Il problema della "sensibilità"

1.

In tutti i saggi si fa riferimento alla sensibilità, assumendola come un dato proprio e specifico della natura umana. Il termine, mutuato da Rousseau, per quanto viene più volte specificato, si presta a qualche confusione. E' opportuno dunque cercare di chiarire la questione.

E' intuitivo che la sensibilità ha a che fare più con le emozioni che con la ragione. Identificare tout-court la sensibilità con l'emozionalità è però un errore. La sensibilità è solo una componente del mondo delle emozioni, benché fondamentale in quanto essa differenzia, sotto il profilo emozionale, la specie umana da ogni altra.

Si tratta infatti di una componente preriflessiva che consente al soggetto di "sentire" se stesso e l'altro. Sicuramente innata, essa rappresenta in pratica il background in virtù del quale un soggetto perviene alla consapevolezza di sé e dell'altro. Tale consapevolezza implica un'integrazione cognitiva. Ma intanto le informazioni che un soggetto può ricavare dall'esperienza soggettiva e intersoggettiva non arriverebbero presumibilmente mai a configurare uno "schema" di sé e dell'altro se questo non potesse avvalersi di un'intuizione originaria, preriflessiva. In secondo luogo - e questo è un aspetto di fondamentale importanza - la sensibilità, nell'inconscio, rimane sempre più viva e ricca rispetto alla quota integrata a livello cosciente.

Intesa in questo senso, la sensibilità riconosce due componenti.

La prima consiste appunto nel permettere al soggetto di "sentire"se stesso. Che significa questo? In cosa consiste il sentire preriflessivo che dona a un soggetto una qualche consapevolezza di sé? La risposta non è ardua. La sensibilità nei propri confronti evoca immediatamente, ben prima che il soggetto raggiunga una qualche identità, il riferimento all'essere una persona, vale a dire all'essere dotato di diritti naturali che nel loro insieme configurano quel qualcosa che non si saprebbe come definire se non come "dignità". Il senso di dignità, che comporta l'esigenza di essere rispettati e trattati alla pari, è di fatto presente nel bambino fin dall'età di due anni, ben prima che egli sia in grado di articolare alcun concetto di giustizia.

L'altra componente è la capacità di identificarsi con l'altro, che porta immediatamente a sentirlo come dotato degli stessi diritti propri e, quale che sia la diversità, almeno di un bisogno in comune, quello di non voler soffrire. L'identificazione si fonda sulla capacità di intuire la vita interiore dell'altro nei suoi aspetti consci e inconsci. Sulla base di questa intuizione, l'esperienza dell'altro può essere ricostruita dentro di sé e rappresentata come uno dei modi possibile di eseere dell'umano.

Definita in questi termini, la sensibilità, riguardi essa il soggetto o l'altro, è un'emozionalità che ha rapporto con l'umano. Essa non ha nulla di patetico e di romantico. E' piuttosto il fondamento su cui si definisce una coscienza di sé, incentrata sul senso di dignità, e una coscienza dell'altro che porta ad attribuire ad esso la stessa dignità.

Si tratta dunque di una qualità straordinaria, specificamente umana, presente in ogni corredo genetico, distribuita presumibilmente secondo un spettro che va da un minimo ad un massimo, le cui vicissitudini sono legate all'interazione con l'ambiente. Sulla base della sensibilità è ipotizzabile un mondo di soggetti consapevoli di avere diritti (vale a dire doveri degli altri nei loro confronti) e doveri (vale a dire diritti degli altri nei loro confronti): un mondo di esseri rispettosi, attenti, delicati nei rapporti. Il nostro mondo, che pure ritiene di essere il migliore tra quelli esistiti sinora, è tutt'altro.

In Abracadabra ho cercato di capire il perché riconducendolo alla cultura che può promuovere forme molteplici d'insensibilizzazione. Ad un estremo si dà un'insensibilizzazione sociale che si traduce in egoismo, indifferenza, tendenza a strumentalizzare gli altri e, al limite, in sadismo (inconscio e conscio); all'estremo opposto, l'insensibilizzazione investe i diritti del soggetto che, preda dell'identificazione con l'altro, sacrifica sull'altare della relazione la sua dignità.

2. 

Il rilievo della sensibilità in ambito psicopatologico è sottolineata in tutti i saggi. Se è vero, come a me sembra, che ogni conflitto capace di produrre un disagio si articola su di una dinamica che coinvolge costantemente la rabbia per un verso e il senso di colpa per un altro, non ci vuole molto a capire che tale dinamica, quali che siano le componenti cognitive e culturali che ad essa s'intrecciano, ha un rapporto immediato con la sensibilità.

La rabbia infatti è un'emozione di protesta che si attiva allorché, nell'interazione con il mondo, il soggetto o sente violati i suoi diritti e la sua dignità o li vede violati a danno di qualcun altro.

Il senso di colpa si genera univocamente a partire dal percepire la rabbia, sia pure essa inespressa e rimossa, come una violazione dei diritti e della dignità dell'altro nella misura in cui essa si traduce in fantasie di odio e di vendetta.

Il paradosso per cui la sensibilità, in virtù delle due componenti che la caratterizzano, può generare nello stesso tempo rabbia e senso di colpa spiega immediatamente il fatto che, in ogni esperienza di disagio, sotterraneamente, l'attribuzione della colpa oscilla investendo alternativamente e contemporaneamente l'altro e il soggetto stesso, dando luogo ad un circolo vizioso psicodinamico che si autoalimenta.

Di ciò si danno infinite prove, la più sorprendenti tra le quali è quella che si ricava spesso nel corso di deliri persecutori. Violato nella sua dignità e nel suo diritto alla privacy dalle voci che lo ingiuriano, lo accusano, lo infamano, ripetono i suoi pensieri, lo influenzano con gli strumenti più disparati, lo tengono perennemente sotto controllo, il soggetto si arrabbia giungendo talora all'esasperazione e a propositi di vendetta. Egli però si chiede nel suo intimo il perché di tanta cattiveria e tracotanza nei suoi confronti. Si tratta di gente malvagia? Si, certo. Quasi inesorabilmente però si affaccia il dubbio che non possa trattarsi solo di malvagità. Forse, perseguitandolo, vogliono fargli capire qualcosa, forse vogliono addirittura aiutarlo o proteggerlo sa qualche pericolo che egli non riesce a decifrare, Se le cose stanno così, però, non è forse egli colpevole di odiarli e di avercela a morte con loro?

 

3.

La sensibilità, per quanto diversamente distribuita nei vari corredi genetici individuali, ma mai assente, è dunque un tratto specifico della natura umana. Un tratto assolutamente rilevante, la cui coltivazione, se fosse programmata socialmente, potrebbe porre le premesse di un mondo vincolato radicalmente, sia in termini culturali che psicologici, al principio per cui l'uomo, in quanto dotato di dignità, è un fine e non un mezzo.

Se Marx ha commesso un errore è stato quello di ritenere che un salto di qualità del genere potesse avvenire in conseguenza di un cambiamento delle condizioni oggettive di vita, e in particolare in virtù dell'eliminazione di ogni forma di sfruttamento. Misconoscere che questo cambiamento è un fattore necessario ai fini della costruzione di un mondo fatto a misura d'uomo non deve portare a pensare che esso sia anche sufficiente. Eliminare lo sfruttamento lavorativo significa solo rimuovere una delle cause di oppressione dell'uomo sull'uomo. In difetto di un salto di qualità culturale, date le tradizioni interiorizzate da secoli, nulla vieterebbe, com'è accaduto nella Unione Sovietica, il riprodursi di rapporti pubblici e privati incentrati sull'egoismo e sulla sopraffazione.

Ciò detto, occorre riconoscere che il nostro mondo che, ufficialmente, sancisce i diritti inviolabili dell'individuo, tra cui la sua dignità, si va piuttosto allontanando che non avvicinando al modello di un mondo fatto a misura d'uomo. Esso, a livello politico, culturale e intepersonale, si va configurando sempre più come un mondo rozzo e degradato. Una prova di ciò è fornita dal fatto che i soggetti costituzionalemnte più sensibili vivono la loro condizione come un handicap e sono spinti, piuttosto che a coltivarla, a mascherarla o addirittura a tentare di liberarsene. Essi identificano la sensibilità con una dimensione di patetica e vergognosa debolezza che, se non occultata, espone al rischio che gli altri, i "normali" ne approfittino. Valutano insomma gli svantaggi della sensibilità e trascurano i vantaggi.

Gli svantaggi ci sono ma riguardano solo situazioni che implicano il ricorso alla violenza fisica. Su questo terreno, gli esseri sensibili non possono competere con gli altri. Sono costituzionalmente inadatti a fare la guerra e a fare male agli altri. Ciò non significa che siano deboli. Tranne che sul terreno della violenza fisica, in tutti gli altri aspetti della vita possono essere determinati, coraggiosi e ardimentosi. Chi oserebbe accusare di vigliaccheria, oper citarne uno, Gandhi?

I vantaggi della sensibilità sono legati ad una pratica di vita più intensa emotivamente e più partecipe sul piano degli interessi e dei valori rispetto alla media. Occorre infine considerare che la sensibilità comporta un tratto di creatività che, se coltivato, può ripagare ampiamente di alcune frustrazioni sociali.