coatta. Abbiamo visto inoltre come la coazione si associ ad una sintomatologia schizofrenica dove sorge il dubbio se si tratti di un particolare modo di evolvere di una schizofrenia o piuttosto del mascheramento di una sindrome ossessiva che si manifesta atipica; dove cioè non esiste un processo ma essa è l'espressione di una abnorme reattività dell'ossessivo di fronte alla sua coazione che dà l'apparenza di una sindrome dissociativa, mentre è l'evoluzione di una coazione che si fa sempre più grave con il progredire del disturbo stesso.
Infine riscontriamo disturbi ossessivi che dell'ossessione continuano ad avere i caratteri peculiari ma che sono vissuti in maniera completamente inversa dal solito: dopo un lungo susseguirsi di dubbi, incertezze, autoindagini, dopo aver dunque vissuto la coazione con le caratteristiche dell'anancasmo, il dubbio viene a cessare o a diminuire e la ricerca interiorizzata si proietta in nuove credenze, in un nuovo convincimento o meglio si oggettiva per far nascere attraverso quella che viene chiamata «esperienza delirante» o «periodo fecondo» l'abbozzo di ciò che costituirà la nuova «maniera di essere» del soggetto, o meglio la convinzione delirante, la quale per diversi fattori di influenzamento esteriore organizza la trasformazione e la demolizione della personalità morale e sociale dell'ammalato: questi, passivo all'inizio, subisce l'offesa che viene dal di fuori, riesce per un minimo tempo a criticarla, e ciò viene evidenziato da una dissimulazione, finché, insofferente ed irritabile, è travolto dall'impulso alla difesa e da perseguitato diviene persecutore.
Questa potrebbe essere la descrizione di una paranoia persecutoria, tuttavia l'ossessivo che giunge a tale situazione non la vive cosi clamorosamente come il paranoico, ma continua in un dubbio, divenuto sterile perché non accompagnato dall'ansia, nella sua nuova situazione che, pur mantenendo i caratteri della coazione, ne ha invertito i termini.
Tali soggetti rientrerebbero nei cosiddetti deliri iposte-nici, a struttura ossessiva, avvicinabili al concetto di «paranoia rudimentale» di Arndt e Morselli che abbiamo ora accennato, sulla quale ultima forma troviamo numerosi lavori fra i quali uno dei più importanti sembra quello di Gaupp. In questo gruppo trova posto anche la sindrome di «azione esterna» di Claude, sindrome che realizza su una base di disturbi emotivi e biologici un delirio persecutorio e di influenza e che per concretizzarsi necessita di un fondamentale elemento ossessivo, evidenziamento di uno stato di automatismo che «traduce per definizione una più o meno marcata incoercibilità» (Claude). Da tale situazione, eminentemente interiorizzata, si passa all'obbiettivazione di uno stato delirante che possiede gli stessi caratteri di automatismo e di iterazione del pensiero presenti prima dell'apparire di esso.
Molti altri autori che si sono occupati del problema danno ai deliri ipostenici vari appellativi clinici (Abely «delirio interrogativo», Capgras «delirio di interpretazione ipostenica») ma spetta a Kretschmer la descrizione più completa attraverso il suo «delirio di rapporto sensitivo» del quale abbiamo prima parlato diffusamente, facendo vedere i rapporti patogenetici fra questa ultima forma e la neurosi ossessiva.
A proposito di tali stati misti Gozzano dice: «Esistono delle ossessioni (ossessioni in quanto il malato fa ogni sforzo per allontanarle e distruggere questi parassiti del suo pensiero e ritrovare la sua libertà) a cui il malato crede o sembra credere, come il delirante crede al suo delirio, e ci sono delle idee deliranti (formulate sotto il tema tipico di persecuzione) nelle quali la credenza ha piuttosto la persistenza incoercibile dell'ossessione che la convinzione del delirio». Non si può certo parlare qui di psiconevrosi ossessiva, ma sembra piuttosto adeguato il suffisso di psicosi applicato a tutte queste sindromi che delle ossessioni tengono soltanto il carattere di coazione e dove soprattutto l'elemento ansia è molto affievolito o piuttosto, se esiste non ha più i caratteri dell'ansia psiconevrosica.
A tale proposito Belloni ha proposto, nella classificazione nosografia del gruppo anancastico, la possibilità della presenza di una forma psiconevrosica e di una psicosica. Il psico-nevrosico sarebbe dominato, secondo tale concezione, nel suo circolo coatto da una forte componente ansiosa derivante da una labilità diencefalica che si scarica alla periferia attraverso le vie talamo-ipotalamiche. La forma cioè sarebbe dominata da una prevalenza dell'elemento affettivo timopsichico su quello intellettivo e sofropsichico. Il psicosico ossessivo invece sarebbe caratterizzato dalla assenza o da una notevole diminuzione dell'elemento ansioso e la sua sintomatologia sarebbe dominata dall'idea anziché dall'emozione. Il punto fondamentale della concezione di Belloni sta dunque nella soppressione dell'elemento ansia: si rientrerebbe cioè nella questione della primitività dell'elemento ansioso nell'ossessione, nel tentativo di designare il posto spettante alla fobia ossessiva o coazione fobica la quale, a differenza delle altre forme di fobia («fobia ansiosa» e «fobia di allarme»), sarebbe rappresentata da un'idea coatta con vivace psichismo di difesa, indipendentemente dal contenuto e interpretata come « fobia della coazione ».
L'ipotesi proposta da Belloni sembra inoltre di notevole importanza in quanto si sa, scorrendo la bibliografia, come all'ossessione venga dato indifferentemente il suffisso di psicosi, di psiconevrosi o psicopatia.
Kraepelin infatti poneva gli anancastici fra le personalità psicopatiche, Wilmans e Kramer pongono la «psicosi coatta» fra le psicopatie, considerandola più che una malattia a sé una forma costituzionale i cui aspetti sintomatologici si ritrovano nelle varie psicosi e psiconevrosi. Binswanger e Siemerling pongono sotto il nome di «astenia nervosa costituzionale» varie psicopatie costituzionali fra le quali quelle a decorso paranoide con idee coatte; pure Kahn classifica la forma anancastica nel gruppo delle personalità psicopatiche e Bumke nei tipi psicopatici. Bleuler include la nevrosi coatta nel capitolo delle reazioni psicopatiche di natura prevalentemente timopsichica. La psichiatria francese preferiva mantenere più o meno gli indirizzi proposti da Janet ed il gruppo ossessivo è compreso sempre sotto il nome di «psicastenia» proposto dallo stesso. Anche la scuola italiana per qualche tempo mantenne tale ultima denominazione, tuttavia nel trattato di Tanzi e Lugaro troviamo quella di «psicosi ossessiva» riferita a varie forme di personalità anancastiche, dove però si riscontrano frequenti associazioni di sintomi ossessivi e sintomi neuroastenici. Gozzano accetta pure la denominazione di «psicosi ossessiva» e «psicastenia», raggruppando però fatti reattivi e reazioni psicogene a conflitti interiori. Appare dunque evidente come, alla sindrome ossessiva, indifferentemente venga dato il suffisso di psiconevrosi e di psicosi, considerandola in definitiva come una psicopatia, o meglio come l'espressione sintomatologica di una personalità psicopatica e, seguendo questo principio, viene indifferentemente usata la terminologia. Ci sembra però che ciò non sia esatto in quanto una psicosi è qualche cosa di profondamente diverso da una psiconevrosi, ed anche ammettendo che l'una e l'altra partano da un'anomalia di base, diverso è l'aspetto strutturale leso e soprattutto diverso è il livello dissolutivo cui fanno capo.
Ci sembra che la maniera in cui Belloni ha impostato il problema dell'assenza o della presenza dell'ansia, sia appunto l'elemento di base per la nostra ricerca circa la posizione nosografica di alcuni stati ossessivi che, per i loro aspetti sintomatologici, non possono essere raggruppati sotto il termine di «psiconevrosi ossessiva».
Solo attraverso lo studio, dunque, dell'elemento affettivo in questi stati potremo renderci conto della barriera che esiste fra psicosi e nevrosi. L'indagine strutturale infatti, a seconda del diverso grado dissolutivo della malattia, ci mostra la turba mentale come un'incessante variazione della personalità cosi che dobbiamo staccarci «totalmente da una concezione statica che rappresenti i sintomi come dei segni isolati, creati dalla malattia» (Ey e Rouart). Si deve seguire lo sviluppo, il movimento costruttivo e distruttivo che giorno per giorno si opera in un determinato ammalato, l'insieme, dunque, degli stati dissolutivi e di rievoluzione di una data nevrosi o psicosi, «la evoluzione tipica di un certo livello di dissoluzione» (Ey e Rouart).
Troviamo dunque nelle alterazioni dell'affettività l'elemento peculiare per la ricerca della natura psiconevrosica o psicosica di un disturbo. Abbiamo parlato di affettività ma sembra più esatto, come suggerisce Minkowsld, scindere il termine in «emotività» ed «affettività».
Infatti l'affettività, secondo un moderno concetto psicopatologico, presuppone l'esistenza di un oggetto cui l'individuo possa «legarsi» ed essa è l'elemento essenziale al costituirsi di una personalità totale e compiuta che, per esistere, necessita sempre di un reciproco aprirsi ad un altro se stesso. L'individuo che si isola e che mostra in tal maniera l'incipiente perdita del suo apporto affettivo, perde la possibilità dell'incontro» e quindi viene a proiettare la profonda alterazione della sua struttura. Ecco perché diciamo che l'affettività poggia su elementi psichici e non emotivi: l'emotività colorisce un rapporto ma non lo determina. Essa sembra trovare il suo completamento nelle manifestazioni somatiche che l'accompagnano e con le quali, attraverso un meccanismo fisiologico, cerca di esteriorizzarsi mostrando «lo stretto legame tra timopsiche e periferia somatica» (Belloni); sembra dunque orientata nella nostra vita somato-psichica e la sua manifestazione morbosa costituisce l'elemento proprio della psiconevrosi. Tale è appunto la posizione dell'ansia evidenziata in queste forme, ansia che rivela la lotta del soggetto per la propria integrità somato-psichica e che agisce dunque in un versante individuale, personalistico, tale da lasciare inalterati i rapporti interumani e molto difficili invece quelli con se stesso.
L'ansia psicosica è di tutt'altra natura: è un'ansia che Min-kowski definisce «cosmica», o meglio «antropo-cosmica», intendendo con questo termine la vaga ed indefinibile intuizione del soggetto del graduale allontanamento del mondo da sé, sentimento che si traduce clinicamente nella lucida sensazione della divisione fra sé e gli altri. Non deriva quindi dall'emotività ma traduce un'alterazione affettiva, è dunque proiezione di un'incapacità dei rapporti interumani ed evidenziamento di una profonda dissoluzione strutturale.
Le due reazioni cliniche dell'«ansia psicosomatica», come espressione di un turbamento emotivo, e dell'« ansia psicosica», come espressione della perdita del contatto affettivo, sono due elementi che ci sembrano di importanza basilare, come abbiamo ora accennato, nella differenziazione fra uno stato psiconevrosico e la fase iniziale di uno stato psicosico. Su un piano razionale ed empirico tale differenziazione appare impossibile, ma con un metodo antropo-fenomenologico, attraverso la manifestazione sintomatologica ideo-affettiva, possiamo scorgere l'alterazione strutturale, stabilire fino a qual punto tale alterazione abbia leso la personalità del soggetto e se si possa parlare di un'alterazione qualitativa o quantitativa.
È appunto dopo questa particolare analisi che ci sembra comprovato ciò che, attraverso la sola indagine clinica, non ci appare con la stessa evidenza. Infatti talvolta indagine psicopatologica ed indagine clinica si distaccano, in quanto il costituirsi di una sindrome secondo una somma di sintomi può trarre in inganno se non ne viene ricercata la turba generatrice. Ciò vale specie nel campo dei fenomeni ossessivi dove l'ansia, che appare in primo piano e che li accompagna, può facilmente trarre in inganno. Ma attraverso l'indagine del fenomeno, nella ricerca cioè antropo-fenomenologica che lascia temporaneamente da parte il problema clinico, noi potremo successivamente rientrare in esso, arricchiti di altri elementi che possono dare una base sicura alla diagnosi.
Nell'ossessione-impulsione il disturbo nasce per lo più con il soggetto, ne fa parte integrante, agisce cioè su un eoo do costituzionale nel quale la reazione gioca a seconda della base da cui parte il disturbo. In tal maniera da un danno dissolutivo più o meno profondo potremo arrivare a scorgere tutta una gamma di forme cliniche anancastiche che si plasmano sulle caratteristiche psichiche di base e nelle quali, studiando la reazione ansiosa che se ne sprigiona, potremo classificare i diversi tipi di coazioni.
Psiconevrosi-psicosi ossessiva.
Assegnare indifferentemente il suffisso di psiconevrosi o psicosi ad ogni forma di ossessione, rifacendosi soltanto all'apparente gravità della sindrome senza un'adeguata indagine psicopatologica della sua struttura, sembra quanto mai empirico: se questi termini esistono, ad ognuno di essi deve essere assegnato il corrispondente gruppo nosografia) il quale deve essere stabilito secondo un concetto psicopatologico, al di fuori di ogni criterio di giudizio sociale.
Pur ammettendo alla base di ognuno di questi gruppi un denominatore comune, cioè una costituzione anancastica, diciamo che ognuna delle forme in esame1 reagisce diversamente agli «stimoli», dando origine ad una psiconevrosi (a), o ad una psicosi ossessiva (b).
a) Il psiconevrosico ossessivo è un individuo prevalentemente disforico che riassume nella «fobia della coazione» la peculiarità della sua personalità e con questa caratteristica reagisce alle cose, agli avvenimenti, alle situazioni determinando la propria esistenza nel tentativo di scegliere, fra gli stimoli che gli si impongono, quelli che maggiormente corrispondono alla sua costruzione strutturale; egli scarta dal suo campo d'azione ciò che non è conforme alla sua costituzione, il che talvolta lo porta ad esplicare le sue attività in una maniera che può considerarsi, in senso paradossale, positiva. Ma nel momento in cui la costituzione anancastica cede di fronte a degli stimoli che lo allontanano dal suo particolare pragmatismo, nasce il conflitto, il disordine interiore che porta, nel quadro clinico, l'evidenziamento della psiconevrosi ossessiva.
Tali meccanismi, non intenzionali e inconsapevoli, si evidenziano come reazione sia a fattori esogeni che endogeni, a fattori cioè non necessariamente a contenuto affettivo. Non sarà quindi un nesso causale fra avvenimenti e sintomatologia ciò che provocherà la sindrome la quale, dopo un periodo più o meno lungo, può affievolirsi sia spontaneamente (in quanto l'individuo riesce a far rientrare la propria costituzione nel binario della vita), sia attraverso un processo psicoterapeutico di cui abbiamo parlato in un precedente lavoro. In tal maniera il psiconevrosico, per un meccanismo di «compensazione vitale e non affettiva», riesce a riadattarsi a «quegli» esseri, a «quegli» avvenimenti e a «quelle» situazioni che avevano determinato in lui il conflitto.
b) La psicosi ossessiva (Belloni) presenta della psiconevrosi ossessiva il meccanismo patogenetico (dissoluzione). Pur avendo con tale forma un carattere comune, la base anancastica, differisce però da essa per un evidenziamento di un disturbo dell'affettività. Nel psiconevrosico riscontriamo un'alterazione dell'emotività che si manifesta attraverso un eccesso di tale elemento (ansia); nel psicosico invece troviamo, accanto ad una modesta reazione ansiosa, un disturbo dell'affettività che, come abbiamo visto parlando di tale problema nel precedente paragrafo, è una particolarità propria di questa psicosi. Non già nel versante somatopsichico è il danno dissolutivo come per la psiconevrosi, ma nel versante antropo-cosmico, il che pone in evidenza una dissoluzione non parziale ma globale che danneggia l'Io dell'individuo il quale, da una interiorizzazione esagerata come era nella nevrosi, passa ad obbiettivare la propria sintomatologia che, pur rimanendo nel suo scheletrismo, ha perduto i caratteri peculiari della nevrosi.
Il psicosico ossessivo vive nel suo stato psicosico la sua « disposizione alla coazione» senza che elementi ansiosi turbino l'aspetto pseudodelirante della sua nuova modalità di esistenza; sua caratteristica è l'assenza dell'emotività (ansia) che provoca, per un meccanismo reattivo, una lucida paura della disintegrazione della propria personalità, in quanto egli scorge la patologicità del suo essere e, nel tentativo di reagire a tale situazione, razionalizza il suo automatismo coatto costituendolo parte integrale della sua personalità. Il danno dissolutivo pone davanti ai nostri occhi una struttura malata che tenta, attraverso ciò che resta della sua costituzione anancastica, di ricostruire in una «disposizione delirante» la rievoluzione dal livello in cui ora si trova.
La psicosi ossessiva è una forma clinica che ha in sé tutti i caratteri della psicosi, cioè è un disturbo che mina profondamente la struttura del portatore, la cui dissoluzione è molto profonda e dove l'assenza della componente ansiosa si spiega in quanto il soggetto vive in una situazione molto avvicinabile al delirio. Gli elementi che precedentemente servivano per difenderlo ora, nella loro obbiettivazione, costituiscono il terreno sul quale egli imposta, o meglio, riorganizza la sua vita assurda, polarizzata sul vertiginoso circolo coatto che, se precedentemente costituiva nel sintomo clamoroso, l'ansia (fenomeno di autotormento da lui somatizzato, evidenziando la sua appartenenza alla serie dei disturbi psiconevrosici) ora nella sua assenza o nella parziale presenza, si attualizza attraverso l'iniziale disgregazione della sua personalità, la perdita o il deficit del contatto con gli altri, o meglio la perdita dei rapporti interumani: il danno affettivo.
La psicosi ossessiva che Belloni ha proposto nella nosografia degli stati anancastici sembra dunque impostarsi su una doppia dissoluzione: in un primo tempo il fenomeno dissolutivo appartiene alla fase psiconevrosica e questo periodo non costituisce che un momento preparatorio; secondariamente, in un tempo più o meno lungo, la dissoluzione agisce più profondamente. Mentre dapprima rappresentava l'elemento di compensazione, ora tale meccanismo viene abolito ed il fenomeno psicosico rappresenta invece nell'inquietudine, nel danno dell'affettività i caratteri peculiari di ciò che è la psicosi ossessiva che, pur mantenendo i caratteri tipici della iterazione coatta, mostra nella scheletricità dell'assurdo ossessivo il dramma esistenziale del psicosico ossessivo.
Se ci siamo staccati dalla clinica per poter, attraverso un'indagine psicopatologica, mostrare la turba generatrice di tale forma, alla clinica torniamo ora presentando due casi che nella loro atipia mostrano i caratteri peculiari della «psicosi ossessiva».
C. RINO, anni 29.
Dall'anamnesi famigliare non risulta nulla di particolare: la madre ha avuto tre gravidanze, nessun aborto; le due sorelle sono viventi e sane; nessuna tara psichica si riscontra né in famiglia né negli ascendenti e collaterali; il padre è un uomo laborioso che ha condotto una vita sempre regolare.
Il paziente ha frequentato le quattro classi elementari dimostrando buona volontà ma poco rendimento scolastico. Fu quindi indirizzato al mestiere di sarto, lavoro che in seguito abbandonò a causa dei suoi disturbi. Sofferse di vizio cardiaco per il quale fu fatto idoneo ai soli servizi sedentari alla visita di leva. Quindi non ha mai sofferto di malattie degne di nota. Da qualche anno il paziente è notevolmente ingrassato.
Antecedenti personali.
Il paziente, dicono i parenti, prima della malattia era un individuo normalissimo di indole buona ed affettuosa, era benvoluto dagli amici nonostante la sua timidezza. Sempre molto scrupoloso nella persona e nel suo lavoro, mostrava un eccesso di scrupolo morale nella religione, non tanto nei suoi aspetti metafisici quanto nella formalità dei riti ai quali egli molto spesso partecipava; da essi però non aveva mai quella soddisfazione desiderata poiché temeva sempre di non aver fatto tutto quello che gli veniva chiesto per l'assolvimento dei propri doveri di credente. Tali fatti tuttavia non pregiudicavano nel paziente la libera estrinsecazione del suo agire, ma anzi il suo scrupolo, la sua precisione, peculiarità del fondo della sua personalità, lo facevano ritenere nel suo lavoro un buon elemento. L'indagine della sua vita sentimentale non mette in evidenza nulla di particolare: di fronte all'altro sesso egli si manifestava timido, tanto che cercava di sfuggire tutte le situazioni che potessero porlo in imbarazzo. Così pure indagando nella sua vita sessuale, si sa che il paziente, scrupoloso e ligio ai principi religiosi, ha sempre frenato gli impulsi sessuali, senza che ciò desse origine a situazioni conflittuali; tali impulsi si affievolirono dopo l'inizio della malattia.
Il paziente inoltre non mette in evidenza nulla di veramente traumatizzante circa eventuali conflitti di ordine affettivo che potrebbero essere presi in considerazione nel determinismo della sindrome attuale. L'unico fatto che egli riferisce con una notevole partecipazione emotiva è il ricordo della discussione sostenuta con dei militari inglesi che volevano convincere il paziente che il loro credo, il «protestante», era più giusto di quello cattolico; il paziente, che non sapeva difendere la propria posizione, si trovò a mal partito e considerò il non aver saputo sostenere la propria fede un peccato.
Storia della malattia.
Sui diciotto anni i caratteri di scrupolo e di minuziosità si accentuarono; egli desiderava sia nel lavoro che in casa un ordine perfetto, cominciava a dubitare di ogni suo atto che ripeteva varie volte perché non si sentiva sicuro e ciò specie nei doveri di credente, soprattutto per quanto riguardava la confessione. Tale sua nuova situazione gli dava una sensazione ansiosa ogni qual volta egli era obbligato «da una forza sconosciuta» a ripetere le cose: ciò tuttavia non gli impediva di compiere il proprio lavoro tanto che nessuno si accorse di questa situazione per circa un anno. Anche in famiglia esigeva una pulizia esagerata, i pavimenti sporchi gli davano un estremo disagio tanto che egli, ad insaputa dei famigliari, era costretto a pulire quanto gli sembrava sudicio.
Un anno circa dall'inizio di tali disturbi il paziente, mentre era al lavoro, sentì la necessità imperiosa di attaccare le mani ad un tavolo e di stringere i piedi: tale strano bisogno gli procurò un sentimento ansioso ancora più forte del solito poiché vedeva in questo suo agire una stranezza inconsueta e subito dopo l'impulsione si trasformò nel bisogno irresistibile di pronunciare frasi ad alta voce; fu costretto allora, all'insaputa dei compagni di lavoro, a ritirarsi nella toilette ove pronunciava frasi nella quali si rispecchiava il suo desiderio di essere a volte l'insegnante di lavoro, a volte un maestro di dottrina cristiana. Mentre l'assolvere tale imperioso bisogno gli dava un'effimera soddisfazione, una violenta reazione ansiosa lo riportava alla realtà facendogli scorgere la patologicità del suo agire. Compiuto il rito, ritornava al lavoro sospettoso che fosse trapelato qualche cosa dal suo contegno.
Ma nei giorni successivi il disturbo coatto aumentò sia di intensità che di durata ed il paziente aveva trovato un «cerimoniale» attraverso il quale riusciva ad impedire lo scatenamento dell'impulso, mentre la reazione ansiosa aumentava: tale cerimoniale consisteva nello stringere i piedi l'uno all'altro; ma la sua dissimulazione riusciva troppo debole e proprio per la paura con la quale egli cercava di nascondersi al suo ambiente, la sua sintomatologia divenne palese.
In seguito il disturbo aumentò ed il paziente quando usciva dal lavoro cercava di soddisfare la propria pulsione ritirandosi in aperta campagna, declamando ad alta voce discorsi ora a sfondo didattico, ora a sfondo religioso e mistico: tutto ciò accompagnato da una forte reazione ansiosa e da una profonda convinzione sulla patologicità della sua condotta. A ciò si aggiungeva anche una pulsione di altro genere che consisteva nell'appagare un bisogno di autopunizione verso la divinità, facendo lunghi giri per vie solitarie con una bicicletta in spalla e recandosi quindi di fronte alla chiesa dove ripeteva il suo discorso religioso. Il sapersi osservato od il solo vedere da lontano una persona gli faceva interrompere il cerimoniale, tanto che questo suo strano comportamento fu scoperto solo dopo vari mesi il che costrinse il paziente a ritirarsi sia dalla vita di lavoro che dalla vita sociale, temendo di scorgere nel comportamento degli altri un'allusione alla sua condotta.
Dopo un anno e mezzo circa dall'inizio dei suoi disturbi il paziente incominciò ad avvertire saltuariamente come un canto di litanie che riferisce originato da un punto determinato del capo, mentre la sintomatologia cominciava ad essere vissuta con un certo carattere di xenopatia. In questo periodo sembra abbia inizio un abortivo stato di depersonalizzazione: il paziente incomincia a dire che «la sua mente pensa» e da questo momento egli riferisce tutte le sue anormali sensazioni coatte come estranee al suo Io e provenienti soltanto dalla sua «mente».
Entra in Clinica per la prima volta ove vengono praticate dodici sedute di elettroshock che fanno scomparire la sintomatologia psicosensoriale, mentre rimane inalterato il disturbo coatto. Cosi continua per due anni circa e sembra sempre più consolidarsi la divisione fra sé e la sua mente; egli ha coscienza della patologicità della sintomatologia coatta, mentre invece sembra aver accettato l'esistenza di questa scissione nella sua personalità.
In questo periodo cambia la natura della sua sintomatologia fino allora vertente su tema religioso e si sposta su un'«idea del male», un male generico che lo angustia e che continuamente rinnova la sua coazione ed ha l'apparenza di una fobia ansiosa finché essa si fissa sull'avvenimento dei soldati inglesi, mentre la «mente» gli dice che essi stanno facendo del male, a volte nei suoi riguardi, a volte «agli altri». Allora egli non può più resistere, non può fare a meno di pensare a tutto ciò e più si sforza perché ciò non avvenga maggiormente vivifica la sua coazione mentre esclama angosciato: «Non voglio pensare più! Perché devo pensare queste cose... ma il pensiero torna, il pensiero mi schiaccia ed io mi inalbero». Tale ultima espressione è per il paziente la simbolizzazione della sua reazione ansiosa.
Qualche mese dopo il presentarsi di questa nuova sintomatologia «i pensieri si trasformarono in visioni» nelle quali vedeva Giovanni e Riccardo (i due soldati inglesi) in atteggiamento aggressivo verso di lui. In questo periodo la sintomatologia presenta tre momenti: coatto con ansia, periodi intervallari durante i quali egli può anche riprendere il lavoro e periodi in cui la coazione si converte in fatti psicosensoriali visivi, criticati dal paziente che vede in essi una maggiore patologicità della semplice coazione precedente.
Le visioni hanno sempre un contenuto aggressivo: i loro personaggi hanno il pugno teso verso il paziente, si fanno beffe di lui; allora egli tenta di scacciarle rivolgendosi direttamente ad esse, cosciente di quanto sta facendo, e smette soltanto quando si trova in presenza di altre persone.
A tale sintomatologia, che continuò per qualche anno nel suo aspetto ossessivo-impulsivo-allucinatorio, si aggiungono altri fatti allucinatori che hanno in rapporto alla personalità del paziente una relazione soltanto indiretta: sono costituiti da scene panoramiche continue simili ad un film, varie cioè, nelle quali il paziente si osserva come il padrone della situazione. Ora è il re della città che vede, ora sta tenendo un discorso attorniato da gran folla ecc. Lo stato ansioso e la disperazione per questa sua strana sensazione giungono ad un parossismo tale da impedire al paziente qualunque attività.
Ricoverato una seconda volta viene sottoposto a terapia insu-linica che non dà che un miglioramento soggettivo, diminuzione cioè della sua reazione ansiosa, mentre la sintomatologia persiste in tutti i suoi aspetti, sia come coazione che come fenomeno allu-cinatorio, il tutto criticato dal paziente.
Periodi parossistici del disturbo si alternano a periodi di una certa stasi; i disturbi con l'andar degli anni prendono i caratteri di un'ossessione allucinatoria ed il paziente trova talvolta il mezzo per allontanare questo complesso sintomatologico chiudendo ripetutamente le palpebre e ora abbassando ed ora alzando il capo.
La sintomatologia attuale non mostra variazioni particolari dal suo inizio; tuttavia da un anno circa il paziente ha dei periodi intervallari nei quali si sente bene, cioè quattro o cinque volte al giorno, per un periodo di una o due ore si sente, come egli dice «libero», privo della sintomatologia sia coatta che allucinatoria. In questi momenti ha l'impressione di non essere mai stato ammalato e può anche applicarsi a qualche lavoro.
Tutti gli esami praticati durante la degenza in Clinica sono risultati negativi.
B. Ferdinando, anni 46, scultore.
Nell'anamnesi famigliare un nonno paterno viene riferito come un «fobico»; la madre sofferse di uno stato depressivo durato qualche anno; negli altri componenti della famiglia non si riscontra nulla di particolare.
Antecedenti personali.
Il paziente non sofferse di malattie degne di nota. Da ragazzo viene riferito come svogliato, pigro, inconcludente nello studio, con una certa attitudine alle arti, musica e scultura nella quale ultima si diplomò, senza però ricavare mai nulla di positivo in queste sue attività. Anche nella persona era sempre molto trasandato, trascurato, piuttosto disordinato; non mostrò, fino all'apparire dei primi disturbi, alcuna caratteristica degli aspetti temperamentali ossessivi.
Verso i ventitré anni incominciò a manifestare dei fenomeni fobico-ossessivi rappresentati dalla imperiosa necessità di lavarsi più volte al giorno e di evitare ogni contatto con altre persone per paura che lo insudiciassero, il che lo avrebbe costretto a lavarsi nuovamente. Con l'andar del tempo tali manifestazioni patologiche si accentuarono: al mattino impiegava circa tre ore per vestirsi, era costretto a contare dieci volte fino a «venti» per indossare i calzoni e siccome tale impulsione coatta si evidenziava quando si alzava dal letto non si decideva mai a farlo. Quando riusciva a superare tutti i suoi riti appariva abbastanza disinvolto nel suo ambiente, tanto da dissimulare la sua sintomatologia.
Viene ricoverato una prima volta in una Casa di cura dalla quale, dopo parecchi mesi, viene dimesso in una situazione pressoché invariata. I disturbi ora elencati erano sempre accompagnati da un'intensa reazione ansiosa che costituiva la classica «fobia della coazione» che persistette per cinque o sei anni, tanto che nel '41 il paziente viene nuovamente ricoverato nella nostra clinica e sottoposto a terapia insulinica senza particolari vantaggi.
Da allora la sintomatologia ansiosa che accompagnava i disturbi e si era fatta particolarmente insostenibile, cominciò ad attenuarsi; i riti e i cerimoniali che si affiancavano alla coazione restano tuttavia immutati: egli è costretto, ad esempio, a grandi meticolosità, ripetizione di cifre; all'allineamento di abiti e scarpe; è sempre consapevole della patologicità del suo agire ma si sente ugualmente costretto a ripetere infinite volte tutti i suoi cerimoniali.
In questo periodo, specie dal momento della diminuzione dello stato ansioso, è visibile una certa fatuità e presunzione nelle proprie capacità, senza che nessun fatto precedente abbia portato il paziente ad avvalorare questo suo nuovo atteggiamento; anche il suo dire rispecchia la nuova situazione ed una strana ipertrofia dell'Io si mostra nella terminologia ampollosa e nei preziosismi sempre a sproposito dei suoi discorsi, a prima vista incomprensibili ma che il paziente cerca di spiegare in modo però sempre conseguente. Ad esempio allorquando gli viene chiesto perché si comporti in tal maniera, egli cosi risponde: «Se le spiego tutto lei deve star qui almeno quindici giorni», e riferendosi alla propria sintomatologia: «La battuta essenziale più deficiente di tutte è quella dei numeri e dell'occhio», frase che egli spiega precisando che al mattino, quando si alza, il suo primo pensiero è rivolto ai suoi cerimoniali alla cui base sta il numero 7; egli deve, cioè, ripetere per sette volte un determinato rito per compiere una azione.
Quando gli viene chiesto se egli senta voci, persone che gli comandino di compiere tali riti o se egli ritenga imposta da una forza superiore la sua coazione, risponde: «Ah, no, a quelle cose non ci credo; dagli stregoni mi hanno fatto andare una volta, ma non ci vado più. Sono cose che vanno bene per certi individui; noi si capisce più di loro. Noi siamo ribelli a certe cose, abbiamo una forza esuberante». Nemmeno crede che la malattia gli sia inviata da una maledizione, nell'affermarlo però manifesta una pur debole incertezza: «Non ho il minimo motivo di supporre che mi abbiano inviata questa malattia... del resto - aggiunge - rimorsi personali non ne ho. Non ho trascinato la mia vita nel male». Piuttosto egli ribatte sugli altri le cause della sua malattia: «Cosa vuole, - dice -ero figlio unico; mi hanno viziato; dicevano "se non lavora oggi lavorerà domani"... bisognava farmi lavorare, non trattarmi male perché io ho una super-sensibilità».
Oltre a queste espressioni che sembrano mostrare un certo adattamento passivo alla sua situazione coatta, scorgiamo espressioni spontanee di tristezza: «Provi lei ad avere una faccenda del genere»; la malattia è da lui sentita come una sofferenza, si vergogna del suo stato affermando che queste «sue stupidaggini» lo fanno però star male.
D'altra parte le sensazioni emotive sono molto deboli e transitorie; ciò che domina è un atteggiamento ipertrofico, vanitoso: giustifica il suo disturbo ormai razionalizzato dicendo che nessuno in mezz'ora riesce ad alzarsi: «Bisogna che uno si lavi - dice - bisogna che sia un pagliaccio da circo equestre se non fa così». Questo suo atteggiamento di «compensazione» si esprime inoltre nelle frasi: «La mia memoria super-confortevole - sono un lottatore - sono capace di alzare 50 chilogrammi - ho l'intestino di ferro -sono un fachiro» e, per finire, anche le sue emorroidi sono formidabili, «emorroidi da vescovo, mi ha detto il chirurgo! »
Mentre dunque la situazione coatta persiste vissuta come elemento iterativo e non come coazione fobica, si libera incontrollata una certa sua aggressività, l'autodominio ed il desiderio di far ricadere sugli altri le sue incapacità. Cosi egli accusa la moglie di di non aver messo al mondo dei figli, adducendo delle ragioni piuttosto stolide.
In conclusione il soggetto, che aveva presentato all'inizio una classica neurosi coatta accanto alla quale dominava l'ansia, mostra successivamente la scomparsa di tale elemento, mentre la coazione permane e con essa si evidenzia la sintomatologia che noi riferiamo propria della psicosi ossessiva.
Crediamo di ravvisare nei casi ora descritti due differenti aspetti di «psicosi ossessiva», in quanto dall'apparenza sintomatologica delle due forme risultano diversi i precedenti e diversa la maniera di reagire al danno dissolutivo che determina lo stato psicosico.
Scorgiamo infatti nel primo caso, fin dalla fanciullezza, una costituzionalità anancastica che si è andata man mano accentuando fino all'instaurarsi di una vera e propria psiconevrosi ossessiva; nel secondo invece non ravvisiamo tale carattere, piuttosto il soggetto ci appare, fin dai venti anni, come un individuo incapace di organizzare la propria esistenza, e le sue prime manifestazioni coatte hanno un aspetto autoctono; il paziente sembra un soggetto la cui costituzione ricorda la personalità psicopatica e su tale base si innestano secondariamente dei disturbi del gruppo ossessivo. Tuttavia sia l'uno che l'altro reagiscono nella medesima maniera al danno dissolutivo, dando origine ad una sindrome ossessiva nella quale domina una forte componente ansiosa. La reazione della personalità evidenzia quindi una netta nota disforica comune ai due soggetti e pone in luce una tipica nevrosi ossessiva. La «compensazione» al danno dissolutivo si manifesta in essi nello stesso modo in questa prima fase della malattia: la loro esistenza è unicamente determinata dalla «fobia della coazione», espressione della lotta che in essi si svolge.
Con il progredire dei disturbi si assiste tuttavia ad un peggioramento della situazione che diviene insostenibile per entrambi i nostri malati. Il ritmo interiore, costituito dai contenuti fobico-ossessivi, prevale sul ritmo esteriore, le esigenze ambientali; il parossismo ossessivo diviene tale da costringere i due soggetti all'abbandono di ogni attività sociale ed è in questo momento che avviene il loro «ritiro dal mondo»; si manifesta cioè, con l'affievolimento dell'ansia, un atteggiamento simile all'autismo schizofrenico.
I due tipi di «autismo», quello schizofrenico e quello ossessivo, ci sembrano però fondamentalmente diversi: il primo infatti è il risultato di una esigenza inevitabile allorché si determina un fatto dissolutivo sul fondo costituzionale di colui che sarà uno schizofrenico; è provocato dall'incapacità di «élan vital» insita nel suo fondo, dal quale si sprigiona successivamente tutta «la filiazione» dei sintomi processuali schizofrenici. Nell'ossessivo invece tale «autismo» è un prodotto secondario, determinato dalla insostenibile situazione nella quale l'anancastico è stato posto dal suo circolo coatto. Mentre nel primo dunque (lo schizofrenico) l'autismo è una situazione originaria, nel secondo (l'ossessivo) è una situazione originata.
Il modo di attualizzare questo pseudo-autismo appare dunque nei nostri soggetti molto simile dal lato sintomatologico a quello dello schizofrenico, con l'evidenziamento di neologismi e di stereotipie nel secondo caso e con l'instaurarsi di una sintomatologia di iniziale depersonalizzazione e di fatti psico-sensoriali nel primo. Tutta questa sintomatologia è però preceduta da una diminuzione dell'ansia, dell'elemento disforico; lo stimolo alla coazione riesce ora insostenibile al soggetto ed è appunto questo stimolo a determinare la seconda dissoluzione dalla quale si riorganizzerà in maniera psicosica: è il momento cioè in cui, caduto l'elemento di difesa, «l'ansia», il soggetto ha l'«intuizione» del proprio essere e si «accorge» del baratro che lo divide dagli altri. Quando egli ha la percezione di ciò che sta succedendo nella sua personalità che, da un danno quantitativo provocato dalla prima dissoluzione, viene a subire un danno qualitativo, inizia la turba dell'affettività, elemento prevalentemente psichico, che si manifesta nell'inquietudine del suo agire. È il «momento fecondo» di Ey, il «sentimento di vuoto» di Janet, il «sentimento di automatismo» di Cellier, la «crisi di ϰαϰόν» di Monakow e Morgue, in definitiva è l'«esperienza delirante» degli autori tedeschi, con il quale ultimo termine si intende l'allentamento della personalità che il malato avverte e vive in maniera più o meno concettualizzata, situazione durante la quale egli prende coscienza completa, particolare, del tutto nuova del proprio Io, del mondo esterno e delle relazioni che lo uniscono; allora il malato tenta di riparare al suo stato facendo appello a ciò che resta della sua costituzionalità.
Tale meccanismo ha il carattere di una «compensazione vitale e fenomenologica» che, nei nostri casi, parte da una base anancastica: la rievoluzione da tale livello di dissoluzione non potrà avvenire che in questo senso e sarà più o meno « ricca» sia in relazione alla profondità del danno dissolutivo, sia in relazione all'aspetto «conflittuale» della vita antecedente. Abbiamo detto che tale compensazione si effettuerà partendo da una base anancastica; infatti nel primo caso, pur operandosi una iniziale depersonalizzazione, il contenuto della sua psicosi è eminentemente iterativo, complicato da fenomeni psicosensoriali che gli fanno vivere in una maniera pseudo-delirante (in quanto criticata anche nel parossismo della crisi) situazioni di intensa carica emotiva; in esse si sprigiona oltre alla disforia, elemento eminentemente ansioso, anche un elemento sensitivo nel quale domina la nota stenica, evidenziata dall'abortiva aggressività, dal senso di influenzamento, da ciò che può costituire un abbozzo di situazione espansiva: attraverso alcuni dei suoi fenomeni psicosensoriali («vedute panoramiche» nelle quali egli si sente il dominatore) materializza tale situazione mostrando in tal modo una ipertrofia di sé ed un desiderio incontrollato di trovarsi in una situazione di preminenza sugli altri, pur sapendo che ciò non corrisponde alla realtà. D'altra parte nel soggetto esiste netto il carattere antitetico dell'ossessivo: lo scrupolo, la critica, l'autotormento, accompagnati da una debole reazione ansiosa.
Nel secondo caso, ove la sintomatologia non è cosi ricca, assieme al persistere di un quadro ossessivo-impulsivo, dominato saltuariamente da una nota ansiosa, si evidenzia invece, attraverso gli atteggiamenti stereotipati quali ad esempio: «La battuta essenziale più deficiente di tutte è quella dei numeri e dell'occhio», una ideazione che è la risultante di agglutinazioni di stati di coscienza nei quali predomina la costante preoccupazione dei cerimoniali, che sono i riti coscienti della sintomatologia nevrosica precedente, sintomatologia che il paziente non riesce più a dominare e nella quale egli vive complessivamente consapevole del proprio stato. Non esiste più cioè una vera continuità psicologica fra i diversi stati di coscienza che si uniscono l'uno all'altro senza permettere ai contenuti coatti di esprimersi temporalmente. Anche in questo soggetto, mentre domina come cosa «morta» perché povera di emotività, la situazione psiconevrosica ossessiva, dopo un breve periodo di «incertezza», il polo stenico, ipertrofizza esageratamente il suo Io, situazione che si riflette in frasi come: «Io ho una grande superiorità d'animo, la mia memoria super-confortevole, sono un lottatore, sono capace di alzare 50 chilogrammi, ho l'intestino di ferro, sono un fachiro...», evidenziamento di uno stato psicosico.
Ritornando al primo caso ci sembra necessario esaminare la produzione dei fenomeni psico-sensoriali in rapporto agli stati ossessivi. È noto come a questi stati venga negata la possibilità di una complicazione allucinatoria. Sostenitori di tale teoria erano già Morel e Falret, tuttavia un gruppo di altri autori, attraverso documentazioni cliniche, parlano della possibilità del presentarsi di fenomeni allucinatoti come complicazioni di sindromi ossessive. Seglas infatti dice che ciò può avvenire in due sensi: 1) in casi dove l'idea ossessiva si accompagna all'allucinazione che essa provoca (ossessione allucinatoria); 2) in casi dove l'allucinazione rivela un carattere ossessivo (allucinazione ossessiva).
Ci sembra che questo secondo tipo di fenomeni psicosensoriali non debba essere ricondotto agli stati coatti e che esso corrisponda invece ai caratteri terrifici di certe allucinazioni.
L'ossessione allucinatoria, che non è un'allucinazione autentica mancandone ad essa i caratteri precipui (credenza intima, oggettività, cioè proiezione nel mondo degli oggetti e degli esseri), ma pseudo-allucinazione2, resta la sola che, secondo noi, possa prodursi nei fenomeni di automatismo coatto.
«Allorquando si parla di passaggio dalla ossessione alla allucinazione - dice Ey - esiste generalmente uno stato psichico molto intenso nel quale il contenuto, presentandosi sotto forma allucinatoria, crea l'allucinazione». In tal maniera lo stato psichico intenso di cui parla Ey sembra essere riferito a qualche cosa di affettivo che però da solo, come dice Seglas, non può costituire il fenomeno in questione: sembrerebbe piuttosto uno stato affettivo determinato da un'idea, cioè da un sistema di rappresentazioni e di credenze, una situazione pseudo-delirante: il contributo clinico di Seglas, Pitres e Regis, Stefani, Buccola ed altri, ed anche il nostro caso, ne sono comprova.
Se si vuol ritenere che tutto ciò derivi da una proiezione di una intensa carica affettiva, bisogna pensare dunque che essa sia intimamente legata all'idea, tanto da concretizzarla e materializzarla sotto forma allucinatoria. Ciò sembra essere comprovato dal nostro caso dove il contenuto dell'ossessione, a sfondo eminentemente affettivo, aveva legato cosi profondamente l'ideazione del soggetto da costituire nella proiezione psico-sensoriale l'evidenziamento di uno stato pseudo-delirante. Inoltre, sempre nel nostro primo caso, si evidenziava il fatto allucinatorio non solo determinato dalla spinta affettiva che legava secondariamente l'ideazione (coazione rappresentata dal sentimento che quelle persone «facevano del male», il che subito si trasformava in una «visione» aggressiva nei suoi confronti), bensì nel quadro clinico apparivano fenomeni psicosensoriali che originavano da un disturbo ideativo al quale, secondariamente, si univa un'intensa carica affettiva. Così infatti ci sembra di poter spiegare le visioni panoramiche a contenuto piacevole nelle quali il soggetto proiettava l'ambivalenza espansiva del suo Io, quando cioè egli si sentiva padrone e re di quelle visioni di sogno. Un terzo aspetto caratterizza questi fenomeni psico-sensoriali: la visione di una mano, mezza testa, mezzo uomo, ecc., fenomeno di cui già Janet parla negli stati ossessivi. Egli dice infatti: «Esse [allucinazioni] non sono mai complete e sono lontane dal presentare tutti i caratteri di un oggetto reale; esse risultano vaghe e prive di chiarezza». Più avanti Janet richiama l'attenzione sul fatto che tali fenomeni non devono essere confusi con le allucinazioni derivate da «idee fisse isteriche», il cui meccanismo psichico, a base di fenomeni di automatismo a tipo suggestivo, è del tutto diverso da quello delle ossessioni allucinatorie. Ciò che sembra importante in tali forme è osservare come non si scorgono i caratteri propri di una realtà oggettivata che si presenta alla coscienza del soggetto, il che invece avviene per l'allucinazione autentica dove il contenuto appartiene per il soggetto decisamente al mondo esteriore; la pseudo-allucinazione, l'«ossessione allucinatoria» invece porta come carattere essenziale l'impressione che il soggetto ha della sua non appartenenza al mondo esteriore, il che gli fa pensare che fra la realtà e la sua attività esista «un mondo intercalare, una semi-realtà» (Ey). Tali fenomeni appaiono alla coscienza del malato che li prova senza materialità e quindi non prodotti da essa.
Ciò che caratterizza dunque questi soggetti è la mancanza di sintesi della propria attività psichica, il dubbio sul sentimento della propria unità e della propria coerenza psichica. In tal modo sembra anche spiegarsi la depersonalizzazione3 del soggetto, lo sdoppiamento fra sé e la «sua mente» che egli rende responsabile dei suoi disturbi in quanto identifica in essa la «contro-spontaneità» al fluire del suo pensiero.
A differenza di quanto accade nel delirio allucinatorio cronico il nostro malato si comporta, davanti all'elemento irriducibile della sua coazione pur obiettivata, non come dinanzi ad un oggetto estraneo al proprio Io; pur instaurandosi infatti in esso una dualità psichica, essa è rappresentata da un lato da una sindrome di automatismo coatto che nel suo sviluppo implica fenomeni di autoconduzione (fenomeni psico-sensoriali), mentre dall'altro non manifesta quella residuale povertà intellettiva caratteristica del delirio allucinatorio cronico, ma una critica continua per quanto avviene in lui di assurdo e davanti al quale egli si sente impotente: è una situazione drammatica che non arriva mai ad uno stato di appagamento, ad un vero e proprio delirio.
A nostro avviso i casi che abbiamo descritto, pur presentando apparentemente degli aspetti sintomatologici avvicinabili ad una sindrome processuale schizofrenica, non evidenziano strutturalmente lo stesso tipo di Erlebnis e per tale ragione li classifichiamo nel gruppo delle sindromi ossessive.
Conclusioni riassuntive.
Al termine di questo lavoro sembra utile riassumere i punti generali trattati, cosi da poter avere una visione unitaria del problema esaminato.
È stata nostra intenzione determinare due gruppi sindromici ossessivi secondo la loro apparenza clinica, per scorgere quindi, attraverso l'aspetto ideo-affettivo, la loro base strutturale, ricercare in definitiva la «turba generatrice» in maniera da assegnare alle diverse sindromi cliniche i corrispondenti gruppi nosografia. Abbiamo cosi diviso gli stati ossessivi in due categorie ed abbiamo riconosciuto alla prima di esse, nella quale si è constatata la vera costituzione anancastica, il carattere tipico di «stato ossessivo puro», mentre nella seconda non è stato da noi ravvisato tale carattere in quanto non si riconosce alla forma clinica proposta da Janet una posizione nosografia inquadrabile negli stati ossessivi. Infatti la psicastenia di Janet, come abbiamo detto, ha della ossessione solo l'aspetto apparente, l'aspetto cioè ideo-affettivo, ma in essa la struttura è lesa in maniera del tutto differente da come si manifesta nella coazione pura. Nella psicastenia un individuo diviene «ossessivo», negli stati ananca-stici puri l'individuo è sempre stato un «ossessivo». La nota costituzionale che noi ritroviamo nel psicastenico è invece una nota prevalentemente neuroastenica sulla quale, attraverso un abbassamento della tensione reale, si evidenziano elementi che ci sembrano propri dell'autismo: in essi riconosciamo ciò che sembra essere una «disposizione autistica», struttura indispensabile al costituirsi di uno «stato schizofrenico».
Del tutto differente è invece il vero ossessivo che, con una dinamica psicopatologica, abbiamo cercato di dividere nei vari gruppi nosografia ad esso corrispondenti: abbiamo cioè ravvisato nella sindrome coatta l'esistenza di una psiconevrosi e di una psicosi ossessiva, riconoscendo in esse diversi modi di evolvere allorquando un fatto dissolutivo più o meno profondo agisce su un comune fondo costituzionale: l'anan-casmo.
In tal maniera, nell'interpretazione patogenetica, abbiamo usato non un metodo psicologico statico, ma dinamico, orientato sia in senso psicofisiologico che affettivistico e antropo-fenomenologico; resta quindi certo che non da un sintomo o da un gruppo di sintomi noi possiamo renderci conto della sindrome in esame, ma piuttosto attraverso lo studio totale della personalità «vivente».
Si sa come, secondo un concetto jacksoniano ora ripreso dall'organodinamismo di Henry Ey, la variazione ai vari livelli dell'integrazione psicofisica porti una conseguente variazione dell'aspetto sintomatologico rappresentato dal disturbo psichico, come espressione della malattia. Da una semplice variazione di livello ad un profondo squilibrio dello stesso si possono produrre forme diverse di alterazioni dalle più lievi alle più gravi. Da questo punto di vista il concetto di malattia mentale viene ad assumere dunque un aspetto più dinamico, un carattere speciale; viene cioè inteso come una forma caratteristica delle modificazioni della vita psichica a causa di una determinata lesione. In tal modo non ci si rifà più alla patogenesi, alla eziologia e la forma psichica verrebbe ad essere una forma tipica di dissoluzione sotto l'influenza di più processi possibili.
Così il fatto dissolutivo, agendo in maniera più o meno profonda, evidenzia apparentemente qualche cosa di incontrollato che precedentemente l'individuo, nella sua normale integrazione, riusciva a frenare dato il suo intatto psichismo; la dissoluzione quindi mette in moto dei fattori affettivi incontrollati.
Tuttavia è proprio studiando la reazione affettiva che si evidenzia in questi stati ossessivi, che noi abbiamo creduto di ravvisare l'elemento eminentemente leso, penetrando nel quale abbiamo potuto stabilire la differenziazione dei vari gruppi sindromici. Osservando dunque la rievoluzione dalle nuove strutture create dal fatto dissolutivo, ci sembra di aver scorto la maniera nella quale è lesa la componente affettiva presente nella malattia. Così ad ogni livello di dissoluzione corrisponde un determinato modo di difendersi, il che avviene a seconda della forma costituzionale che evidenzia nel quadro clinico sia psicosico che psiconevrosico l'essenza della propria storia individuale in modo caricaturale.
Nello studio, dunque, delle varie reazioni affettive ci sembra di aver riconosciuto la turba generatrice di questo gruppo sindromico.
Se comunemente nel concetto di affettività è insito quello di emotività in quanto l'uno completa l'altro, troviamo che i due termini, considerati di solito abbinati, mostrano nel disturbo psichico caratteri che potremo dire antitetici in quanto la vera affettività non è un elemento individuale ma fa parte della struttura dell'individuo posto nel mondo, mentre l'emotività fa parte dell'individuo in se stesso. L'ansia, fenomeno di dominio della psiconevrosi, è dunque la risultante di una reazione emotiva e come tale avente un meccanismo di proiezione somatica; è cioè la risultante di uno squilibrio vegeto-emotivo; è un'ansia somatogena che investe la nostra vita somato-psichica nel suo aspetto ideo-affettivo, o per meglio dire essa è l'insieme delle reazioni dell'individuo davanti alle situazioni occasionali della vita: corrisponde cosi al concetto di Affekt ben tradotto da Minkowski in «affettività-conflitto».
L'affettività invece, che sta alla base dei rapporti con il mondo, corrisponde a ciò che è l'«affettività-contatto» (Minkowski), costituita da elementi eminentemente psichici la cui presenza o assenza determina l'uomo nel suo divenire in maniera normale o psicosica. In tal modo noi riserviamo il concetto di psiconevrosi o di psicosi ossessiva a seconda che il fenomeno dissolutivo, più o meno profondo, intacchi l'elemento emotivo mostrando la parzialità di tale dissoluzione, o l'elemento affettivo evidenziandone la dissoluzione pressoché globale.
La psicosi ossessiva dunque è una forma dove non già l'elemento emotivo è intaccato (o se lo è lo riscontriamo nei periodi iniziali) ma dove la lesione tocca un elemento eminentemente psichico, l'affettività, espressione di un contatto interumano che risulta turbato per una dissoluzione profonda che porta la coazione del pensiero a razionalizzarsi, facendo vivere quello che per noi è il psicosico ossessivo in una particolare situazione delirante. Accanto all'iterazione del pensiero, alla coazione, non esiste più il fenomeno fobico che normalmente l'accompagna, ma si determina una strana situazione ambivalente nella quale, pur mantenendosi parzialmente i caratteri propri dell'anancasmo, la coscienza della morbosità, la timidezza, l'interiorizzazione, il soggettivismo esagerato, vi è nello stesso tempo il carattere antitetico ad essa nell'abbozzo delirante a base di influenzamento e di aggressività.
Abbiamo cosi differenziato da un punto di vista psicopatologico nella sindrome in esame, due aspetti differenti: uno ideo-affettivo che ci permette di comprendere il malato, di stabilire un rapporto, ed uno strutturale che costituisce l'intima essenza della sindrome che condiziona l'insieme dei suoi elementi.
Note
1 Non prendiamo in considerazione la personalità psicopatica su base anancastica poiché ci sembra estranea alla questione che stiamo trattando e perché riteniamo inoltre che più di psicopatia anancastica vera e propria si dovrebbe parlare di «reazione psicopatica su base anancastica», argomento di cui intendiamo occuparci in seguito.
2 Assegnamo il termine di «pseudo-allucinazione» al fenomeno psicosensoriale subito dal nostro soggetto in quanto ci sembra che la manifestazione clinica si costituisca su un fondo strutturale leso, cioè il fenomeno appare secondario ad una «dissoluzione» pressoché «globale dell'attività di integrazione che assicura normalmente in piena vigilanza l'esatta percezione dei valori della realtà» (Ey). Mentre l'allucinazione autentica risponde ai requisiti di «credenza intima di percepire un oggetto assente» (Ey), o per meglio dire risponde al concetto di delirio, ci sembra che ciò avvenga solo parzialmente nel nostro soggetto.
Condizione necessaria perché si possa parlare di pseudo-allucinazione è che il fenomeno appartenga al mondo interiore, il che sembra non corrispondere al nostro caso in quanto l'estesia del fenomeno ha una proiezione esteriore, proiezione che tuttavia non avviene in maniera diretta ma mediata: attraverso cioè gli elementi della sua depersonalizzazione. E proprio in ciò ci sembra di ravvisare la nota di costruzione delirante del suo fenomeno psicosensoriale che, se ha i caratteri di proiezione nel mondo degli oggetti come materializzazione e concretizzazione del suo circolo coatto, persiste nella sua nota iterativa organizzandosi appunto in modo pseudo-delirante attraverso il fenomeno della depersonalizzazione.
Non riconosciamo invece alla manifestazione clinica il carattere di allucinosi in quanto in essa si tratta di «turbe funzionali che alterano le attività regolatrici della percezione e che non sono secondarie ad una alterazione globale del sistema di significazione che costituisce l'essere al mondo dell'allucinato» (Ey), dove quindi non esiste alcuna traccia di situazioni delirante ed il fenomeno, pur avendo i caratteri di esteriorità propri dell'autentica allucinazione, non ha quelli della intima credenza del soggetto alla loro realtà.
3 Il fenomeno di depersonalizzazione o fenomeno di Krishaber si verifica allorquando gli « atti psichici sono accompagnati dalla coscienza di non appartenerci, di essere estranei o di svolgersi in modo automatico... l'Io unico si sente sdoppiato ed è ugualmente uno; egli vive nei due insiemi affettivi che restano separati ed ha nello stesso tempo coscienza di essi» (Jaspers).
Pensiamo che il fenomeno di depersonalizzazione provato dallo schizofrenico iniziale sia diverso da quello dell'ossessivo in quanto il primo lo avverte come perdita del suo «élan vital»: il malato ha l'impressione che tutto attorno a sé sia morto e fisso e si percepisce come qualche cosa di immobile; egli si adatta, o meglio è necessitato da una legge fatale ad adattarsi a questa situazione, comportandosi dinanzi al fenomeno di depersonalizzazione come dinanzi a qualche cosa di ineluttabile. Nell'ossessivo invece, e lo vediamo nel nostro caso che clinicamente mostra continui punti di riferimento con lo schizofrenico, il sentimento di depersonalizzazione nasce come « riparo » alla sua ansia che non scompare ma continua a vivere affievolita accanto allo sdoppiamento della sua personalità; tale sdoppiamento potrebbe dunque essere considerato come un mezzo per lenire la propria sofferenza.
Di ciò vediamo comprova nel test di Rorschach ove troviamo protocolli strutturalmente differenti rispetto a forme cliniche che potrebbero invece trarre in inganno per la loro apparente similitudine. Infatti lo schizofrenico evidenzia nel suo psicogramma segni caratteristici della sindrome di cui soffre; l'ossessivo, presunto schizofrenico, manifesta degli elementi che ricalcano in maniera psicosica la situazione Rorschach nevrosica.
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