Sull’immagine interna e i codici culturali
1. Cos’è l’immagine interna
E’ inevitabile che le scienze psicologiche, dovendo analizzare e concettualizzare aspetti dell’esperienza umana che non sono tangibili, facciano ricorso a termini analogici. Immagine interna è uno di questi.
In senso proprio, immagine è “una figura, una forma esteriore percepita dai sensi, specialmente dalla vista”. In senso stretto, l’unica immagine che l’uomo può avere di sé è quella riflessa da uno specchio.
Analogicamente, il termine può essere applicato anche all’immagine sociale, vale a dire alle impressioni, alle emozioni, alle opinioni e alle idee che si producono attraverso l’interazione sociale. Ogni soggetto ha un’immagine sociale, depositata nelle persone con cui interagisce, ed è depositario di immagini che riguardano gli altri.
Anche se si fonda sulla percezione visiva di alcuni aspetti esterni (la forma del corpo, il modo di gestire e di comunicare, l’abbigliamento, ecc.), l’immagine sociale consiste in una serie di induzioni che esitano in una valutazione globale della persona più o meno corrispondente alla realtà.
Applicato, infine, a ciò che un soggetto pensa di se stesso, vale a dire all’immagine interna, il termine è, per così dire, ancora più analogico. L’uomo non ha occhi per vedere dentro di sé. L’introspezione vicaria questo limite consentendo di cogliere solo alcuni aspetti del proprio mondo interiore e del proprio modo di essere. Nessun soggetto può giungere ad una visione chiara, distinta e completa della sua personalità.
Ciò nondimeno, è fuor di dubbio che ogni soggetto ha un’immagine interna cosciente di sé, la quale si forma, tra l’altro, precocemente. L’indizio di questa formazione è l’acquisizione da parte di un bambino della capacità di fare riferimento a se stesso con il pronome io, che poi utilizzerà con disinvoltura per tutta la vita.
L’acquisizione del pronome in prima persona implica che un bambino ha un’esperienza soggettiva: in altri termini, sa di esserci, di essere distinto da tutti gli altri e di avere alcune caratteristiche che definiscono una sua identità.
J. Lacan ha dedicato grande attenzione a questo aspetto dello sviluppo evolutivo giungendo alla conclusione che la prima immagine che il bambino ha di sé è null’altro che l’immagine riflessa dallo “specchio” dei suoi. Essa, dunque, coinciderebbe con ciò che i Grandi pensano di lui.
Nell’ottica lacaniana, l’immagine interna primaria sarebbe, dunque, il frutto di un’alienazione, vale a dire dell’interiorizzazione e dell’appropriazione di un’immagine sociale.
Anche se si può ammettere che, nella programmazione del cervello, si dia una coscienza preriflessiva di sé, per cui il bambino sa di esserci anche prima di acquisire il pronome io, è fuor di dubbio che questa acquisizione definisce l’avvento dell’autoconsapevolezza.
Che essa avvenga all’insegna dell’alienazione, vale a dire di ciò che gli altri pensano, è sommamente importante perché, per alcuni aspetti, tale alienazione si mantiene per tutta la vita. Anche se gli adulti, infatti, in genere sono convinti che l’immagine che hanno di se stessi è vera in quanto fondata sull’esperienza diretta e immediata che hanno del loro essere, si può agevolmente dimostrare che l’esperienza interna viene valutata e qualificata alla luce di criteri di giudizio sociali.
Il passaggio da un’immagine alienata di sé ad un’immagine autentica, fedele per molti aspetti alla realtà della persona, implica la messa in gioco dei sistemi di valutazione culturali che determinano la prima.
L’immagine che gli introversi hanno di sé è quasi sempre alienata e tendenzialmente negativa. Capire perché questo accada è l’oggetto di questo articolo.
2. Parametri e criteri di giudizio che producono l’immagine interna
L’immagine che ogni soggetto ha di sé è un insieme di valutazioni o giudizi, prodotti a livello cosciente o inconscio, che si trasformano in attributi della personalità.
Definire i parametri su cui vertono le valutazioni è relativamente semplice: essi, infatti, riguardano l’aspetto estetico, l’intelligenza, l’emozionalità, le qualità morali l’orientamento caratteriale, il comportamento sociale, ecc. Se i parametri sono pochi, i criteri di giudizio, invece, sono molteplici. La tabella seguente ne elenca alcuni:
Aspetto estetico |
Bellezza / bruttezza Grazia / goffaggine Eleganza / grossolanità |
Intelligenza |
Intelligenza / stupidità Acume / ottusità Vivacità / lentezza |
Emozionalità |
Sensibilità / insensibilità Tranquillità / ansietà Mitezza / aggressività |
Qualità morali |
Bontà / cattiveria Onestà / disonestà Affidabilità / inaffidabilità |
Orientamento caratteriale |
Estroversione / introversione Forza/debolezza Autocontrollo / impulsività Accondiscendenza / competitività |
Comportamento sociale |
Altruismo / egoismo Socievolezza / diffidenza Adeguatezza / inadeguatezza |
E’ evidente che la tabella potrebbe essere indefinitamente arricchita. Anche ampliandola al massimo grado, però, risulterebbe strutturata sulla base di opposizioni significative. Tra gli estremi delle opposizioni si dà ovviamente uno spettro indefinito di qualità. E’ evidente che la realtà di ciascuno di noi si colloca all’interno di tale spettro e non agli estremi, come pure che essa, all’interno dello spettro, oscilla in rapporto alle varie circostanze della vita.
Un soggetto può essere adeguato sul piano professionale e incompetente sul terreno delle relazioni affettive; un altro disinvolto nel comunicare con poche persone e inibito nel parlare in pubblico; un altro ancora dotato di grandi capacità introspettive e inetto sotto il profilo pratico; ecc.
Questa considerazione è importante perché fa intuire che un’immagine realistica ed equa di sé non può prescindere dal superamento della logica degli opposti, connaturata al nostro apparato mentale e, come vedremo, intrinseca ad ogni codice normativo culturale.
Ricondurre gli attributi che integrano l’immagine interna ad una serie di processi valutativi, vale a dire di giudizi formulati sulla base di opposizioni significative, porta al cuore del problema. E’ ovvio, infatti, che non si dà valutazione senza un metro di misura, un codice di giudizio.
Ora, se i parametri su cui si costruisce l’immagine interna si possono ritenere universali, nel senso che, ad occhio e croce, tutte le culture sembrano tenerne conto, i criteri di giudizio variano molto da cultura a cultura. Si potrebbero fornire infiniti esempi a riguardo. Il più pregnante, però, è quello riferito all’aspetto estetico che, essendo colto percettivamente, sembra il più oggettivo.
Nel corso della storia dell’umanità i criteri di giudizio estetico non sono affatto omogenei. La Venere steatopigia raffigurata come ideale di bellezza presso molte culture preistoriche è una donna di eclatante grassezza. Raffigurazioni vicine alla nostra sensibilità estestica sono proprie dell’arte greca. Ma, ancora nel Medioevo la grassezza, in quanto segno di agiatezza e buona salute, veniva esteticamente privilegiata rispetto alla magrezza: tradizione che si è mantenuta presso le classi nobiliari fino all’avvento della borghesia.
Nel corso degli ultimi decenni, la nostra cultura è oscillata tra il privilegiare la bellezza delle donne “maggiorate” e quella delle donne magre e anoressiche.
Non si giunge a conclusioni diverse prendendo in considerazione un parametro immateriale come l’adeguatezza. Il termine fa riferimento ad un comportamento conveniente, idoneo, adatto alle circostanze. Il verbo riflessivo – adeguarsi – è più esplicito, significando tout-court conformarsi, vale a dire agire un comportamento che in un determinato contesto culturale viene ritenuto normale.
La relatività culturale di questo criterio è facile da esemplificare. Fino al tardo Rinascimento, le regole di etichetta prescrivevano che un invitato ad un pranzo doveva esibire la sua soddisfazione per il cibo offerto ruttando e scoreggiando clamorosamente, più volte. Chi non era in grado di fare questo, non era ritenuto solo inadeguato ma maleducato. Chi facesse oggi una cosa del genere sarebbe ritenuto, viceversa, incivile.
Analoga considerazione si può fare per il parlare in pubblico. In passato, chi non disponendo di adeguate conoscenze su di un argomento, avesse osato di parlare a vanvera, sarebbe stato considerato temerario e sciocco. Oggi, essere adeguato implica non rimanere mai in silenzio laddove si discute di un qualunque argomento, pena l’essere considerati inetti.
E’ fuori di dubbio, dunque, che i criteri di giudizio sui quali i soggetti costruiscono un’immagine di sé hanno una forte valenza culturale. Raramente, però, i soggetti si interrogano a riguardo. Il motivo di questo difetto di consapevolezza critica è facilmente comprensibile.
Una volta prodotte, a livello conscio o inconscio, le valutazioni riguardo a sé sono vissute con un’immediatezza che corrisponde, all’incirca, a quella che sopravviene guardandosi allo specchio. Tale immediatezza porta il soggetto a pensare che si tratti di dati di fatto assolutamente reali e oggettivi che riguardano il suo essere, tali che chiunque altro non può valutarli diversamente, tranne che essi non siano celati.
L’immediatezza con cui le attribuzioni che integrano l’immagine interna si pongono a livello di vissuto soggettivo è ingannevole e fuorviante.
In realtà l’esperienza umana, essendo il prodotto di una lunga storia che si svolge sul registro dell’interazione con un ambiente culturale e riconoscendo una dimensione inconscia che sottende costantemente l’esperienza cosciente, non ha quasi nulla di immediato in senso proprio. Ogni vissuto, in breve, è il frutto di complessi processi interiori che sono in gran parte al di fuori del controllo dell’Io.
Tanto questo è vero che l’incidenza di quei processi può investire addirittura l’immagine riflessa in uno specchio, che dovrebbe essere in assoluto la più oggettiva.
E’ facile portare esempi a riguardo.
Una ragazza anoressica che pesa 31 chili si mette ogni giorno nuda davanti allo specchio per verificare bene il suo aspetto. Dal punto di vista oggettivo, il suo corpo è scheletrico, ma la ragazza si vede bella per via della pelle tirata sul ventre come la copertura di un tamburo. Se continua però ad esplorare per qualche tempo la sua immagine (cosa che fa regolarmente), scopre qualche residuo adiposo, qualche rotondità che non cede alla dieta. Repentinamente, il suo vissuto cambia: si vede brutta e orribilmente grassa.
Un ragazzo di 17 anni – magro, alto e complessivamente affascinante - decide di non uscire più di casa. Il problema è che, esaminando con cura il suo volto allo specchio (rituale che esegue ogni giorno da mesi), ha scoperto che il naso ha una minuscola gobba. Concentrando l’attenzione sulla gobba, egli giunge a vedersi orribile e a cogliere il motivo della sua difficoltà di relazionarsi con le ragazze. Pretende di sottoporsi ad un intervento di chirurgia plastica, ma, per fortuna, non trova nessuno disposto ad eseguirlo.
Un giovane di 21 anni ha imposto alla famiglia di ricoprire tutti gli specchi e le vetrine della casa. L’esigenza muove dal fatto che ha paura di vedere il “mostro” che, qualche settimana prima, è comparso repentinamente sullo specchio del bagno mentre si lavava. Fuori casa, egli passa davanti alle vetrine senza mai gettare lo sguardo su di esse.
E’ evidente che queste esperienze si realizzano in conseguenza di una “patologia” psicologica. Esse però sono particolarmente significative perché i tre soggetti sono lucidi, intelligenti e colti.
Che cosa vedono dunque nell’immagine allo specchio? Una realtà oggettiva e inconfutabile, secondo loro. Dal punto di vista psicodinamico, invece, ciò che appare ai loro occhi è, nel primo caso, la valutazione dell’aspetto estetico in rapporto ad un modello ideale (disincarnato) e, negli altri due, la proiezione di un’immagine interna che si dà a livello inconscio.
La psicopatologia è un potente strumento di comprensione dell’umano, perché essa rende trasparenti aspetti e dinamiche della soggettività altrimenti invisibili. Essa suggerisce che non ci si può fidare dell’immagine che si ha di sé. Per capire meglio questo aspetto occorre approfondire come si origina tale immagine, dando per scontato che, in ogni soggetto, se ne danno due: una cosciente e l’altra inconscia.
3. Immagine interna cosciente
La genesi dell'immagine interna cosciente non è tanto misteriosa come potrebbe apparire. Si ammetta o meno l'esistenza di una coscienza preriflessiva di sé, vale a dire di una sorta d'intuizione innata della propria individualità, è fuori di dubbio, come accennato, che sono le interazioni sociali con l'ambiente ad avviare la definizione dell'immagine interna. Ogni bambino è investito dagli adulti di una serie di attribuzioni (bello/brutto, buono/cattivo, intelligente/stupido, ecc.) che vengono interiorizzate. Il calco dell'immagine interna cosciente è, di fatto, l'immagine che gli adulti hanno del bambino.
Il nucleo interiorizzato dell'immagine interna si definisce, ulteriormente, attraverso le interazioni sociali e il delinearsi di una dimensione introspettiva nel corso dell'evoluzione della personalità.
Le interazioni sociali sono contrassegnate dalla reciprocità. Il soggetto riceve dall'esterno delle conferme e/o delle disconferme concernenti il suo essere e, nello stesso tempo, cerca di produrre negli altri un'immagine sociale corrispondente a ciò che egli ritiene di essere. Questo giuoco interattivo può produrre cambiamenti più o meno rilevanti dell'immagine interna.
L'introspezione svolge un duplice ruolo. Per un aspetto essa pone a confronto l'immagine interna, quello che il soggetto pensa o sente di essere, con un modello immaginario, il quale fa riferimento a quello che egli vorrebbe essere e determina un aggiustamento reciproco. Il modello di riferimento, che può essere vocazionale o acquisito culturalmente, può mobilitare il soggetto nella direzione di una maggiore corrispondenza ad esso. L'immagine interna, viceversa, può determinare un accomodamento del modello stesso, in maniera tale da ridurre lo scarto tra ciò che il soggetto pensa di essere e ciò che desidera essere.
Per un altro aspetto, l'introspezione induce il soggetto a confrontare la percezione soggettiva che ha di sé e l'immagine sociale che tende a produrre o che gli altri si fanno di lui. Tra i due aspetti non si dà mai una corrispondenza puntuale. Ciascuno sa nel suo intimo di non essere del tutto come appare agli altri. Lo scarto tra i due aspetti definisce il grado di sicurezza del soggetto: elevata quando lo scarto è minimo, piuttosto bassa quando esso è elevato. Nonostante l'immagine interna cosciente possa essere sufficientemente definita e integrata, persiste vita natural durante una sua dipendenza dal giudizio sociale, anche se essa varia da soggetto a soggetto.
Il significato funzionale dell'immagine interna cosciente è ovvio. Essa assicura al soggetto un'identità dotata di un qualche grado di coerenza, definisce le sue aspettative sociali e rappresenta la matrice delle sue aspirazioni e della sua progettualità.
In quale misura l'immagine interna cosciente corrisponde alla realtà di quello che la persona è? In linea generale, si può dire che essa è sempre un po' semplificata, un po' troppo compatta e coerente, un po' troppo lineare rispetto alla realtà. Per questo aspetto, si può ritenere ch'essa sia funzionale a tenere la coscienza al riparo dalla complessità e dalle contraddizioni intrinseche ad ogni personalità.
Lo statuto “normale” dell’immagine interna cosciente è, dunque, in qualche misura inesorabilmente mistificato. Esso rimuove qualche aspetto della personalità significativo e, talora, include altri aspetti che sono immaginari.
Tradizionalmente si ritiene che la mistificazione, vale a dire il “ritocco” che l’Io, anche senza rendersene conto, effettua in rapporto alla sua realtà globale serva univocamente a migliorare l’immagine interna, vale a dire a renderla più fedele ad un modello ideale di riferimento, che rappresenta ciò che il soggetto desidererebbe essere. Questo molto spesso è vero; in alcuni casi, però, il “ritocco” funziona in senso peggiorativo.
Per definire il modello ideale di riferimento in psicoanalisi si utilizzano due diversi termini: Io ideale e Ideale dell’Io. Per semplificare le cose, si può dire che l’Io ideale rappresenta un modello con cui il soggetto si identifica narcisisticamente, sentendo di averlo in gran parte realizzato; l’ideale dell’Io, viceversa, definisce il modello cui il soggetto aspira e tenta di conformarsi.
La distinzione, che sembra sottile, in realtà è importante, perché spiega una differenza radicale che si dà tra diversi soggetti.
Di fatto, la maggioranza delle persone tendono, più o meno sistematicamente, a sopravvalutarsi, ad attribuirsi cioè doti (per esempio di sensibilità, intelligenza, cultura, ecc.) che manifestamente non hanno, mentre una minoranza tende, in misura diversa, a sottovalutarsi. La sopravvalutazione sembra quasi sempre associarsi ad un orientamento estroverso, mentre la sottovalutazione ad un orientamento introverso.
Nel primo caso, il soggetto dà credito all’Io ideale ritenendolo realizzato più di quanto esso sia; nel secondo, viceversa, il soggetto tende a misurare dolorosamente lo scarto tra ciò che ritiene di essere e l’Ideale dell’Io. In conseguenza di questo, lo scarto si traduce inesorabilmente in un giudizio negativo.
Non è difficile spiegare in prima battuta questa diversa valutazione. L'estroverso si confronta con persone che sono più spesso simili a lui, con i quali condivide anche i modi di pensare (luoghi comuni compresi), i modi di sentire (compresa una certa superficialità) e i modi di agire ("normali", quindi non molto individuati). Da questa interazione egli può trarre facilmente alimento per corroborare l'immagine di una persona integrata e positiva. Dalla stessa interazione, viceversa, l'introverso, che non riesce quasi mai a vivere il suo valore prescindendo dal confronto con gli altri, ricava più spesso un senso d'inadeguatezza, se non addirittura d'inferiorità.
La sopravalutazione non pone problemi interpretativi. Posto che un soggetto abbia l’esigenza di positivizzare l’immagine di sé, egli “seleziona” i dati che lo riguardano in maniera tale da tenere conto solo di quelli che la confermano e di rimuovere quelli che la disconfermano.
La sottovalutazione implica invece un processo che fa trasparire l’attività dell’immagine interna inconscia, della quale ora si deve parlare, anche se si tratta di un nodo particolarmente problematico. Il riferimento all’Ideale dell’Io è importante, ma non basta. C’è da chiedersi, infatti, come esso si genera all’interno di alcune esperienze soggettive.
4. Immagine interna inconscia
L’immagine interna inconscia ha una genesi più complessa di quella cosciente.
Anche essa riconosce il suo calco nell'immagine che gli altri hanno del soggetto in fase evolutiva. Se, per esempio, un bambino viene ritenuto cattivo o stupido dagli adulti, che non capiscono il significato dei suoi comportamenti opposizionistici (compreso, per esempio, un mediocre rendimento scolastico), è inevitabile che interiorizzi questo giudizio, che può persistere anche quando la crescita lo porta a giudicarsi diversamente.
La componente interattiva non è però la sola che determina l'immagine interna inconscia. I giudizi sociali degli adulti sono fondati su codici culturali, che essi albergano senza mai avere una piena coscienza del loro significato e delle loro implicanze. I genitori (o gli insegnanti) giudicano cattivo o stupido un bambino opposizionistico perché fanno riferimento ad un codice per il quale il bambino buono è docile, accondiscendente, ubbidiente, giudizioso, responsabile, studioso: insomma perfetto in rapporto alle loro aspettative (che spesso trascurano il fatto che essi da adulti sono molto distanti da un modello del genere).
Il codice in questione è del tutto innaturale poiché ignora che la personalità infantile evolve attraverso fasi di squilibrio più o meno intenso e che si danno bambini più o meno docili (nessuno docile in assoluto, nessuno cattivo per natura). Se così non fosse, perché il periodo evolutivo, alla fine del quale un soggetto raggiunge una strutturazione della personalità minimamente integrata, dovrebbe durare da 15 a 25 anni?
Interagendo con un codice del genere si danno solo due possibilità: che un bambino conformi ad esso il suo comportamento, reprimendo ogni valenza oppositiva contrastante con le aspettative genitoriali, o che egli, dotato di un bisogno di opposizione spiccato, entri in guerra con l’ambiente.
Paradossalmente, però, in entrambi i casi si può produrre a livello inconscio un’immagine interna negativa. Nel primo, perché le valenze oppositive represse si intensificano, si disordinano (come un corso d’acqua che non trova un canale in cui convogliarsi) fino al punto che il soggetto giunge a pensare, più o meno consapevolmente, di essere altro da come appare: negativo, appunto. Nel secondo, il rischio è che la guerra nei confronti del mondo si estenda progressivamente al di là degli spazi originari che l’hanno prodotta (famiglia, scuola), dando luogo ad un’ostilità indifferenziata contro tutto e contro tutti (compreso se stesso) che, per non essere mai pienamente giustificata, si ritorce contro il soggetto sotto forma di negatività.
Il giudizio di negatività può essere rappresentato a livello cosciente, ma esso spesso è del tutto inconscio. Ciò significa che esiste una funzione giudicante in ogni personalità che lavora sotterraneamente, al di là della coscienza.
5. La scoperta del Super-Io
La scoperta di questa funzione è una delle più rilevanti fatte da Freud, che l’ha denominata Super-Io. Il Super-Io è l’erede dell’enorme potere che hanno i genitori (e in senso lato gli educatori) sulla mente del bambino. Nella misura in cui gli educatori rappresentano la società degli adulti nel suo complesso, l’interiorizzazione dei valori di cui sono portatori e che trasmettono attecchiscono in misura direttamente proporzionale alla sensibilità sociale del bambino e strutturano il Super-Io. Questa funzione, dunque, ha due aspetti correlati: per un verso, in nome della sua matrice interpersonale, agisce come un soggetto giudicante a livello inconscio; per un altro, non rappresenta solo gli educatori ma la socialità nella sua totalità.
Il Super-Io è, dunque, un Giudice interno che valuta i comportamenti, i pensieri, le emozioni, le fantasie, i desideri di un soggetto alla luce dei sistemi di valore che sono stati trasmessi e interiorizzati. C’è, insomma, in ogni soggettività, una sorta di tribunale che emette verdetti sulla base di codici normativi interiorizzati.
In quanto rappresentante a livello mentale della società, il Super-Io ha un potere enorme, ma non definitivo. Nella misura in cui veicola codici normativi, esso favorisce l’inserimento sociale, ma sovrappone all’esperienza soggettiva norme, regole e valori ritenuti importanti in un determinato contesto sociale, ma che sono impersonali. Sono, in breve, doveri di ruolo astratti, che prescindono dalla concreta esperienza che un soggetto fa nel mondo.
Alcuni esempi possono chiarire questo assunto.
Un dovere di ruolo impartito di consueto ai bambini concerne il fatto che i genitori vanno comunque amati e rispettati. Ma è possibile che un figlio che ha un rapporto conflittuale con i genitori (perché iperprotettivi o anaffettivi o severi o perfezionisti, ecc.) possa solo amarli? E’ possibile, in senso lato, che, laddove si dà una relazione affettiva di lunga durata non si determinino delle ambivalenze, sia pure di diversa intensità?
Un dovere di ruolo associato all’essere madre postula che questa sacrifichi completamente se stessa per soddisfare i bisogni del bambino e per esprimere il suo amore. Ma il sacrificio totale di sé a favore del figlio, che impedisce alla madre di dedicare a sé una minima cura, non è destinato ad evocare, prima o poi, una violenta avversione nei confronti di quell’esserino che soffoca e succhia la vita?
Un dovere di ruolo impartito con l’educazione religiosa identifica la virtù nell’altruismo totale e nella capacità di non nutrire ostilità nei confronti del prossimo o, se esse sopravvengono, di perdonare. Nel momento in cui un soggetto, per stare in pace con la coscienza, adotta questa virtù e scopre che almeno alcuni lo sfruttano senza riguardo alcuno, può reprimere un moto di rabbia violenta associato a fantasie di vendetta?
Questi esempi riconducono ad un tema che è stato sfiorato.
Se l’apparato mentale umano è governato dalla logica degli opposti, non c’è da sorprendersi che questa logica sia adottata dalla cultura, si rifletta nei codici normativi e sia rappresentata in ogni soggettività nella misura in cui questi sono interiorizzati dal Super-Io.
La funzione del Super-Io consiste nel giudicare il comportamento globale del soggetto (compreso ciò che accade nel suo mondo interiore sotto forma di fantasie, desideri, emozioni, pensieri) alla luce dei codici culturali normativi. L’immagine interna inconscia è, in gran parte, una conseguenza di tale attività giudicante. Essa dipende dunque dalla strutturazione più o meno rigida e severa del Super-Io, che, a sua volta, dipende dall’ambiente culturale con cui il soggetto originariamente interagisce e dalla sensibilità soggettiva.
Per quanto riguarda questo secondo aspetto, è importante rilevare che i soggetti introversi tendono solitamente a strutturare precocemente un Super-Io piuttosto rigido, che, in fase evolutiva, si esprime, in alcuni (introversi docili), sotto forma di perfezionismo (i figli d’oro) e in altri (introversi oppositivi), sotto forma di immani sensi di colpa associati alla loro “cattiveria”.
6. Al di là del Super-Io freudiano
Non si sarà mai adeguatamente grati a Freud della scoperta del Super-Io, vale a dire di una funzione che lavora spesso inconsciamente e che rappresenta la società tutta all’interno della soggettività. Per questo aspetto, è lecito dire che ogni uomo vive – se ne renda conto o meno – sotto il controllo e il giudizio sociale.
Questo aspetto, che si può ritenere strutturale in rapporto alla personalità umana, oggi è tendenzialmente misconosciuto. Tutti siamo consapevoli di essere esposti al giudizio sociale, ma che una parte della mente mantenga indefinitamente il potere della società nel nostro mondo interiore e funzioni in nome di essa, è poco compatibile con la concezione contemporanea dell’Io come padrone di sé.
L’esistenza del Super-Io è però certa. Senza di esso, non si giungerebbe precocemente a sviluppare la consapevolezza di avere un Io.
Come accennato, tale consapevolezza è precoce e si fonda sull’interiorizzazione da parte del bambino dei giudizi che i Grandi formulano su di lui. Ma su quale base si fondano quei giudizi? Su criteri di valore culturali: sono, dunque, propriamente parlando giudizi superegoici che vengono interiorizzati dal bambino con i codici culturali che li promuovono.
Il rapporto tra Super-Io, Io ideale e Ideale dell’Io è facile da capire. Sviluppando un Io ideale, vale a dire un’identificazione narcisistica di sé, molte persone si pongono al riparo dall’attività del Super-Io, che viene inibita o rimossa. Possono, per esempio, agire comportamenti insensibili ed egoisti senza sentirsi in colpa, perché l’ideale dell’Io comporta la convinzione di essere sensibili e rispettosi degli altri.
L’Ideale dell’Io, invece, fa sì che il soggetto rimane esposto, quasi senza difese, all’attività del Super-Io e dei valori culturali cui esso fa riferimento.
Per giungere, però, ad una maggiore comprensione dell’immagine interna inconscia e delle ragioni per cui essa, in una misura inquietante negli introversi, si negativizza, occorre oggi andare al di là della teoria freudiana.
Due, infatti, sono i limiti di essa. Il primo è che Freud parte da una considerazione radicalmente pessimistica della natura umana, che sarebbe caratterizzata da un orientamento sostanzialmente asociale, amorale e istintuale. Su questa base, la socializzazione, vale a dire il controllo sociale reale (attraverso lo Stato, le sue leggi, l’opinione pubblica, ecc.) e quello assicurato dalla strutturazione del Super-Io, non può avvenire che sulla base della costrizione e della repressione, in difetto delle quali l’uomo diventa un “bestione” pericolosissimo.
Il secondo limite, complementare al primo, è che Freud ritiene che i codici normativi, che la società produce per assicurarsi un’identità, una coesione e una continuità nel tempo, per quanto talora possano essere eccessivamente frustranti (è questo il tema de Il disagio della Civiltà), essendo un prodotto collettivo convalidato dalla tradizione e dalla loro funzionalità non possano non veicolare valori elevati. Essi, in pratica, deputati a difendere l’ordinamento civile e morale dalla pressione degli istinti umani, non possono essere che positivi.
In conseguenza della sua visione pessimistica della natura umana, Freud, nel teorizzare il Super-Io, è caduto in un drammatico equivoco. Egli riteneva di avere scoperto la funzione che, in virtù della paura di una rappresaglia sociale da parte degli altri (i più), permette ad individuo di reprimere e arginare le sue pulsioni animalesche. Di fatto, ha scoperto la predisposizione sociale umana all’interiorizzazione della cultura, che avviene in misura direttamente proporzionale alla sensibilità individuale.
E’ evidente che questo aspetto è particolarmente importante nella strutturazione di una personalità introversa. La sensibilità sociale, che è uno dei tratti più specifici dell’introversione, comporta infatti normalmente un’interiorizzazione quasi senza difese dei valori che vengono trasmessi dai Grandi e dei codici culturali che li definiscono: quindi, una strutturazione precoce e piuttosto rigida del Super-Io.
Il perfezionismo che intrappola molti bambini e adolescenti introversi è una prova indubitabile di questo.
Posto dunque che il Super-Io si struttura sulla base di valori culturali trasmessi attraverso le generazioni, per capire meglio la genesi dell’immagine interna negativa, occorre approfondire il discorso sui codici culturali che vigono nel nostro mondo.
7. Codici culturali
Lo schema seguente riassume, sinteticamente, l’evoluzione dei codici culturali nel corso della nostra civiltà. Si tratta di uno schema formulato circa venti anni fa, al quale oggi apporterei solo minime modifiche. Aggiungerei, per esempio, i valori socialisti, che per alcuni aspetti, hanno ripreso in un’ottica laica alcuni aspetti dei codici culturali cristiani.
Dallo schema riesce chiaro che i codici culturali sono profondamente mutati nel corso del tempo. Riesce anche chiaro che se i valori cristiani sono alla radice della nostra civiltà e la impregnano ancora profondamente a livello immaginario, i valori borghesi hanno avuto uno sviluppo singolare.
Non capiremmo nulla della nostra cultura se non tenessimo conto che, ai suoi albori, gran parte della classe borghese aderiva ai valori religiosi, sui quali innescava i suoi propri (l’etica del lavoro, l’affermazione individuale, il culto del privato familiare, il rispetto formale degli altri, ecc.) senza vedere tra essi alcun conflitto.
In realtà, il conflitto, con le sue potenzialità evolutive, c’era perché l’affermazione individuale, anche se comportava il riferimento alla parabola dei talenti, implicava la scissione del legame comunitario che, prima dell’avvento della borghesia, vincolava il soggetto almeno al suo gruppo parentale. Solo sulla base dell’individualismo, il soggetto che raggiungeva un certo status sociale, superiore a quello del gruppo parentale di origine, poteva ignorare i suoi doveri di appartenenza, vale a dire godere della sua ricchezza senza preoccuparsi dei parenti più poveri.
Le potenzialità evolutive del codice culturale borghese sono andate incontro, nel corso del tempo, e con una progressione inquietante negli ultimi decenni, ad un vero processo degenerativo, configurando nel loro insieme un sistema di valori (neoliberista) che nulla concede all’empatia, alla solidarietà sociale, all’appartenenza comunitaria.
Ho analizzato i vari sottocodici che caratterizzano il codice culturale neoliberista in altri miei scritti. Accludo all’articolo, in appendice, questa analisi.
Basterà qui dire che essi fanno univocamente riferimento all’affermazione dell’individuo a qualunque costo, anche al prezzo di una disumanizzazione totale del soggetto. In breve il Super-Io neoliberista ha come obbiettivo lo status sociale, il potere, il successo, la forza, il denaro, ecc. Esso è radicalmente diverso rispetto a quello esplorato da Freud, che per molteplici aspetti era tradizionale.
Come accade per ogni codice normativo, nessuno può sfuggire alla sua influenza. Se esso però si impianta su di un terreno di personalità caratterizzato da una sensibilità media, i valori tradizionali vengono rimossi e l’individuo, perseguendo fini egoistici che richiedono anche la strumentalizzazione degli altri o il passare sopra i loro diritti e bisogni, non sviluppa alcun rimorso perché egli vive come si deve vivere e come vivono tanti altri.
Se, viceversa, l’Io ideale neoliberista s’impianta su di un terreno caratterizzato da una viva sensibilità sulla quale hanno profondamente attecchito i valori tradizionali, esso, non riuscendo a rimuoverli, determina un lacerante conflitto.
Se il soggetto, infatti, cerca di rimanere fedele ai suoi valori naturali, avallati dalla tradizione, rischia, alla luce dell’ideale dell’Io, di sentirsi inferiore, inadeguato, debole, inetto. Se, viceversa, cerca, sull’onda dell’esasperazione e della rabbia, di adeguarsi ai nuovi valori, indurendosi, insensibilizzandosi, coltivando fantasie competitive e vendicative, rischia di sentirsi cattivo, aggressivo, pericoloso, ecc.
In molte esperienze introverse si dà una singolare compresenza di sistemi valutativi diversi. L’impianto del Super-Io tradizionale di matrice religiosa avviene sempre, anche indipendentemente da un’educazione confessionale e da una pratica della fede, in nome del fatto che i valori religiosi, nella loro essenza (essere buoni, empatici, disponibili, altruisti, ecc.), sono connaturati al patrimonio genetico introverso. Dato quell’attecchimento, è estremamente facile che gli introversi sviluppino un Ideale dell’Io perfezionistico in senso morale.
Questo ideale, però, oltre a portare il soggetto sul terreno di una continua rincorsa verso un’irraggiungibile perfezione, lo espone a due rischi. Il primo è di sentirsi perennemente inadeguato sul terreno di una vita quotidiana governata dal codice culturale neoliberista, che comporta un’aspra competitività e la necessità perpetua di agire senza porsi troppi scrupoli morali. Il secondo è di rendersi conto, ad un certo punto e in rapporto a varie circostanze, che la sua disponibilità viene sfruttata o manipolata dagli altri, come se fosse una debolezza.
La reazione a questa “scoperta” attiva spesso, a livello inconscio, laddove di fatto il codice neoliberista è presente, una reazione rabbiosa incentrata sul fatto di dimostrare a se stesso e agli altri di poter essere come loro e anche peggiore di loro.
Entrambe queste circostanze contribuiscono a far precipitare a livello inconscio un’immagine interna negativa che oscilla tra l’inadeguatezza e la “cattiveria”.
L'attribuzione d'inadeguatezza va dall'estremo del semplice disagio che si prova nel confrontarsi con gli altri - da cui il soggetto ricava una prova costante della sua inferiorità, immaturità, ingenuità, incompetenza comportamentale, che sita nel vissuto di sentirsi piccolo in un mondo di grandi - all'estremo opposto di un senso di totale disvalore associato ad una quasi intollerabile vergogna legata all'esposizione sociale, che spesso determina un drammatico disprezzo nei propri confronti.
L'attribuzione della cattiveria va dall'estremo di una scarsa sensibilità nei confronti degli altri, che porta il soggetto a sentirsi nel suo intimo indifferente e cinico, all'estremo opposto dell'essere un mostro, un folle criminale, la reincarnazione del diavolo, ecc.
E' evidente che l'attribuzione d'inadeguatezza implica un giudizio formulato sulla base del codice culturale neoliberista, mentre l'attribuzione di cattiveria implica un giudizio formulato sulla base del Super-Io tradizionale.
Perché queste attribuzioni possono essere ritenute ben poco realistiche o del tutto inattendibili? Perché i soggetti che si sentono inadeguati sono quasi tutti introversi che hanno eccellenti qualità, e i soggetti che si sentono cattivi non hanno mai fatto male a nessuno o ne hanno fatto, spesso inavvertitamente, in misura modesta rispetto ai "normali".
L'immagine interna negativa si genera quasi sempre a livello inconscio, laddove i codici culturali interiorizzati sono rappresentati in forma più attiva. Essa può rimanere latente, evidenziandosi solo attraverso sintomi, vissuti e comportamenti il cui significato sfugge al soggetto, o affiorare a livello cosciente: più spesso sotto forma di inadeguatezza, ma talora anche sotto forma di cattiveria.
Come accennato, l’immediatezza di questi vissuti è tale, di solito, che i soggetti non riescono a distogliersi dall’idea che essi definiscono una condizione assolutamente reale. Di fatto, questo non è vero: ma la convinzione della loro fondatezza può avere effetti molto profondi sulla vita soggettiva e di relazione.
L’attribuzione di inadeguatezza, infatti, fa sì che il soggetto rifugge ogni situazione che potrebbe fargliela vivere angosciosamente o esporlo al giudizio sprezzante o ridicolizzante degli altri. Questa strategia difensiva comporta spesso uno spreco enorme di potenzialità di sviluppo, sicché alla fine essa realizza un’inadeguatezza reale.
L’attribuzione di cattiveria, se possibile, produce effetti ancora peggiori. Essa, infatti, promuove spesso una strategia riparativa incentrata sull’essere sempre più buoni, disponibili, altruisti, disinteressati, ecc. Il problema è che il soggetto, consciamente o inconsciamente, sa che si tratta di una difesa, per cui, anche se riceve conferme sociali, queste cadono nel vuoto perché sono ottenute ingannando gli altri. La pratica di un modo di essere virtuoso periodicamente poi dà luogo, quando il soggetto prende atto che gli altri profittano di lui, ad esplosioni repentine di rabbia che, sinao o no espresse, confermano la cattiveria.
Si dà, però, un’altra possibilità. Se il soggetto, infatti, si trova in un contesto relazionale confermativo, e non ritiene di meritare le conferme che consegue, paradossalmente può finire con il sentirsi a disagio e con lo star male; al limite, egli, consciamente o inconsciamente, può giungere ad agire in maniera tale da invertire il giudizio degli altri nei suoi confronti: in breve per oggettivare la sua presunta negatività.
8. Perfezionismo
Per la compresenza di codici culturali che ormai appaiono incompatibili tra loro – il codice cristiano e quello neoliberista -, la nostra cultura si può definire senza eccesso “schizofrenica”. La pratica educativa corrente fa, infatti, insistentemente riferimento al codice culturale cristiano: quale genitore non nutre l’aspettativa che suo figlio sia un “angelo”? La stessa pratica, poi, sollecita il soggetto, a partire dall’adolescenza, ad attrezzarsi in maniera di essere adeguato ad una società la cui legge non è la fratellanza, ma la lotta per sopravvivere.
Questa “schizofrenia” è rimossa da molti soggetti che aderiscono al codice neoliberista e rimuovono quasi del tutto la propria sensibilità. Essa, invece, rimane dinamicamente attiva nell’incoscio degli introversi, anche laddove essi tentano di anestetizzarsi.
Il nodo che spiega la presenza dell’immagine interna negativa nella maggioranza degli introversi è questo. Su di esso non si finirà mai di riflettere.
Sarebbe oltremodo interessante esplorare tutte le conseguenze psicologiche e relazionali dipendenti da un’immagine interna negativa. Ciò significherebbe, però, analizzare gran parte delle dinamiche legate al conflitto tra Super-Io tradizionale e Ideale dell’Io neoliberista così come esse incidono nell’ambito della psicopatologia (dall’ansia al delirio persecutorio). Un’impresa del genere va riservata, eventualmente, ad un’altra circostanza.
Per ora, il discorso può limitarsi a due situazioni ricorrenti e importanti, riconducibili entrambi, all’attività di un’immagine interna negativa: il perfezionismo e l’angoscia di abbandono femminile.
Il perfezionismo fa riferimento ad un modello irraggiungibile tale che, nel perseguirlo, il soggetto giunge a minimizzare o addirittura togliere valore al prodotto dei suoi sforzi, che può essere oggettivamente rilevante, e rimane costantemente preda dello scarto tra ciò che è e ciò che fa e ciò che dovrebbe essere (Ideale dell’Io). La conseguenza univoca del perfezionismo è un vissuto d'inadeguatezza, che può essere più o meno radicale, ma è sempre percepito come prova del proprio disvalore.
E' importante tenere conto che il perfezionismo attecchisce sempre su personalità dotate di potenzialità, intellettive e/o emozionali, superiori alla media. Una volta interiorizzato, esso però promuove un'estrema tensione prestazionale e, nello stesso tempo, una frustrazione autovalutativa. Qualunque cosa il soggetto riesce a fare, infatti, viene ad essere minimizzata o giudicata negativamente in rapporto a ciò che egli avrebbe potuto o dovuto fare che supera di gran lunga la prestazione fornita.
Il metro di misura perfezionistico induce il soggetto non a cogliere nel limite il confine del suo valore, bensì l'espressione del disvalore, vale a dire un handicap.
Non c'è nulla di più sorprendente in analisi che ritrovarsi di fronte soggetti che, sul piano dello studio, del lavoro domestico o di quello professionale, hanno ricevuto e ricevono costantemente conferme sociali del loro valore e, nell'intimo, non riesco a credere ad esse, riconducendole al caso, alla fortuna o ad un errore di valutazione da parte degli altri. La conseguenza di quest'incapacità di dare credito al giudizio sociale e di integrarlo con l'immagine interna è il mantenersi di un vissuto interiore d'inadeguatezza, inferiorità, inadempienza, che può addirittura giungere a generare un senso di colpa riferito all'inganno perpetrato a carico degli altri.
A riguardo non posso non citare un’esperienza singolare e sorprendente.
Avendo alle spalle una faticosissima e brillante carriera universitaria all’insegna di un perfezionismo estremo, Donatella è giunta alla stesura della tesi. Naturalmente, per mettersi alla prova, l’ha chiesta ad un docente notoriamente perfezionista. Tra le richieste esterne e quelle interne, l’avvio dell’elaborato è complicatissimo. La consegna al professore del primo capitolo avviene associata alla certezza che egli giudicherà il lavoro superficiale e da rifare. Il professore, invece, lo approva integralmente, senza fare alcun commento. Donatella dà per scontato che egli aspetta il secondo, il più complicato, per emettere un giudizio negativo.
La consegna del secondo capitolo dà luogo, da parte del professore ad un prolungato silenzio. Infine, questi la convoca al telefono con un tono freddo e irritato. Donatella si presenta al colloquio con la morte nel cuore. L’atteggiamento del professore è inequivocabilmente gelido e scostante. La sottopone ad un vero e proprio interrogatorio sulle argomentazioni riportate nel capitolo e sulla bibliografia. Il senso dell’interrogatorio è chiaro: il professore non crede che D. abbia potuto produrre da sola un elaborato così denso. Sospetta che si sia fatta aiutare da qualche altro professore, ed è offeso.
Donatella risponde a tono a tutte le domande, manifestando una conoscenza di prima mano della bibliografia e della materia. Alla fine, il volto del professore s’illumina. Le prende la mano e le chiede scusa di aver dubitato della sua onestà, confessando che gli era riuscito incredibile che una ragazza così giovane avesse potuto produrre un elaborato del genere.
Una situazione confermativa del genere avrebbe dovuto produrre un superamento definitivo dell’immagine interna negativa. L’effetto esaltante della conferma, invece, si è estinto in poche ore. Donatella è giunta, infatti, a pensare la sera stessa che il professore, avendo preso atto delle sue difficoltà emotive, aveva agito mosso dalla pena!
Gli effetti del perfezionismo sono diversi a seconda della sua caratterizzazione sociale, riferita allo status, o morale, riferita alla bontà, all'altruismo, ecc. Il perfezionista sociale vive costantemente nell'incubo di un fallimento che rivelerà agli occhi degli altri il suo disvalore, e smaschererà i trucchi che egli ha adottato per conseguire in passato successi immeritati. Il perfezionista morale vive egli stesso nell'incubo dello smascheramento, che fa riferimento però alla sua "vera"natura di essere egoista, cinico se non addirittura cattivo.
Quest'attribuzione radicalmente negativa si spiega facilmente se si pensa che il sistema di valori morali adottato dal soggetto lo forza ad agire, sul piano dell'altruismo e della disponibilità, sforzi innaturali che vengono compensati, a livello inconscio, da fantasie opposizionistiche di segno opposto del tipo mandare tutti a quel paese, fregarsene degli altri, far peggio di loro, ecc. Queste fantasie vengono regolarmente imputate dal Super-Io che ricava da esse la prova di una negatività radicale.
9. Immagine interna negativa femminile
L'altro ambito di grande interesse che pone in luce gli effetti dell'immagine interna negativa è legata all'universo femminile. La popolazione femminile, come ho già scritto altrove, per effetto di una transizione culturale epocale da un mondo gerarchizzato, nel quale il ruolo della donna era subordinato al potere maschile, ad un mondo nuovo, incentrato sulla pari dignità, che è ancora in via di realizzazione, è affetta in misura rilevante da problemi psicologici (depressioni, attacchi di panico, anoressia e bulimia, difficoltà di relazione con il partner, ecc.). Molti di questi problemi riconoscono la loro matrice in un'immagine interna negativa, il cui spettro va dalla dipendenza e dall'inadeguatezza (conseguenza del misurare il proprio essere adottando un modello maschilista) all'estremo opposto della "cattiveria" (espressione delle fantasie di rabbia, d'odio e di vendetta rivolte contro l'uomo).
Sia il vissuto dell'inadeguatezza che quello della "cattiveria" confluiscono nel determinare, a livello di rapporto con il partner, l'aspettativa univoca dell'abbandono e del rifiuto (o in quanto spregevolmente deboli o in quanto intollerabilmente intrattabili). Quest'aspettativa spesso non è cosciente, anzi è mascherata da un bisogno di relazione e d'amore divorante. Essa però è rivelata da tre comportamenti, che si succedono o s'intrecciano nel corso delle relazioni, e, nella loro espressione complessiva, risultano inequivocabili.
A livello cosciente, di fatto, l’immagine interna negativa promuove un bisogno esasperato di conferme dall’esterno che serve a compensarla e ad impedire che essa determini una grave depressione. Tale bisogno si realizza in due diversi modi. Alcune volte la donna è forzatamente disponibile, accondiscendente, gentile con tutti. Altre volte, invece, quel bisogno induce una dipendenza, che si configura precocemente come profonda, dal partner. In questo caso, è inevitabile che le richieste di conferma divengano assillanti. Già quest'assillo può essere controproducente perché il partner, oppresso dalle richieste, può cominciare a rispondere in maniera ambivalente, manifestando un fastidio che, agli occhi della donna, attesta che il suo amore non è incondizionato.
Anche quando però il partner mantiene un atteggiamento univocamente confermativo, insorgono dei problemi. Alla luce dell’immagine interna negativa, infatti, la donna non può credere nelle conferme che riceve e nell'autenticità di chi le fornisce. Il riceverle dà un sollievo immediato che si estingue rapidamente e viene sormontato da un dubbio ossessivo. La diffidenza che ne discende promuove una strategia paradossale: il mettere alla prova il partner per essere sicura del suo amore. Questa strategia va dall’assillarlo con le richieste di conferme, a creargli delle difficoltà (per esempio chiedendo, in nome dell’amore, la rinuncia a fare alcune cose che gli piacciono), e, in casi estremi, a sottoporlo ad un vero e proprio maltrattamento. Posto che il partner regga la prova, la conseguenza non è positiva perché il suo amore, che dovrebbe essere confermato dal rimanere comunque in rapporto, viene ad essere vissuto come incredibile, morboso o espressione di debolezza di carattere e di dipendenza.
Accade anche di peggio, vale a dire che l’escalation dei comportamenti maltrattanti nei confronti del partner vada avanti fino ad indurne il cedimento. Quando ciò avviene la donna, di solito, cade in una crisi profonda di "astinenza", ma, nel suo inconscio, è soddisfatta perché ha confermato la sua negatività e rifiutabilità.
Una storia esemplare riguardo alla dinamica descritta è la seguente.
Nicola, un mio compagno di studi universitari, s’innamora perdutamente prima della laurea di una ragazza affascinante. Quando la presenta a me e agli altri amici del gruppo, cogliamo subito qualcosa che non va nel modo di essere di Siria. Non è solo visibilmente gelosa del rapporto che Nicola intrattiene con noi: è pregiudizialmente chiusa, fredda e ostile come se fossimo dei nemici.
Nicola, innamorato ma non cieco, ci mette al corrente del problema. Siria è terribilmente insicura. Si vede brutta e senza valore (nonostante sia una persona colta e raffinata), e quindi non può credere nell’amore del partner. Diffidente, lo tempesta dalla mattina alla sera chiedendogli di dirle la verità: è la verità, ovviamente, è che lui non la ama. L’ostilità nei nostri confronti è dovuta alla sua certezza che, giudicandola brutta e priva di valore, potremmo fare aprire gli occhi a Nicola.
Questi è assolutamente certo che il suo amore alla fine avrà la meglio sulla diffidenza “patologica” di Siria.
Si sposano e hanno due figli. La convivenza però è difficile. Siria quotidianamente trova modo di attaccare il marito accusandolo di ingannarla. Nicola continua ad avere un atteggiamento confermativo perché continua ad amarla, anche se si rende conto che la moglie ha un disturbo di personalità tale per cui in alcuni momenti, quando è se stessa, è una persona amabile, piena di qualità, profonda, mentre in altri momenti è un inquisitore terribile e spietato. Non si rende assolutamente conto che la sua diffidenza, protraendosi negli anni, è un’offesa sempre meno sopportabile per un uomo la cui onestà è totale.
Dopo quindici anni, Nicola prende atto repentinamente che la diffidenza di Siria non è in alcun modo modificabile, anche perché essa rifiuta qualunque proposta di farsi aiutare sul piano di una psicoterapia. Pur essendo legato ai figli da un rapporto molto intenso, decide di separarsi.
Quando comunica a Siria questa decisione, la risposta è glaciale. La donna lo guarda negli occhi con un lampo di ostilità terribile e gli dice: “Hai impiegato quindici anni a dire la verità”.
Dopo la separazione, Siria crolla e riconosce di avere bisogno di aiuto. Capisce, attraverso la terapia, quello che è accaduto, ma ciò vale solo a ricomporre tra i partner un rapporto amichevole.
10. Che fare?
Alla luce di queste esperienze, il problema dell’immagine interna negativa appare in tutta la sua drammaticità. Dal punto di vista psicodinamico, non è affatto azzardato identificarla con una modalità “delirante” che concerne il modo in cui il soggetto vede e valuta se stesso. Il termine “delirante” fa riferimento alla certezza assoluta di un insieme di attribuzioni che non appaiono mai fondate, ma che si mantengono nonostante prove di realtà che dovrebbero indurre il soggetto a metterle in dubbio o a invalidarle.
In alcune situazioni, l’immagine interna negativa non incide sul giudizio sociale. In altre situazioni, essa si realizza, nel senso che finisce con il determinare da parte degli altri una conferma della negatività.
Naturalmente c’è da chiedersi cosa si possa fare, dato che l’associazione tra introversione e immagine interna negativa è pressoché costante e riconosce solo rare eccezioni.
Dalla teoria alla pratica il salto, ovviamente, è lungo. Il superamento dell’immagine interna negativa richiede un duro lavoro orientato a sostuire attribuzioni radicate in profondità con valutazioni più clementi, eque e realistiche.
L’esperienza di un gruppo d’interazione tra introversi mira a fornire una risposta pratica al problema la cui importanza non può essere minimizzata. L’essere accolti e riconosciuti dagli altri nel proprio valore umano, rispecchiarsi in soggetti affini e riconoscere in essi tratti di carattere, vissuti e comportamenti simili ai propri può senz’altro aiutare a migliorare l’immagine interna (a patto che le persone diano credito ai giudizi degli altri).
Penso però che la riflessione teorica che ho svolto in questo articolo, per quanto ardua per alcuni aspetti, possa essere un contributo all’interazione di gruppo. Da ultimo, lavorare sull’immagine interna negativa significa: primo, porre in dubbio la validità oggettiva di ciò che il soggetto vive sul registro del sentire immediato o della convinzione assoluta; secondo, assumere le attribuzioni riguardo al proprio essere come frutto di valutazioni che avvengono in gran parte a livello inconscio; terzo, oggettivare i codici culturali che promuovono tali attribuzioni.
Già sulla carta, l’impresa sembra complicata. Nella realtà, lo è ancora di più. Occorre considerare che ad essa non corrisponde alternativa che non si riduca al vivere in una condizione di più o meno intensa vergogna sociale.
Appendice
Questo articolo è tratto dal mio primo saggio (La Politica del Super-Io), ormai non più disponibile e del quale pubblicherò, tra un anno, una nuova edizione: Esso analizza i codici culturali neoliberisti.
L’articolo è stato scritto circa venti anni fa, allorché le esperienze di alcuni adolescenti introversi in terapia mi misero di fronte al fatto che, a differenza dei loro colleghi di sventura conosciuti negli anni ’70, essi esprimevano, consciamente e inconsciamente, un desiderio di cambiare pelle dapprima quasi inesistente.
Ciò significa, a mio avviso, che l’osservatorio analitico, per quanto riguardi pochi soggetti, consente anche di “vedere”, attraverso la loro esperienza, i mutamenti che accadono nella società e nei codici culturali.
Codici culturali
Nel corso della storia della nostra società, i sistemi di valori di matrice religiosa e liberale si sono intrecciati e sovrapposti, stratificandosi ad un livello, quello dei quadri mentali, che a giusto titolo può definirsi "inconscio sociale"…
La psicopatologia contemporanea (…) attesta che il sistema di valori neoliberale, apparentemente propositivo, poiché promuove l'affermazione personale, il prestigio, la libertà, la razionalità pragmatica, è animato in realtà da quattro nuclei fobici, che fanno capo all'essere inadeguato e impotente, all'esibizione di comportamenti che attestano origini miserabili o una condizione attuale di indigenza, al trovarsi in una condizione di penosa costrizione che attesta l'appartenenza al mondo simbolico degli schiavi, e alla manifestazione di una sensibilità che, in quanto debolezza, rende vulnerabili ad un attacco. Questi quattro nuclei fobici integrano altrettanti codici mentali, che, sotto forma di ideali superegoici, animano l'universo psicopatologico contemporaneo, e che possono essere definiti rispettivamente come codice adultomorfo, rupofobico, claustrofobico, anestetico.
L'interesse analitico che dedicherò ad essi è imposto dalla pressione ideologica che esercitano a livello del presente sociologico. Ma ciò non deve indurre ad ignorare che la loro pretesa imperialistica urta ancora contro la sopravvivenza, a livello di storia sociale, di codici antitetici sia di ispirazione religiosa che socialista e marxista. L'analisi dei codici neoliberali ha, dunque, un carattere parziale e non esauriente, il cui scopo è, anzitutto, di mettere a fuoco una possibile metodologia dialettica di ricerca sulle ideologie sociali…
1. Il codice adultomorfo
Alle sue origini, che coincidono con l'avvento della borghesia, il codice adultomorfo si contrappone a due modelli negativi: quello delle masse popolari, e soprattutto dei poveri, fondato su un'incoercibile tendenza all'ozio e all'abbandono agli appetiti "bestiali", e quello nobiliare, parassitario e frivolo. Entrambi questi modelli sono colti come esempi d'imprevidenza e di dipendenza — passiva l'una, tirannica l'altra —: espressioni, dunque, di debolezza di carattere dovuta a lassismo morale.
In contrapposizione ad essi, il modello adultomorfo propugna la forza di carattere come attributo proprio dell'uomo nuovo. Per quanto questa possa far capo ad una predisposizione individuale, essa va promossa e forgiata attraverso un'educazione rigorosa, mirante ad espungere dalla natura umana i germi maligni che essa alligna. Tale educazione deve inculcare nel soggetto la fiducia nelle sue capacità individuali, l'accettazione della competizione e della lotta come legge dell'esistenza, l'etica del lavoro e, come obiettivi ultimi, l'indipendenza e l'autosufficienza.
Proposto originariamente come modello di normalità e di maturità valido universalmente, il codice adultomorfo è venuto ad urtare rapidamente contro un problema inerente la struttura sociale: l'impossibilità di concedere a tutti le stesse opportunità di sviluppo, e la necessità fisiologica di mantenere una quota della popolazione in uno stato di indigenza. L'ostacolo è stato utilizzato paradossalmente: anziché emarginati dal sistema, i poveri sono divenuti i rappresentanti di una categoria — quella degli esseri deboli e privi di tensione morale — che, per demeriti personali, nonché elevarsi, tende a scivolare verso il basso. Ciò ha permesso di significare quella categoria come un fantasma fobico, atto ad alimentare una dinamica sociale di fuga verso l'alto.
Un'ulteriore estensione della categoria è più recente, e si deve, in larga misura, alla scoperta psicoanalitica del bambino come rappresentante ottimale di essa, in quanto radicalmente bisognoso e dipendente dagli altri. Questa scoperta ha provocato un ulteriore rafforzamento del codice adultomorfo, che è giunto a configurare, in ogni vicenda individuale, una soluzione di continuità tra esperienza infantile ed esperienza adulta: soluzione critica che fa coincidere la morte del bambino con la nascita dell'adulto come essere forte, autonomo, autosufficiente, capace di affrontare il mondo e di lottare per affermare la sua potenza.
La contestazione fascista del modello adultomorfo borghese, giudicato mediocre, egoisticamente dedito all'interesse privato e scarsamente incline a correre dei rischi, è stata integrata al modello stesso, con l'effetto di togliere ad esso ogni residua valenza morale.
Dagli anni '70 in poi, il codice adultomorfo è giunto a definirsi nei termini di una cieca volontà di affermazione contro tutto e contro tutti. Ma la realizzazione di questa volontà impone di nascondere e di negare ogni bisogno che possa essere vissuto e interpretato come debolezza.
2. Il codice rupofobico
Mentre il codice adultomorfo ha conosciuto una progressione lineare, vanamente ostacolata dal conservatorismo religioso e politico, oscillando solo tra l'esaltazione della potenza individuale in nome dei fini supremi dello stato o dei fini privati, il codice rupofobico, codice di differenziazione incentrato sulla categoria adialettica pulito/sporco, ha una storia più complessa.
Le sue origini sono molto più antiche dell'avvento della civiltà borghese, risalendo alla contestazione cristiana del formalismo farisaico, alla cui moralità meramente esteriore viene contrapposta una moralità interiore, che propone all'uomo una lotta perpetua contro tutto ciò che di sporco agita la sua anima per effetto del Maligno.
Codice morale e, successivamente nel corso del Medioevo, codice igienico, mirante a scongiurare i contagi, esso, a partire dal Settecento, si è definito come codice sociale, devoluto a sottolineare la differenza di rango, soprattutto in rapporto alle necessità o meno di sporcarsi lavorando.
Valenze morali e valenze sociali sono poi confluite nell'ideologia della rispettabilità borghese, che implica un'intima corrispondenza tra forme esteriori e valori interiori. Alla luce di questa ideologia, l'elevazione sociale è imprescindibile da un'elevazione culturale e spirituale: lo sporco, dunque, viene ad identificarsi con la miseria, la volgarità, l'animalità istintuale, il disordine morale; il pulito, viceversa, con l'agiatezza, la superiorità, la distinzione, l'autocontrollo istintuale, la cultura e la moralità.
Proponendo un sistema di valori che associa allo status e al rango la funzione di indicatori sociali, morali e culturali, il codice rupofobico borghese tende a squalificare tutto ciò che, nella natura umana non meno che nel corpo sociale, sta in basso come primitivo, selvaggio, non evoluto, e quindi tendenzialmente amorale e asociale.
Da questo punto di vista, si può comprendere in quale misura la psicoanalisi freudiana, accreditando la teoria istintualistica, e cioè attribuendo alla natura umana un corredo filogenetico che postula la repressione come momento individuale e collettivo di civilizzazione, abbia contribuito a convalidare quel sistema di valori.
In tempi più recenti, il codice rupofobico ha subìto però un'ulteriore trasformazione. Le esigenze del capitalismo avanzato hanno trasceso la morale dell'ascetismo e della rinuncia al piacere su cui si fondava, nell'Ottocento, la rispettabilità. L'ascesa sociale e intellettuale delle classi superiori, cooptate al consumismo, ha imposto nuovi criteri di differenziazione. Nell'ottica neoliberale, stare in alto non implica più la rispettabilità, valore ormai ampiamente condiviso da tutte le classi, eccezion fatta per la categoria degli emarginati, bensì l'ostentazione di status symbols attestanti il prestigio e il successo.
Il codice rupofobico contemporaneo identifica nel lusso e nel consumo di beni materiali e culturali riservati a pochi — dai capi d'abbigliamento alle opere d'arte — l'indice di una condizione sociale prestigiosa, il cui potere di differenziazione come vedremo ulteriormente — consenta anche l'affrancamento dalla morale comune; lo stare in basso è, di conseguenza, definito immediatamente dalla miseria e in maniera indiretta da un consumo costretto entro i confini di beni necessari.
3. Il codice claustrofobico
Se il mito gerarchico ha segnato la storia dell'umanità, configurandola come storia di schiavitù, servaggi e sottomissioni, l'aspirazione alla libertà deve avere sempre animato, sotterraneamente, i cuori umani. Ma il tradursi di questa aspirazione in un codice claustrofobico, che identifica la libertà con l'affrancamento da ogni legame e da ogni costrizione, è di data recente. La scoperta di questo codice, sia pure inconsapevole, la si deve a Freud. Questi, esplorando gli universi soggettivi come pareti di caverne sulle quali vede riflettersi fantasmi di cui non può cogliere il nesso con le strutture — sociali e mentali — della realtà che in essa, con la mediazione del soggetto, si riflettono amplificandosi, coglie in quei fantasmi la prova della asocialità e amoralità della natura umana. A posteriori, tenendo conto del contesto storico ancora impregnato di conservatorismo gerarchico, è agevole vedere in essi l'espressione di un bisogno di individuazione alienato, costretto ad esprimersi nella forma del rifiuto e dell'attacco ad ogni vincolo coercitivo, sia pure esso di natura affettiva…
Il codice claustrofobico è il codice di una libertà individuale in opposizione ad ogni forma di legame sociale: libertà dunque che postula l'attacco e la dissoluzione dei legami.
Freud non può comprendere che non sono i legami interpersonali e sociali in sé e per sé ad essere odiati, ma ciò che in essi scorre: i sistemi di valori mortificanti, mistificanti, alienanti. Ma nessun altro, a dire il vero, sembra in grado di comprendere il dramma sociologico e psicologico di un bisogno di libertà che è esploso entro forme sociali e mentali che lo riconoscono solo in astratto, giuridicamente, ma di fatto lo soffocano, distorcendolo. Consiste in questo la crisi dell'ideologia liberale, che, mossa dall'intento di affrancare le potenzialità dell'individuo e della società nel suo complesso dalle costrizioni del mito gerarchico repressivo, rappresentato dallo stato e dalla chiesa, è giunta ad atomizzare l'individuo e a configurare una società civile all'interno della quale, sia a livello pubblico che privato, ciascuno si sente oppresso dall'altro.
L'ideologia fascista muove dalla crisi della civiltà borghese, che rende l'individuo avverso ad ogni progetto di riforma sociale e, nel contempo, intimamente anarchico, e tenta di risolverla riabilitando un sistema di valori collettivi atto a porre la volontà di affermazione personale, incentivata al massimo, al servizio del corpo sociale, della nazione e dello stato. Ma questa soluzione, nonché risolverlo, sposta il problema: le nazioni che la adottano giungono a sentirsi costrette entro una camicia di forza di convenzioni formali, diplomatiche. Il codice claustrofobico, che sottende l'ideologia nazionalista, esplode nell'anarchia della politica di potenza, del razzismo e della guerra.
Il sistema liberale, nel dopoguerra, non può non tener conto della crisi che ha minacciato la sua sopravvivenza. Ma, non potendo esso rinunciare all'opposizione tra libertà individuale e uguaglianza sociale, che rappresenta l'elemento dinamizzante la gerarchia sociale, l'individualismo va rilanciato inducendo un'ulteriore accentuazione claustrofobica dei legami sociali. Nonché repressa, l'aggressività viene assunta come un aspetto proprio della natura umana e autorizzata nella misura in cui essa viene devoluta a fini competitivi. In conseguenza di ciò, la moralità borghese viene riformulata e perde ogni residua connotazione religiosa. Il ceto dominante, scaricando sui ceti subalterni i valori tradizionali dell'autocontrollo emotivo e della frustrazione pulsionale, riabilita una teoria della élite che le consente di farsi promotrice di nuovi valori. Il rispetto dell'autorità viene soppiantato da una polemica antiburocraticista, che assume talora connotazioni di antistatalismo; la rispettabilità da un anticonformismo più o meno radicale incline alla sperimentazione di nuovi costumi morali; l'etica della rinuncia al piacere dall'edonismo. Ostentata senza pudore e propagandata dai mass-media, la teoria di un'élite, che sembra affrancata da ogni costrizione e irreversibilmente felice, incide nell'immaginario collettivo, schiacciando la società civile sotto il peso di un quotidiano, pubblico e privato, che non può non essere avvertito come penoso.
Non è più, come ai tempi di Freud, la repressione pulsionale — venuta apparentemente meno in conseguenza della valorizzazione dell'aggressività competitiva e della liberazione sessuale — a generare disagio sociologicamente, bensì la proposizione di modelli di libertà irraggiungibili che, a livello individuale e collettivo, funzionano come miraggi atti ad alimentare una dinamica sociale orientandola verso il regno della libertà identificato con il paradiso artificiale dei V.I.P.
Trattandosi, però, di un paradiso necessariamente riservato a pochi, non c'è da sorprendersi per il fatto che la diffusione del codice claustrofobico si traduca, negli altri, in sterili fantasie di liberazione dai pesi della vita. La psicopatologia contemporanea restituisce il codice claustrofobico nelle due versioni che esso ha sinora assunto. In alcune esperienze, tipicamente ossessive, esso si manifesta con la stessa fenomenologia descritta da Freud. Ma, in questi casi, la libertà, proprio perché si presenta con fantasie tali da evocare immediatamente la paura di un'esclusione radicale sociale, rimane inespressa sotto il profilo comportamentale, quando addirittura non dà luogo ad un aumento del controllo.
In altre esperienze, che rientrano nell'ambito isterico, l'esplosione della libertà claustrofobica avviene dopo lunghi periodi di normalizzazione. A differenza del passato, quando esitavano rapidamente in disagio psichico, queste esperienze, grazie a nuove possibilità offerte dal sistema sociale, danno luogo a rivoluzioni private a vicolo cieco. Sollecitate da una incoercibile ansia di libertà, le persone attaccano tutti i legami con la realtà, separandosi dalla famiglia, abbandonando il lavoro, cambiando abitudini di vita. Si tratta di una vera muta, che, prima o poi, dà luogo a crisi psicopatologiche, di solito depressive, dovute sia ai sensi di colpa che alla delusione legata alla scoperta della difficoltà di realizzare un'autentica libertà al di là del movimento rivoluzionario di affrancamento dalle catene del quotidiano. Quando il codice claustrofobico si attiva precocemente, a livello giovanile, gli esiti possono essere diversi. Talora, esso si traduce in una rivoluzione passiva: i soggetti abbandonano la scuola, rifiutando ogni impegno costrittivo, come ad es. il lavoro, si ribellano ad ogni legame parentale e al senso del dovere, si votano ad un'inerzia speso alimentata da sogni di onnipotenza. Talaltra, la rivoluzione imbocca direttamente il tunnel della trasgressione sistemica, sia nel contesto familiare che a livello sociale. Per qualche tempo, può sembrare che questi soggetti amino solo la "bella vita": di fatto, via via che le esperienze progrediscono, risulta chiaro che esse sono animate da una sfida "viscerale" nei confronti dell'ordine esistente, vissuto come una universale prigione, che postula, in nome di una libertà astratta, la messa in gioco dell'identità personale e sociale, e talora della vita stessa.
4. Il codice anestetico
Occorre, necessariamente, ripercorrere i quadri mentali inerenti la sensibilità per capire ciò che sta avvenendo a livello psicopatologico, oggi.
Con i suoi ideali di libertà e di giustizia, frustrati secolarmente, l'illuminismo, che non è affatto preda del mito di una fredda ragione, mette in movimento, in tutta Europa, uno sconvolgimento emozionale di massa, che rapidamente si configura come incontrollabile.
La civiltà borghese che utilizza, per affermarsi, questo sconvolgimento, orientato verso l'assolutismo conservatore e la religione, si legalizza contrapponendo all'isterismo delle masse popolari, inclini alle passioni, ai pregiudizi e alle superstizioni, il modello morale e sociale del gentiluomo dotato di un perfetto autocontrollo emotivo e capace di mantenere, in ogni circostanza, un atteggiamento equilibrato. Uno degli elementi costitutivi della forza di carattere, necessaria ad affrontare attivamente le difficoltà della vita, diventa il "sangue freddo", che, a differenza del sangue blu, può essere acquisito solo in virtù d'un'educazione mirante a temperare e a controllare gli eccessi passionali propri della natura umana.
Il codice dell'autocontrollo emotivo, che non è ancora un codice anestetico, implica un rapporto pragmatico con il sociale, un ritiro nel culto degli interessi privati e degli affetti familiari, un bisogno estremo di sicurezza che giunge, rapidamente, a configurare il modo d'essere borghese sul registro dell'aurea mediocritas. La misura emotiva è in realtà, un difetto di spontaneità, che mortifica l'identificazione con l'altro e sconsiglia, al di là del sistema familiare, ogni autentico investimento emozionale. Questa ideologia, vagamente ossessiva, fondata sul calcolo, sulla previdenza e sulla prudenza, promuove una serie di reazioni irrazionalistiche il cui rappresentante principale è Nietzsche, che al modello borghese contrappone l'uomo dionisiaco, il barbaro capace di dare sfogo a tutte le passioni positive — l'orgoglio, la gioia, l'amore sessuale, l'odio, la brama di potere. In realtà, l'irrazionalismo nietzschiano coglie un pericolo reale: che l'uomo rinunci a "sentire" per vivere tranquillo, e che il suo orizzonte vitale si esaurisca nella difesa della sua vulnerabilità emozionale rispetto ad un mondo che i fenomeni dell'industrializzazione e dell'urbanizzazione rendono socialmente inquietante e carico di tensioni.
Il conflitto tra bisogno di sicurezza e di appartenenza sociale, e bisogno di individuazione, il quale ultimo postula il coraggio di "squilibrarsi" emotivamente in rapporto al mondo, è colto drammaticamente anche da Freud, che, però, pur stigmatizzando le costrizioni eccessive che la civiltà pone all'espressione delle emozioni, non può non giungere a ritenere la normalità una condizione difensiva, configurandosi l'Es, con le sue passioni selvagge, come una fonte pulsionale controllabile ma, in sé e per sé, indomabile.
L'urto tra razionalismo borghese e irrazionalismo vitalistico si realizza, inesorabilmente, nel corso della seconda guerra mondiale. E lascia tracce nelle popolazioni civili, che hanno sofferto l'indicibile nella memoria collettiva.
Nel corso del dopoguerra, in rapporto agli sviluppi della scienza e della tecnologia, il richiamo alla razionalità pragmatica diventa un'ideologia ufficiale. La passionalità viene stigmatizzata come promotrice di utopie pericolose, che possono disinnescare le potenzialità distruttive che incombono sull'umanità. Coinvolti in un processo storico che ormai sembra sfuggire al controllo di chicchessia, e si tiene sul filo del rasoio di equilibri precari, gli uomini non possono trovar rifugio che in ritiro emotivo dal mondo.
Ma non si tratta di una difesa che assicura la quiete: perché il ritiro emotivo dal mondo non coincida con un'autoesclusione, occorre adattarsi razionalmente e rispondere alle pretese di una società in cui i ritmi di sviluppo diventano vieppiù affannosi. Il codice anestetico si fa carico di questa duplice necessità — di isolarsi emotivamente e di competere senza tregua — e promuove un nuovo modello antropologico: quello dell'uomo che, alla stregua di un elaboratore elettronico, valuta razionalmente i suoi investimenti nel mondo — sia a livello sociale che privato — in termini di costi e di benefici.
Anni fa, un film fantascientifico — L'invasione degli ultracorpi — aveva preconizzato l'avvento del codice anestetico: liberati dalle emozioni da una trasformazione parassitaria, che, per il resto, rispettava tutte le altre caratteristiche, fisiche e psichiche, gli individui attestavano una completa beatitudine. Il protagonista, che rifiutava visceralmente quella trasformazione, riusciva a scampare all'invasione e a dare l'allarme al mondo. In un remake più recente il lieto fine saltava: non c'era più scampo per nessuno.
La psicopatologia contemporanea, più della sociologia, che ha indotto Lasch a definire la condizione dell'Io minimo, che, sentendosi assediato e vulnerabile, mira unicamente a sopravvivere, funziona come un'inquietante documento dell'incessante pressione del codice anestetico. Già le statistiche attestano che, negli Stati Uniti, un quarto degli utenti si rivolgono a psichiatri e psicoterapeuti per una sorta di apatico interesse nei confronti della vita, che invano si tenta di inquadrare in una fenomenologia depressiva, mancando, di fatto, ogni altro sintomo che non sia un difetto di sensibilità. Ma, al di là delle statistiche, i dati tratti dalla pratica sono ancora più inquietanti. Indubbiamente, gran parte delle depressioni larvate attuali, che non compromettono l'efficienza individuale, ma tolgono la gioia di vivere, attestano la necessità di una difesa anestetica dalle tensioni della vita.
Ma c'è di più. La struttura isterica si va trasformando ed estendendo a macchia d'olio: anziché le brusche esplosioni emozionali di un tempo, essa si esprime nell'accettazione della vita nella logica della sopraffazione. Molti giochi relazionali senza fine, tra coppie coniugali o tra genitori e figli, sono caratterizzati da dinamiche sado-masochiste il cui obiettivo è l'insensibilità, che viene perseguita da ciascuno sia esprimendo cinismo che ricevendo dall'altro rappresaglie che, facendo soffrire, dovrebbero produrre una sorta di mitridatizzazione al dolore.
Più drammatica è la condizione di adolescenti che, avendo adottato il codice anestetico, tendono a socializzare a partire da una identificazione immaginaria dell'Io come invulnerabile e immune da risonanze emotive. Essi vivono, per periodi più o meno lunghi, in una maschera che attesta l'insensibilità. Ma, prima o poi, vengono ad urtare in situazioni di coinvolgimento emotivo che comportano catastrofi di destrutturazione…